L’art. 64 della Costituzione

Commento all’art. 64 della Costituzione

di Giuseppe Lauricella, Professore universitario e Avvocato

 

Ciascuna Camera adotta il proprio regolamento a maggioranza assoluta dei suoi componenti. 

Le sedute sono pubbliche; tuttavia ciascuna delle due Camere e il Parlamento a Camere riunite possono deliberare di adunarsi in seduta segreta.

Le deliberazioni di ciascuna Camera e del Parlamento non sono valide se non è presente la maggioranza dei loro componenti, e se non sono adottate a maggioranza dei presenti, salvo che la Costituzione prescriva una maggioranza speciale

I membri del Governo, anche se non fanno parte delle Camere, hanno diritto, e se richiesti obbligo, di assistere alle sedute. Devono essere sentiti ogni volta che lo richiedono.

 

Abstract. L’articolo 64 della Costituzione riguarda le norme relative alla funzione legislativa delle Camere che disciplinano la fonte, la forma delle sedute, le deliberazioni, l’individuazione delle maggioranze richieste per l’assunzione delle decisioni e la presenza dei membri del Governo ai lavori parlamentari. La disposizione più rilevante dell’articolo riguarda il regolamento parlamentare, quale fonte del diritto che assume una sua peculiarità rispetto alle altre fonti dell’ordinamento, sia per la sua specificità, sia nel rapporto con esse, nonché sotto il profilo della sua giustiziabilità. Si tratta di una disposizione fondamentale che rivela l’autonomia normativa delle Camere, nel rispetto della divisione dei poteri, che si manifesta nell’atto della sua adozione o modifica così come nella previsione della giurisdizione interna (autodichia).

 

Sommario: 1. L’art. 64 e la natura del regolamento parlamentare. – 2. I rapporti con le altre fonti: la competenza (per materia)  – 3. La giustiziabilità dei regolamenti parlamentari – 3.1. Gli organi giurisdizionali delle Camere l’autodichia.3.2. La Corte costituzionale e i regolamenti parlamentari4. I regolamenti maggiori e i regolamenti minori. – 5. la pubblicità, la validità delle deliberazioni e la presenza del Governo.

– 5.1. La pubblicità dei lavori – 5.2.  Il quorum richiesto per la validità. – 5.3. La partecipazione del Governo.

 

 

  1. L’art. 64 e La natura del regolamento parlamentare.

 

L’articolo 64 della Costituzione, al comma 1, prevede che “ciascuna Camera adotta il proprio regolamento a maggioranza assoluta dei suoi componenti”.[1]

La disposizione costituzionale ha costituito la base su cui si è delineata l’autonomia delle Camere, mediante l’autonomia normativa, che definisce la natura giuridica e la collocazione nel sistema delle fonti del diritto dei regolamenti parlamentari così come la c.d. giustiziabilità.[2]

Da tali principi sono scaturite le norme sulle procedure e le pronunce giurisprudenziali, che ne hanno definito l’ambito applicativo.

Il regolamento parlamentare, dunque, è espressione dell’autonomia riconosciuta dalla Costituzione a ciascuna Camera, da cui si delinea l’organizzazione e il funzionamento, il procedimento per la formazione delle leggi, le procedure di controllo, di indirizzo e di informazione.[3]

La maggioranza assoluta dei componenti, richiesta per l’adozione o la modifica dei regolamenti parlamentari, insieme alla riserva assoluta riconosciuta a tale tipo di fonte, sono manifestazioni dell’autonomia riconosciuta a “ciascuna Camera”.

Il procedimento di adozione o di modifica del regolamento parlamentare è previsto all’art. 16 (al Capo IV, “Delle Giunte“) del regolamento della Camera dei deputati e all’art. 167 (“Approvazione del Regolamento e delle sue modificazioni”) del regolamento del Senato della Repubblica (al Capo XXIV – “Della approvazione e delle sue modificazioni“).

Mentre il regolamento della Camera, al comma 4 dell’art. 16, fa espresso richiamo all’art. 64 della Costituzione (“Il testo della Giunta è approvato a maggioranza assoluta dei componenti la Camera, a norma dell’art. 64 della Costituzione”), l’art. 167 lo dà per implicito, limitandosi ad indicare, al comma 1, come già premesso nella disposizione della Costituzione, che “il Senato adotta il suo Regolamento a maggioranza assoluta dei componenti”.

La diversa e distinta disciplina regolamentare è, certamente, uno degli effetti della scelta del tipo di bicameralismo (perfetto o simmetrico) adottato in Italia, in cui le due Camere, pur nella loro autonomia, hanno le stesse competenze e gli stessi poteri e svolgono collettivamente la funzione legislativa. Ciò implica che, ordinariamente, una proposta di legge (o disegno di legge) non diverrà mai legge se non si afferma la coincidenza della volontà delle due Camere. Diversamente, dunque, da quanto è richiesto per l’adozione o la modificazione di un regolamento parlamentare, che deve essere approvato distintamente e autonomamente da ciascuna Camera, nei limiti dei principi costituzionali.

Alcuni punti fermi – tenendo sempre conto della possibile evoluzione giurisprudenziale o legislativa – si sono definiti.

Nel tempo si è superato il limite degli interna corporis, attribuendo alla materia parlamentare, in ordine alla organizzazione e alla disciplina dello status dei dipendenti o dei parlamentari (in particolare, degli ex parlamentari) uno spazio più ampio, oltre i confini interni, trovando nella pubblicazione delle norme regolamentari nelle fonti di cognizione, quale la Gazzetta ufficiale, un elemento qualificante della esteriorità della norma.[4] Un aspetto sottolineato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale che, inoltre, ha – si direbbe – stabilizzato la legittimità dell’autodichia, dandole un rilievo caratterizzante dell’autonomia riconosciuta e garantita costituzionalmente alle Camere. Anzi, la Corte costituzionale ha – prima implicitamente e, infine, sciogliendo la riserva – consacrato, anche con il supporto della giurisprudenza della Corte EDU[5], la giurisdizione interna delle Camere, non solo come elemento caratterizzante della loro autonomia, ma anche come funzione coerente con i principi e i diritti costituzionali (alla difesa, al contraddittorio, dell’imparzialità e dell’indipendenza del giudice), oggi ritenuti riconosciuti e garantiti nel procedimento davanti agli organi dell’autodichia.

Rispetto alle altre fonti del diritto, il regolamento parlamentare si distingue dagli atti con forza di legge e dagli atti amministrativi: la sua esclusività lo qualifica quale atto normativo con efficacia esterna, fuori dalla gerarchia delle fonti ma, comunque, prevalente per forza propria e per competenza, incontrando come unico limite la Costituzione.

 

  1. I rapporti con le altre fonti: la competenza (per materia).

 Quanto al rapporto con le altre fonti del diritto, il regolamento parlamentare si distingue e prevale sulla base della competenza, in quanto si occupa di una materia ad esso (costituzionalmente) riservata.

Quindi, rispetto al regolamento parlamentare, nell’ipotesi di risoluzione delle antinomie, non si fa riferimento al criterio cronologico né al criterio gerarchico ma a quello della competenza.

È la stessa Corte costituzionale ad affermare che “nel sistema delle fonti delineato dalla stessa Costituzione, il regolamento parlamentare è espressamente previsto dall’art. 64 come fonte dotata di una sfera di competenza riservata e distinta rispetto a quella della legge ordinaria e nella quale, pertanto, neppure questa è abilitata ad intervenire“.[6]

In altri termini, la materia parlamentare gode di una sfera di competenza riservata all’atto regolamentare di ciascuna Camera.

Si delinea, in tal senso, una riserva della fonte parlamentare che esclude ogni altra fonte dalla definizione o modifica delle norme che riguardano l’organizzazione e la funzione di ciascuna Camera.

Distinzione che rimane anche sul piano del giudizio di legittimità, atteso che i regolamenti parlamentari – com’è noto ed ulteriormente ribadito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 120/2014 – “non rientrano espressamente tra le fonti-atto indicate nell’art. 134, primo alinea, Cost. − vale a dire tra le «leggi» e «gli atti aventi forza di legge» − che possono costituire oggetto del sindacato di legittimità rimesso a questa Corte“.

Va, pertanto, sottolineato che i regolamenti parlamentari non sono classificabili né tra gli atti amministrativi tipici, né – come visto ora – tra le fonti primarie con forza di legge, ma sono atti normativi, con efficacia esterna, che, in coerenza con la loro natura e autonomia, non possono essere oggetto del sindacato di legittimità del giudice amministrativo, né del giudice costituzionale.

 

  1. La giustiziabilità dei regolamenti parlamentari.

Uno degli interrogativi che si pongono in ordine ai regolamenti parlamentari riguarda se, come e da chi possa essere svolto un giudizio di legittimità.[7]

La risposta si ricava dal modo in cui lo stesso Costituente ha definito le disposizioni costituzionali riguardanti i regolamenti parlamentari: non ve n’è traccia nella Costituzione né negli stessi regolamenti parlamentari, e ciò – si ritiene – si deve proprio all’esigenza di garantire l’autonomia di ciascuna Camera.

Così, in definitiva, sono gli stessi organi interni a valutare, sia in fase di adozione, sia in fase di modificazione, la coerenza costituzionale del regolamento.

È la stessa Giunta per il regolamento (sia alla Camera dei deputati, sia al Senato della Repubblica) che diventa l’organo cui viene affidato il compito di proporre modifiche, dare pareri su questioni di interpretazione o di risolvere conflitti di competenza tra le commissioni parlamentari.[8]

In tal senso, l’esperienza dell’applicazione del regolamento diventa il parametro (o, se vogliamo, la fonte) per le possibili modifiche o aggiunte al regolamento.[9]

Dunque, il regolamento parlamentare si pone come atto (giuridicamente) autonomo ma effettivamente politico, e, in quanto tale, lasciato svincolato dal controllo giurisdizionale di legittimità, anche perché la sua conformità alla Costituzione è ritenuta presupposta, garantita – almeno in teoria – dalla stessa interpretazione autentica operata dagli organi interni alle stesse Camere.

D’altro canto, sarebbe difficile persino accedere all’idea di affidare il sindacato di legittimità costituzionale agli organi interni giurisdizionali dell’autodichia. Sarebbe come ammettere una forma di sindacato di legittimità costituzionale decentrato o speciale, peraltro, non richiamato o previsto dallo stesso regolamento parlamentare né, tantomeno, dalla Costituzione.

Nei fatti, l’unica ipotesi in cui il regolamento parlamentare possa essere oggetto di giudizio da parte della Corte costituzionale rimane – come è pacificamente ammesso, in primis dalla stessa Corte costituzionale – nel caso di conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato.[10]

Tanto è vero, che la stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 120 del 2014, pur non ammettendo la questione di legittimità costituzionale sollevata incidentalmente dalla Corte di cassazione, ha, di fatto, suggerito – per l’ammissibilità al suo giudizio – la via del conflitto di attribuzione, non, certamente, per sindacare sulla legittimità costituzionale delle norme ritenute lesive ma unicamente per valutare la possibile interferenza tra poteri dello Stato.[11]

In definitiva, il regolamento parlamentare, sul piano della forza passiva, si atteggia alla stregua di una norma costituzionale, attesa la sua capacità di resistenza di fronte a qualsiasi altro tipo di atto che ne tentasse la modifica.

Anzi, soltanto una modifica costituzionale potrebbe condizionarne il contenuto: si pensi ad una revisione della Costituzione che modificasse – per esempio – la forma di governo o – come avvenuto di recente – con la riduzione del numero dei parlamentari. In tal caso, il regolamento parlamentare dovrebbe adeguarsi al nuovo dettato costituzionale, rispondendo al mutato assetto normativo nel rapporto Parlamento-Governo o nella disciplina della funzione legislativa.

Per il resto, data la sua costituzionalità presupposta, il regolamento parlamentare si rivela inattaccabile sul piano della coerenza alla Costituzione.

Una fonte-atto, dunque, che si colloca in uno spazio tra la norma costituzionale e l’atto amministrativo, rivelando la sua tipicità e, conseguentemente, la sua incondizionabilità, che ne determina un’applicabilità secondo la specifica competenza, garantita dall’autonomia riconosciuta dalla riserva costituzionale.

 

3.1. gli organi giurisdizionali delle Camere: l’autodichia.

Il regolamento della Camera dei deputati, all’art. 12, comma 6, prevede espressamente gli organi giurisdizionali, mentre il regolamento del Senato non fa espliciti riferimenti agli organi giurisdizionali dell’autodichia.[12]

L’art. 12 del regolamento del Senato (Attribuzioni del Consiglio di Presidenza – Proroga dei poteri), al comma 1, prevede che “Il Consiglio di Presidenza, presieduto dal Presidente del Senato, (…) approva i Regolamenti interni dell’Amministrazione del Senato e adotta i provvedimenti relativi al personale stesso nei casi ivi previsti”. Sulla base di tale disposizione, il Senato ha approvato, con delibera del Consiglio di Presidenza, il T.U. delle norme regolamentari dell’amministrazione, riguardanti il personale del Senato della Repubblica sulla tutela giurisdizionale relativa ad atti e provvedimenti amministrativi non concernenti i dipendenti o le procedure di reclutamento (delibera n. 180/2005). Per entrambi i procedimenti giurisdizionali sono competenti la Commissione contenziosa, in primo grado, e il Consiglio di garanzia, in secondo grado.

L’art. 12 del regolamento della Camera dei deputati, al comma 3, lettera f), prevede che l’Ufficio di Presidenza adotta i regolamenti e le altre norme concernenti: “f) I ricorsi nelle materie di cui alla lettera d) (ovvero, stato giuridico, trattamento economico e di quiescenza e la disciplina dei dipendenti della Camera, nda) nonché i ricorsi e qualsiasi impugnativa, anche presentata da soggetti estranei alla Camera, avverso gli altri atti di amministrazione della Camera medesima”.

Al comma 6, inoltre, l’art. 12 del regolamento della Camera, precisa che “Con Regolamento approvato dall’Ufficio di Presidenza sono istituiti gli organi interni di primo e di secondo grado, composti da deputati in carica, che giudicano in via esclusiva sui ricorsi di cui alla lettera f) del comma 3”.

La Corte costituzionale, nella sentenza n. 262/2017, non solo ribadisce la legittimità dell’autodichia, quale strumento connaturato all’autonomia costituzionalmente garantita degli organi legislativi, ma afferma che gli organi di autodichia (nella sentenza si riferisce a quelli delle due Camere e all’organo della Presidenza della Repubblica), “benché “interni” ed estranei all’organizzazione della giurisdizione, risultano costruiti secondo le regole volte a garantire la loro indipendenza ed imparzialità, come del resto, in relazione alla funzione di giudicare, impongono i principi costituzionali ricavabili dagli artt. 3, 24, 101 e 111 Cost. e come ha richiesto la Corte europea dei diritti dell’uomo, in particolare nella sentenza 28 aprile 2009, Savino e altri contro Italia“.

Continua, infine, la Corte, a supporto della coerenza e della garanzia costituzionale, specificando che “presso entrambi gli organi costituzionali (Parlamento e Presidenza della Repubblica, nda), i giudizi si svolgono, in primo e secondo grado, secondo moduli procedimentali di natura sostanzialmente giurisdizionale, idonei a garantire il diritto alla difesa e un effettivo contraddittorio. Tutto ciò ulteriormente conferma che la deroga alla giurisdizione qui in discussione, di cui costituisce riflesso la connessa limitazione del diritto al giudice, non si risolve in un’assenza di tutela“.

 

3.2.        La Corte costituzionale e i regolamenti parlamentari.

Sulla natura e sulla riserva costituzionalmente riconosciuta ai regolamenti parlamentari è intervenuta, nel tempo, la Corte costituzionale la quale, chiamata a giudicare sulla loro legittimità, fin dalle prime pronunce ne ha costantemente delineato la loro specificità rispetto alle altre fonti del diritto, quali fonti particolari, con la loro specificità riconosciuta dalla Costituzione, sia in rapporto all’art. 64, sia in rapporto all’art. 134.

Infatti, come si rileva, in particolare, dall’art. 134 della Costituzione, il regolamento parlamentare non rientra tra gli atti sottoponibili al giudizio di legittimità costituzionale, invece previsto per le leggi e gli atti aventi forza di legge.

In tal senso, dunque, la Corte ha sempre ribadito che l’unico giudice dei regolamenti, capace di interpretarli nella loro applicazione, è ciascuna Camera.

In definitiva, la Corte costituzionale dichiara “l’inammissibilità del sindacato di costituzionalità sul regolamento parlamentare“, ritenendosi, tutt’al più, competente a giudicare i regolamenti parlamentari solo sotto il profilo del conflitto di attribuzione.

Nella sentenza n. 9 del 1959, la Corte costituzionale definisce nettamente lo spartiacque tra la propria competenza e quella della Camera dei deputati (ovviamente, estensibile al Senato). In altri termini, la Corte si dichiara competente a giudicare sull’osservanza del procedimento di formazione di una legge, attraverso l’interpretazione della norma costituzionale (nel caso specifico, l’art. 72, u.c.), quale unico parametro cui la Corte possa far riferimento.

Mentre – sempre secondo la Corte costituzionale – diverso è il caso in cui essa venga chiamata ad interpretare una norma del regolamento parlamentare: qui la Corte non entra in tale ambito, atteso che “riguarda una norma, sull’interpretazione della quale, essendo stata posta dalla Camera nel suo regolamento esercitando la facoltà ad essa attribuita dall’art. 72 della Costituzione, è da ritenersi decisivo l’apprezzamento della Camera“.[13]

In altri termini, fin da allora, la Corte costituzionale ha riconosciuto che l’unico giudice della osservanza o – se si vuole – della legittimità del regolamento parlamentare è la stessa Camera (nel senso di ciascuna Camera, autonomamente), in nome di quell’autonomia riservata e garantita dalla Costituzione, senza però rinunciare a superare – come dirà la stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 154/85 – “il dogma dell’insindacabilità degli interna corporis degli organi costituzionali, che questa Corte ha già ripudiato con l’ormai remota sentenza del 1959, n. 9“.

In tal modo, la Corte costituzionale supera le resistenze del Parlamento, tenace custode della insindacabilità dei propri atti, definendo, di fatto, parzialmente sindacabili gli interna corporisrelativamente alle norme costituzionali sul procedimento legislativo“.[14]

Nella sentenza n. 154/1985 la Corte costituzionale dichiara l’insindacabilità dei regolamenti parlamentari, sotto il profilo del giudizio di legittimità costituzionale, in quanto non compresi tra gli atti sindacabili dal giudice costituzionale (leggi e atti equiparati), affermando che “la soluzione possa e debba ricercarsi nell’art. 134 Cost.“. Dunque, la Corte si ferma sul piano strettamente del diritto positivo, aderendo alla scelta del Costituente, che non aveva incluso il regolamento parlamentare tra quegli atti su cui la Corte sarebbe stata legittimata a giudicarne la coerenza costituzionale. Infatti, la Corte rileva che “formulando tale articolo, il Costituente ha segnato rigorosamente i precisi ed invalicabili confini della competenza del giudice delle leggi nel nostro ordinamento, e poiché la formulazione ignora i regolamenti parlamentari, solo in via d’interpretazione potrebbe ritenersi che questi vi siano ugualmente compresi. Ma una simile interpretazione, oltre a non trovare appiglio nel dato testuale, urterebbe contro il sistema.“.

Peraltro, secondo la Corte, sia in ordine alla forma di governo parlamentare, sia nel rispetto della divisione dei pori, la centralità e l’indipendenza del Parlamento impongono che nessun altro potere possa entrare nella sfera della competenza parlamentare.[15] Ne consegue il limite nei confronti di giurisdizione esterna sugli atti delle Camere.

La sentenza n. 120 del 2014 conferma e ribadisce il principio già assunto: ancora una volta, la Corte costituzionale si ferma al dato letterale della norma costituzionale, ribadendo la insindacabilità dei regolamenti parlamentari sotto il profilo della legittimità costituzionale, affidandosi alla “ragion d’essere attuale e di diritto positivo“, quale parametro dell’insindacabilità costituzionale dei regolamenti parlamentari, evitando, dunque, di ricercare appigli in “motivazioni storiche o in risalenti tradizioni interpretative“.

Nel ribadire, dunque, la sua estraneità, a garanzia della autonomia delle Camere (che nell’autodichia trova la propria espressione e tutela)[16], finisce con l’indicare – di fatto – la via da intraprendere per legittimare un suo intervento giurisdizionale in materia di regolamento parlamentare: il conflitto di attribuzione fra i poteri dello Stato, per verificare il limite dell’autonomia parlamentare rispetto alla rivendicazione del potere giudiziario e al diritto di difesa che si possa ritenere leso o menomato.

Ancora una volta, con la sentenza n. 213 del 2017, scaturita da una questione di legittimità costituzionale sollevata (con ordinanze (del 10 dicembre 2014 del 3 marzo 2015) dalla Commissione giurisdizionale per il personale della Camera dei deputati (organo di primo grado di giurisdizione “interna”).

La Corte costituzionale ribadisce – anche se non in modo diretto – la sua estraneità a giudicare, sotto il profilo della legittimità costituzionale, atti quale il regolamento parlamentare o sue norme non espressamente indicati dall’art. 134 della Costituzione.

Un’affermazione che qui definiamo “non diretta”, atteso che la questione di legittimità costituzionale viene, legittimamente, sollevata nei confronti di una legge (l. n. 147/2013, legge di stabilità 2014), che stabiliva un “contributo di solidarietà” a carico di pensionati con reddito alto, ritenuto in violazione degli articoli 3 e 53 della Costituzione, poi, di fatto, recepita dalla impugnata delibera 4 giugno 2014, n. 87, dell’Ufficio di Presidenza della Camera dei deputati, che, seppure in forza di un “rinvio (recettizio)”, applicava la decurtazione ad ex dipendenti della Camera dei deputati.

Pertanto, la delibera dell’UDP della Camera si pone come atto normativo, che recepisce la ratio di una legge ma che non diviene l’atto oggetto della questione di legittimità costituzionale, che, infatti, la Corte ammette in quanto rivolta nei confronti di una legge ordinaria dello Stato.

Quello che qui, invece, rileva particolarmente è la legittimazione riconosciuta dalla Corte costituzionale alla Commissione giurisdizionale a sollevare – quale giudice a quo – la questione di legittimità costituzionale. Un riconoscimento che assimila – almeno da questo punto di vista – la giurisdizione interna delle Camere alle altre giurisdizioni del nostro ordinamento, dando, così, conseguenzialità a quanto ormai sistematicamente affermato dalla stessa Corte in varie pronunce, in ordine alla natura dell’autodichia, anche se ancora velatamente perfino nella sentenza n. 120/2014.[17]

È solo con la sentenza n. 262/2017 che la Corte costituzionale scioglie la riserva posta nella precedente sentenza, circa la legittimità e il fondamento dell’autodichia. Principio, d’altra parte sostenuto anche dalla Corte EDU (sentenza 28 aprile 2009).

La specificazione che viene dalla sentenza n. 262/2017 della Corte costituzionale è sul “confine e il fondamento dell’autodichia”.

Tale specificazione fissa due aspetti. Il primo, riguarda il riconoscimento dell’ambito in cui possa legittimamente agire l’autodichia, restringendolo ai rapporti di lavoro dei dipendenti; il secondo, riafferma la competenza giurisdizionale interna, che, al contempo e conseguenzialmente, esclude che l’interpretazione e l’applicazione delle norme interne delle due Camere (in ordine alla loro organizzazione e alla disciplina dei rapporti con il proprio personale) possano essere affidati ad “organi della giurisdizione comune“, atteso che una tale  – si direbbe – asimmetria significherebbe, secondo la Corte costituzionale, “dimezzare quella stessa autonomia che si è inteso garantire“.

 

  1. I regolamenti maggiori e i regolamenti minori.

Quello che, però, rimane ancora non completamente definito è l’ambito di applicazione dei diversi regolamenti parlamentari, c.d. maggiori e minori, che certamente disciplinano fattispecie diverse e trovano una differente tutela ordinamentale.

Sono diversi perché, innanzitutto, diversa è la fonte che li legittima e, conseguentemente, diversa è la forza (attiva e passiva) che hanno, come diversa è la materia che disciplinano.

I regolamenti maggiori di Camera e Senato trovano la loro fonte legittimante nella Costituzione, all’art. 64.

L’art. 64, comma 1, della Costituzione non dice molto, ma esprime l’essenza della rilevanza che intende attribuire al regolamento parlamentare: “Ciascuna Camera adotta il proprio regolamento a maggioranza assoluta dei suoi componenti”.

Con tale definizione il Costituente ha voluto esprimere l’autonomia di ciascuna della due Camere nel dotarsi e nell’adottare il proprio regolamento, ha inteso qualificare la maggioranza legittimata ad adottare o modificare il regolamento, garantendo le minoranze, ed ha, deliberatamente, evitato di indicarne il contenuto, lasciando, conseguentemente, libera ciascuna Camera di definire e scegliere l’oggetto e la materia da disciplinare, ovviamente nei limiti dei principi costituzionali.

Una sostanziale discrezionalità – nei limiti costituzionali – che si rileva nel confronto tra i due regolamenti, di Camera e Senato, simili nell’oggetto ma non uguali nelle relative discipline.

I regolamenti maggiori, dunque, riguardano (come indicato dalle Parti del regolamento della Camera, mentre, il Regolamento del Senato si divide in Capi, ma disciplinando le stese materie del regolamento della Camera) l’organizzazione e il funzionamento, il procedimento legislativo, le procedure di indirizzo, di controllo e di informazione, oltre le disposizioni finali.

Va, per inciso, specificato che oltre ai regolamenti maggiori e minori, esistono altri regolamenti c.d. speciali, che regolano l’attività di alcune giunte: per le autorizzazioni a procedere, per le elezioni della Camera, delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato.[18]

I regolamenti minori sono previsti dai regolamenti di Camera e Senato. Ma, mentre il regolamento della Camera ne specifica le materie e la tipologia, il regolamento del Senato si limita ad indicare (art. 12, comma 1) specificamente i regolamenti della Biblioteca e dell’Archivio storico, lasciando il resto ad un generico rinvio ai “regolamenti interni dell’Amministrazione del Senato”.

Sul piano procedurale, il regolamento maggiore viene adottato o modificato attraverso la fase istruttoria della Giunta per il regolamento ed approvato dall’Aula a maggioranza assoluta dei suoi componenti.[19]

Diverso è il procedimento di adozione o di modifica dei regolamenti minori. Questi, a norma dell’art. 12, comma 3, sono adottati dall’Ufficio di Presidenza, quindi, non passano all’esame e all’approvazione dell’Assemblea.

Una rilevante differenza in ordine al procedimento di approvazione del regolamento maggiore rispetto ai regolamenti minori, che, ovviamente, comporta una diversa forza “passiva”, che rende complessa la modifica del regolamento della Camera e, presumibilmente, più semplice la modifica di un regolamento minore.

Peraltro, mentre la modifica del regolamento maggiore, passando per l’approvazione finale dell’Assemblea, risponde alla necessità di una maggioranza qualificata (richiesta dall’art. 64 della Costituzione e dall’art. 16, comma 4, RC), la modifica di un regolamento minore avviene nell’ambito dell’UdP (Ufficio di Presidenza), a maggioranza, e dunque senza le garanzie di una maggioranza qualificata. La differenza tra l’approvazione nell’UDP e in Assemblea non sta soltanto nella maggioranza qualificata, ma soprattutto nelle diverse garanzie che assistono l’approvazione in Aula: tra queste, la pubblicità dei lavori e la proporzionalità della rappresentanza.[20]

Per l’approvazione (o modifica) del regolamento maggiore, il regolamento del Senato, all’art. 167, segue, sostanzialmente, il criterio che già abbiamo visto per l’adozione del regolamento della Camera dei deputati.

Cosicché, la Giunta istruisce le proposte di modifica e riferisce all’Assemblea, la quale, a norma dell’art. 64 della Costituzione e dell’art. 167, comma 5, del regolamento del Senato, le adotta “a maggioranza assoluta dei componenti del Senato”.

 

  1. la pubblicità, la validità delle deliberazioni e la presenza del Governo.

I commi 3, 4 e 5 dell’art. 64 della Costituzione si occupano di aspetti che riguardano più la forma dell’attività legislativa, sia nel senso della pubblicità dei lavori in Aula e in commissione, sia in ordine al quorum richiesto per l’assunzione delle decisioni deliberate dalle Camere, definendo, inoltre, la partecipazione del Governo ai lavori, attesa la forma di governo parlamentare.

 

5.1. La pubblicità dei lavori.

Quanto alla pubblicità, alle sedute e, dunque, ai lavori che conducono alle deliberazioni, ovvero all’approvazione di una proposta (o disegno) di legge, occorre fare una distinzione.

I lavori che si svolgono in Aula sono pubblici, nel senso che ai lavori può essere presente il pubblico, qualunque cittadino, assistendo al dibattito e alle conseguenti deliberazioni.

Per il resto, la pubblicità dei lavori si garantisce, in generale, con la pubblicazione della legge (o di ogni altro atto) nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica.

In ogni caso, qualsiasi atto o attività legislativa vengono pubblicati, compresi i resoconto delle sedute.

Anzi, oggi, mediante la rete, qualsiasi attività o atto parlamentare può essere portato – in tempo reale – a conoscenza del pubblico, attesa anche la diretta televisiva.

Lo stesso può dirsi, in generale, per i lavori in commissione, dove, però, il pubblico non è presente.

Sul piano della efficacia, osservanza e applicazione delle leggi, la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica rimane, comunque, il dato formale, certo, cui fare affidamento, pur rilevando che i lavori preparatori rimangono un parametro essenziale nell’interpretazione e conseguente applicazione della fonte giuridica.

Sulle sedute segrete non vi è  nulla di particolarmente rilevante. Si tratta di una eventualità prevista ma remota, cui si possa ricorrere in casi eccezionali.

 

5.2. Il quorum richiesto per la validità.

Quando si fa riferimento al quorum occorre distinguere il quorum strutturale, che riguarda l’elemento essenziale per la legittimazione dell’organo parlamentare ad assumere una decisione, e il quorum (c.d. funzionale) che, invece, viene richiesto perché la deliberazione sia assunta con esito favorevole all’atto posto in votazione.

In altri termini, nel primo caso, occorre il numero legale, ovvero la presenza di un numero minimo di componenti affinché l’organo sia legittimato a deliberare; nel secondo caso, atteso il numero legale, riguarda la maggioranza richiesta perché la votazione determini una decisione (favorevole o contraria alla proposta posta in votazione).

Da qui si spiega il dettato costituzionale che al comma 3 dell’art. 64 prevede che “Le deliberazioni di ciascuna Camera e del parlamento non sono valide se non è presente la maggioranza dei loro componenti, e se non sono adottate a maggioranza dei presenti, salvo che la Costituzione prescriva una maggioranza speciale”.

Da rilevare che, in linea di principio, il numero legale è presunto e che i parlamentari di ciascuna Camera possono chiederne la verifica.

Per indicare qualche esempio, per l’approvazione della legge ordinaria o per il voto di fiducia è richiesta la maggioranza semplice, cioè dei presenti. Per l’approvazione di determinate leggi di particolare rilievo (per esempio, leggi costituzionali, in seconda deliberazione, per l’amnistia e l’indulto, per le leggi di autorizzazione del ricorso all’indebitamento) è richiesta una maggioranza qualificata che comporta l’approvazione da parte di un certo numero (due terzi o la metà più uno) di componenti la Camera.

 

5.3. La partecipazione del Governo.

Il comma 5 dell’art 64 prevede che “I membri del Governo, anche se non fanno parte delle Camere, hanno diritto, e se richiesti obbligo, di assistere alle sedute. Devono essere sentiti ogni volta che lo richiedono”.

Una disposizione costituzionale che risponde alla forma di governo parlamentare caratterizzata dal rapporto tra Parlamento e (maggioranza di) Governo, soprattutto nella definizione e nella realizzazione del programma su cui nasce e si fonda la fiducia.

Ciò conduce alla necessaria interlocuzione tra l’organo legislativo e l’organo esecutivo, anche mediante la partecipazione dei rappresentanti del Governo ai lavori parlamentari, sia in Aula che in commissione.

La disposizione costituzionale garantisce la partecipazione e la presenza – quale diritto (“di assistere alle sedute”, ma non a votare) – anche dei membri del Governo che non sono parlamentari, superando le incompatibilità tra funzione di governo e legislative dei membri del Governo che, invece, caratterizzano le forme presidenziali o semipresidenziali di governo.

Nella prassi, ai lavori parlamentari, sia in Aula che in commissione, partecipano i Sottosegretari o i Viceministri, qualora non siano presenti direttamente i Ministri.

Quanto alle interrogazioni, anche i Sottosegretari e i Viceministri possono intervenire per rispondere a nome del Governo e in luogo dei Ministri competenti nella materia.

Nel caso di question time (l’interrogazione a risposta immediata) è sempre il Ministro competente ad intervenire in Aula.

Le interrogazioni possono essere presentate e discusse anche in commissione.

L’unica sede in cui il Governo non è presente in Aula è il Parlamento in seduta comune, attesa, comunque, la partecipazione alla votazione dei parlamentari membri del Governo.

 

Note

[1] Tra i riferimenti più autorevoli della dottrina, vedi: S. Romano, Sulla natura dei regolamenti delle Camere parlamentari, in ID., Scritti minori, Milano, 1950, p.213 ss.; V. Crisafulli, Gerarchia e competenza nel sistema costituzionale delle fonti, in Riv. trim. dir. pubbl., 1960, p. 775 ss.; P. Barile, Il crollo di un antico feticcio (gli interna corporis) in una storica (ma insoddisfacente) sentenza, in Giur. cost., 1959, p. 240 ss; S. Galeotti, Osservazioni sui regolamenti parlamentari come figura estranea agli atti aventi forza di legge, di cui agli art. 134 Cost., in Giur. cost., 1981, p 1111 ss; F. Modugno, In tema di regolamenti parlamentari e di controllo sugli “interna corporis acta” delle Camere, in Riv, it. sc. giur., 1969, p. 197 ss.; S.M. Cicconetti, La insindacabilità dei regolamenti parlamentari, in Giur. cost., 1985, p. 1411 ss.; A.A. Cervati, Art. 72, in Commentario della Costituzione. La formazione delle leggi, I, Bologna-Roma, 1985, p. 108 ss.; G.G. Floridia, Il regolamento parlamentare nel sistema delle fonti, Milano, 1986; A. Manzella, Art. 64, in Commentario alla Costituzione. Le Camere (Art. 64-69), II, Bologna-Roma, 1986, p. 1 ss.;  G.G Floridia, F. Sorrentino, Regolamenti parlamentari, in Enc. giur,, Roma, XXVI, 1991.

[2] In questo specifico senso, vedi V. Crisafulli, L. Paladin, S. Bartole, R. Bin, Commentario breve alla Costituzione, Seconda ed., all’art. 64 Cost., punto VI, p. 64 e ss.

[3] Per ricordare la dottrina più recente sui regolamenti parlamentari, in particolare: A.A. Manzella, Il Parlamento, Bologna, 2003, cap. 1; T. Martines, Sulla natura giuridica dei regolamenti parlamentari, in ID. Opere, II, Milano 2000, p. 85 ss.; L. Cassetti, I Regolamenti parlamentari nei conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato, in Le Camere nei conflitti (a cura di G. Azzariti), Torino, 2002, p.139 ss.; T. Martines, G. Silvestri, C. De Caro, V. Lippolis, R. Moretti, Diritto parlamentare, Milano, 2005, cap. I e II (di T. Martines e G. Silvestri); L. Gianniti, C. Di Andrea, Art. 64, in Commentario alla Costituzione, Torino, 2006,; N. Lupo, Regolamenti parlamentari, in Il Diritto. Enciclopedia Giuridica de il Sole 24 ore, Milano, 2007, XIII, p. 214 ss.; R. Cerreto, L’adozione e la modifica dei regolamenti parlamentari, in Funzioni parlamentari non legislative e forma di governo, a cura di R. Dickmann e S. Staiano, Milano, 2008, p. 25 ss.; V. Di Ciolo, L. Ciaurro, Il diritto parlamentare nella teoria e nella pratica, Milano, 2013, cap. II; R. Ibrido, L’interpretazione del diritto parlamentare, Milano, 2015; R. Dickmann, Il Parlamento italiano, Napoli, 2018, in partic. cap. II. Inoltre, si segnala G. Lauricella, La riserva di regolamento parlamentare tra regolamento “maggiore” e regolamenti “minori”, in ordine alla recente deliberazione n. 14 del 12 luglio 2018 dell’Ufficio di Presidenza della Camera dei deputati, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2019.

[4] P. Barile, Il crollo di un antico feticcio (gli interna corporis) in una storica (ma insoddisfacente) sentenza, in Giur. cost., 1959, p. 240 ss; F. Modugno, In tema di regolamenti parlamentari e di controllo sugli “interna corporis acta” delle Camere, in Riv, it. sc. giur., 1969, p. 197 ss.

[5] Sulla legittimazione dell’autodichia da parte della CEDU, vedi, in partic., N. Occhiocupo, La Corte dei diritti dell’uomo dà il suo imprimatur all’autodichia della Camera dei deputati, in Il diritto dell’Unione europea, 2010, 2, p 397-441; S.M. Cicconetti, Corte europea dei diritti dell’uomo e autodichia parlamentare, in Giur. it., 2010; F.G. Scoca, Autodichia e Stato di diritto, in Diz. proc. amm., 2011, 1, p 25-42; G. Malinconico, La Corte europea dei diritti dell’uomo si pronuncia sull’autodichia delle Camere, in www.Federalismi, n. 9/2009; G. Pelella, La giurisdizione interna della Camera dei deputati tra principi costituzionali e principi sopranazionali: l’autodichia alla prova della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Parlamento della Repubblica, Roma, Camera dei deputati, 2013, Vol I, p. 237 ss; Idem, Si consolida l’autodichia parlamentare dopo il vaglio della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Rass. parlam., 2009, p. 1077 ss..

[6] Così, Corte costituzionale., sentenza n. 120 del 9 maggio 2014. In partic., nella parte in diritto, al punto 4.2. La Corte costituzionale afferma che “l’art. 134 Cost., indicando come sindacabili la legge e gli atti che, in quanto ad essa equiparati, possono regolare ciò che rientra nella competenza della stessa legge, non consente di includere tra gli stessi i regolamenti parlamentari. Risiede dunque in ciò, e non in motivazioni storiche o in risalenti tradizioni interpretative, la ragion d’essere attuale e di diritto positivo dell’insindacabilità degli stessi regolamenti in sede di giudizio di legittimità costituzionale. Va di conseguenza confermata la consolidata giurisprudenza di questa Corte, la quale – nella sentenza n. 154 del 1985 e nelle successive ordinanze n. 444 e 445 del 1993 – ha escluso che essi possano essere annoverati fra gli atti aventi forza di legge“.

[7] Secondo una vecchia concezione, che rimane ancor oggi – almeno nel principio e nel senso dell’applicazione – condivisibile, è la cosiddetta sovranità del Parlamento, che impone un concetto di infallibilità (tradizionalmente riconosciuta al  sovrano), per cui gli atti parlamentari non possono essere oggetto di giurisdizione comune. In tal senso, cfr., M. Manetti, Voce Regolamenti parlamentari, in Enc. Dir., XXXIX, 1988 p. 649. Sul tema, la richiamata dottrina di G. Jellinek, Verfassungsänderung und Verfassungswandlung, Berlin, 1906, p. 27 ss; S. Galeotti, Osservazioni sui regolamenti parlamentari come figura estranea agli atti aventi forza di legge, di cui agli art. 134 Cost., in Giur. cost., 1981, p 1111 ss.

[8] Vedi l’art. 16, comma 2, del regolamento della Camera dei deputati e l’art. 167, commi 2 e 3, del regolamento del Senato.

[9] Così, R. Dickmann, La competenza dei regolamenti delle Camere come fonti del diritto. Questioni controverse e profili problematici, in Federalismi.it, 8/2018, p. 10. In particolare, vedi il comma 3 dell’art. 16 del regolamento della Camera, in cui si prevede che “la Giunta propone all’Assemblea le modificazioni o le aggiunte al Regolamento che l’esperienza dimostri necessari”. Sulla natura “consensuale” o “negoziale” dei regolamenti parlamentari, vedi anche, M. Manetti, La legittimazione del diritto parlamentare, Giuffré, Roma, 1990, p. 8-9.

[10] Sul punto, A.Ruggeri, Novità in tema di (in)sindacabilità dei regolamenti parlamentari, in una pronuncia-ponte della Consulta (a margine di Corte cost. n. 120 del 2014), in Consulta Online, 10 maggio 2014, rileva che la via del conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato individuata dalla sentenza commentata, nel tempo auspicata dalla dottrina, “solo oggi riceve una chiara ed esaustiva raffigurazione teorica”.

[11] Nella sentenza n. 120 del 2014, la Corte, dopo aver riaffermato che risiede nell’art. 134 della Costituzione “la ragion d’essere attuale e di diritto positivo dell’insindacabilità degli stessi regolamenti (parlamentari, nda) in sede di giudizio di legittimità costituzionale”, conferma che “la sede naturale in cui trovano soluzione le questioni relative alla delimitazione degli ambiti di competenza riservati è quello tra poteri dello Stato: “il confine tra i due distinti valori (autonomia delle Camere, da un lato, e legalità-giurisdizione, dall’altro) è posto sotto la tutela di questa Corte, che può essere investita, in sede di conflitto di attribuzione, dal potere che si ritenga leso o menomato dall’attività dell’altro (sentenza n. 379 del 1996)“”.

[12] Sull’autodichia e la sua legittimazione anche da parte della Corte Edu, vedi la nota 5 del par. 3.1.

[13] L’art. 72, comma 3, della Costituzione prevede che il regolamento “può altresì stabilire in quali casi e forme l’esame e l’approvazione dei disegni di legge sono deferiti a commissioni, anche permanenti, composte in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari”.

[14] Vedi, sul punto, P. Barile-U. Spirito, Corte costituzionale, in Enciclopedia italiana-Treccani.it., IV Appendice, 1978.

[15] La sentenza della Corte cost., n. 154/85, in tal senso rileva che “la Costituzione repubblicana ha instaurato una democrazia parlamentare, intendendosi dire che, come dimostra anche la precedenza attribuita dal testo costituzionale al Parlamento nell’ordine espositivo dell’apparato statuale, ha collocato il Parlamento al centro del sistema, facendone l’istituto caratterizzante l’ordinamento. È nella logica di tale sistema che alle Camere spetti – e vada perciò riconosciuta – una indipendenza guarentigiata nei confronti di qualsiasi altro potere, cui pertanto deve ritenersi precluso ogni sindacato degli atti di autonomia normativa ex art. 64, primo comma, Cost.“.

[16] Sul riconoscimento dell’autodichia nella sentenza n. 120/2014, cfr., in partic., L. Testa, La Corte salva (ma non troppo) l’autodichia del Senato. Brevi note sulla sent. Corte cost. n. 120 del 2014, in www.federalismi.it, 14 maggio 2014; A. Ruggeri, Novità in tema di (in)sindacabilità dei regolamenti parlamentari, in una pronuncia-ponte della Consulta (a margine di Corte cost. n. 120 del 2014), cit..

[17] La Corte cost., nella sentenza n. 120/2014, afferma “la legittimità dell’impianto di giustizia interna delle Camere, sulla base dell’autonomia costituzionale ad esse spettante“. Vedi anche, S. Gattamelata, Autodichia: il giudice domestico è incompatibile con la Costituzione? in Amministrativamente, 1/2014; A. Lo Calzo, Il principio di unicità della giurisdizione e la giustizia domestica delle Camere, in www.Federalismi.it, 14 maggio 2014, p. 11 ss.; G. Lauricella, La riserva di regolamento parlamentare tra regolamento “maggiore” e regolamenti “minori”, in ordine alla recente deliberazione n. 14 del 12 luglio 2018 dell’Ufficio di Presidenza della Camera dei deputati, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2019.

[18] Di tale distinzione ne parla, R. Dickmann, La competenza dei regolamenti delle Camere come fonti del diritto, cit., p. 19 e ss.. Sui regolamenti minori, vedi anche C. De Seri, I regolamenti “minori”, cit..

[19] Per l’approvazione di un nuovo regolamento (maggiore) o di una sua modifica, occorre una maggioranza qualificata, a seguito di un procedimento specificamente previsto dal regolamento, al Capo IV (Delle Giunte), all’art. 16. È la Giunta per il regolamento che si occupa della fase istruttoria, proponendo all’Assemblea “le modificazioni e le aggiunte al Regolamento che l’esperienza dimostri necessarie” (co. 3, art 16, RC). “Il testo della Giunta è approvato a maggioranza assoluta dei componenti la Camera, a norma dell’art. 64 della Costituzione” (co. 4, art. 16, RC). Infine, il comma 5 dell’art. 16 del Regolamento della Camera prevede che “le disposizioni modificative e aggiuntive al Regolamento sono pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica”.

[20] Va ricordato, seppur senza enfasi, che per l’organo di Presidenza non è disposto, obbligatoriamente, il rispetto della proporzionalità tra i vari gruppi, né, addirittura, almeno in un primo momento, la rappresentanza stessa di tutti i gruppi, che può essere, comunque, “sanata” con l’elezione di “altri Segretari” (vedi,  art. 5, co. 4 e 5, RC).

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Giuseppe Lauricella è Professore universitario dal 1996 e Avvocato dal 1987, cassazionista dal 2009.

Ha svolto l’insegnamento di Diritto costituzionale italiano e comparato presso La libera Università degli Studi Sociali (LUISS) di Roma e di Istituzioni di Diritto pubblico presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Catania. Successivamente, dal 2000, ha insegnato Diritto pubblico, Diritto amministrativo e Diritto dell’Unione europea presso il Corso di Scienze della comunicazione dell’Università di Palermo. Nel 2012 è stato eletto dalla Camera dei deputati componente del Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa, in cui ha ricoperto la carica di Vice presidente. Nel 2013 è stato eletto alla Camera dei deputati, dove è stato membro della Commissione Affari costituzionali, della Giunta delle elezioni e del Collegio di Appello dell’organo giurisdizionale della Camera. Dal marzo del 2018 è rientrato all’Università, presso il Dipartimento di Giurisprudenza, dove insegna Diritto costituzionale, Diritto costituzionale europeo e, presso il Dipartimento di Economia, Diritto pubblico. È stato docente in vari Master di specializzazione. Nel luglio del 2018 viene nominato Esperto presso la Struttura di missione per le procedure d’infrazione dell’Unione europea, Dipartimento per le politiche europee della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Con Decreto del Rettore di Palermo del 17/05/2021 gli è stata conferita la delega “alla promozione e alla diffusione della cultura della legalità e dell’etica pubblica”. Nel giugno 2021 è stato nominato dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Palermo componente del Comitato scientifico della Collana delle pubblicazioni del Dipartimento di Giurisprudenza. Attualmente, insegna Diritto pubblico e Le Fonti del Diritto pubblico, rispettivamente presso i Dipartimenti di Economia e Giurisprudenza. È autore di varie monografie e articoli scientifici.