L’articolo 120 della Costituzione

Dario Simeoli

 

Commento all’art. 120 della Costituzione

di Dario Simeoli, Consigliere di Stato

Art. 120 – La Regione non può istituire dazi di importazione o esportazione o transito tra le Regioni, né adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni, né limitare l’esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale.

Il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali. La legge definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione.

Abstract – I limiti dettati dall’art. 120 Cost. alla diversificazione territoriale delle potestà normative e amministrative sono volti a contemperare la sfera di autonomia costituzionalmente garantita agli enti politici sub-statali con la tutela di interessi unitari facenti capo allo Stato quale ente esponenziale dell’intera collettività nazionale. I divieti del primo comma rappresentano una tipizzazione ‘preventiva’ delle fattispecie riconducibili a interessi infrazionabili che operano come limite di legittimità per le leggi regionali. Il potere sostitutivo del secondo comma costituisce invece un rimedio ‘successivo’, una valvola di ‘chiusura’ del sistema giuridico-istituzionale, i cui presupposti rimandano a «emergenze istituzionali di particolare gravità», delle quali deve farsi carico lo Stato anche al di fuori dei titoli di competenza espressamente assegnatigli dalle norme costituzionali. Chiaritone il fondamento unitario, lo scritto esamina partitamente i due commi dell’art. 120.

Sommario: 1. – Introduzione: l’art. 120 tra unità dell’ordinamento e diversificazione territoriale Parte I ‒ 2. Il primo comma: il divieto di istituire dazi di importazione o esportazione o transito tra le Regioni – 2.1. Il divieto di introdurre ostacoli alla libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni – 2.2. Limitazioni di ‘fatto’ e accesso alle prestazioni sociali ‒ 2.3. Il divieto di limitare l’esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale – 2.4 Le discriminazioni fra imprese operate sulla base di un mero elemento di localizzazione territoriale Parte II 3. Potere sostitutivo e modelli di regionalismo: profili storico-ricostruttivi ‒ 3.1. Tipologie di poteri sostituivi: straordinari e ordinari ‒ 3.2. La natura giuridica e l’inquadramento sistematico dei poteri sostitutivi ‒ 3.3. I presupposti dell’intervento statale ‒ 3.4. La sostituzione legislativa ‒ 3.5. La sostituzione in relazione a competenze amministrative già esercitate ‒ 3.6. La sostituzione preventiva e d’urgenza ‒ 3.7. Garanzie procedurali dei poteri sostitutivi: sussidiarietà, leale collaborazione e proporzionalità ‒ 3.8. Ancora sul principio di leale collaborazione ‒ 3.9. Interventi sostitutivi degli Enti locali ‒ 3.10. Analisi della relazione sostitutiva: nomina e funzioni del commissario ad acta

 

  1. Introduzione: l’art. 120 tra unità dell’ordinamento e diversificazione territoriale

Nella sua formulazione originaria, l’art. 120 prevedeva tre distinti periodi riferiti, rispettivamente, ai divieti di: «istituire dazi d’importazione o esportazione o transito fra le Regioni»; «adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose fra le Regioni»; «limitare il diritto dei cittadini di esercitare in qualunque parte del territorio nazionale la loro professione, impiego o lavoro».

L’art. 6, primo comma, della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), senza modificarne i contenuti normativi, ha accorpato le medesime proibizioni in un unico periodo costituente l’attuale primo comma dell’art. 120 della Costituzione[1]. La stessa riforma costituzionale del 2001 ha aggiunto all’art. 120 un comma secondo per disciplinare ex novo il potere sostitutivo statale.

L’articolo in commento riflette una pluralità di interessi costituzionali la cui composizione dialettica riflette la fisionomia dell’assetto regionalistico dato alla forma dello Stato italiano. La delimitazione dell’area degli interventi sub-statali si rende necessaria in tutti gli ordinamenti che ripartiscono i poteri di comando tra enti politici distinti, allocati secondo parametri territoriali e dimensionali.

La Costituzione riconosce e promuove un assetto policentrico di autonomie territoriali, dotate di propri poteri e funzioni. Il regionalismo consente margini di differenziazione dell’indirizzo politico tra le diverse autonomie territoriali al fine di adattare la normazione alle specifiche esigenze della comunità. Come risulta dal dibattito costituente, l’autonomia politica regionale è stata pensata come rimedio agli «inconvenienti dell’accentramento» statuale, in grado di sgravare il centro di compiti divenuti troppo vasti per potere essere ben adempiuti e di contrastare «l’eventuale predominio illecito di gruppi politici o di gruppi di interessi»[2]. Nelle sentenze della Corte costituzionale, le autonomie territoriali vengono ritenute «partecipi dei percorsi di articolazione e diversificazione del potere politico strettamente legati […] all’affermarsi del principio democratico e della sovranità popolare»[3].

Il principio autonomistico, collocato tra i principi fondamentali della Repubblica, accanto al principio personalistico e pluralistico, costituisce dunque uno strumento per rendere più efficiente e democratico lo svolgimento dei compiti pubblici. Lo stesso principio non può essere evocato per rompere o anche solo allentare il patto di solidarietà nazionale. Alla luce del dettato costituzionale, l’assetto valoriale che riempie di contenuto la natura «una e indivisibile» della Repubblica (art. 5 Cost.) deve ricevere un grado uniforme di protezione ‒ soprattutto con riguardo all’effettività dei diritti civili e sociali nei loro livelli essenziali ‒ non condizionato dalle vicende legate al frazionamento territoriale del potere politico[4].

La Costituzione riflette una concezione dell’autonomia, non meramente negativa, come pretesa alla non intromissione da parte dello Stato, bensì imperniata sull’interdipendenza e collaborazione tra i diversi livelli di governo nell’individuazione dell’interesse pubblico nazionale[5]. In questa prospettiva, i limiti dettati dall’art. 120 alla diversificazione territoriale delle potestà normative e amministrative sono volti a contemperare il riconoscimento di sfere costituzionalmente garantite agli enti politici sub-statali con la tutela di interessi unitari facenti capo allo Stato quale ente esponenziale della collettività nazionale.

La giurisprudenza costituzionale è caratterizzata dalla continua ricerca di un equilibrio tra queste due polarità, il cui bilanciamento si muove lungo un confine ‘mobile’, influenzato dalle specifiche caratteristiche della concreta fattispecie normativa.

I due commi dell’art. 120 operano in modo sinergico.

I divieti del primo comma costituiscono una tipizzazione ‘preventiva’ di fattispecie riconducibili a interessi nazionali infrazionabili, che si pongono come limite di legittimità per le leggi regionali.

L’esercizio del potere sostitutivo da parte del Governo, di cui al secondo comma, rispondente alla medesima esigenza di coordinamento tra unità dell’ordinamento e autonomia territoriale, costituisce invece un rimedio ‘successivo’, una valvola di ‘chiusura’ del sistema giuridico-istituzionale, i cui presupposti rimandano a «emergenze istituzionali di particolare gravità», di cui deve farsi carico lo Stato, anche al di fuori dei titoli di competenza espressamente indicati nelle norme costituzionali. Esigenza di coordinamento accresciuta dalla modifica costituzionale del 2001, che ha introdotto una più netta e garantita separazione delle competenze tra Stato e Regioni.

Chiaritone il fondamento unitario, i due commi dell’art. 120 vengono di seguito esaminati partitamente.

 

PARTE I 

  1. Il primo comma: il divieto di istituire dazi di importazione o esportazione o transito tra le Regioni

Il primo comma dell’art. 120 limita l’esercizio della potestà legislativa delle Regioni in funzione del rafforzamento di valori giuridici già riconosciuti in altre disposizioni costituzionali, e segnatamente: il principio di eguaglianza (art. 3), la libertà di circolazione e soggiorno (art. 16), l’iniziativa economica (art. 41), la proprietà privata (art. 42), il diritto al lavoro (artt. 4 e 36), l’accesso agli uffici pubblici (art. 51).

La disposizione, tuttavia, non si limita ad esplicitare i condizionamenti desumibili dalle altre norme della Costituzione, ma concorre ad arricchirne i contenuti.

Sull’impiego giurisprudenziale dell’art. 120, comma primo, si registrano due tendenze di segno apparentemente opposto.

Da un lato, a seguito della riforma del 2001, la scomparsa dell’«interesse nazionale» come clausola limitativa delle competenze regionali, ha incrementato il numero dei casi in cui viene invocata la disposizione in esame come parametro di legittimità costituzionale (nel regime antecedente, la Corte costituzionale, avallando la trasformazione dell’interesse nazionale da limite di ‘merito’ in limite di ‘legittimità’, aveva di fatto reso superfluo il ricorso all’art. 120)[6].

Dall’altro lato, la portata precettiva dei divieti del primo comma risulta, in molti casi, assorbita dal parametro costituzionale che impone al legislatore statale e regionale il rispetto «dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali» (art. 117, comma 1, Cost.). Alla garanzia della disposizione in commento, infatti, si sovrappongono i contenuti della cittadinanza europea, progressivamente ampliatasi al di là della dimensione prettamente economica dell’individuo (come lavoratore, professionista, imprenditore). La forza espansiva della cittadinanza europea ‒ il cui nucleo forte è rappresentato dalla libertà di circolazione ‒ è legata, non tanto all’attribuzione di diritti nuovi promananti dall’ordinamento dell’Unione, quanto al principio di non discriminazione che comporta l’eliminazione di tutte le forme di trattamento differenziato fra i cittadini dei vari Stati membri.

L’utilizzo dell’art. 120, primo comma, appare poi ulteriormente limitato dalla generale tendenza della Corte a scrutinare prioritariamente il ‘parametro competenziale’ rispetto alle eventuali violazioni che le leggi regionali realizzino con il loro contenuto.

Su queste basi, va analizzato il primo divieto dettato dall’articolo in esame.

Nell’originaria formulazione proposta in sede di seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione, il divieto di istituire dazi di importazione, di esportazione o di transito veniva stabilito subito dopo un primo comma che riconosceva l’autonomia finanziaria delle Regioni, in modo da chiarire che non potesse essere mai adottato da parte di queste «alcun provvedimento, né di natura fiscale né di qualsiasi altra natura, che possa creare ostacoli alla libera circolazione dei beni fra una Regione e l’altra»[7].

Il fondamento del divieto di «istituire dazi di importazione o esportazione o transito tra le Regioni» veniva dunque ravvisato nell’esigenza di apporre un limite all’autonomia finanziaria riconosciuta alle Regioni, sul versante dell’imposizione. Si voleva scongiurare una ‘compartimentazione’ dei sistemi economici regionali in grado di frenare lo sviluppo del Paese e di determinare o accentuare le disuguaglianze tra le diverse aree territoriali[8].

Il termine ‘dazio’, nel lessico tributario, indica una imposta indiretta sui consumi che colpisce la circolazione dei beni, la quale si applica a prodotti che si muovono da uno ordinamento statale all’altro. I dazi esterni si distinguono in quelli d’importazione, volti a proteggere i produttori nazionali dalla concorrenza estera, e quelli d’esportazione, i quali non hanno mai avuto grande diffusione. Il dazio è solitamente espresso in percentuale del valore delle merci e colpisce i prodotti importati all’atto della loro immissione nel territorio doganale dello Stato destinatario[9].

Per cogliere lo specifico contenuto costituzionale della proibizione in commento ‒ relativa ai tributi di ‘transito’ e perciò idonei a determinare un ostacolo alla libera circolazione di cose tra Regioni ‒ occorre una previa digressione sul sistema dei limiti all’autonomia impositiva regionale connaturati al federalismo fiscale, come inveratosi nel nostro sistema giuridico.

Al momento dell’entrata in vigore della Costituzione, l’autonomia impositiva delle Regioni era subordinata alle «forme» e ai «limiti stabiliti da leggi della Repubblica, che la coordinano con la finanza dello Stato, delle Provincie e dei Comuni». Nel 1970, in concomitanza con l’istituzione delle Regioni, venne introdotto un sistema di finanza essenzialmente derivata, connotato da una ampia asimmetria tra il potere fiscale (centrale) e il potere di spesa (in gran parte regionale).

A seguito della riforma del titolo V della Costituzione, il novellato art. 119 ha configurato un modello finanziario connotato da un marcato riconoscimento dell’autonomia impositiva degli enti sub-statali. La competenza esclusiva statale risulta infatti limitata solo al sistema tributario dello Stato e ai principi fondamentali del coordinamento del sistema tributario complessivo: l’art. 117, comma secondo, lettera e), della Costituzione riserva alla legislazione esclusiva statale la materia «sistema tributario e contabile dello Stato»; il comma 3 dello stesso art. 117 attribuisce alla competenza concorrente la materia «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario». Nel contempo, la competenza regionale residuale in relazione alle materie innominate (di cui al comma quarto dell’art. 117 Cost.) comporta il riconoscimento di una competenza esclusiva delle Regioni in relazione ai tributi regionali e locali non istituiti dalla legge statale. L’ampliamento dell’autonomia tributaria, rispetto al regime previgente, è attestato dall’art. 119 comma secondo, secondo cui: «I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario».

Sennonché, la giurisprudenza costituzionale e la legge ordinaria hanno finito per riservare all’autonomia impositiva delle Regioni un ambito più ristretto di quello che sembrava desumersi dalla lettera del nuovo Titolo V della parte II della Costituzione.

Anche prima che il legislatore statale emanasse la legge sui principi di coordinamento, la Corte costituzionale aveva statuito che le previsioni racchiuse nel nuovo Titolo V delineassero un quadro normativo in cui le Regioni a statuto ordinario erano assoggettate al duplice limite costituito: i) dall’obbligo di esercitare il proprio potere di imposizione in coerenza con i principi fondamentali di coordinamento del sistema tributario; e ii) dal divieto di istituire o disciplinare tributi già istituiti da legge statale o di stabilirne altri aventi lo stesso presupposto, almeno fino all’emanazione della legislazione statale di coordinamento[10]. Solo per quanto riguarda le limitate ipotesi di tributi propri aventi presupposti diversi da quelli dei tributi statali, la Corte aveva riconosciuto sussistere il potere delle Regioni di stabilirli, in forza del quarto comma dell’art. 117 Cost., anche in mancanza di un’apposita legge statale di coordinamento, «a condizione, però, che essi, oltre ad essere in armonia con la Costituzione, rispettino ugualmente i principi dell’ordinamento tributario, ancorché solo ‘incorporati’, per così dire, in un sistema di tributi sostanzialmente governati dallo Stato».

Il criterio individuato dalla Corte costituzionale con carattere transitorio è stato poi elevato dal legislatore a principio fondamentale (e, dunque, sistemico) di coordinamento del sistema tributario. La legge delega 5 maggio 2009, n. 42 (Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione)[11], all’art. 2, comma 2, lettera p), ha previsto, tra i criteri direttivi, che «[…] la legge regionale possa, con riguardo ai presupposti non assoggettati ad imposizione da parte dello Stato: 1) istituire tributi regionali e locali; 2) determinare le variazioni delle aliquote o le agevolazioni che comuni, province e città metropolitane possono applicare nell’esercizio della propria autonomia con riferimento ai tributi locali di cui al numero 1)».

In attuazione della delega, il decreto legislativo 6 maggio 2011, n. 68 (Disposizioni in materia di autonomia di entrata delle regioni a statuto ordinario e delle province, nonché di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario), all’art. 38, comma 1, ha previsto che «[c]on efficacia a decorrere dall’anno 2013, la legge regionale può, con riguardo ai presupposti non assoggettati ad imposizione da parte dello Stato, istituire tributi regionali e locali nonché, con riferimento ai tributi locali istituiti con legge regionale, determinare variazioni delle aliquote o agevolazioni che comuni e province possono applicare nell’esercizio della propria autonomia».

La linea di ripartizione della competenza tra Stato e Regioni in materia di tributi propri è dunque segnata dalla ‘riserva statale di presupposto’, in ragione della quale le Regioni possono istituire tributi propri, per sé e per gli Enti locali, solo se gravanti su presupposti che non sono già assoggettati ad imposizione (erariale, ma anche regionale o locale) sulla base di una legge statale. L’atto impositivo regionale non deve cioè dare luogo ad alcun fenomeno di sovrapposizione (situazione che si ha quando più imposte colpiscono un medesimo presupposto), né in termini di sovrimposta (ravvisabile quando la base imponibile di un’imposta si assume come base imponibile di un’altra imposta), né in termini di addizionale (dove si impone il pagamento di un quantum ragguagliato ad una frazione o multiplo di quanto dovuto per un certo tributo).

Un ulteriore limite all’esercizio della potestà residuale d’imposizione delle Regioni è dato dalla necessità che il prelievo, frutto dell’esercizio di questo potere, sia direttamente correlato alle materie oggetto delle competenze regionali ripartite e residuali di cui al terzo e quarto comma dell’articolo 117 Cost. La «continenza», ovvero la strumentalità dell’autonomia normativa tributaria delle Regioni agli interessi oggetto delle materie di loro competenza, ricorre anch’essa tra i principi di coordinamento fissati dalla citata legge delega n. 42 del 2009 (all’art. 2, comma 2, lettera p). A questa stregua, fatti, atti e situazioni ricompresi nel presupposto impositivo prescelto dal legislatore regionale devono afferire alle materie di sua competenza[12].

In conclusione, anche dopo la riforma del 2001, il modello finanziario della Repubblica appare rientrare nello schema del federalismo c.d. «cooperativo»[13], in cui cioè le fonti di finanziamento delle realtà sub-statali sono costituite principalmente da tributi derivati di fonte statale, con pochi spazi (in buona parte inutilizzati) lasciati aperti alla potestà normativa regionale per creare tributi propri in senso stretto[14].

All’esito della digressione svolta, è ora possibile cogliere l’autonoma portata prescrittiva dell’art. 120, comma 1. La disposizione in commento completa l’assetto della fiscalità regionale e locale, fissando ‒ accanto alla ‘riserva di presupposto’ e al limite della ‘continenza’ ‒ l’ulteriore divieto dei tributi di ‘transito’, che determinano un ostacolo fiscale alla libera circolazione delle merci.

In sostanza, anche quando l’esercizio dell’autonomia impositiva regionale si muova sui binari consentiti dagli articoli 117 e 119 ‒ e quindi alla Regione non sia preclusa la possibilità di istituire, nel rispetto dei principi di coordinamento, tributi propri autonomi ‒ tale autonomia «non può […] degenerare in un’ulteriore differenziazione stabilita solo in ragione del mero transito di un determinato bene attraverso il confine regionale»[15]. 

Le Regioni non possono, né per fini fiscali né per scopi protettivi, ricorrere a questo tipo di imposta indiretta per accrescere le proprie entrate (dazi di transito); per ostacolare l’ingresso di merci nel territorio regionale al fine di tutelare la produzione locale (dazi di importazione); oppure per disincentivare l’uscita di merci o beni necessari al consumo interno al di fuori dei confini regionali (dazi di esportazione)[16].

Va precisato che neppure la legge statale potrebbe, senza violare essa stessa l’art. 120, primo comma, Cost., abilitare una Regione a introdurre dazi o forme impositive ad effetto equivalente.

 

2.1. Il divieto di introdurre ostacoli alla libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni

L’art. 120, comma primo, ad integrazione e rafforzamento delle altre disposizioni che tutelano la libertà di circolazione ‒ in particolare, l’art. 16, comma primo, che riconosce, ad «ogni cittadino» il diritto di «circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza», e l’art. 35 Cost., che tutela la libertà di emigrazione ‒ ribadisce che non può ostacolarsi «la libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni».

Il divieto di limiti alla circolazione interregionale rientra tra i principi fondamentali necessari a garantire l’unità e l’indivisibilità della Repubblica, e per tale motivo vale sia per le Regioni ordinarie che per quelle a statuto speciale[17].

La previsione opera a prescindere dalla ‘forma’ giuridica concretamente assunta dalla limitazione.

A dispetto del dato letterale ‒ che sembrerebbe precludere in assoluto atti degli enti territoriali diretti ad ostacolare («in qualsiasi modo») il transito di soggetti tra le Regioni ‒ la radicalità del precetto è stata attenuata dalla giurisprudenza costituzionale[18].

La Corte, al fine di precisare gli indici in presenza dei quali è fatto divieto, per gli atti regionali, di stabilire limiti al libero movimento delle persone e delle cose, ha elaborato un test di ragionevolezza delle leggi che prevedono tali limiti, alla cui stregua occorre valutare: «a) se si sia in presenza di un valore costituzionale in relazione al quale possano essere posti limiti alla libera circolazione delle cose o degli animali; b) se, nell’ambito del suddetto potere di limitazione, la regione possegga una competenza che la legittimi a stabilire una disciplina differenziata a tutela di interessi costituzionalmente affidati alla sua cura; c) se il provvedimento adottato in attuazione del valore suindicato e nell’esercizio della predetta competenza sia stato emanato nel rispetto dei requisiti di legge e abbia un contenuto dispositivo ragionevolmente commisurato al raggiungimento delle finalità giustificative dell’intervento limitativo della regione, così da non costituire in concreto un ostacolo arbitrario alla libera circolazione delle cose fra regione e regione» (sentenza n. 51 del 1991[19]).

Il primo gradino del test impone di verificare se le disposizioni costituzionali che regolano il libero movimento delle persone o delle cose ammettano ‒ ed entro quali limiti ‒ l’apposizione di una qualche forma di limitazione.

Il secondo gradino richiede di verificare se, avuto riguardo al riparto costituzionale delle competenze, la disciplina limitativa ‒ astrattamente consentita ‒ possa essere posta anche da atti regionali. Tale circostanza deve escludersi ogni qualvolta le restrizioni ledano un interesse la cui tutela costituzionale sia affidata soltanto allo Stato. Ad esempio, il monopolio statale sull’esercizio della potestà punitiva impedisce alle Regioni di comprimere o menomare la libertà personale: conseguentemente, occorre distinguere le misure che assoggettano la persona all’altrui potere, dalle restrizioni della (sola) libertà di movimento (consentite ai livelli di governo territoriali).

Il terzo gradino del test sanziona l’arbitrarietà degli impedimenti ‒ in astratto consentiti alle Regioni ‒ in quanto privi di un fondamento giustificativo idoneo a sorreggere (in quanto connesso ad altri valori costituzionali) la limitazione del libero movimento delle persone e delle cose fra una regione e l’altra. Lo scrutinio di ragionevolezza richiede di bilanciare tra di loro il principio di libera circolazione, l’interesse antagonista di volta in volta concorrente e il grado di sacrificio imposto al primo per il perseguimento del secondo[20].

Sulla valutazione di ragionevolezza può incidere la transitorietà ed eccezionalità della disciplina normativa che contenga limitazioni alla libertà di circolazione delle cose o delle persone[21]. Durante il periodo di pandemia da Covid-2019, fra le varie situazioni soggettive limitate, la libertà di circolazione, in assenza di terapie o vaccini, ha subito una incisiva compressione. La gestione dell’emergenza ha suscitato spinte contrapposte: una centripeta (avallata dalla giurisprudenza costituzionale[22]), avendo gli atti statali interferito su competenze regionali (commercio, istruzione, attività economiche, sanità pubblica); un’altra centrifuga, avendo le Regioni (o meglio i Presidenti delle Giunte regionali) attivato politiche di contenimento dell’emergenza epidemiologica parallele e, talvolta, anche contrastanti con quelle definite dallo Stato centrale[23]. L’intreccio di competenze, oltre a inasprire la conflittualità tra Stato e Regioni, ha evidenziato un coordinamento senza dubbio inefficace tra i diversi livelli di governo[24].

Quanto alle limitazioni infra-regionali, le stesse devono ritenersi consentite nei limiti dettati dall’art. 16 della Costituzione e sempreché non impediscano la circolazione tra le regioni[25].

 

2.2. Limitazioni di ‘fatto’ e accesso alle prestazioni sociali

L’art. 120, primo comma, Cost. colpisce le discipline che limitano «in qualsiasi modo» i diritti ivi menzionati di circolazione e di svolgere l’attività lavorativa, e quindi anche quelle che costituiscono un ostacolo solo ‘indiretto’ o di ‘fatto’ all’esercizio degli stessi[26].

Un nutrito filone della giurisprudenza costituzionale si è occupato, a più riprese, di disposizioni regionali limitanti l’accesso a prestazioni sociali sulla base di requisiti di radicamento e stabilità territoriale, quali la residenza o lo svolgimento di un rapporto lavoro per periodi di tempo più o meno lunghi. Tali requisiti ‒ di cui il legislatore regionale esigeva il soddisfacimento, talvolta da parte dei soli stranieri, altre volte anche in capo ai cittadini ‒ finivano per penalizzare soprattutto gli immigrati provenienti da Paesi non appartenenti all’Unione Europea, aventi tendenzialmente redditi più bassi e nuclei familiari più numerosi dei cittadini europei.

Nonostante l’approccio casistico della giurisprudenza (necessariamente correlato alla tipologia della provvidenza sociale di volta in volta in discussione), il tema chiama in causa la struttura stessa della Repubblica, al cui interno le Regioni sono enti dotati di autonomia (anche politica), ma non sovrani, delimitati da confini amministrativi e non da frontiere[27].

La Corte non ha mai contestato che le Regioni detengano il potere normativo di selezionare l’accesso alle prestazioni sociali. Per quanto spetti allo Stato, in potestà esclusiva, la disciplina della immigrazione e della condizione giuridica dello straniero, oltre che la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, alle Regioni non è precluso intervenire, nell’esercizio delle proprie competenze residuali (tra cui l’assistenza sociale), sui diritti degli stranieri in misura estensiva rispetto a quanto previsto dalla legge statale (norme regionali introduttive di un trattamento deteriore, rispetto alle prestazioni sociali disciplinate dalla legge dello Stato, sarebbero invece illegittime perché interferenti con le richiamate competenze esclusive[28]).

È stato ripetutamente affermato che, «se al legislatore, sia statale che regionale (e provinciale), è consentito introdurre una disciplina differenziata per l’accesso alle prestazioni assistenziali al fine di conciliare la massima fruibilità dei benefici previsti con la limitatezza delle risorse finanziarie disponibili» (sentenza n. 133 del 2013), tuttavia «la legittimità di una simile scelta non esclude che i canoni selettivi adottati debbano comunque rispondere al principio di ragionevolezza» (sentenza n. 133 del 2013) e che, quindi, «debbano essere in ogni caso coerenti ed adeguati a fronteggiare le situazioni di bisogno o di disagio, riferibili direttamente alla persona in quanto tale, che costituiscono il presupposto principale di fruibilità delle provvidenze in questione» (sentenza n. 40 del 2011)[29].

In sostanza, la natura ‘additiva’ della prestazione regionale non dà alle Regioni totale libertà di scelta perché le esclusioni devono «essere operate sempre e comunque in ossequio al principio di ragionevolezza». Anche l’esigenza di risparmio di spese, dovuta al decremento delle disponibilità finanziarie per fare fronte alle misure statali di contenimento della spesa pubblica, non esclude che «l’introduzione di regimi differenziati è consentita solo in presenza di una causa normativa non palesemente irrazionale o arbitraria»[30].

Il principale parametro decisionale individuato dalla Corte consiste nella «ragionevole correlazione» tra i criteri adottati dal legislatore per la selezione dei beneficiari dei servizi sociali e le situazioni di bisogno o di disagio, in vista delle quali le singole prestazioni sono previste[31].

Su queste basi, un maggior rigore si impone per le provvidenze destinate al concreto soddisfacimento di «bisogni primari» della persona, indifferenziabili e indilazionabili, volte a contrastare situazioni di indigenza, disabilità o incapacità. In questi casi, qualsiasi discrimine tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato, fondato su requisiti diversi dalle condizioni soggettive, si pone tendenzialmente in contrasto con il principio di uguaglianza sostanziale (art. 3, secondo comma, Cost.) e con il principio di uguaglianza-ragionevolezza (art. 3, primo comma, Cost.). Il principio di eguaglianza, pur essendo nell’art. 3 della Costituzione riferito ai soli cittadini, deve «ritenersi esteso agli stranieri allorché si tratti della tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, garantiti allo straniero anche in conformità dell’ordinamento internazionale»[32]. L’assunto è coerente con il tradizionale orientamento della Corte per il cui il legislatore e la pubblica amministrazione non possono intaccare il «nucleo minimo» dei diritti fondamentali (art. 2 Cost.)[33].

Ebbene, al cospetto di siffatte prestazioni sociali ‘primarie’, mentre la residenza (o la dimora stabile) costituisce «un criterio non irragionevole per l’attribuzione del beneficio»[34], non altrettanto può dirsi quanto alla residenza (o dimora stabile) protratta per un predeterminato e significativo periodo minimo di tempo. Non è possibile presumere, in termini assoluti, che gli stranieri privi di tale requisito temporale, ma pur sempre ivi stabilmente residenti o dimoranti, versino in stato di bisogno minore rispetto a chi vi risiede o dimora da più anni[35]. Diversamente opinando si correrebbe il rischio di privare certi soggetti dell’accesso alle prestazioni pubbliche solo per il fatto di aver esercitato il proprio diritto di circolazione o di aver dovuto mutare regione di residenza[36].

Quali esempi di illegittima esclusione del non-cittadino dal godimento dei diritti fondamentali, vanno citate le sentenze della Corte in materia di: assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica[37]; accesso ai fondi per il «contrasto dei fenomeni di povertà e disagio sociale»[38]; attribuzione di assegni di cura[39]; assegni al nucleo familiare[40]; accesso ad un fondo per la non autosufficienza[41] e al sistema integrato di interventi e servizi sociali[42]; incentivi all’occupazione[43]; asili nido[44]; altre prestazioni a favore degli studenti[45].

In una prima fase, non era chiaro se la residenza protratta dovesse ritenersi un criterio in sé irragionevole per accedere ai servizi sociali[46], oppure in astratto ammissibile ma da valutarsi di volta in volta sul piano della proporzionalità in relazione alla specifica provvidenza[47]. A partire dalla sentenza n. 44 del 2020, in tema di edilizia residenziale pubblica, tale criterio di accesso sembrerebbe oramai integralmente respinto[48]. Nel citato precedente, la Corte ha infatti confutato l’argomento secondo cui il requisito della residenza protratta servirebbe «a garantire un’adeguata stabilità nell’ambito della regione prima della concessione dell’alloggio» di edilizia residenziale pubblica, cioè di un «beneficio di carattere continuativo», osservando che «la rilevanza conferita a una condizione del passato, quale è la residenza nei cinque anni precedenti, non sarebbe comunque oggettivamente idonea a evitare il ‘rischio di instabilità’ del beneficiario dell’alloggio di edilizia residenziale pubblica, obiettivo che dovrebbe invece essere perseguito avendo riguardo agli indici di probabilità di permanenza per il futuro»[49].

Analoghi principi sulla necessità di una ragionevole correlazione tra requisito richiesto e prestazione assistenziale sono stati affermati dalla Corte costituzionale con riguardo alla norma statale di cui all’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, nella parte in cui subordinava l’accesso a determinate provvidenze al possesso della carta di soggiorno, la quale si ottiene dopo 5 anni di soggiorno regolare e continuativo in Italia e se contestualmente si dispone di altri requisiti, tra i quali un reddito minimo non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale (dal gennaio 2007, il titolo è denominato «permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo»)[50].

Al di fuori dei bisogni primari, è astrattamente possibile subordinare l’erogazione di determinate prestazioni alla circostanza che il titolo di legittimazione dello straniero al soggiorno nel territorio dello Stato ne dimostri il carattere non episodico e di non breve durata. In questi casi, stante la limitatezza delle risorse disponibili, rientra nella discrezionalità del legislatore graduare l’accesso dello straniero extracomunitario a provvidenze ulteriori, purché tali condizioni non siano manifestamente irragionevoli né intrinsecamente discriminatorie.

La distinzione avanzata dalla Corte tra provvidenze intrinsecamente legate al soddisfacimento di bisogni primari ‒ che non tollerano un distinguo correlato al radicamento territoriale ‒ e provvidenze invece eccedenti il nucleo intangibile dei diritti fondamentali della persona ‒ che possono essere graduati in relazione al contributo offerto alla comunità ‒ assume in concreto contorni alquanto sfocati.

Tra le provvidenze per le quali il legislatore è legittimato ad esigere in capo al cittadino (soprattutto extracomunitario) ulteriori requisiti che comprovino un inserimento stabile e attivo nella società, sono state individuati dalla Corte l’assegno di natalità[51] e il c.d. «bonus bebè»[52].

Più di recente, la Corte ha negato che l’assegno sociale costituisca uno strumento di garanzia di un diritto inviolabile della persona, trattandosi di una prestazione economica che può essere riconosciuta «al solo straniero, indigente e privo di pensione, il cui stabile inserimento nella comunità lo ha reso meritevole dello stesso sussidio concesso al cittadino italiano»[53]. Ciò in quanto si tratta di una provvidenza che ha sostituito la pensione sociale, erogata a soggetti con età superiore a 65 anni (dal 1° gennaio 2019 superiore a 67 anni), in possesso di un reddito al di sotto delle soglie stabilite annualmente dalla legge. Per la verità non è agevole comprendere perché una prestazione meramente assistenziale, preordinata a far fronte allo stato di bisogno derivante dall’indigenza in cui versa una persona anziana, non sia annoverabile tra gli strumenti a garanzia di bisogni primari, mentre lo sia l’assegnazione di un alloggio di edilizia residenziale.

Più lineare appare invece la soluzione adottata con riguardo a provvidenze giustificate da finalità ulteriori rispetto a quelle meramente assistenziali, quali quelle di reinserimento lavorativo. Secondo la Corte, il reddito di cittadinanza, pur presentando anche tratti propri di una misura di contrasto alla povertà, non si risolve in una provvidenza assistenziale diretta a soddisfare un bisogno primario dell’individuo, ma persegue diversi e più articolati obiettivi di politica attiva del lavoro e di integrazione sociale, a cui si collegano coerentemente la temporaneità della prestazione e un sistema di rigorosi obblighi e condizionalità. In questa prospettiva di lungo o medio termine del reddito di cittadinanza, la titolarità del diritto di soggiornare stabilmente in Italia non si presenta come un requisito privo di collegamento con la ratio della misura concessa, sicché la scelta di escludere gli stranieri regolarmente soggiornanti, ma pur sempre privi di un consolidato radicamento nel territorio, non può essere giudicata esorbitante rispetto ai confini della ragionevolezza[54]. Le medesime conclusioni ‒ di «prestazione esterna al nucleo dei bisogni essenziali» della persona ‒ sono state raggiunte in relazione al precedente istituto del reddito di inclusione[55].

Un’autonoma considerazione di illegittimità riguarda i requisiti basati (non sulla residenza, bensì) sulla cittadinanza, imposti cioè dal legislatore regionale a carico dei soli stranieri, i quali risultano intrinsecamente discriminatori. La diversità di fatto che esiste tra cittadino e straniero in relazione al legame con il territorio può riguardare la disciplina dell’ingresso e del soggiorno, ma una volta che il soggiorno sia stato autorizzato e che il titolo di permanenza dimostri che la presenza dello straniero è non episodica e non di breve durata, non lo si può per ciò solo escludere dall’accesso alle misure sociali[56].

Il legislatore, statale e regionale, deve rispettare anche i vincoli di derivazione europea che pure impongono la parità di trattamento, per quanto concerne il godimento dei servizi e delle prestazioni sociali, tra cittadini italiani, europei e cittadini di altri Paesi qualora siano soggiornanti di lungo periodo. Ecco perché, con riguardo alle fattispecie normative che si stanno analizzando, il contrasto con l’art. 120, primo comma, risulta spesso assorbito[57] dal parametro di cui all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 21, paragrafo 1, del TFUE (il quale dispone che «[o]gni cittadino dell’Unione ha il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dai trattati e dalle disposizioni adottate in applicazione degli stessi»).

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea non esclude a priori l’ammissibilità di requisiti di residenza per l’accesso a prestazioni erogate dagli Stati membri, ma richiede che la norma persegua uno scopo legittimo, che sia proporzionata e che il criterio adottato, oltre che basato su considerazioni oggettive indipendenti dalla cittadinanza delle persone interessate, non sia «troppo esclusivo», potendo sussistere altri elementi rivelatori del «nesso reale» tra il richiedente e lo Stato[58].

Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha evidenziato come «la Convenzione non sancisca un obbligo per gli Stati membri di realizzare un sistema di protezione sociale o di assicurare un determinato livello delle prestazioni assistenziali; tuttavia, una volta che tali prestazioni siano state istituite e concesse, la relativa disciplina non potrà sottrarsi al giudizio di compatibilità con le norme della Convenzione e, in particolare, con l’art. 14 che vieta la previsione di trattamenti  discriminatori»[59].

 

2.3. Il divieto di limitare l’esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale

Le materie, enumerate all’art. 117 Cost., rilevanti per il diritto del lavoro sono plurime e appartengono a tutti e tre i tipi di competenza legislativa (esclusiva, concorrente e residuale).

Anche dopo la riforma del 2001, il legislatore nazionale continua a rivestire un ruolo regolativo preminente. La giurisprudenza costituzionale ha ricondotto i principali istituti lavoristici (rapporto contrattuale e diritto sindacale) alle materie dell’«ordinamento civile», della «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale», della «tutela della concorrenza» e della «previdenza sociale»[60]. Anche il lavoro pubblico, nonostante l’interferenza con la materia dell’«ordinamento e organizzazione amministrativa» (rientrante nel quarto comma dell’art. 117 Cost.), è stato sussunto sotto le materie dell’«ordinamento civile», come portato della c.d. ‘privatizzazione’, e del «coordinamento della finanza pubblica», per i profili strettamente finanziari[61].

Oltre che dalle predette materie di competenza statale, l’esercizio della potestà legislativa regionale in materia lavoristica è limitata dal divieto per le Regioni, dettato dall’art. 120, comma primo, di adottare provvedimenti in grado di limitare l’esercizio del diritto al lavoro, inteso sia come lavoro subordinato che come lavoro autonomo, in qualunque parte del territorio nazionale.

Il fondamento della previsione ‒ che, anche in questo caso, costituisce espressione di valori recepiti in altrettante disposizioni costituzionali (quali: il principio di eguaglianza, di unità e indivisibilità della Repubblica, il diritto al lavoro, la libertà fondamentale di circolazione e di soggiorno e di iniziativa economica[62]) ‒ è quello di salvaguardare la dimensione nazionale del mercato del lavoro, quale necessaria condizione per lo sviluppo economico e sociale[63]. La norma, non solo opera quale limite alle competenze regionali, ma supporta anche gli interventi statali volti a rimuovere gli ostacoli ‘territoriali’ all’esercizio del diritto al lavoro[64].

Le Regioni non possono dunque prescrivere limitazioni all’attività lavorativa degli individui dettate da legami con il territorio regionale. Prescrizioni di particolari requisiti attitudinali per lo svolgimento di attività lavorative sono consentite solo se rispondenti a finalità costituzionalmente apprezzabili e riferite alla generalità dei cittadini[65]. In materia di pubblico impiego, è stato precisato che «l’accesso in condizioni di parità ai pubblici uffici può subire deroghe, con specifico riferimento al luogo di residenza dei concorrenti, quando il requisito medesimo sia ricollegabile, come mezzo al fine, all’assolvimento di servizi altrimenti non attuabili o almeno non attuabili con identico risultato»[66].

Ha suscitato un certo dibattito la norma di cui all’art 35, comma 5-ter, del decreto legislativo n. 165 del 2001, secondo cui: «[…] Il principio della parità di condizioni per l’accesso ai pubblici uffici è garantito, mediante specifiche disposizioni del bando, con riferimento al luogo di residenza dei concorrenti, quando tale requisito sia strumentale all’assolvimento di servizi altrimenti non attuabili o almeno non attuabili con identico risultato». Tale previsione, introdotta con la riforma del lavoro pubblico del 2009 (e segnatamente, dall’art. 51 del d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150), per quanto rubricata «territorializzazione delle procedure concorsuali», non si occupa di decentramento delle procedure concorsuali, bensì appare volta a limitare, sulla base della provenienza territoriale, il numero dei candidati che aspirano a partecipare a determinati concorsi.

Non è facile individuare quali siano le ipotesi in cui la prossimità territoriale (di per sé fattore non rappresentativo di capacità ed attitudini acquisite) possa legittimamente prevalere sul principio di meritocratico, senza ridursi ad una arbitraria discriminazione. In teoria, ciò potrebbe accadere solo nella misura in cui il requisito territoriale sia assolutamente necessario per l’assolvimento delle mansioni[67]. La giurisprudenza amministrativa ha opportunamente ascritto alla disposizione un significato conforme a Costituzione[68], alla cui stregua il requisito della residenza non può essere richiesto al momento della pubblicazione del bando, ma soltanto in un momento successivo (imponendo, ad esempio, al candidato individuato vincitore di trasferire la propria residenza)[69].

Al divieto costituzionale si sovrappone il principio di libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione assicurato dall’art. 45 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, il quale «implica l’abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro»[70].

 

2.4. Le discriminazioni fra imprese operate sulla base di un mero elemento di localizzazione territoriale

Dall’art. 120, comma primo, discende per i legislatori regionali anche il divieto di frapporre barriere di carattere ‘protezionistico’ alla prestazione, nel proprio ambito territoriale, di servizi di carattere imprenditoriale da parte di operatori economici provenienti da altre aree e privi di legami stabili con il territorio regionale, che si traducono in una limitazione della libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.) e determinano una compartimentazione regionale del mercato.

La Corte ha più volte dichiarato illegittime le discriminazioni fra imprese operate sulla base di un mero elemento di localizzazione territoriale[71].

In particolare, la giurisprudenza costituzionale ‒ con riguardo a svariate fattispecie normative, in materia di: fondi di garanzia[72]; marchi collettivi di qualità[73]; procedure di aggiudicazione[74]; concessione di contributi[75]; criteri per rilascio di autorizzazioni[76]; iscrizione in un ruolo regionale per l’esercizio di attività economiche[77] ‒ ha ritenuto trattarsi di misure prive di giustificazioni di natura tecnica o legate all’efficienza dell’azione amministrativa.

Norme siffatte violano anche l’art. 117, primo comma, Cost., per contrasto con i vincoli derivanti dall’ordinamento europeo in tema di diritto di stabilimento (articoli 49 e 54 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea), di tutela della concorrenza, ovvero configurando una misura di effetto equivalente alla restrizione all’importazione (vietata dagli articoli 34 e 35 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea)[78].

 

PARTE II 

  1. Potere sostitutivo e modelli di regionalismo: profili storico-ricostruttivi

La Costituzione del 1948 non disciplinava l’esercizio di poteri sostitutivi dello Stato nei confronti delle Regioni, salvo quanto previsto da alcune norme di attuazione degli Statuti speciali[79].

Tale lacuna era coerente con il modello di regionalismo originariamente prefigurato dal costituente[80], informato ad una rigida separazione delle competenze per ambiti predefiniti: la potestà legislativa era condivisa da Stato e Regioni soltanto in alcune materie concorrenti; nelle stesse materie, in forza del principio di c.d. «parallelismo», le funzioni amministrative spettavano alle Regioni (le quali le esercitavano, normalmente, per mezzo delle province e dei comuni, mediante delega o avvalendosi dei rispettivi uffici); nelle altre materie, il legislatore statale poteva attribuire la titolarità di funzioni amministrative, di interesse esclusivamente locale, a Province e Comuni.

Cionondimeno, la garanzia della sfera di attribuzione del potere di ciascun ente territoriale coesisteva con svariati meccanismi di tutela delle esigenze unitarie.

Sul piano amministrativo, la mancanza di poteri sostitutivi era bilanciata da strumenti di controllo preventivo, sia sugli atti ‒ ai sensi degli articoli 125 (per le Regioni) e 130 (per gli Enti locali), i quali prevedevano il controllo di legittimità in forma decentrata su tutti gli atti e, nei casi determinati della legge, anche il controllo di merito mediante richiesta motivata agli enti deliberanti di riesaminare la loro deliberazione ‒ sia sugli organi (art. 126).

La potestà legislativa regionale era sottoposta a limiti, di legittimità (quello dei principi fondamentali stabiliti con legge statale) e di merito (per cui le leggi regionali non potevano essere in contrasto con l’«interesse nazionale» e con quello di altre Regioni). Ne derivava che: in via preventiva, in caso di mancato esercizio delle funzioni legislative ad esse attribuite ai sensi dell’art. 117, comma 1, Cost., la fonte statale poteva porre, accanto alle norme di principio, anche norme di dettaglio, destinate a restare in vigore fino a quando le Regioni non avessero esercitato le loro competenze; sempre in via preventiva, ogni legge approvata dal Consiglio regionale doveva essere comunicata al Commissario di Governo che, salvo il caso di apposizione da parte del Governo, doveva vistarla nel termine di trenta giorni dalla comunicazione (art. 127); in via successiva, il controllo statale era assicurato dalla possibilità per lo Stato di contestare la legittimità costituzionale di qualsivoglia provvedimento regionale attraverso il ricorso alla via contenziosa innanzi al giudice costituzionale, o di promuovere questione di merito per contrasto di interessi davanti alle Camere.

Va rimarcato che i principali meccanismi giuridici di coordinamento statale ‒ e segnatamente: la funzione di indirizzo e coordinamento[81]; l’estrazione dei principi fondamentali delle materie concorrenti dall’insieme delle norme statali già vigenti senza bisogno di attendere l’approvazione di leggi-quadro; la normativa di dettaglio statale «cedevole»; la trasformazione dell’interesse nazionale, da parametro di un controllo politico di merito sulle leggi regionali, in limite di legittimità[82] ‒ non erano espressamente menzionati nel testo costituzionale.

A compensazione del «ritaglio» di competenze regionali in favore dello Stato, operato in modo sempre più vistoso nei «campi di attività mista», in cui cioè le rispettive competenze statali e regionali concorrevano o si intersecavano, la Corte costituzionale aveva delineato il principio di leale collaborazione, ricollegandolo all’art. 5 Cost., quale correttivo del rigido modello della separazione, in grado di coordinare l’azione dei diversi enti, dare coerenza al sistema e prevenire il contenzioso[83].

L’espansione, per via legislativa ordinaria, dei poteri sostitutivi dello Stato nei confronti delle Regioni ‒ dissonanti rispetto all’esclusività delle competenze amministrative, come attribuite nell’impianto originario dell’art. 118, comma 1, Cost. ‒ aveva costituito anch’essa un indice della progressiva affermazione del c.d. «regionalismo cooperativo»[84]. Sin dall’attuazione della riforma regionale si era assistito, infatti, alla continua introduzione di previsioni sostitutive, a carattere generale o settoriale, che consentivano allo Stato di sostituirsi nell’esercizio delle funzioni attribuite alle Regioni: inizialmente, con riferimento alle sole funzioni amministrative ‘delegate’ (ipotesi che poteva forse considerarsi connaturata alla peculiare relazione giuridica basata sulla delega[85]); e, successivamente, anche con riguardo all’esercizio di funzioni amministrative ‘proprie’[86].

Oltre alle sostituzioni dello Stato nei confronti di Regioni ed Enti locali, la legislazione statale e regionale aveva previsto anche ipotesi di interventi sostitutivi delle Regioni nei confronti degli Enti locali, nei casi di mancato esercizio delle funzioni amministrative ad essi attribuite[87].

La Corte costituzionale, a partire dalla sentenza n. 177 del 18 febbraio 1988, aveva individuato le condizioni in presenza delle quali lo Stato poteva sostituirsi alle Regioni nell’esercizio delle funzioni amministrative ad esse attribuite. Segnatamente era necessario che: lo Stato disponesse di un potere di vigilanza nei confronti di attività regionali prive di discrezionalità nell’an, ora perché sottoposte a termini perentori, ora perché l’inerzia della Regione avrebbe messo in serio pericolo l’esercizio di funzioni fondamentali o la cura di interessi affidati alla responsabilità finale dello Stato; il potere di sostituzione fosse strettamente strumentale all’adempimento di obblighi o al perseguimento di interessi tutelati come limiti all’autonomia regionale; questo potere fosse esercitato da un’autorità di Governo, nello specifico senso definito dall’art. 92 Cost.; l’esercizio del controllo sostitutivo fosse assistito da garanzie, sostanziali e procedurali, rispondenti al principio di leale cooperazione[88].

Il sistema appena descritto è stato innovato dalla modifica del Titolo V, Parte II, della Costituzione, che ha inciso profondamente sull’assetto dei rapporti tra lo Stato, le Regioni e gli altri Enti locali.

Gli enti territoriali hanno visto ampliata la propria sfera di autonomia: sul piano legislativo, con il riconoscimento in capo alle Regioni di una potestà legislativa generale residuale, che si affianca a quella concorrente (a sua volta ridefinita e ampliata), unitamente all’enumerazione delle materie sulle quali lo Stato esercita una potestà legislativa esclusiva; sul piano amministrativo, la titolarità delle funzioni non è più legata al ‘parallelismo’ con le competenze legislative, bensì scandita da criteri dinamici di allocazione, quali quelli di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza (art. 118 Cost.); la potestà regolamentare è consentita allo Stato solo nelle materie di sua esclusiva pertinenza, salva delega alle regioni (art. 117, comma 6, Cost.).

La riforma del 2001 ha altresì cancellato i riferimenti all’«interesse nazionale», soppresso i meccanismi di controllo preventivo sulla legittimità delle leggi regionali e degli atti amministrativi di tutti gli enti territoriali (permanendo invece il controllo sugli organi), nonché rafforzato l’autonomia finanziaria degli enti territoriali, sia pure nel rispetto dei principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario[89].

Nel modello regionalistico delineato dal nuovo Titolo V ‒ in cui «gli enti costitutivi della Repubblica» (art. 114 Cost.), dotati di pari dignità istituzionale, sono chiamati ad agire per competenze interconnesse, informate alla logica della sussidiarietà e della leale collaborazione, e non separate ‒ l’ampliamento della sfera costituzionalmente riconosciuta alle autonomie territoriali è stata controbilanciata da nuovi strumenti di raccordo cooperativo[90] e da poteri statali di ingerenza, volti a presidiare le istanze unitarie rispetto alle ragioni della differenziazione (va tralasciato, in questa sede, l’esame degli altri meccanismi di ‘ri-accentramento’[91]).

In particolare, due disposizioni prevedono il potere sostitutivo dello Stato nei confronti degli altri Enti territoriali: l’art. 117, comma 5, Cost., e l’art. 120, comma 2, Cost.

La prima disposizione prevede il potere sostitutivo dello Stato in caso di inadempienza delle Regioni nell’attuazione ed esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea.

La seconda disposizione contempla invece il potere del Governo di sostituirsi agli organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni, nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria, oppure di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedano la tutela dell’unità giuridica ed economica e, in particolare, la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini dei governi territoriali, secondo la procedura stabilita da una legge dello Stato, nel rispetto dei principi di sussidiarietà e di leale cooperazione[92].

Il potere sostitutivo ha alimentato un nutrito contenzioso e un articolato dibattito dottrinale[93], riguardante soprattutto: la natura e l’ampiezza del potere statale; i presupposti sostanziali e procedurali di intervento; la possibilità di dare corso ad una sostituzione non solo amministrativa ma anche legislativa; i rapporti tra l’art. 120, secondo comma, e l’art. 117, quinto comma, Cost.

                                                                                                              

3.1. Tipologie di poteri sostituivi: straordinari e ordinari

Il ‘potere sostitutivo’ designa non un singolo istituto, ma una categoria in cui possono farsi rientrare una pluralità di dispositivi surrogatori.

Le ipotesi previste dagli artt. 117, comma 5, e 120, comma 2, Cost., non esauriscano il novero dei poteri sostitutivi, potendo il legislatore ordinario contemplare fattispecie ulteriori rispetto a quelli ricavabili dalle norme costituzionali.

La tesi della tipicità[94] ‒ ovvero dell’esclusiva ammissibilità dei poteri sostitutivi espressamente previsti dalla Costituzione ‒ è stata confutata dalla giurisprudenza costituzionale, a partire dalle sentenze n. 313 del 2003 e n. 43 del 2004, secondo cui l’art. 120, comma 2, Cost. «prevede solo un potere sostitutivo straordinario in capo al Governo, da esercitarsi sulla base dei presupposti e per la tutela degli interessi ivi esplicitamente indicati, mentre lascia impregiudicata l’ammissibilità e la disciplina di altri casi di interventi sostitutivi, configurabili dalla legislazione di settore»[95].

Dalla norma costituzionale non discende neppure una riserva a favore della legge statale, ben potendo anche la legge regionale, in materie di propria competenza, prevedere poteri sostitutivi in capo ad organi regionali, nel caso di inerzia o di inadempimento da parte dell’ente locale competente.

Il potere sostitutivo statale, previsto dall’art. 120, comma 2, Cost., è precipuamente connotato dal suo carattere «aggiuntivo» ‒ rispetto ai poteri surrogatori denominati ‘ordinari’, in quanto traenti fonte dalla legge ordinaria ‒ e «straordinario», in relazione ai suoi presupposti di attivazione[96].

Il primo elemento distintivo riguarda il fondamento positivo.

I poteri straordinari prescindono da una specifica previsione legislativa (se non per individuare le modalità di esercizio della surrogazione), in quanto è la stessa disposizione costituzionale a fondare la competenza speciale del Governo di sostituirsi agli enti territoriali.

I poteri ordinari richiedono invece l’intermediazione di una legge che ne definisca gli specifici presupposti sostanziali e procedurali.

Diversa è poi la ratio.

I presupposti del potere straordinario di cui all’art. 120, comma 2 rimandano a «emergenze istituzionali di particolare gravità», in funzione della tutela di interessi essenziali non frazionabili – segnatamente: il rispetto degli obblighi internazionali e comunitari, la salvaguardia dell’incolumità e della sicurezza pubblica, la tutela in tutto il territorio nazionale dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali – di cui deve farsi carico lo Stato quale garante delle «istanze unitarie» della Repubblica, anche rispetto agli altri enti che la compongono e anche al di fuori dei titoli espressamente indicati nelle norme costituzionali[97]. L’art. 5 Cost. assegna sì alla Repubblica il compito di promuovere le autonomie locali nel rispetto delle esigenze dell’autonomia e del decentramento, ma a condizione di preservarne la natura «una» e «indivisibile».

Nel sistema istituzionale «di più largo decentramento di funzioni» delineato dalla riforma del 2001, l’art. 120, comma secondo, contiene un dispositivo di garanzia azionabile a fronte del fallimento dei processi di autocorrezione politica delle autonomie territoriali, consentendo, per determinate materie e nel rispetto del principio di leale collaborazione, la sostituzione transitoria degli organi democraticamente eletti[98].

La scomparsa dell’interesse nazionale quale limite di legittimità alle competenze legislative ed amministrative delle Regioni[99], non ha eliso la spinta verso il ‘centro’ fisiologicamente esercitata, anche negli ordinamenti federali più evoluti[100], dalle esigenze insuscettibili di frazionamento territoriale, che continuano nel nostro sistema giuridico ad essere presidiate dal principio unitario di cui all’art. 5 Cost. Il potere sostitutivo, in tal senso, assume quindi i connotati di uno strumento di chiusura del sistema.

I poteri di sostituzione ordinaria costituiscono invece un correttivo al meccanismo di allocazione delle funzioni amministrative, volto a scongiurare un eccessivo «ritaglio» di competenze all’interno di un determinato ambito di materia.

La Costituzione (all’art. 118), come è noto, individua le cause (l’esigenza di esercizio unitario) e i criteri (sussidiarietà adeguatezza e differenziazione) del possibile spostamento di funzioni amministrative dal livello più prossimo a quello più elevato. L’esigenza connessa all’esercizio unitario delle funzioni non implica necessariamente il trasferimento delle funzioni amministrative al livello di governo più comprensivo. In alcuni casi, può infatti apparire meno invasiva del principio autonomistico la scelta di lasciare comunque la cura di determinati interessi pubblici ai livelli inferiori, ma assegnando al livello di governo superiore l’esercizio del potere sostitutivo qualora il soggetto meno comprensivo non sia in grado di perseguirli. Tale assetto deve preferirsi quando il livello di governo inferiore appaia in astratto adeguato ma la natura degli interessi pubblici coinvolti consigli comunque la possibilità di avocazione da parte dell’ente di governo superiore. Nel caso invece di accertata inidoneità organizzativa in relazione alle dimensioni territoriali del soggetto meno comprensivo, dovrebbe preferirsi il trasferimento della funzione al livello di governo superiore[101].

La similitudine tecnica degli interventi surrogatori straordinari e ordinari ‒ in quanto entrambi dispositivi che derogano al normale riparto delle competenze ‒ giustifica tratti disciplinari unitari, a conferma della loro comune appartenenza categoriale. Secondo la Corte, anche nei casi di potere sostitutivo ordinario, il legislatore statale è tenuto a rispettare i principi desumibili dall’art. 120 Cost., comma secondo. In particolare, i poteri sostitutivi: a) devono essere previsti e disciplinati dalla legge, che ne deve definire i presupposti sostanziali e procedurali, in ossequio al principio di legalità; b) devono essere attivati solo in caso di accertata inerzia della Regione o dell’ente locale sostituito; c) devono riguardare solo atti o attività privi di discrezionalità nell’an, la cui obbligatorietà sia il riflesso degli interessi unitari alla cui salvaguardia provvede l’intervento sostitutivo; d) devono essere affidati a organi di Governo; e) devono rispettare il principio di leale collaborazione all’interno di un procedimento nel quale l’ente sostituito possa far valere le proprie ragioni; f) devono conformarsi al principio di sussidiarietà[102].

Quanto all’individuazione dell’esatto ambito di applicabilità dell’art. 120, comma secondo, Cost. (e della disciplina attuativa di cui all’art. 8 della legge n. 131 del 2003), era stato avanzato qualche dubbio rispetto alle Regioni a Statuto speciale e alle Province Autonome di Trento e di Bolzano, avendo tali disposizioni disciplinato gli interventi sostitutivi secondo modalità ritenute peggiorative rispetto alle tipologie previste dai rispettivi Statuti, con conseguente inoperatività della clausola di favore contenuta nell’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 (secondo cui, le nuove norme sono applicabili anche alle Regioni a Statuto speciale «per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite»).

Sul punto, la Corte costituzionale ha, tuttavia, chiarito che l’art. 120, comma secondo, trova applicazione nei confronti delle autonomie speciali, anche se il suo esercizio resta comunque subordinato al concreto trasferimento delle funzioni ulteriori attratte dal nuovo Titolo V, da attuarsi secondo le procedure previste dall’art. 11 della legge n. 131 del 2003, ossia con norme di attuazione degli Statuti speciali adottate su proposta delle commissioni paritetiche. Ne consegue che, fino a quando tali norme di attuazione non saranno state approvate, la disciplina dell’art. 120, comma 2, Cost. resterà priva di efficacia, e non sarà idonea a produrre alcuna violazione delle loro attribuzioni costituzionali. Riguardo alle competenze già disciplinate dagli Statuti speciali, continueranno nel frattempo ad operare le specifiche tipologie di potere sostitutivo in essi (o nelle norme di attuazione) disciplinate[103].

 

3.2. La natura giuridica e l’inquadramento sistematico dei poteri sostitutivi

È stata sostenuta, da taluni, la natura «politica» dei poteri sostitutivi, in considerazione dell’ampiezza dei presupposti d’intervento statale e della facoltatività del loro esercizio[104]. Si è valorizzato, nella stessa direzione, anche il fatto che, alla luce del testo costituzionale, il potere sostitutivo si esplicherebbe non su atti o attività omesse da parte di organi degli enti territoriali, ma sugli organi dei predetti enti, i quali verrebbero privati, sia pure temporaneamente, della titolarità dei loro uffici, ed estromessi dal complesso delle loro funzioni.

La questione rileva in ordine al regime di impugnabilità degli atti amministrativi posti in essere in sostituzione del soggetto inerte. Solo per la funzione amministrativa, infatti, la qualifica di atto ‘politico’ è suscettibile di incidere sul regime delle tutele. Il fondamento positivo della figura giuridica è attualmente contenuto nell’art. 7 del c.p.a. (che recepisce analoga disposizione risalente all’art. 31 del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato, di cui al regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054), secondo cui «non sono impugnabili gli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico».

La sostituzione legislativa resta invece pur sempre soggetta al regime della legge ordinaria e degli atti ad essa equiparati.

La nozione di atto politico è tra le più dibattute e sfuggenti del diritto pubblico. La giurisprudenza amministrativa, progressivamente, ne ha ristretto il novero ai soli «rapporti internazionali» e agli «atti costituzionali», riconducendo per il resto la quasi totalità delle determinazioni governative agli «atti di alta amministrazione», assoggettati al regime generale di impugnazione. L’interpretazione conforme dell’art. 7 c.p.a. si basa sull’art. 113 Cost., il quale riferisce la garanzia giurisdizionale agli «atti della pubblica amministrazione», senza distinguere tra funzione di governo e funzione amministrativa in senso stretto, nonché sul principio di origine convenzionale (art. 6 della CEDU) della «tutela piena ed effettiva» (art. 1 c.p.a.).

Sul piano della ricostruzione teorica della figura, la giurisprudenza talvolta sembra ispirarsi alla tesi del «movente», quando afferma che deve trattarsi di atto emanato dal governo nell’esercizio di un potere politico riguardante «la costituzione, la salvaguardia o il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione». Altre volte, invece, l’atto politico viene individuato tramite la compresenza di due requisiti, uno soggettivo e uno oggettivo: sotto il primo aspetto, deve trattarsi di «atto emanato dal governo, e cioè dall’autorità cui compete, altresì, la funzione d’indirizzo politico e di direzione al massimo livello della cosa pubblica»; sotto il profilo oggettivo «deve trattarsi d’un atto o d’un provvedimento emanato nell’esercizio di un potere politico, anziché nell’esercizio di un attività meramente amministrativa», e «deve riguardare la costituzione, la salvaguardia o il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione»[105].

Secondo la preferibile tesi «negativa», non è possibile isolare (in termini positivi) una categoria di atti del potere esecutivo che, in virtù delle caratteristiche tipologiche intrinseche, goda di una forma di immunità giurisdizionale. Gli «atti politici» contraddistinguono, in realtà, quei limitati casi in cui il sindacato giurisdizionale non può esplicarsi per mancanza di vincoli giuridici che possano farsi valere. Ciò avviene con riferimento a quegli atti politico-costituzionali che, in quanto del tutto liberi nella scelta dei fini, sono privi di diretta idoneità lesiva nei confronti delle sfere soggettive individuali. Difettano, quindi, le stesse condizioni dell’azione processuale, quali la legittimazione a ricorrere (per mancanza di una posizione sostanziale incisa) e l’interesse personale diretto e attuale all’impugnazione. La nozione di atto politico, in definitiva, va contrassegnato in termini puramente negativi, in ragione della mancata predeterminazione normativa della fattispecie[106].

In coerenza con il quadro ricostruttivo appena tratteggiato, deve ritenersi che la sostituzione amministrativa appartenga al novero degli atti di «alta amministrazione», ascrivibili alla direzione politica dell’amministrazione (in forma di atti generali o puntuali), ma pur sempre soggiacenti al principio di legalità e al regime giuridico dei provvedimenti amministrativi. L’elevata discrezionalità dell’organo politico si riverbera al più sull’intensità del sindacato giurisdizionale[107].

Gli argomenti addotti in senso contrario appaiono del resto del tutto superabili.

La discrezionalità (anche nell’an) del potere sostitutivo è, di per sé, pienamente compatibile con la funzione amministrativa. Peraltro, a fronte dell’inadempimento (da parte delle Regioni o di altri Enti locali) di atti amministrativi obbligatori per legge, l’esercizio del potere sostitutivo deve ritenersi esso stesso obbligatorio. Ritenere che lo Stato sia libero di decidere se intervenire o meno in base a considerazioni di carattere prevalentemente politico e non giuridico, equivarrebbe a dire che una medesima previsione normativa, vincolante per le Regioni e gli Enti locali, perda tale qualità nel momento in cui scattano i presupposti per l’esercizio del potere sostitutivo. In tali casi, il potere sostitutivo, in quanto espressivo di una funzione di controllo in senso tecnico, non è libero nei canoni di giudizio, come invece lo sono i controlli politico-costituzionali esercitati dalle due assemblee parlamentari in ordine a singoli atti dell’amministrazione (mediante interrogazioni, interpellanze, mozioni, inchieste e petizioni). Solo nei casi di sostituzione legislativa, l’intervento dello Stato non è mai vincolato, e l’assenza di vincoli concerne non solo il quando e il come, ma anche l’an, essendo rimesso integralmente alla sua libera determinazione la scelta di agire o di non agire.

Anche la pretesa distinzione tra sostituzione dell’atto e sostituzione dell’organo non pare cogliere nel segno. In primo luogo, anche i controlli su persone (e non su atti) costituiscono espressione di una funzione giuridica riconducibile alla categoria degli atti di alta amministrazione. In ogni caso, come si chiarirà nel prosieguo, il potere sostitutivo non incide sulla titolarità della competenza, che resta in capo al suo originario titolare, ma esclusivamente sul suo esercizio, in relazione al compimento di singoli atti omessi dal sostituito (il potere sostitutivo esclude temporaneamente la legitimatio ad agendum di un organo, ma non la legitimatio ad officium [108]). Lo stesso art. 8, comma 1, della legge n. 131 del 2003, di attuazione dell’art. 120, comma 2, Cost., individua l’oggetto sul quale si esplica l’intervento sostitutivo del Governo nei «provvedimenti dovuti o necessari», omessi da parte delle Regioni e degli Enti locali, e non nei loro organi. Nella misura in cui l’art. 120, comma 2, Cost. fosse interpretato nel senso di consentire al Governo di intervenire direttamente sugli organi delle Regioni che non esercitano le funzioni ad essi attribuite, si affievolirebbe peraltro la distinzione con l’art. 126 Cost.

Alla luce di quanto appena osservato, il provvedimento statale, adottato in via sostitutiva, potrà essere impugnato davanti al giudice amministrativo, da eventuali destinatari che lamentino una lesione di situazioni giuridiche soggettive tutelate dall’ordinamento (fermo restando che, nei confronti dell’ente inadempiente, sarà esperibile anche l’azione avverso il silenzio). La singola Regione che ritenesse illegittima l’iniziativa statale sostitutiva per difetto dei relativi presupposti potrebbe, a tutela della propria autonomia, attivare tutti i rimedi giurisdizionali adeguati, ivi compreso il conflitto di attribuzione[109].

Sul piano della sua ricostruzione sistematica, il potere sostitutivo, di tipo amministrativo, analizzato nei suoi requisiti logici (fine, struttura e oggetto), appare riconducibile agli istituti giuridici di riesame o revisione di attività altrui, informati all’esigenza organizzatoria di coordinare le attività poste in essere dai diversi soggetti pubblici che compongono i sistemi istituzionali complessi.

A differenza dei comuni controlli amministrativi (la cui estensione e varietà tipologica li rende irriducibili ad un’unica forma tipica[110]), lo strumento in esame non è volto a correggere una mera illegittimità amministrativa o a tutelare dei diritti-interessi di soggetti terzi, bensì è posto a salvaguardia di interessi unitari di cui risponde in via ultimativa lo Stato[111]. Il potere sostitutivo è permeato da specifiche esigenze costituzionali, diverse da quelle che si fanno valere nei settori dell’ordinamento amministrativo, che non lo rendono interamente riconducibile al tipo comunamente denominato in termini di «controllo sostitutivo» di atti, il quale suppone tra controllante e controllato una posizione di gerarchia e sovraordinazione, che invece ripugna nell’ambito dei rapporti tra Stato e autonomie territoriali (sulla base di quanto previsto dall’art. 114 Cost.[112]). Rilevano, in tal senso, le specifiche garanzie procedurali, l’elasticità dei presupposti di attivazione (estesi anche ai casi di emergenza o urgenza), nonché i caratteri strutturali di eccezionalità, di delimitazione nel tempo e dell’oggetto su basi di proporzionalità. Difetta altresì l’irretrattabilità tipica dell’atto esplicativo del controllo.

L’indagine sulla natura giuridica costituisce la premessa necessaria per chiarire i termini della «relazione sostituiva», i quali saranno approfonditi nel successivo paragrafo 3.10.

 

3.3. I presupposti dell’intervento statale

La disciplina dei presupposti dell’intervento sostitutivo ‒ per quanto formulata attraverso concetti giuridici indeterminati ‒ risponde ad una esigenza di tassatività tipologica. In quanto derogano alle regole che ripartiscono le competenze legislative e amministrative, i casi nei quali è legittimo il ricorso al potere sostitutivo devono ritenersi di stretta interpretazione[113].

a) In primo luogo, viene in rilievo «il mancato rispetto di norme e trattati internazionali», da parte degli organi delle Regioni e degli altri Enti locali[114].

La clausola pare sovrapporsi a quella contenuta nell’art. 117, quinto comma, che rimette alle «norme di procedura stabilite da legge dello Stato» la disciplina delle «modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza» di Regioni e Province autonome in ordine «all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea».

Secondo una tesi, l’ipotesi prevista dall’art. 120, secondo comma, Cost. differirebbe da quella prevista nell’art. 117, quinto comma, Cost., in termini di ambito applicativo, oggettivo e soggettivo: la prima darebbe luogo ad una sostituzione operante sul solo piano amministrativo e nei confronti di tutti gli Enti territoriali; la seconda opererebbe sul piano legislativo e quindi nei confronti soltanto di Regioni e Province autonome[115]. 

Tale impostazione non appare percorribile, in quanto è oramai riconosciuto, come si chiarirà più diffusamente nel prosieguo, che anche l’art. 120, secondo comma, ammette casi di sostituzione normativa.

È dunque preferibile distinguere le due previsioni sul piano funzionale.

L’art. 117, comma 5, configura un potere di intervento «suppletivo», finalizzato a garantire che ciascuna Regione e Provincia autonoma concorra (negli ambiti di rispettiva competenza) ‒ nella fase ‘discendente’ di adeguamento ‒ alla realizzazione degli obblighi derivanti dalla partecipazione dello Stato all’ordinamento giuridico internazionale e sovranazionale.

Svariati ambiti del quadro normativo nazionale, ad esempio in materia ambientale, costituiscono attuazione di norme europee. Il coinvolgimento delle Regioni nella fase discendente di attuazione espone lo Stato al rischio di una diretta responsabilità circa il mancato rispetto dei relativi obblighi, con imputazione a suo carico degli eventuali oneri derivanti da contenziosi europei, salvo l’esercizio del diritto di rivalsa.

In attuazione dell’art. 117, quinto comma, Cost., il combinato disposto degli articoli 11, comma 8, e 16, comma 3 della legge 4 febbraio 2005, n. 11 ‒ confluiti poi negli articoli 40, comma 3, e 41, della legge 24 dicembre 2012, n. 234[116] ‒ ha, da un lato, limitato il rimedio sostitutivo alla sola ed eventuale «inerzia dei suddetti enti nel dare attuazione a norme comunitarie»; dall’altro, ha stabilito che «gli atti normativi statali adottati si applicano, per le regioni e le province autonome nelle quali non sia ancora in vigore la propria normativa di attuazione, a decorrere dalla scadenza del termine stabilito per l’attuazione della rispettiva normativa comunitaria, perdono comunque efficacia dalla data di entrata in vigore della normativa di attuazione di ciascuna regione e provincia autonoma e recano l’esplicita indicazione della natura sostitutiva del potere esercitato e del carattere cedevole delle disposizioni in essi contenute». Le norme statali, dunque, non entrano in vigore immediatamente, ma solo alla scadenza del termine stabilito per l’attuazione della rispettiva normativa comunitaria e nei confronti dei soli enti inadempienti, scongiurando così il rischio di una procedura d’infrazione ai danni dello Stato[117].

L’art. 117, comma quinto, non obbliga lo Stato a seguire le procedure collaborative che devono essere necessariamente previste dalla legge di attuazione dell’art. 120, comma secondo. Cionondimeno, in ossequio all’autonomia legislativa regionale, l’art. 11, comma 8, prevede che gli atti normativi statali «sono sottoposti al preventivo esame della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano».

L’art. 120, comma 2, assolve invece, nel medesimo ambito di materia, all’esigenza ‘straordinaria’ di scongiurare che anche l’inadempienza occasionale e imprevista di organi regionali ‒ realizzatasi cioè al di fuori dei prescritti percorsi di adeguamento al diritto sovranazionale ‒ comprometta l’obbligo di rispettare i vincoli europei e internazionali ai quali l’intero ordinamento deve conformarsi (ai sensi del primo comma dell’art. 117 cost.). La disposizione, non a caso, sanziona, in termini più ampi, la violazione del diritto europeo, ricomprendendo, accanto all’ipotesi in cui gli obblighi internazionali e sovranazionali restino inadempiuti (mera inerzia), anche quella dell’inadempimento qualitativo non solo delle Regioni, ma anche degli Enti locali.

Appare coerente con la predetta ricostruzione anche l’ulteriore elemento testuale di distinzione tra le due previsioni: l’art. 120, secondo comma, individua nel solo «Governo» il soggetto incaricato della sostituzione; l’art. 117, comma quinto, disciplina invece l’esercizio del potere sostitutivo da parte delle Camere.

Sennonché, il legislatore ordinario sembra invece ritenere che le due disposizioni costituzionali, per quanto introdotte dallo stesso intervento di riforma del 2001, si pongano in una relazione reciproca di ‘ripetizione’ o ‘assorbimento’: il sopra menzionato art. 41 della legge 24 dicembre 2012, n. 234, ricollega, infatti, la disciplina dei poteri sostitutivi statali «[i]n relazione a quanto disposto dagli articoli 117, quinto comma, e 120, secondo comma, della Costituzione», come se avessero uguale contenuto precettivo.

b) La seconda clausola riguarda «il pericolo grave per la sicurezza e l’incolumità pubblica», locuzioni che richiamano emergenze naturali, ambientali ovvero fenomeni di allarmante criminalità[118].

È noto che, per fare fronte a situazioni non fronteggiabili attraverso procedimenti tipizzati, l’ordinamento conferisce a determinate autorità poteri di ordinanza a contenuto indeterminato, non prestabilito dalla legge ma rimesso alla valutazione discrezionale dell’organo amministrativo investito della gestione emergenziale, con la possibilità di derogare, in presenza di determinati presupposti, alle norme primarie[119].

Potere sostitutivo e potere emergenziale ‒ pur avendo in comune alcune caratteristiche, in termini di proporzionalità, temporaneità, leale cooperazione (come si vedrà anche nel paragrafo 3.4.) ‒ vanno distinti.

Diverso è, in primo luogo, il fondamento costituzionale. Le disposizioni sui poteri di ordinanza e di coordinamento delle amministrazioni statali e locali previsti in capo al Presidente del Consiglio dei ministri ‒ prima dettate dall’art. 5 della legge 24 febbraio 1992 n. 225, ora confluito nel codice della protezione civile del 2018[120] ‒ vanno ricondotte alla potestà legislativa concorrente in materia di «protezione civile» (117, comma terzo, Cost.) e non all’art. 120, comma 2, Cost[121].

Sul piano funzionale, inoltre, il potere emergenziale di ordinanza presuppone il verificarsi di contingenze non interamente prevedibili (calamità naturali, come terremoti e inondazioni), le quali prescindono da un soggetto pubblico che abbia contribuito a determinarle. Il potere sostitutivo costituisce, invece, una valvola di chiusura volta a fronteggiare gli eventuali ‘fallimenti’ del pluralismo istituzionale. Gli interventi sostitutivi, nell’ambito dei rapporti di diritto pubblico, attenuano la rigidità della regola di riparto delle attribuzioni spettanti ai diversi livelli di governo, quando l’inadempimento dell’ente titolare di una determinata funzione rischi di compromettere interessi pubblici essenziali e infrazionabili.

Anche la formula organizzatoria è diversa. Nel sistema della protezione civile, la fase operativa è preceduta da un procedimento che accerta e dichiara lo stato di emergenza[122], deliberato dal Consiglio dei ministri, il quale viene poi gestito dalla Protezione civile mediante le ordinanze extra ordinem (oppure da commissari delegati). Le misure adottate dagli organi dell’amministrazione straordinaria non sono manifestazioni di controllo sostitutivo, bensì di un potere di direzione e coordinamento che si ‘affianca’ alle amministrazioni interessate, senza che queste ultime vengano esautorate[123].

Su queste basi, il concreto spazio operativo del potere sostitutivo dello Stato, nei casi di «pericolo grave per la sicurezza e l’incolumità pubblica», sembra dunque alquanto ristretto e, per di più, limitato al versante amministrativo. Sul piano legislativo, a fronte delle medesime emergenze, lo Stato può infatti attivare la propria potestà legislativa esclusiva in materie di «ordine pubblico e sicurezza», ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera h), così come quella concorrente in materia di «tutela della salute»[124].

c) Viene poi in rilievo «la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica».

Si tratta della previsione ‒ la cui formulazione riprende la diposizione della Costituzione tedesca che consente alla Federazione di legiferare in luogo dei Länder, al ricorrere dei presupposti indicati dall’art. 72, 2 comma, sia pure differenziandosene quanto a funzioni e presupposti[125] ‒ indubbiamente più problematica.

Quanto alla tutela dell’unità giuridica, va detto che il bilanciamento tra le esigenze di coesione del diritto oggettivo e le istanze di differenziazione territoriale è, innanzitutto, affidato alle competenze legislative esclusive (soprattutto quelle c.d. trasversali) dello Stato, nonché ai principi fondamentali dallo stesso dettati nelle materie di competenza concorrente.

Anche la garanzia dell’unità economica è assicurata, sul piano legislativo, dalla potestà legislativa esclusiva dello Stato nelle materie della «moneta, tutela del risparmio e dei mercati finanziari; tutela della concorrenza, sistema valutario, sistema tributario e contabile dello Stato; armonizzazione dei bilanci pubblici, perequazione delle risorse finanziarie» (art. 117, comma 2, lettera e).

Va pure aggiunto che, avverso una legge regionale idonea a ledere l’unità giuridica dell’ordinamento, lo Stato può procedere alla sua impugnazione in via principale davanti alla Corte costituzionale, ai sensi dell’art. 127 Cost.[126].

La sostituzione legislativa ‒ di cui si parlerà diffusamente nel paragrafo che segue ‒ è per le ragioni anzidette limitata a vere proprie emergenze istituzionali di cui è necessario che si faccia carico lo Stato, quale responsabile ultimo dell’unità e indivisibilità della Repubblica[127].

Sul piano amministrativo, il Governo può sostituirsi alle Regioni e agli altri Enti locali, i cui comportamenti omissivi o commissivi possano pregiudicare l’attuazione degli obiettivi indefettibili e infrazionabili individuati dallo Stato nell’esercizio della potestà legislativa nelle materie sopra indicate, ovvero per colpire inerzie in grado di alterare le potenzialità del sistema economico nazionale[128].

A specificazione della predetta tutela dell’unità giuridica ed economica, la disposizione costituzionale menziona «in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali», materia anch’essa per la quale sussiste una competenza esclusiva statale (di cui all’art. 117, comma, lettera m), volta infatti a garantire «uno standard minimo di diritti e condizioni di vita» equivalenti a tutti i consociati, quanto meno nel loro nucleo essenziale, senza distinzioni basate sul fattore territoriale[129]. In tale ambito, l’intervento sostitutivo del Governo appare dunque volto a garantire che i livelli essenziali ‒ come già predeterminati dal legislatore statale ‒ siano effettivamente attuati dalle Regioni e dagli Enti locali nell’esercizio delle funzioni amministrative di loro competenza[130].

In un precedente, la Corte costituzionale ha ritenuto che l’inerzia di una Regione nell’applicare una sentenza della Corte stessa (o la sua applicazione distorta) giustifichi il potere straordinario sostitutivo, in quanto foriera di realizzare disarmonie e scompensi tra i vari territori in relazione a decisioni che, per definizione, hanno una finalità unitaria. A sua volta, la Regione destinataria del potere sostitutivo del Governo che ritenga errata l’interpretazione data da quest’ultimo ad una pronuncia costituzionale, può, a tutela della propria autonomia, attivare i rimedi giurisdizionali ritenuti adeguati, ivi compreso il conflitto di attribuzione[131].

 

3.4. La sostituzione legislativa

Uno dei profili maggiormente dibattuti dalla dottrina ha riguardato l’ammissibilità di interventi sostitutivi dello Stato di natura legislativa nei confronti delle Regioni (gli altri enti territoriali sono infatti titolari di sole funzioni amministrative)[132]. Sulla questione la giurisprudenza costituzionale sembra essersi oramai orientata in senso positivo, come si desume, sia pure implicitamente, da diverse sentenze [133].

L’art. 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131, di attuazione alla riserva di legge contenuta nell’art. 120, comma 2, non appare univoco sul punto: pur disciplinando il procedimento secondo lo schema tipico della sostituzione amministrativa, include tra i provvedimenti sostitutivi che il Governo è legittimato ad adottare, anche i provvedimenti «normativi», senza però chiarire se di rango solo secondario o anche primario. 

Vale la pena ricordare che, al fine di sciogliere tale dubbio, il testo della legge costituzionale (recante «Modifiche alla Parte II della Costituzione»), pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 269 del 18 novembre 2005 e sottoposta a referendum confermativo in data 10 e 11 giugno 2006 con esito negativo, attribuiva il potere in esame allo Stato anziché al Governo e lo riferiva espressamente anche alle funzioni legislative[134].

I principali argomenti di segno negativo sollevati in dottrina possono essere così sintetizzati: la titolarità del potere sostitutivo è stata attribuita al Governo, anziché allo Stato, e non appare possibile che un organo non elettivo possa intervenire sulle attività di organi elettivi con competenze politiche, quali sono i Consigli regionali; l’art. 120, comma 2, Cost. individua i destinatari dell’intervento sostitutivo anche nelle Città metropolitane, Province e Comuni, enti per i quali è ammissibile soltanto una sostituzione di tipo amministrativo; i principi di sussidiarietà e di leale cooperazione, richiamati nella disposizione costituzionale, riguardano l’allocazione delle sole funzioni amministrative (ai sensi dell’art. 118 Cost.); se si ammettesse l’estensione dell’art. 120, comma 2, Cost. anche alle ipotesi di sostituzione legislativa, la norma risulterebbe (almeno in parte) una ripetizione dell’art. 117, comma 5, Cost.[135]; ove si consentisse al Governo di esercitare il potere sostitutivo anche attraverso decreti-legge o decreti legislativi, lo Stato potrebbe riappropriarsi di competenze che il nuovo Titolo V della Costituzione ha inteso affidare alle Regioni; l’impossibilità per il Governo di ricorrere, per la sostituzione, agli atti aventi forza di legge.

Si tratta di argomenti che ‒ sebbene diffusamente argomentati sul piano interpretativo e dogmatico ‒ non appaiono insuperabili.

Nella sua formulazione letterale, la norma costituzionale appare legittimare interventi del Governo finalizzati a porre rimedio, non solo alle ipotesi di mancato o scorretto esercizio di funzioni amministrative, ma anche a quelle di mancato o scorretto esercizio di funzioni legislative. Come si è visto precedentemente, alcuni dei presupposti elencati nell’art. 120 Cost. paiono comportare necessariamente un intervento statale esteso anche all’ambito normativo. L’argomento letterale basato sul riferimento al solo Governo sottovaluta l’utilizzo della decretazione d’urgenza.

La surrogazione normativa non appare affatto incompatibile con il richiamo, contenuto nell’art. 120, secondo comma, al principio di sussidiarietà: quest’ultimo, consentendo lo scorrimento delle funzioni verso l’alto al ricorrere di esigenze unitarie, secondo la giurisprudenza costituzionale può comportare la parallela attrazione della funzione legislativa[136].

Quanto alla distinzione tra l’art. 120, comma 2, e l’art. 117, comma 5, si è già detto nel paragrafo precedente.

Gli interessi infrazionabili garantiti dall’articolo 120, secondo comma, Cost., non sempre possono essere tutelati agendo sul versante amministrativo, imponendosi in molti casi decisioni di natura politica destinate a tramutarsi in un atto normativo[137]. È, del resto, fuorviante la concezione che vede nella funzione legislativa un’attività del tutto incondizionata e libera nei fini (di contro alla funzione amministrativa che sarebbe, invece, soggetta al principio di legalità), esistendo talvolta anche in capo al legislatore, statale e regionale, vincoli e obblighi di conformazione (il diritto sovranazionale ha reso recessiva la tradizionale immagine del legislatore come libero di decidere se e come intervenire con legge in una data materia).

Certamente non sottovalutato il rischio di una indebita compressione dell’autonomia regionale, tenuto conto dell’ampio margine di discrezionalità di cui gode il Governo nel valutare i presupposti della sostituzione, formulati in modo volutamente indeterminato. Tale preoccupazione, tuttavia, può essere fugata valorizzando la straordinarietà di tale strumento, da attivarsi nei soli casi di extrema ratio, a fronte di situazioni emergenziali suscettibili di compromettere interessi essenziali.

Ad escludere che il potere sostitutivo possa assurgere ad una sorta di clausola di supremazia non contemplata nel nostro ordinamento[138], stanno i seguenti limiti connaturati all’istituto in commento.

In primo luogo, il Governo può intervenire in via sostitutiva, al fine di garantire esigenze di carattere unitario, solo dopo aver esperito altri strumenti «ordinari», quali: il ricorso in via diretta dinnanzi alla Corte costituzionale per far valere l’illegittimità di una legge regionale per mancata conformazione ai principi fondamentali della legislazione statale; nelle materie concorrenti, la normativa di dettaglio cedevole[139]; la chiamata in sussidiarietà di funzioni legislative regionali.

In secondo luogo, la scelta del Governo di intervenire con poteri sostitutivi in via legislativa, deve rispettare i principi di ragionevolezza e proporzionalità.

Inoltre, l’esercizio del potere sostitutivo normativo è caratterizzato dalla necessaria temporaneità, senza la quale le Regioni verrebbero espropriate delle proprie competenze. Deve ritenersi che la normativa regionale sopravvenuta incida sulla disciplina statale preesistente in termini di sopravvenuta inefficacia, in virtù della sua intrinseca cedevolezza.

Le principali questioni attengono, a questo punto, all’individuazione dell’atto-fonte attraverso cui veicolare interventi sostitutivi di tipo legislativo nei confronti delle Regioni[140]. Su questo specifico versante, sussistono ulteriori dubbi e perplessità.

Secondo la tesi maggioritaria, va escluso che l’art. 120, comma 2, Cost. abbia implicitamente attribuito al Governo una nuova fonte di rango primario, diversa dagli altri atti aventi forza di legge già previsti e disciplinati dalla Costituzione (il decreto legislativo di cui all’art. 76 Cost. o il decreto-legge di cui all’art. 77 Cost.). Così come appare una forzatura, non consentita dal testo costituzionale, attribuire al Governo un’iniziativa legislativa riservata in ordine all’approvazione di leggi in via sostitutiva[141].

Il ricorso al decreto legislativo appare, a sua volta, non percorribile. Dovrebbe infatti ipotizzarsi una legge delega dall’oggetto generico ed indefinito, riferito a tutti i possibili casi di inadempimenti legislativi da parte delle Regioni, in tutte le materie appartenenti alla potestà legislativa concorrente e residuale.

L’utilizzo del decreto-legge pone, in primo luogo, il problema di conciliare la diversità di presupposti esistente tra la decretazione d’urgenza e il potere sostitutivo. A questo riguardo, non pare possibile che il Governo possa esercitare il potere sostitutivo mediante decreto-legge, a prescindere dal verificarsi di un caso di necessità ed urgenza (ciò che sarebbe altrimenti in contrasto con quanto è disposto dall’art. 77 Cost.). Il Governo dovrà quindi rispettare, in modo sincretico, tanto le condizioni che disciplinano l’atto-fonte del quale intende servirsi, quanto quelle poste dall’art. 120, secondo comma.

Si pone poi il diverso problema di compatibilità con le procedure per l’esercizio dei poteri sostitutivi disciplinate dall’art. 8, commi 1 e 4, che individuano una serie di adempimenti aventi la funzione di garantire il rispetto del principio di leale cooperazione tra lo Stato e le Regioni: la messa in mora dell’ente inadempiente, la fissazione di un termine entro il quale provvedere e l’audizione dell’organo interessato (la procedura descritta dall’art. 8, comma 4, della legge n. 131 del 2003, prevede una variante costituita dall’invio del provvedimento adottato alle Conferenze Stato-Regioni e Stato-Autonomie locali nei successivi quindici giorni, e dalla richiesta di riesame da parte di queste ultime).

Tali norme procedimentali ‒ mentre sono in grado di vincolare i poteri sostitutivi statali esercitati con fonti di rango secondario o con provvedimenti amministrativi ‒ connoterebbero in termini del tutto ‘atipici’ i decreti-legge adottati in funzione surrogatoria[142]. Come è noto, solo le fonti di rango costituzionale possono disciplinare il procedimento di formazione di fonti di rango primario[143] e, nel caso di specie, l’art. 120, comma secondo, Cost., non pare contenga un’autorizzazione implicita in favore della legge ordinaria al fine di consentire ad essa di integrare il disposto dell’art. 77 Cost. Cionondimeno, nel caso in cui si ricorra al decreto-legge quale atto sostitutivo, il Governo dovrebbe ragionevolmente osservare alcuni adempimenti ispirati al canone della leale collaborazione (come poi effettivamente avvenuto in occasione del decreto-legge 31 luglio 2020, n. 86, di cui si dirà a breve).

È possibile una sostituzione normativa non legislativa, nella forma del regolamento governativo, ovvero per sostituirsi ai regolamenti delle Regioni e degli altri Enti locali. In senso contrario, si è sostenuto che l’attribuzione della potestà regolamentare sostitutiva al Governo sarebbe in contrasto con quanto è stabilito dall’art. 117, comma 6, Cost., che vieta allo Stato di intervenire con fonti di rango secondario nelle materie che appartengono alla potestà legislativa esclusiva o concorrente delle Regioni[144]. A tale obiezione potrebbe però replicarsi che l’art. 120, comma 2, Cost. ha implicitamente introdotto una deroga anche all’ordine delle competenze regionali stabilite dall’art. 117, comma 6, Cost., in quanto il meccanismo della surrogazione implica necessariamente un travalicamento delle competenze dell’ente sostituito. Una sostituzione attraverso regolamento governativo sembra astrattamente prospettabile anche nel caso in cui le Regioni non abbiano ancora esercitato le loro competenze legislative (ma, evidentemente, non per sostituire leggi regionali ritenute non idonee a tutelare adeguatamente gli interessi essenziali).

Nei limiti indicati sopra (al paragrafo 3.3.), non è escluso il ricorso alle ordinanze di necessità ed urgenza quali strumenti per intervenire in via sostitutiva nei casi in cui il mancato o inadeguato esercizio delle funzioni legislative attribuite a Regioni e Province Autonome possa comportare un «pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica».

È noto che le predette ordinanze possono derogare alla disciplina di leggi e altri atti aventi forza di legge, in ragione della necessità di fare fronte a situazioni non previste, né prevedibili. Sono risalenti le discussioni relative alla compatibilità di queste fattispecie con il principio di legalità (in ragion di una così marcata de-tipizzazione) e con l’assetto delle fonti (in quanto si assiste alla sospensione della norma primaria ad opera di una fonte non pari-ordinata né superiore). La giustificazione di atti formalmente amministrativi, di per sé non idonei a operare una stabile modificazione dell’ordinamento giuridico), ma sostanzialmente creativi di uno “ius singulare”, ha imposto di aderire ad una nozione di legalità eccentrica rispetto alla sua declinazione originaria e più rigorosa.

Una risalente giurisprudenza della Corte costituzionale ha fissato alcune condizioni di ‘tolleranza’ delle c.d. ordinanze libere che appiano coerenti con i caratteri del potere sostitutivo (in termini di proporzionalità, temporaneità, leale cooperazione), e segnatamente: efficacia limitata nel tempo (le ordinanze non abrogano, né modificano la disciplina vigente, ma sospendono per tempi e casi circoscritti la sua applicazione; venuti meno i presupposti, le disposizioni derogate acquistano piena efficacia precettiva); adeguata motivazione; rispetto dei principi dell’ordinamento giuridico; divieto di intervenire in materie coperte da riserva di legge assoluta (nelle materie soggette a riserva relativa occorre che la legge delimiti la discrezionalità dell’organo a cui il potere è stato attribuito)[145].

Il complesso dibattito, di cui si è appena dato atto, appare in gran parte superato dalla recente prima ipotesi di sostituzione, con atto avente forza di legge, di una Regione[146].

Con il decreto-legge 31 luglio 2020, n. 86 (Disposizioni urgenti in materia di parità di genere nelle consultazioni elettorali delle Regioni a statuto ordinario), convertito, senza modificazioni, dalla legge 7 agosto 2020, n. 98, il Governo ha esercitato il potere sostitutivo, ai sensi dell’art. 120, comma 2, Cost., nei confronti della Regione Puglia, per non avere adeguato la propria legislazione ai principi statali in materia di parità di genere nelle consultazioni elettorali regionali, e segnatamente al principio statale della doppia preferenza di genere, imposto dall’articolo 4 della legge 2 luglio 2004, n. 165, come modificata dalla legge 15 febbraio 2016, n. 20.

Il decreto-legge ‒ richiamato quale presupposto giustificativo dell’intervento sostitutivo la «tutela dell’unità giuridica della Repubblica» ‒ ha stabilito che «in luogo delle vigenti disposizioni regionali, in contrasto con i principi della legge n. 165 del 2004 e salvo sopravvenuto autonomo adeguamento regionale ai predetti principi si applicano le seguenti disposizioni: a) ciascun elettore può esprimere due voti di preferenza, di cui una riservata a un candidato di sesso diverso dall’altro, e le schede utilizzate per la votazione sono conseguentemente predisposte; b) nel caso in cui siano espresse due preferenze per candidati del medesimo sesso, si procede all’annullamento della seconda preferenza» (art. 1, comma 2). Contestualmente, il Prefetto di Bari è stato nominato «commissario straordinario con il compito di provvedere agli adempimenti conseguenti per l’attuazione del presente decreto, ivi compresa la ricognizione delle disposizioni regionali incompatibili» (art. 1, comma 3).

Come si vede, il decreto-legge, più che dettare norme in sostituzione di un atto regionale dovuto, ha integrato la disciplina del sistema elettorale della Regione Puglia, nella parte in cui non si era ancora adeguata ai citati principi fondamentali sulla parità di genere nell’accesso alle cariche elettive. Si è molto discusso se sia trattato effettivamente di una «emergenza istituzionale di particolare gravità», come richiesto dalla giurisprudenza costituzionale e se il decreto-legge fosse conforme al canone di proporzionalità[147].

Dalle premesse del decreto-legge – in cui si cita «l’atto di formale diffida da parte del Presidente del Consiglio dei ministri alla Regione Puglia in data 23 luglio 2020, per adeguare, entro il 28 luglio 2020, le disposizioni della propria legge elettorale ai principi di promozione delle pari opportunità tra donne e uomini nell’accesso alle cariche elettive» – si evince che il Governo ha rispettato la procedura collaborativa, imposta dall’art. 8, comma 3, della legge 5 giugno 2003, n. 131. Il Presidente della Giunta regionale della Regione Puglia è stato invitato a partecipare alla riunione del Consiglio dei ministri, ai sensi dell’articolo 8, comma 1, della stessa legge 5 giugno 2003, n. 131.

 

3.5. La sostituzione in relazione a competenze amministrative già esercitate 

L’individuazione dei presupposti che condizionano l’esercizio del potere sostitutivo straordinario ha posto le seguenti ulteriori questioni[148].

Non vi sono dubbi che l’inerzia colpevole costituisca la causa tipica del rimedio in esame: ciò accade qualora, in relazione ad un’attività giuridicamente doverosa, il termine sia scaduto e l’ente territoriale titolare della specifica attribuzione non abbia ancora esercitato la propria attribuzione.

È invece controversa, limitatamente alla sostituzione amministrativa, l’ipotesi in cui non sia in contestazione la mera inerzia dell’autonomia territoriale, bensì il suo inadempimento ‘qualitativo’, ovvero il cattivo esercizio del potere in relazione al perseguimento degli interessi essenziali individuati dall’art. 120, comma 2, Cost.

La tesi contraria all’esercizio di un potere sostitutivo in relazione a competenze amministrative già esercitate osserva che, in tal modo, l’intervento surrogatorio statale si risolverebbe nel contestuale annullamento o riforma (modifica in tutto o in parte del contenuto) dell’atto regionale o locale[149], attribuendo allo Stato un potere non previsto dalla Costituzione e, anzi, incompatibile con l’assetto ‘pari-ordinato’ dei rapporti con le autonomie territoriali, come oggi delineato dall’art. 114[150]. Verrebbe poi aggirato il termine perentorio di sessanta giorni per la proposizione del conflitto di attribuzioni, appositamente previsto dall’ordinamento per delimitare le competenze statali e regionali rispetto a provvedimenti amministrativi in grado di ledere le altrui attribuzioni.

Appare preferibile l’opinione maggioritaria, secondo cui non vi sono impedimenti giuridici a che il Governo eserciti il potere sostitutivo anche nel caso di insufficiente o scorretto esercizio di funzioni amministrative di Regioni ed Enti locali[151].

Sul piano dell’interpretazione letterale, nessuno dei requisiti individuati dall’art. 120, secondo comma, Cost., e dall’art. 8 della legge n. 131 del 2003 esclude che il potere di intervento statale possa attivarsi nel caso di illegittimo esercizio delle competenze attribuite alle autonomie territoriali (anzi sembrano presupporlo: si pensi al «mancato rispetto» di trattati internazionali e di norme comunitarie, ovvero al pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica o per la tutela dell’unità giuridica o economica e dei livelli essenziali delle prestazioni).

Tale lettura è coerente anche con il fondamento del potere sostitutivo del Governo, volto a tutelare interessi essenziali che ben possono essere compromessi, non solo dalla mera inerzia, ma anche nei casi in cui le autonomie territoriali non si attivino per soddisfare adeguatamente le esigenze pubbliche individuate dalla norma costituzionale. Anzi, a ben guardare, il potere sostitutivo straordinario viene assegnato allo Stato anche a prescindere dall’esistenza di preesistenti e specifici obblighi legislativi che impongano agli enti territoriali un determinato comportamento.

A distinguere poi il potere sostitutivo dal generale potere di annullamento, in passato previsto per gli atti delle Regioni dalla legge n. 400 del 1988[152], va richiamata, in primo luogo, la struttura collaborativa del procedimento (con assegnazione di un congruo termine per provvedere) che prefigura una inedita forma di «autotutela guidata». Sotto altro profilo, il potere sostitutivo non consente al Governo di intervenire su tutti gli atti amministrativi degli Enti territoriali indiscriminatamente, ma solo su quelli per i quali è impellente la necessità di tutelare gli interessi essenziali individuati dall’art. 120, comma 2, Cost.[153].

Neppure può paventarsi la disapplicazione dei termini per proporre il conflitto di attribuzioni: tale rimedio, infatti, è preposto al rispetto del riparto delle prerogative costituzionali dello Stato e delle Regioni, ma non alla tutela degli interessi essenziali di cui lo Stato è garante.

 

3.6. La sostituzione preventiva e d’urgenza

Altro dubbio concerne l’ammissibilità dell’esercizio del potere sostitutivo ‘in prevenzione’, fondato su casi «di assoluta urgenza» di provvedere, a prescindere da una inerzia o da un inadempimento dell’ente sostituito, così come sembrava ammettere, prima della modifica del Titolo V , l’art. 5, comma 3, del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 [154].

L’opinione contraria paventa il rischio che, in questo modo, si introduca surrettiziamente un controllo preventivo e generalizzato sulla attività amministrativa degli enti territoriali, sganciato dai presupposti di cui all’art. 120 Cost. e con esiti di omologazione e svuotamento delle competenze autonomistiche.

Mentre la lettera dell’art. 120, comma 2, Cost. non aiuta a dirimere la questione, sembrerebbe invece deporre in senso favorevole l’art. 8, comma 4, della legge n. 131 del 2003, secondo cui: «[n]ei casi di assoluta urgenza, qualora l’intervento sostitutivo non sia procrastinabile senza mettere in pericolo le finalità tutelate dall’articolo 120 della Costituzione, il Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente, anche su iniziativa delle Regioni o degli Enti locali, adotta i provvedimenti necessari, che sono immediatamente comunicati alla Conferenza Stato-Regioni o alla Conferenza Stato-Città e autonomie locali, allargata ai rappresentanti delle Comunità montane, che possono chiederne il riesame». Non è chiaro, per la verità, se la citata disposizione consenta solo che il potere sostitutivo si attivi prima del coinvolgimento dell’ente autonomo (con attenuazione delle garanzie procedurali per l’autonomia regionale), ovvero anche a prescindere da una inerzia qualificata del medesimo ente.

L’intervento sostitutivo preventivo deve ritenersi consentito quantomeno nei casi di «pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica». In tal senso, non è sufficiente l’invocazione indiscriminata dell’urgenza a provvedere, essendo il citato presupposto circoscritto ai soli casi in cui siano in «pericolo grave» esigenze primarie imputabili all’intera comunità nazionale. La minaccia grave di pregiudizio a tali beni giuridici essenziali giustifica l’esercizio di un intervento surrogatorio prima che la lesione possa concretizzarsi con esiti irreparabili, ovviamente sul presupposto (rimesso comunque alla delibazione del Governo) che il pericolo non sia fronteggiabile in modo tempestivo ed efficace dagli enti territoriali. Il procedimento delineato dall’art. 8, comma 4, della legge n. 131 del 2003 vuole armonizzare l’urgenza di provvedere con il rispetto del principio di leale collaborazione, imposto dallo stesso enunciato costituzionale, compensando il mancato coinvolgimento preventivo degli enti interessati con la richiesta di riesame attribuita alla Conferenza Stato-Regioni e alla Conferenza Stato-Città e autonomie locali.

In questi casi, come si visto sopra (paragrafo 3.4.), gli atti adottati dal Governo ai sensi dell’art. 120 Cost., sembrano, sul piano tipologico, assimilabili alle ordinanze provvisorie in grado di derogare al diritto vigente, previste dalla legislazione emergenziale.

 

3.7. Garanzie procedurali dei poteri sostitutivi: sussidiarietà, leale collaborazione e proporzionalità

L’art. 120, secondo comma, riserva la disciplina del potere sostitutivo da parte del Governo nei confronti delle Regioni e degli Enti locali ad una legge ordinaria che definisca «le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione».

Tale disciplina è stata introdotta dall’art. 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3)[155]. Prima di esaminarne i contenuti, merita di essere approfondito il significato che, nella disposizione costituzionale, assumono i principi di sussidiarietà e di leale cooperazione.

Il richiamo al principio di sussidiarietà ‒ sottolineando la stretta connessione tra il potere sostitutivo e le regole generali che presiedono all’allocazione delle funzioni amministrative (l’art. 118 Cost.) ‒ funge da criterio informatore della disciplina legislativa attuativa del potere sostitutivo, nel senso che il Governo non può appropriarsi delle funzioni amministrative in via definitiva, ma deve restituirle non appena gli enti titolari siano in grado di esercitarle nuovamente. Inoltre, almeno tendenzialmente, l’esercizio del potere sostitutivo dovrebbe essere affidato al livello di governo immediatamente superiore a quello inerte o inadempiente (alla Regione rispetto alla Provincia, o alla Provincia rispetto al Comune)[156].

Il principio di leale collaborazione, in tale contesto, esclude che la surrogazione statale possa aver luogo sulla base della semplice constatazione dell’inerzia o dell’inadempienza dell’ente sostituito, postulando invece una sequenza di atti e operazioni idonei a consentire, per quanto possibile, al destinatario della sostituzione di porre rimedio all’inadempimento[157]. Meccanismi collaborativi che, come si è detto nel paragrafo precedente, non possono mancare del tutto neppure nei casi di urgenza. Solo il fallimento di una dialettica nella quale l’ente sostituito abbia potuto far valere le proprie ragioni consente l’attivazione dell’art. 120, secondo comma, Cost.[158]

L’art. 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3) stabilisce al primo comma che: «Nei casi e per le finalità previsti dall’articolo 120, secondo comma, della Costituzione, il Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente per materia, anche su iniziativa delle Regioni o degli Enti locali, assegna all’ente interessato un congruo termine per adottare i provvedimenti dovuti o necessari; decorso inutilmente tale termine, il Consiglio dei ministri, sentito l’organo interessato, su proposta del Ministro competente o del Presidente del Consiglio dei ministri, adotta i provvedimenti necessari, anche normativi, ovvero nomina un apposito commissario. Alla riunione del Consiglio dei ministri partecipa il Presidente della Giunta regionale della Regione interessata al provvedimento». 

Si tratta di modalità procedurali innovative, che non sono il portato necessario della pregressa giurisprudenza costituzionale[159].

La legge assegna la titolarità del potere sostitutivo al Consiglio dei ministri, che può esercitarlo direttamente o provvedere alla nomina di un commissario ad acta. Sono prescritte varie garanzie procedurali finalizzate ad un ampio confronto tra le ragioni del potere centrale e quelle delle autonomie territoriali.

È prescritto infatti un contraddittorio preliminare con l’ente inadempiente a cui il Governo deve assegnare un «congruo termine» per porlo nelle condizioni di evitare la sostituzione attraverso un autonomo adempimento, ed in ogni caso di partecipare ed interloquire nel procedimento di sostituzione. Anche decorso il termine assegnato, l’ente territoriale deve essere «sentito» alla riunione del Consiglio dei ministri (deputata all’adozione dei provvedimenti), cui partecipa il Presidente della Giunta regionale interessata dagli effetti del provvedimento finale.

Il potere di iniziativa del procedimento sostitutivo viene riconosciuto anche alle Regioni e agli Enti locali, perfino quando si tratti dello stesso ente inadempiente che ritenga di non essere in grado di tutelare le esigenze unitarie dettate dall’art. 120 Cost.

Alcune peculiarità relative al potere di iniziativa sono previste «qualora l’esercizio del potere sostitutivo si renda necessario al fine di porre rimedio alla violazione della normativa comunitaria» (comma 2): in tale caso, «gli atti ed i provvedimenti di cui al comma 1 sono adottati su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri o del Ministro per le politiche comunitarie e del Ministro competente per materia […]»[160].

Un iter particolare è stato poi previsto «nei casi di assoluta urgenza, qualora l’intervento sostitutivo non sia procrastinabile senza mettere in pericolo le finalità tutelate dall’articolo 120 della Costituzione». In tale caso, i provvedimenti necessari «sono immediatamente comunicati alla Conferenza Stato-Regioni o alla Conferenza Stato-Città e autonomie locali, allargata ai rappresentanti delle Comunità montane, che possono chiederne il riesame».

Il modello procedimentale appena indicato non trova applicazione nelle ipotesi di potere sostitutivo ‘ordinario’, qualora la legge ordinaria che lo introduca ne disciplini espressamente l’esercizio, secondo passaggi ispirati al principio di leale collaborazione [161]. Il legislatore statale è tenuto a rispettare i principi desumibili dall’art. 120 Cost., pur rimanendo libero di articolarli in forme diverse[162]. In conformità alla costante giurisprudenza della Corte, i poteri sostitutivi ‘ordinari’: a) devono essere previsti e disciplinati dalla legge, che ne deve definire i presupposti sostanziali e procedurali, in ossequio al principio di legalità; b) devono essere attivati solo in caso di accertata inerzia della Regione o dell’ente locale sostituito; c) devono riguardare solo atti o attività privi di discrezionalità nell’an; d) devono essere affidati ad organi di Governo; e) devono rispettare il principio di leale collaborazione all’interno di un procedimento nel quale l’ente sostituito possa far valere le proprie ragioni; f) devono conformarsi al principio di sussidiarietà[163]. Ove la legge ordinaria taccia sui profili procedurali, potrà trovare applicazione analogica l’art. 8 della legge n. 131 del 2003.

Il procedimento collaborativo non deve ovviamente essere rispettato quando il Governo esercita una funzione sua propria e non si sostituisce alle regioni nelle loro attribuzioni, secondo quanto previsto all’art. 120, secondo comma, Cost.[164].

Ai sensi dell’art. 8, comma 5, i «provvedimenti sostitutivi devono essere proporzionati alle finalità perseguite». Si tratta di un vincolo di natura sostanziale e non meramente procedurale, non richiamato testualmente dall’art. 120, Cost., ma consolidatosi nella giurisprudenza costituzionale, come sottospecie del più ampio genus del giudizio di ragionevolezza[165].

 

3.8. Ancora sul principio di leale collaborazione 

La riforma del 2001 non sancisce il principio di leale collaborazione in termini generali e neppure ha previsto un organismo stabile di coordinamento fra Stato e Regioni[166]. Cionondimeno, la leale collaborazione ha assunto una valenza che va ben al di là della menzione puntuale contenuta nell’art. 120, comma 2, della Costituzione.

È noto, infatti, come nella giurisprudenza della Corte si sia andato affermando un principio di leale collaborazione volto ad imporre momenti di reciproco coinvolgimento istituzionale e di necessario coordinamento dei livelli di governo statale e regionale, secondo una scala di strumenti cha va dallo scambio di informazioni, al parere, all’intesa “debole” e, infine, all’intesa “forte”[167].

Il principio di leale collaborazione è stato richiamato dalla Corte in ipotesi particolari: principalmente in presenza di materie di diversa attribuzione inestricabilmente “commiste” (e senza possibilità di rinvenirne una sicuramente prevalente[168]), ovvero nei casi di “attrazione in sussidiarietà” statale di funzioni pertinenti a materie di competenza regionale o concorrente[169]. Nei casi, dunque, di «competenze concorrenti» e non in quelli di competenze ripartite secondo una ben definita gerarchia di contenuti[170].

Per lungo tempo la concreta operatività delle esigenze di leale collaborazione ha investito le funzioni amministrative e non direttamente quelle legislative[171]. Procedure cooperative potrebbero infatti applicarsi ai procedimenti legislativi solo in quanto l’osservanza delle stesse fosse imposta da una fonte costituzionale o interposta, in grado di vincolare il legislatore statale.

La sentenza n. 251 del 2016 ‒ che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni contenute nella legge n. 124 del 2015 nella parte in cui prevedevano che i decreti legislativi attuativi fossero adottati previo parere in sede di Conferenza unificata, anziché previa intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni (o unificata) ‒ ha innovato il predetto quadro giurisprudenziale, imponendo una collaborazione anche nel procedimento di delegazione legislativa[172].

Si deve inoltre aggiungere che il principio di leale collaborazione afferisce ai rapporti tra Governo, o Ministeri, e Regioni e non riguarda, invece le Autorità indipendenti, chiamate ad operare «in piena autonomia e con indipendenza di giudizio e di valutazione»[173].

 

3.9. Interventi sostitutivi degli Enti locali

Anche gli Enti locali possono essere destinatari degli interventi sostitutivi statali, straordinari e ordinari.

Con riguardo ai poteri sostitutivi straordinari di cui all’art. 120, comma 2, della Costituzione, l’art. 8, comma 3, della legge 5 giugno 2003, n. 131, prescrive che: «[f]atte salve le competenze delle Regioni a statuto speciale, qualora l’esercizio dei poteri sostitutivi riguardi Comuni, Province o Città metropolitane, la nomina del commissario deve tenere conto dei principi di sussidiarietà e di leale collaborazione. Il commissario provvede, sentito il Consiglio delle autonomie locali qualora tale organo sia stato istituito».

Per quanto richiamati nella sola fase di nomina di un commissario ad acta, deve ritenersi che i principi di sussidiarietà e di leale collaborazione ‒ alla luce di quanto esposto sopra al paragrafo 3.7. ‒ abbiano portata generale anche nel contesto degli interventi sostitutivi degli Enti locali.

A dispetto poi dell’apparente formulazione normativa, non vi è motivo di ritenere che la sola modalità di attuazione degli interventi sostitutivi nei confronti degli Enti locali sia quella ‘indiretta’ tramite commissario ad acta (al quale viene imposto di ‘sentire’ il Consiglio delle autonomie locali, organo peraltro di natura politica).

Inoltre, sono consentiti anche poteri sostitutivi ‘ordinari’, fondati sull’esigenza di tutelare esigenze unitarie diverse da quelle menzionate nell’art. 120, la cui titolarità spetterà allo Stato oppure alla Regione a seconda che la competenza legislativa nell’allocazione e disciplina della funzione amministrativa riguardi una materia di spettanza statale o regionale (ai sensi degli articoli 117, terzo e quarto comma, e 118, primo e secondo comma, Cost.).

La Corte ha espressamente affermato che la legge regionale, nel disciplinare l’esercizio di funzioni amministrative di competenza degli enti territoriali minori, ben può prevedere «poteri sostitutivi in capo ad organi regionali, per il compimento di atti o di attività obbligatorie, nel caso di inerzia o di inadempimento da parte dell’ente competente, al fine di salvaguardare interessi unitari che sarebbero compromessi dall’inerzia o dall’inadempimento medesimi»[174]. La legge regionale, in tale caso, deve «apprestare congrue garanzie procedimentali […], in conformità al principio di leale collaborazione […], non a caso espressamente richiamato anche dall’articolo 120, secondo comma, ultimo periodo, della Costituzione a proposito del potere sostitutivo “straordinario” del Governo, ma operante più in generale nei rapporti fra enti dotati di autonomia costituzionalmente garantita»[175].

In particolare, anche i poteri sostitutivi regionali devono rispettare i seguenti requisiti: a) necessità di una previa legge che preveda e disciplini le ipotesi di esercizio di poteri sostitutivi, definendone i presupposti sostanziali e procedurali; b) legittimità della sostituzione solo per il compimento di atti o di attività «prive di discrezionalità nell’an (anche se non necessariamente nel quid o nel quomodo)», la cui obbligatorietà sia il riflesso degli interessi unitari alla cui salvaguardia provvede l’intervento sostitutivo: e ciò affinché essa non contrasti con l’attribuzione della funzione amministrativa in capo all’ente locale sostituito; c) necessità che il potere sostitutivo sia esercitato da un organo di governo della regione o sulla base di una decisione di questo; d) definizione con legge di congrue garanzie procedimentali per l’esercizio del potere sostitutivo, in conformità al principio di leale collaborazione, prevedendo un procedimento nel quale l’ente sostituito sia comunque messo in grado di interloquire anche al fine di evitare la sostituzione attraverso l’autonomo adempimento, senza che a tal fine sia sufficiente la mera previa segnalazione[176].

Quanto all’oggetto dell’intervento sostitutivo, esso potrà riguardare, sia atti e provvedimenti amministrativi degli Enti locali, sia atti normativi secondari come statuti e regolamenti di Comuni, Province e Città metropolitane (come si è detto sopra, l’art. 8, primo comma, della legge n. 131 del 2003, menziona espressamente i provvedimenti «anche normativi»).

Non disponendo gli Enti locali di un ricorso diretto alla Corte costituzionale a garanzia della propria autonomia, il rispetto dei presupposti della surrogazione potrà essere fatta valere dagli stessi innanzi al giudice amministrativo[177].

Secondo la giurisprudenza costituzionale, poteri sostitutivi nei confronti degli Enti locali privi di autonomia costituzionalmente garantita[178] possono essere disciplinati liberamente dal legislatore regionale, chiamato solamente ad assicurare, nel rispetto del principio del giusto procedimento, forme di partecipazione e consultazione degli organi di vertice degli enti sostituiti[179]. Da ciò si è fatto conseguire, ad esempio, che una Regione per subentrare alle «Comunità montane» non deve rispettare le garanzie di cooperazione e consultazione fissate dall’art. 120 Cost.

 

3.10. Analisi della relazione sostitutiva: nomina e funzioni del commissario ad acta 

L’esercizio dei poteri sostitutivi si realizza attraverso l’attribuzione di una competenza concorrente e sussidiaria dello Stato. Da ciò consegue che la responsabilità e gli effetti degli atti vanno imputati in capo al ‘sostituto’. A sua volta, l’ente ‘sostituito’ non perde la titolarità della competenza, ma soltanto la materiale disponibilità del rapporto.

Il potere sostitutivo «si caratterizza per una necessaria temporaneità e cedevolezza»[180], in quanto strumento che deve fare «sistema con le norme costituzionali di allocazione delle competenze»[181] e con il principio autonomistico. Il potere sostitutivo – esprimendosi attraverso atti provvisori, destinati a produrre effetti fino a che il sostituito non sia in grado di recuperare l’esercizio della competenza di cui sia stato temporaneamente privato – incide sulla legitimatio ad agendum e non sulla legitimatio ad officium dell’organo sostituito. L’istituzione statale «è chiamata ad assumersi la “responsabilità” (sentenza n. 43 del 2004) di risolvere nel minor tempo possibile la crisi dissipativa di un determinato ente autonomo, sì da rimetterlo in condizione di tornare a garantire i beni da questo invece al momento compromessi»[182].

La surrogazione può realizzarsi anche in via indiretta con la nomina di un commissario ad acta[183], come riconosciuto più volte dalla Corte costituzionale[184]. È rimasta, infatti, minoritaria la tesi secondo cui l’art. 120, comma 2, della Costituzione, affidando l’esercizio del potere sostitutivo unicamente al «Governo», non consentirebbe di prospettare l’esercizio di poteri sostitutivi in forma indiretta, per il tramite di commissari incaricati[185].

In ragione della natura concorrente del potere sostitutivo statale, il commissario ad acta non è un organo straordinario dell’ente sostituito inerte, bensì un organo straordinario dell’ente che lo nomina. Gli effetti dell’attività del commissario ad acta si producono nella sfera giuridica dell’ente sostituito in virtù di una relazione intersoggettiva e non di immedesimazione organica[186]. Gli atti sostituivi adottati dal commissario si imputano alla stessa autorità che lo ha nominato, sebbene gli effetti si producano nella sfera giuridica del sostituito.

Sia nel caso di sostituzione operata direttamente, sia per il tramite di commissario ad acta, l’ente sostituito è legittimato a contestare la sussistenza dei presupposti e la legittimità degli atti sostitutivi, nella forma, a seconda dei casi, dell’impugnazione amministrativa (nullità per difetto assoluto di attribuzione ovvero per incompetenza assoluta) o del conflitto di attribuzioni.

Parimenti, deve ammettersi l’impugnazione da parte degli altri soggetti interessati incisi dagli effetti degli atti in sostituzione.

Nella recente fenomenologia dei poteri sostitutivi indiretti – a cui, negli ultimi anni, lo Stato ha fatto sovente ricorso per affrontare situazioni emergenziali riguardanti la realizzazione di infrastrutture, la gestione di situazioni di criticità finanziaria negli enti territoriali, il settore della depurazione, collettamento e fognatura delle acque reflue, la bonifica delle discariche abusive – emerge il riconoscimento di una spiccata sfera di autonomia organizzativa e gestionale del commissario straordinario, soggetto soltanto alle funzioni di indirizzo (nella fissazione degli obiettivi da perseguire) e di vigilanza (sull’andamento degli interventi realizzati) dell’Amministrazione statale che lo ha nominato.

Alla nomina della figura commissariale si accompagna spesso l’attribuzione ‒ con fonte di rango primario ‒ di una struttura organizzativa «parallela» rispetto a quella ordinaria, dotata di un proprio personale (all’uopo individuato con uno specifico regime giuridico ed economico), appositi mezzi di copertura degli oneri finanziari, apertura di contabilità speciali, procedimenti amministrativi semplificati.

Al commissario straordinario possono essere conferiti poteri amministrativi derogatori, restando comunque inibita l’adozione di atti legislativi, i quali restano nella sfera di competenza del Consiglio regionale[187]. Al riguardo, va precisato che l’istituto disciplinato dall’art. 120, secondo comma, Cost. comporta solo una deroga al sistema ordinario delle competenze, ma non implica di per sé il riconoscimento di strumenti amministrativi straordinari. Qualora ritenuto necessario, sarà quindi necessaria una espressa previsione normativa che accordi al commissario la possibilità di adoperare, nell’ambito degli interventi surrogatori, poteri speciali a carattere derogatorio (l’art. 8 della legge n. 131 del 2003 appare, invece, modellato in funzione di interventi surrogatori semplici, destinati ad esaurirsi tramite un singolo atto).

In un numero crescente di casi, i commissari straordinari sono anche «unici»[188], con competenza estesa su tutto il territorio nazionale. Tale figura è stata occasionata dalla necessità di operare con la massima urgenza per adeguarsi alla normativa europea (evitando le ricadute finanziarie negative, sul bilancio dello Stato, derivanti dalle pronunce di condanna della Corte di Giustizia[189]), in settori di attività caratterizzati da rilevanti «esternalità» che si propagano anche al di fuori dei confini amministrativi dell’ente direttamente coinvolto[190]. È particolarmente evidente, in questi casi, come la figura commissariale finalizzi la propria azione alla soddisfazione di un interesse generale dello Stato e non ‘particolare’ dell’ente sostituito.

In ragione della descritta natura del commissario ad acta quale organo straordinario del Governo, la Corte ha dichiarato l’illegittimità di una legge statale, nella parte in cui non prevedeva che al prevalente fabbisogno della struttura commissariale provvedesse direttamente lo Stato e nella parte in cui prevedeva che la Regione mettesse a disposizione del commissario ad acta un contingente «minimo» di venticinque unità di personale, anziché «massimo»[191], in quanto disposizioni non rispondenti al canone della leale collaborazione. Il ricorso a personale dell’amministrazione regionale finirebbe, del resto, per snaturare gli scopi per i quali il commissariamento è disposto.

Dallo stesso principio di leale collaborazione la Corte costituzionale ha fatto derivare il principio del divieto di interferenza del legislatore regionale, dichiarando costituzionalmente illegittime le leggi regionali che si sovrapponevano alle prerogative del commissario (contrastando, ad esempio, con il piano di rientro sanitario[192]). Le funzioni del commissario «devono restare, fino all’esaurimento dei compiti commissariali, al riparo da ogni interferenza degli organi regionali – anche qualora questi agissero per via legislativa – pena la violazione dell’art. 120, secondo comma, Cost.»[193]. Sebbene quest’ultimo richiami la leale collaborazione come limite del potere sostitutivo statale, è implicito nella stessa natura relazionale di tale principio che esso debba essere rispettato anche da parte della Regione. Concretamente, la leale collaborazione si traduce in doveri e aspettative – di informazione, di previsione di strumenti di raccordo e, in generale, di comportamenti realmente collaborativi, corretti e non ostruzionistici, in definitiva, appunto, leali – che non possono che essere reciproci[194]. Secondo la giurisprudenza costituzionale, l’illegittimità sussiste anche «quando l’interferenza è meramente potenziale e, dunque, a prescindere dal verificarsi di un contrasto diretto con i poteri del commissario incaricato»[195].

La norma costituzionale attribuisce il potere sostitutivo al «Governo», il quale ha facoltà di nominare, per il caso specifico (e non in via generale e preventiva) un commissario. Per questo motivo, la Corte ha ritenuto illegittima una disposizione che attribuiva direttamente il potere sostituivo in capo ad un organo amministrativo[196].

Con riguardo poi al coinvolgimento della Regione nel procedimento di nomina del commissario ad acta, la Corte ha affermato che «le facoltà di audizione e partecipazione della Regione non si estendono […] all’individuazione nominativa del commissario e del sub-commissario, la cui scelta spetta in via esclusiva al Governo»[197]. La scelta dell’Esecutivo di far cadere la nomina del commissario su persona diversa dal Presidente della Regione non è lesiva, di per sé, delle attribuzioni costituzionali delle Regioni[198].

Note

[1] L’unica riformulazione, con finalità di mero aggiornamento lessicale, ha riguardato l’ultimo divieto: in luogo delle parole «[n]on  può limitare il diritto dei cittadini di esercitare in qualunque parte del territorio nazionale la loro professione, impiego o lavoro», la disposizione recita ora che la Regione non può «limitare l’esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale».

[2] Cfr. l’intervento di G. Ambrosini del 27 luglio 1946 in senso ai lavori della Seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione (reperibile sul sito istituzionale della Camera dei deputati), il quale riprendeva i contenuti dell’articolo dello stesso Ambrosini, Un tipo intermedio di stato tra l’unitario e il federale caratterizzato dall’autonomia regionale, in Rivista di diritto pubblico, 1933, 93 ss.

[3] Corte costituzionale, sentenza n. 106 del 2002.

[4] Cfr. C. Esposito, Autonomie e decentramento amministrativo nell’art. 5 della Costituzione, in La Costituzione italiana. Saggi, Padova, 1954, p. 82 ss. G. Rivosecchi, Articolo 5, in F. Clementi, L. Cuocolo, F. Rosa, N. Vigevani (a cura di), La Costituzione italiana. Commento articolo per articolo, Bologna, 2018, p. 41.

[5] Cfr. O. Chessa, Autonomia negativa, autonomia positiva e regionalismo differenziato: come uscire dalla crisi del principio autonomista, in J.M. Castellà Andreu, G. Rivosecchi, S. Pajno, G. Verde (a cura di), Autonomie territoriali, riforma del bicameralismo e raccordi intergovernativi: Italia e Spagna a confronto, Napoli, 2018, 175 ss.

[6] Cfr. Bologna, La Corte riscopre l’articolo 120 della Costituzione, in Giur. cost., 2002, 4140 ss.; id., Circolazione dei rifiuti tra parametro competenziale e primo comma dell’art. 120 Cost.: quando «la diritta via» non è «smarrita», in Giur. cost., 2021, 1019 ss.

[7] Così l’intervento dell’on. Ezio Vanoni nella seduta del 28 novembre 1946.

[8] Cfr. Mainardis, Commento all’art. 120, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, III, 2006, 2386; Pubusa, Art. 120, in Commentario alla Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna 1985, 444 ss.

[9] Nell’ambito dell’Unione doganale, prevista dai Trattati istitutivi della Comunità Europea, la determinazione dei dazi doganali esterni degli Stati membri (che dalla fine del periodo transitorio, nel 1969, costituirono un unico territorio doganale) rientra tra le competenze esclusive) dell’Unione.

[10] Cfr. la sentenza n. 102 del 2008 che richiama la precedente pronuncia n. 37 del 2004. Secondo la Corte «lo spazio riservato a detta potestà [regionale] dipende prevalentemente dalle scelte di fondo operate dallo Stato in sede di fissazione dei princìpi fondamentali di coordinamento del sistema tributario», e «l’esercizio del potere esclusivo delle Regioni di autodeterminazione del prelievo è ristretto a quelle limitate ipotesi di tributi, per la maggior parte “di scopo” o “corrispettivi”, aventi presupposti diversi da quelli degli esistenti tributi statali».

[11] In attuazione della legge n. 42, del 2009 sono stati varati nove decreti legislativi. Una importanza particolare rivestono quelli relativi ai costi (d.lgs. 6 maggio 2011, n. 68), (d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23) e ai fabbisogni standard (d.lgs. 26 novembre 2010, n. 216), con lo scopo di avviare una dinamica che potesse permettere il passaggio dalla spesa storica (che finanzia indistintamente servizi e inefficienze) a quello del fabbisogno standard (che finanzia solo i servizi). Cfr. Gallo, I principi del federalismo fiscale, in Dir. prat. tribut., 2012, I, 3 ss.

[12] Cfr. Gallo, Il nuovo titolo V della costituzione: autonomia tributaria e problemi di coordinamento, in Politica economica, 2002, il quale, tra i possibili indici di collegamento tra le materie di competenza regionale e i tributi regionali propri, ha suggerito il criterio della inerenza del prelievo alle classi di interessi previsti dagli indicati terzo e quarto comma dell’art. 117 Cost. (tra cui, ad esempio, il governo del territorio, l’organizzazione dei servizi pubblici locali, ovvero la produzione, il trasporto o la distribuzione di energia).

[13] Sulla distinzione con il modello di federalismo «competitivo» connotato da forti poteri fiscali autonomi degli enti federati, cfr. Antonini, Federalismo Fiscale (diritto costituzionale), voce, Annali X, 2017.

[14] Nel previgente assetto costituzionale il concetto di «tributo proprio regionale» di cui all’art. 119 cost. si riferiva all’ente destinatario del gettito (tributi istituiti con legge dello Stato il cui gettito era devoluto alle Regioni). Il novellato art. 119, invece, definisce in questo modo i tributi istituiti con legge regionale, nel rispetto dei principi del coordinamento con il sistema tributario statale.

[15] Cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 82 del 2021, con cui viene dichiarata incostituzionale la norma regionale che, fissando gli importi del tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi (c.d. ecotassa) stabilisce un tributo di entità superiore ove i rifiuti speciali non pericolosi provengano da altre Regioni. Nella sentenza n. 76 de 2021, vengono dichiarate incostituzionali una norma che vieta di completare i lavori relativi alle attività finalizzate alla gestione dei rifiuti speciali di provenienza extra-regionale ed una che stabilisce che a tale tipo di rifiuti possa essere riservata una percentuale non superiore al venti per cento della capacità delle discariche già in esercizio.

[16] Cfr. Pubusa, cit., 446, il quale aggiunge che il divieto non riguarderebbe invece l’introduzione di dazi nei confronti di merci che non transitino nel territorio regionale, né provengano dall’esterno o siano destinate al di fuori del territorio regionale (secondo l’autore la legge regionale, pertanto, potrebbe colpire con imposte indirette dei beni prodotti nella Regione e destinati ad un uso interno alla stessa, purché si rientri nell’ambito di una materia di competenza dell’ente territoriale).

[17]  Cfr. le sentenze della Corte costituzionale n. 12 del 1963 e n. 264 del 1996. Più recentemente, vedi le sentenze n. 12 del 2007, n. 161 e n. 62 del 2005, n. 505 del 2002, n. 335 del 2001 e n. 281 del 2000.

[18] Cfr. Mainardis, Commento all’art. 120, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, III, 2006, 2386.

[19] La fattispecie riguardava il divieto di introduzione nel territorio valdostano di «ovini e caprini provenienti da altre regioni italiane». Tale indirizzo, prima di consolidarsi, era stato proceduto da pronunce di segno più radicale: sentenze n. 6 del 1956 e 15 del 1960. Più recentemente, cfr. le sentenze n. 107 del 2018 e n. 76 del 2021.

[20] Per l’applicazione del divieto in esame, vedi le sentenze della Corte Costituzionale n. 242 e n. 101 del 2016, n. 191 del 2012, n. 335 del 2001, n. 505 del 2002, n. 62 del 2005.

[21] Cfr. la Corte costituzionale n. 220 del 2004: la fattispecie riguardava la questione di legittimità costituzionale dell’art. 98, comma 2, della legge della Regione Sardegna 29 luglio 1998, n. 23 (norme per la protezione della fauna selvatica e per l’esercizio della caccia in Sardegna), nella parte in cui escludeva i cacciatori non residenti nel territorio della Regione dalla possibilità di rinnovare l’autorizzazione venatoria.

[22] La Corte costituzionale, con la sentenza n. 37 del 2021, ha statuito che la materia dell’emergenza pandemica da COVID-19 ricade nella competenza legislativa esclusiva dello Stato a titolo di «profilassi internazionale» (art. 117, secondo comma, lettera q, Cost.), che è comprensiva di ogni misura atta a contrastare una pandemia sanitaria in corso, ovvero a prevenirla. La Corte, in passato, aveva già ritenuto che la profilassi internazionale concernesse norme idonee a garantire «uniformità anche nell’attuazione, in ambito nazionale, di programmi elaborati in sede internazionale e sovranazionale» (sentenza n. 5 del 2018; in precedenza, sentenze n. 270 del 2016, n. 173 del 2014, n. 406 del 2005 e n. 12 del 2004). 

[23] Cfr. su questi profili, cfr. D. Bruno, Libertà di circolazione ed emergenza pandemica: considerazioni sul caso campano, in osservatorio sulle fonti, Seminario di studi e ricerche parlamentari «Silvano Tosi», 2021.

[24] Non è possibile ricostruire l’intreccio tra provvedimenti statali e regionali che, nelle varie fasi dell’emergenza, si sono susseguiti. Basti ricordare che il quadro regolativo di fonte primaria è stato dettato dal decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, convertito con modificazioni dalla legge 22 maggio 2020, n. 35, e dal decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, convertito con modificazioni dalla legge 14 luglio 2020, n. 74.

[25] Pubusa, op. cit., p. 454.

[26] Cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 107 del 2018.

[27] Cfr. C. Padula, Uno sviluppo nella saga della doppia pregiudiziale? Requisiti di residenza prolungata, edilizia residenziale pubblica e possibilità di disapplicazione della legge, in Le Regioni, 2020, 599 ss., il quale ricorda come anche in un ordinamento federale, la Corte suprema americana, abbia censurato norme degli Stati membri che richiedevano, per l’accesso a certe prestazioni sociali, la residenza anche di un solo anno (si citano Shapiro v. Thompson, 1969; Memorial Hospital v. Maricopa County, 1974; Zobel v. Williams, 1982; Saenz v. Roe, 1999). Sul tema generale, vedi anche F. Dinelli, Le appartenenze territoriali. Contributo allo studio della cittadinanza, della residenza e della cittadinanza europea, Napoli, 2011, 203 ss.; L. Paladin, «Cittadinanza regionale» ed elezioni consiliari, in Giur. cost., 1965, I, 266 ss.  A. Pace, Problematica delle libertà costituzionali, Padova, 1992, p. 316 ss.

[28]  Secondo A. Gentilini, Le regioni hanno davvero il potere di escludere gli stranieri dalle loro prestazioni sociali o di condizionarne l’accesso?, in Giurisprudenza Costituzionale, 4, 2021, p. 1855 ss., la decisione in ordine al grado di equiparazione tra cittadini e stranieri in materia di prestazioni sociali andrebbe ponderata e adottata solo a livello statale; poiché è lo Stato a decidere quando e quanto uno straniero possa soggiornare legalmente nel territorio nazionale, una volta che tale diritto gli sia riconosciuto, la nazionalità non dovrebbe più rilevare ai fini del computo dei diritti che gli spettano.

[29] Corte costituzionale, sentenza n. 168 del 2014.

[30] Corte costituzionale, sentenze n. 222 del 2013, n. 4 del 2013, n. 40 del 2011, n. 432 del 2005.

[31] Corte costituzionale, sentenze n. 166, n. 107 e n. 106 del 2018, n. 168 del 2014, n. 172 e n. 133 del 2013, n. 40 del 2011.

[32] Corte costituzionale, sentenze n. 120 del 1962, n. 120 del 1967 e n. 104 del 1969.

[33] Sul punto, cfr. ancora Padula, op. cit., il quale ricorda che «il nucleo minimo del diritto fondamentale è un limite che la Costituzione (implicitamente) pone alla scelta del legislatore: questo può bilanciare e differenziare ragionevolmente quello che “sta sopra” il nucleo minimo ma deve rispettare il nucleo stesso». Vengono citate, in tal senso, le sentenze della Corte: n. 55 del 2019, in materia di indennizzo per sindrome da talidomide; n. 20 del 2019, in materia di diritto alla trasparenza amministrativa; n. 275 del 2016, in materia di trasporto degli studenti disabili; n. 87 del 2013, in materia di indennità di malattia del lavoratore sottoposto a dialisi. I livelli essenziali delle prestazioni rappresentano, invece, il contenuto di una scelta del legislatore statale che si impone al legislatore regionale e alla pubblica amministrazione (sentenze n. 282 del 2002 e n. 88 del2003).

[34] Corte costituzionale, sentenza n. 432 del 2005.

[35] Sull’illegittimità della residenza prolungata, cfr. le sentenze della Corte costituzionale n. 168 del 2014, n. 222 del 2013, n. 172 del 2013, n. 133 del 2013, n. 4 del 2013; n. 2 del 2013, n. 40 del 2011, n. 432 del 2005. In dottrina, ex plurimis, cfr. F. Corvaja, Cittadinanza e residenza qualificata nell’accesso al welfare regionale, in Le Regioni, 2011, 1257 ss.; D. Monego, La «dimensione regionale» nell’accesso alle provvidenze sociali, in Le Regioni, 2014, 244 ss.; M. Belletti, La Corte costituzionale torna, in tre occasioni ravvicinate, sul requisito del radicamento territoriale per accedere ai servizi sociali. Un tentativo di delineare un quadro organico della giurisprudenza in argomento, in Quaderni costituzionali, 5-6/2018, 1139.

[36] Corte costituzionale, sentenza n. 107 del 2018.

[37] Corte costituzionale, sentenza n. 44 del 2020, n. 168 del 2014.

[38] Corte costituzionale, sentenze n. 7 del 2021 e n. 222 del 2013.

[39] Corte costituzionale, sentenza n. 172 del 2013.

[40] Corte costituzionale, sentenza n. 133 del 2013.

[41] Corte costituzionale, sentenza n. 4 del 2013.

[42] Corte costituzionale, sentenza n. 40 del 2011.

[43] Corte costituzionale, sentenze n. 199 del 2022 e n. 281 del 2020.

[44] Corte costituzionale, sentenza n. 107 del 2018.

[45] Corte costituzionale, sentenza n. 2 del 2013.

[46] Come sembrava emergere dalle sentenze n. 40 del 2011, nn. 2, 133 e 172 del 2013 e n. 107 del 2018.

[47] Come invece sembrava evincersi dalle sentenze n. 222 del 2013, n. 141 del 2014, n. 168 del 2014 e n. 106 del 2018. La Corte, ad esempio, sembrava ritenere ammissibile, in astratto, la legittimità della «richiesta di un titolo che dimostri il carattere non episodico o di breve durata della permanenza sul territorio», per scongiurare «avvicendamenti troppo ravvicinati tra conduttori», con l’effetto di aggravare l’azione amministrativa e ridurne l’efficacia, «in contrasto con la funzione socio-assistenziale dell’edilizia residenziale pubblica» stessa.

[48] Orientamento ribadito nella sentenza n. 199 del 2022 e nelle sentenze n. 73 e 145 del 2023.

[49] In un passaggio della sentenza n. 44 del 2020, la Corte sembra riconoscere rilievo del radicamento territoriale (non ai fini dell’accesso al servizio abitativo, quanto) ai fini della formulazione delle graduatorie ERP («[l]a prospettiva della stabilità può rientrare tra gli elementi da valutare in sede di formazione della graduatoria […]). Nel caso risolto dalla sentenza n. 9 del 2021, la stessa Corte precisa, tuttavia, che anche un requisito inteso solo come premialità (e non come causa di esclusione/ammissione) potrebbe rivelarsi irragionevole se sopravvalutato, come emerso.

L’art. 40, comma 6, del decreto legislativo n. 286 del 1998 (T.U. immigrazione) ‒ nella misura in cui impone ai soggetti pubblici l’integrazione socio-abitativa edilizia a parità di condizioni con i cittadini italiani per gli stranieri titolari di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno almeno biennale e che esercitano una regolare attività di lavoro ‒ appare ispirata ad una ratio analoga a dichiarata illegittima con la sentenza n. 44 del 2020. Padula, op. cit., esclude tuttavia che la norma statale si ponga in contrasto con la giurisprudenza costituzionale, rilevando che «[m]entre le norme regionali «protezionistiche» incrinano diverse fondamenta dello Stato unitario, come evidenziato dalla giurisprudenza americana sopra citata (concetto di cittadinanza, principio di uguaglianza, libertà di circolazione), l’art. 40, comma 6, T.U. immigrazione non mina quei capisaldi, perché è noto che per gli stranieri il principio di uguaglianza e la libertà di circolazione operano in modo diverso». Va pure ricordato che l’art. 11 della direttiva 2003/109/CE, impone l’equiparazione ai cittadini del solo soggiornante di lungo periodo (lo straniero che risieda regolarmente in uno Stato membro da almeno cinque anni) nel godimento dei servizi e prestazioni sociali.

[50] La disposizione di legge è stata interessata da svariate sentenze di accoglimento in relazione ad altrettante prestazioni di competenza dello Stato. Cfr. ex plurimis, sentenze n. 306 del 2008, n. 11 del 2009, n. 187 del 2010, n. 329 del 2011, n. 40 del 2013, n. 22 del 2015, n. 230 del 2015.

[51] Corte costituzionale, sentenza n. 222 del 2013, secondo cui gli assegni in questione sono misure indirizzate a favorire lo sviluppo del nucleo famigliare, affinché esso costituisca una cellula vitale della comunità; in tale caso, non è manifestamente irragionevole che il legislatore si rivolga proprio a quelle formazioni sociali che non solo sono presenti sul territorio, ma hanno già manifestato, con il passare degli anni, l’attitudine ad agirvi stabilmente, così da poter venire valorizzate nell’ambito della dimensione regionale. La sentenza ha così fatto salve le norme regionali che fissavano il requisito della residenza nel territorio regionale da almeno 24 mesi. Sulla pronuncia, cfr. D. Monego, La «dimensione regionale» nell’accesso alle provvidenze sociali, in Le Regioni, 2014, 244 ss.

[52] Corte costituzionale, sentenza n. n. 141 del 2014, secondo cui «[…] non è irragionevole la previsione regionale che si limiti a favorire la natalità in correlazione alla presenza stabile del nucleo familiare sul territorio, senza che vengano in rilievo ulteriori criteri selettivi concernenti situazioni di bisogno o disagio, i quali non tollerano di per sé discriminazioni (così, tra le altre, le sentenze n. 222, n. 178, n. 4 e n. 2 del 2013)».

[53] Corte costituzionale, sentenza n. 50 del 2019. I giudici a quibus dubitavano della legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000, nella parte in cui la concessione dell’assegno sociale agli stranieri (che abbiano compiuto 65 anni e si trovino nelle condizioni reddituali previste dalla legge), legalmente e continuativamente (ora, da almeno dieci anni) soggiornanti in Italia è subordinata al requisito “ulteriore” della titolarità della carta di soggiorno, divenuta permesso CE (ora UE) per soggiornanti di lungo periodo. Secondo la Corte non è né discriminatorio, né manifestamente irragionevole che il permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo sia il presupposto per godere di una provvidenza economica, quale l’assegno sociale, che si rivolge a chi abbia compiuto 65 anni di età. Tali persone ottengono infatti, alle soglie dell’uscita dal mondo del lavoro, un sostegno da parte della collettività nella quale hanno operato (non a caso il legislatore esige in capo al cittadino stesso una residenza almeno decennale in Italia), che è anche un corrispettivo solidaristico per quanto doverosamente offerto al progresso materiale o spirituale della società (art. 4 Cost.).

[54] Corte costituzionale, sentenze n. 137, n. 126 e n. 7 del 2021, n. 19 del 2022.

[55] Corte costituzionale, sentenza n. 34 del 2022: la ragionevole correlazione tra il requisito fissato dalla norma censurata (permesso di soggiorno di lungo periodo) e la ratio del reddito di inclusione discende dalla circostanza che tale provvidenza non si risolve in un mero sussidio economico, ma costituisce una misura più articolata, comportante anche l’assunzione di precisi impegni dei beneficiari, diretta ad immettere il nucleo familiare beneficiario in un «percorso volto al superamento della condizione di povertà, all’inserimento o reinserimento lavorativo e all’inclusione sociale» (art. 6, comma 2, lettera a, del d.lgs. n. 147 del 2017).

[56] Nella giurisprudenza della Corte l’elemento di discrimine basato sulla cittadinanza è stato ritenuto in contrasto con l’art. 3 Cost. e con lo stesso divieto di discriminazione formulato dall’art. 14 CEDU, con specifico riguardo alla pensione di inabilità, all’assegno di invalidità, all’indennità per ciechi e per sordi e all’indennità di accompagnamento (sentenze n. 230 e n. 22 del 2015, n. 40 del 2013, n. 329 del 2011, n. 187 del 2010, n. 11 del 2009 e n. 306 del 2008). Nella sentenza n. 432 del 2005, in tema di interventi in materia di trasporto pubblico locale e di viabilità è stato rilevato che mentre il criterio della residenza non è astrattamente irragionevole, lo diviene quello della cittadinanza, che nel caso di specie «si presenta come condizione ulteriore, ultronea e incoerente, agli effetti di un ipotetico regime differenziato rispetto ad una misura sociale che vede negli invalidi al 100% la categoria dei beneficiari».

[57] Oltre che dall’art. 3 Cost. e dall’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost.

[58] Cfr. Corte di giustizia UE, sentenze 24 ottobre 2013, in causa C-220/12, Andreas Ingemar Thiele Meneses, punti 22-29; 15 marzo 2005, in causa C-209/03, The Queen, ex parte di Dany Bidar, punti 51-54; 23 marzo 2004, in causa C-138/02, Brian Francis Collins; 30 settembre 2003, in causa C-224/01, Gerhard Köbler; 26 febbraio 2015, C−359/13, B. Martens contro Minister van Onderwijs, Cultuur en Wetenschap; 21 luglio 2011, C-503/09, Stewart c. Secretary of State for Work and Pensions.

Un criterio di ordine generale è fornito anche dagli articoli 4 e 11 della direttiva 2003/109/CE, del Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, i quali riconoscono lo status di soggiornante di lungo periodo ai cittadini di paesi che risiedano in uno Stato membro dell’Unione europea da almeno 5 anni, prevedendo che gli stessi siano equiparati ai cittadini dello Stato membro in cui si trovano ai fini, tra l’altro, del godimento dei servizi e prestazioni sociali. Sulla diretta applicabilità dell’art. 11, par. 1, della direttiva 2003/109/CE, cfr. la sentenza della Corte di giustizia Kamberaj, 24 aprile 2012, C-571/10[58], in un caso riguardante una discriminazione dei soggiornanti di lungo periodo in relazione ad un sussidio per l’alloggio previsto dalla Provincia autonoma di Bolzano. La Corte di Cassazione (sez. lavoro, sentenza n. 28745 del 2019) ha affermato la diretta applicabilità del citato art. 11 in relazione all’assegno per il nucleo familiare.

[59] La giurisprudenza della Corte EDU ha enucleato il principio, desunto direttamente dall’art. 14 CEDU (secondo cui «il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita o ogni altra condizione»), per cui ciascuno ha diritto ad usufruire della distribuzione di beni o benefici pubblici aventi rilievo anche economico senza subire discriminazioni che non dipendano dal corretto svolgimento delle specifiche finalità pubblicistiche perseguite nella distribuzione dei beni e dei benefici medesimi (vedi, ex plurimis, le sentenze 16 settembre 1996, Gaygusuz c. Austria, e 25 ottobre 2005, Okpsisz v. Germania, e Niedzwiecki v. Germania).

[60] Cfr. Corte costituzionale, sentenze n. 388 del 2004 e n. 252 del 2009.

[61] Sul tema, cfr. A. Trojsi, Le fonti del diritto del lavoro tra Stato e Regione, Torino, 2013.

[62] Cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 168 del 1987.

[63] Cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 50 del 2005.

[64] Cfr. Corte costituzionale sentenza n. 388 del 2004.

[65]  Cfr. Corte costituzionale, sentenze n. 147 del 2005 n. 167 del 1987.

[66] Cfr. le sentenze n. 158 del 1969, n. 86 del 1963, n. 13 del 1961, n. 15 del 1960, nonché l’ordinanza n. 33 del 1988.

[67] Per una disamina della disposizione e del suo incerto fondamento giuridico, cfr. Rusciano-Simeoli, Lavoro nelle pubbliche amministrazioni. V Amministrazione Statale, (voce) in Digesto delle discipline privatistiche, aggiornamento 2017.

[68] È noto il costante insegnamento della Corte Costituzionale, secondo cui «di una disposizione legislativa non si pronuncia l’illegittimità costituzionale quando se ne potrebbe dare un’interpretazione in violazione della Costituzione, ma quando non se ne può dare un’interpretazione conforme a Costituzione» (ex plurimis, sentenze n. 46 del 2013, n. 77 del 2007, ordinanze n. 102 del 2012, n. 212, n. 103 e n. 101 del 2011, n. 110, n. 192 e n. 322 del 2010, n. 257 del 2009, n. 363 del 2008).

[69] T.A.R. Firenze, sentenza n. 891 del 2017; TAR Latina sentenza n. 353 del 2018. Nel regime giuridico previgente, cfr. Consiglio di Stato, sez. I , 30 giugno 1999, n. 288, secondo cui, la p.a., qualora scelga di individuare il luogo di residenza quale requisito di partecipazione ovvero quale elemento valutabile mediante l’attribuzione di uno specifico punteggio, è tenuta a motivare congruamente le ragioni per le quali ritenga detto requisito effettivamente strumentale all’assolvimento di servizi, con obbligo di specificazione degli elementi caratterizzanti detto rapporto di strumentalità e delle concrete ragioni di non attuabilità del servizio per il quale è disposto il requisito di tipo territoriale.

[70] Cfr. la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea 30 settembre 2003, C-224/01, Gerhard Köbler v. Austria, secondo cui il rifiuto assoluto di riconoscere i periodi effettuati in qualità di professori universitari in uno Stato membro diverso dalla Repubblica d’Austria ostacola la libera circolazione dei lavoratori stabiliti in Austria, in quanto è tale da dissuadere questi ultimi dal lasciare il proprio paese per esercitare questa libertà.

[71] Corte costituzionale, sentenze: n. 124 del 2010; n. 391 del 2008; n. 64 del 2007; n. 440 del 2006; n. 247 del 2006; n. 62 del 2005; n. 505 del 2002; n. 161 del 2005; n. 207 del 2001; n. 440 del 2006 n. 428 del 2004; n. 362 del 1998.

[72] Corte costituzionale, sentenza n. 83 del 2018: si trattava di una disposizione regionale finalizzata a delimitare nel territorio regionale la platea dei confidi destinatari dell’intervento in controgaranzia di un fondo, con la conseguenza che i confidi privi di tale requisito ma intenzionati a fornire garanzie in favore delle PMI operanti in quel territorio non avrebbero potuto beneficiare dell’intervento in controgaranzia del fondo statale.

[73] Corte costituzionale, sentenza 242 del 2016: la fattispecie era relativa alla istituzione di marchi collettivi di qualità, di proprietà della Regione, istituiti per valorizzare il patrimonio produttivo e culturale nonché i prodotti di qualità del territorio regionale, disponendo a tal fine uno stanziamento di fondi. Vedi anche le sentenze n. 66 del 2013, n. 191 e n. 86 del 2012, e n. 213 del 2006

[74] Corte costituzionale, sentenza n. 440 del 2006: la norma censurata individuava, fra i criteri di selezione dei due terzi dei candidati da ammettere alla procedura ristretta per l’affidamento dei lavori pubblici di interesse regionale, anche quello della migliore idoneità di localizzazione, determinata sia in valore assoluto sia in relazione all’organico, cioè come rapporto tra numero totale di dipendenti e numero di dipendenti iscritti presso la sede regionale della cassa edile. Vedi anche la sentenza n. 207 del 2001: richiedere, per la partecipazione alle gare d’appalto, la sussistenza di un’organizzazione aziendale stabile sul territorio regionale equivale a discriminare le imprese sulla base di un elemento di localizzazione territoriale.

[75] Corte costituzionale, sentenza n. 190 del 2014: la norma regionale, subordinando la concessione dei contributi al requisito della sede legale e redazione principale ed operativa nel territorio provinciale, determinava un trattamento discriminatorio a svantaggio delle società con sede legale fuori dalla provincia, che esercitano il proprio diritto di stabilimento secondario tramite una succursale, filiale o agenzia.

[76] Corte costituzionale, sentenza n. 64 del 2007: la legge regionale individuava, fra i criteri preferenziali per il rilascio dell’autorizzazione all’esercizio e all’ampliamento dell’attività commerciale, la previa titolarità di un’altra grande struttura di vendita nel territorio regionale, determinando una barriera di carattere protezionistico alla prestazione, nel proprio ambito territoriale, di servizi di carattere imprenditoriale da parte di soggetti ubicati in qualsiasi parte del territorio nazionale, in difetto di una giustificazione ragionevole. Vedi anche la sentenza n. 9 del 2009.

[77] Corte costituzionale, sentenza n. 264 del 2013: la disposizione regionale prescriveva, al fine di ottenere l’iscrizione del richiedente in un ruolo costituente requisito indispensabile per il rilascio dei titoli per l’esercizio della specifica attività, la residenza protratta per un anno (ovvero l’ubicazione della sede legale) nel territorio regionale.

[78] Corte costituzionale, sentenze n. 264 del 2013, n. 340 e n. 180 del 2010, n. 64 del 2007 e n. 440 del 2006, del 2010. Nella giurisprudenza della Corte di giustizia, la «misura di effetto equivalente» (alle vietate restrizioni quantitative) è costantemente intesa in senso ampio e fatta coincidere con «ogni normativa commerciale degli Stati membri che possa ostacolare, direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, gli scambi intracomunitari» (Corte di giustizia, sentenze 6 marzo 2003, in causa C-6/2002, Commissione delle Comunità europee contro Repubblica Francese; 5 novembre 2002, in causa C-325/2000, Commissione delle Comunità europee contro Repubblica federale di Germania; 11 luglio 1974, in causa 8-1974, Dassonville contro Belgio). Ammettere che lo Stato membro, ovvero, un ente sub-statale, possa riservare un trattamento diverso alle società che operano sul suo territorio attraverso una sede secondaria, per il solo fatto che la sede principale si trova altrove, svuoterebbe di contenuto il diritto di stabilimento secondario (Corte di giustizia, sentenza 13 luglio 1993, in causa C-330/91, The Queen contro Inland Revenue Commissioners, ex parte Commerzbank AG; sentenza 12 aprile 1994, in causa C-1/93, Halliburton Services BV contro Staatssecretaris van Financiën; sentenza 28 gennaio 1986, in causa C-270/83, Commissione delle Comunità europee contro Repubblica francese).

[79] Cfr. l’art. 6, d.P.R. 19 giugno 1979, n. 348 (Norme di attuazione dello Statuto speciale per la Sardegna), e l’art. 8, d.P.R. 19 novembre 1987, n. 526 (Estensione alla regione Trentino-Alto Adige ed alle province autonome di Trento e Bolzano delle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616).

[80] Sulla evoluzione storica dello Stato regionale esiste una vastissima bibliografia. Cfr., ex plurimis, cfr. L. Paladin, Per una storia costituzionale dell’Italia repubblicana, Bologna, 2004; G. Marchetti, Le autonomie locali fra Stato e Regioni, Milano, 2002.

[81] Cfr. Paladin, Sulle funzioni di indirizzo e coordinamento nelle materie di competenza regionale, in Giur. cost., 1971, 189 ss.; Trimarchi Banfi, Questioni formali in tema di indirizzo e coordinamento, in Regioni, 1990, 1711 ss.

[82] Sul tema, A. Barbera, Regioni e interesse nazionale, Milano, 1974; R. Bin, L’interesse nazionale dopo la riforma: continuità dei problemi, discontinuità della giurisprudenza costituzionale, in Le Regioni, 2001, p. 1213 ss.

[83] Già nella sentenza n. 49 del 1958, la Corte affermava che, a fronte di un assetto in cui «due enti diversi esercitano funzioni diverse sullo stesso bene», «è ovvia l’esigenza d’una stretta collaborazione fra lo Stato che regola le acque lagunari e la Regione sarda, che regola l’attività della pesca», aggiungendo, altresì, che «questa collaborazione tra lo Stato e la Regione è del tutto normale nel sistema delle nostre autonomie, sia che si tratti d’attività legislativa, sia che si tratti di attività amministrativa». Nella sentenza n. 39 del 1984, la Corte delinea il fondamento del «meccanismo costituzionale della collaborazione tra Stato e Regioni». Nella sentenza n. 219 del 1984, si auspicava che «nell’applicazione della legge i rapporti tra Stato e Regioni ubbidiscano assai più che a una gelosa, puntigliosa e formalistica difesa di posizioni, competenze e prerogative, a quel modello di cooperazione e integrazione nel segno dei grandi interessi unitari della Nazione, che la Corte ritiene compatibile col carattere garantistico delle norme costituzionali». Vedi anche la sentenza n. 242 del 1997. In dottrina, vedi A. Gratteri, La faticosa emersione del principio di leale collaborazione nel quadro costituzionale, in La riforma del Titolo V della Costituzione e la giurisprudenza costituzionale, in Atti del seminario di Pavia svoltosi il 6-7 giugno 2003, a cura di E. Bettinelli, F. Rigano, Torino, p. 426 ss.

[84] Anzon, Principio cooperativo e strumenti di raccordo tra le competenze statali e regionali, in Giur. cost. 1986, 1039 ss.; Carrozza, Principio di collaborazione e sistema delle garanzie procedurali (la via italiana al regionalismo cooperativo), in Le Regioni, 1989, 473 ss.; A. D’Atena, Funzione III) Funzioni amministrative delle regioni, in Enc. giur., Treccani, Roma, 1989, XIV.

[85] Cfr. l’art. 2 della legge del 22 luglio 1975, n. 382, in combinato disposto con l’art. 4, comma 3, del d.P.R. n. 616 del 22 luglio 1977, poi implicitamente abrogato dall’art. 2, comma 3, lettera f), della legge n. 400 del 23 agosto 1988; art. 1, comma 3, n. 5, della legge n. 382 del 22 luglio 1975, attuato dall’art. 6 del d.P.R. n. 616 del 22 luglio 1977, successivamente modificato dall’art. 11 della l. n. 86 del 9 marzo 1989. A partire dal 1998, venne poi introdotta una disciplina generale del potere sostitutivo dello Stato nei confronti delle Regioni e degli altri Enti locali in relazione alle funzioni amministrative ad essi conferite, con l’art. 5 del d.lgs. n. 112 del 31 marzo 1998. Con la sentenza n. 408 del 1998, la Corte, scrutinando la relativa legge di delega, aveva confermato l’ammissibilità di poteri di intervento sostitutivo in capo allo Stato.

[86] La giurisprudenza costituzionale aveva ammesso, inizialmente, la sostituzione statale nei confronti delle sole funzioni delegate (sentenza n. 142 del 1972), per poi riconoscerne la legittimità costituzionale anche nei confronti delle funzioni proprie, limitatamente alla tutela degli obblighi internazionali ed europei assunti dallo Stato centrale (sentenze n. 182 del 1976 e n. 81 del 1979), sul presupposto che un eventuale inadempimento delle Regioni avrebbe esposto soltanto lo Stato a responsabilità giuridica nei confronti delle istituzioni internazionali e sovranazionali.

[87] Cfr. l’art. 48 della legge n. 142 dell’8 giugno 1990, poi sostituito dall’art. 17, comma 45, della legge n. 127 del 15 maggio 1997, ed infine dall’art. 137 del d.lgs. n. 267 del 18 agosto 2000.

[88] Cfr. Bartole, La Corte costituzionale e la ricerca di un contemperamento fra supremazia e collaborazione nei rapporti fra Stato e Regioni, in Le Regioni, 1988, 563 ss.

[89] Su questi profili, cfr., ex plurimis, Cortese, Le Regioni Co-Legislatori E Co-Amministratori: Ambizioni Originarie, Oscillazioni Attuative, Potenziali Traguardi, in Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico, 1, 2023, p. 335 ss.

[90] Si pensi a: l’art. 116, comma 3, che prevede intese finalizzate al riconoscimento di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia (autonomia regionale differenziata); l’art. 117, comma 5 Cost. che sancisce la partecipazione delle Regioni alle fasi ascendente e discendente di elaborazione ed attuazione del diritto comunitario; l’art. 118, comma 3 Cost., il quale prevede forme di coordinamento fra Stato e Regioni in materia di immigrazione, ordine pubblico e polizia locale, nonché forme di intesa e coordinamento in materia della tutela dei beni culturali; l’art. 119 Cost. concernente il federalismo fiscale. Su tali profili, cfr. A. Piraino, Strumenti di coordinamento e sedi di controllo nella prospettiva federale, in A. Patroni Griffi-M. Ricca (a cura di), Gli Enti locali nello scenario federalista, Formez, 2006, 931 ss.; A. D’Atena, Diritto regionale, Torino, 2013, 333 ss.

[91] Basti citare: il principio di prevalenza in caso di intreccio non districabile di materie; la teorizzazione della c.d. chiamata in sussidiarietà (a partire dalla sentenza n. 303 del 2003); la tendenza a individuare i principi fondamentali delle materie concorrenti anche tra le norme di dettaglio; la lettura ampia di alcune materie trasversali, quali la tutela della concorrenza, la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, la tutela dei beni culturali, e la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (anche all’interno dei limiti previsti dagli statuti speciali per l’esercizio della potestà legislativa piena o primaria).

[92] La legge in questione è la legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), il cui art. 8 è espressamente destinato all’attuazione dell’art. 120, secondo comma, Cost.

[93] Sul tema dei poteri sostitutivi, la letteratura è amplissima. Cfr., ex plurimis, De Michele, L’art. 120 della Costituzione e il suo ruolo nella riforma del Titolo V, in Le Istituzioni del Federalismo n. 5 del 2008, 623 ss.: C. Mainardis, Poteri sostitutivi statali e autonomia amministrativa regionale, Milano, 2007; Cesare Pinelli, Autonomia e decentramento. I due princìpi incontestati di un controverso regionalismo, in Giurisprudenza Costituzionale, 3, 1 giugno 2021, 1459; G. Veronesi, Il regime dei poteri sostitutivi alla luce del nuovo art. 120, comma 2, Cost., in Le istituzioni del federalismo, 2002, p. 733; P. Caretti, Rapporti tra Stato e Regioni: funzione di indirizzo e coordinamento e potere sostitutivo, in Le Regioni, 2002, p. 1327; A. Police, Sussidiarietà e poteri sostitutivi: la funzione amministrativa nello Stato plurale, in L. Chieffi-G. Clemente di San luca (a cura di), Regioni ed enti locali dopo la riforma del Titolo V della Costituzione fra attuazione ed ipotesi di ulteriore revisione, Torino, 2004; S. Pajno, La sostituzione tra gli enti territoriali nel sistema costituzionale italiano, Due Ponti, Palermo, 2007; L. Buffoni, La metamorfosi della funzione di controllo nella Repubblica delle Autonomie. Saggio critico sull’art. 120, comma II, della Costituzione, Torino, 2007, p. 223 ss.; V. Tamburrini, I poteri sostitutivi statali: tra rispetto dell’autonomia regionale e tutela del principio unitario, Milano, 2012; G. Avanzini, Il commissario straordinario, Torino, 2013; V. Cerulli Irelli, Art. 8, in AA.VV., Legge “La Loggia”. Commento alla L. 5 giugno 2003, n. 131, di attuazione del Titolo V della Costituzione, Maggioli, 2003, p. 173 ss.; M. Bombardelli, La sostituzione amministrativa, Padova, 2004, pp. 321-322; Q. Camerlengo, Voce Potere sostitutivo, in Digesto delle discipline pubblicistiche, agg. III, Torino, 2008, 653 ss.; R. Dickmann, Competenza e regime giuridico dei provvedimenti adottati nell’esercizio dei poteri sostitutivi e di ordinanza del governo, in Foro amm. CDS, 9, 2008, p. 2549. Con riguardo all’assetto normativo previgente al 2001, vedi: G. Greco, Il potere di sostituzione dello Stato alle Regioni, in Foro amm., 1989, 3, 888 ss.; G. Sirianni, Inerzia amministrativa e poteri sostitutivi, Milano, 1991; F. Bassanini, Attuazione regionale di direttive comunitarie e intervento sostitutivo del Governo, in Le Regioni, 1977, p. 148 ss.; P. Caretti, Potere sostitutivo dello Stato e competenze regionali in attuazione di obblighi comunitari, in Giur. cost., 1976, p. 2223 ss, F. G. Scoca, Potere sostitutivo e attività amministrativa di controllo, in AA.VV. Aspetti e problemi dell’esercizio del potere di sostituzione nei confronti dell’amministrazione locale. Atti del convegno di studi amministrativi (Cagliari 19-20 dicembre 1980), Milano, 1983; C. Barbati, Inerzia e pluralismo amministrativo. Caratteri, sanzioni, rimedi, Milano, 1992.

[94] Cfr. in dottrina P. Cavalieri, Il potere sostitutivo sui Comuni e sulle Province, in Le Regioni, 2003, 5, p. 846 ss.

[95] Sulla sentenza n. 43 del 2004, cfr. F. Merloni, Una definitiva conferma della legittimità dei poteri sostitutivi regionali (commento alla sentenza n. 43 del 2004, in Le Regioni, 2004, 4, p. 1074 ss.

[96] Sui poteri sostitutivi ordinari, cfr. C. Mainardis, Poteri sostitutivi statali ed autonomia amministrativa regionale, Milano, 2007. Tra le pronunce della Corte costituzionale sui poteri sostitutivi ordinari vedi: l’ordinanza n. 53 del 28 febbraio 2003; le sentenze nn. 69, 70, 71, 72, 73, 74 del 2004, sentenza n. 112 del 2004, n. 140 del 2004, n. 173 del 2004; n. 227 del 2004; n. 167 del 2005; n. 300 del 2005.

[97] Corte costituzionale, sentenza n. 43 del 2004. In tal senso, vedi anche le sentenze n. 236 del 2004, n. 285 del 2005.

[98] Cfr. Corte costituzionale, sentenze 217 del 2020, n. 168 del 2021, n. 44 del 2014.

[99] Tale eliminazione comporta che lo Stato non può più adottare norme legislative o atti di indirizzo e coordinamento che incidono sulle competenze legislative ed amministrative delle Regioni, fondati sul presupposto del perseguimento di un interesse nazionale. La funzione svolta dall’interesse nazionale è stata in parte raccolta dal principio di sussidiarietà. In dottrina, sul tema, cfr. P. Caretti, La Corte e la tutela delle esigenze unitarie: dall’interesse nazionale al principio di sussidiarietà, in Le Regioni, 2004, 2-3, p. 381 ss.; C. Padula, Principio di sussidiarietà verticale ed interesse nazionale: distinzione teorica, sovrapposizione pratica, in www.federalismi.it, 2006, p. 14.

[100] La dottrina ha messo in evidenza le differenze dell’istituto in esame rispetto alle clausole di coazione previste in altri Paesi, pure aventi in comune la ratio di tutelare interessi essenziali, che altrimenti non potrebbero essere garantiti. La coazione federale tedesca (Bundeszwang), prevista all’art. 37 della Legge fondamentale, stabilisce: «Se un Länd non adempie agli obblighi federali che gli incombono in base alla […] Legge fondamentale o ad un’altra legge federale, il Governo federale, con l’assenso del Bundesrat, può adottare le misure necessarie per obbligare coattivamente il Länd mediante la coazione federale ad assolvere i propri doveri». La coazione federale implica dunque un controllo più ampio dell’art. 120 Cost., comma secondo, dove il potere sostitutivo può essere esercitato solo se vi sono i presupposti espressamente indicati nella Costituzione. L’art. 155, primo comma, della Costituzione spagnola dispone che: «Ove la Comunità Autonoma non ottemperi agli obblighi imposti dalla Costituzione o dalle altre leggi, o si comporti in modo da attentare gravemente agli interessi generali della Spagna, il Governo, previa sollecitazione al Presidente della Comunità Autonoma e, nel caso non riceva risposta, con l’approvazione della maggioranza assoluta del Senato, potrà prendere le misure necessarie per obbligarla all’adempimento forzato di tali obblighi o per la protezione di detti interessi». Tale articolo, secondo alcuni, è più paragonabile al potere sanzionatorio di scioglimento degli organi regionali, previsto all’art. 126 Cost., che non a quello sostitutivo. Nell’ordinamento tedesco, la tutela dell’unità nazionale è perseguita anche attraverso un meccanismo flessibile di allocazione delle competenze da attivare allorché la dimensione degli interessi da soddisfare si riveli essa stessa mobile: la c.d. «konkurrierende Gesetzgebung» di cui all’art. 72 della Costituzione federale. Per una accurata disamina comparativa, cfr. G. Marchetti, Le garanzie dell’unità negli Stati unitari composti, in www.federalismi.it, n. 12/2018, p. 20-21; G. Rolla, Il sistema costituzionale italiano, Elementi di diritto costituzionale comparato, V, Milano, 2014, p. 125 ss.

[101] In campo ambientale il ricorso ai meccanismi sostitutivi ordinari è particolarmente accentuato. Le principali disposizioni del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, sono; l’art. 63, comma 6, lettera f) sull’attuazione dei programmi di intervento previsti dal piano di bacino; l’art. 132 sulla disciplina in materia di corpi idrici e scarichi; l’art. 147, comma 1 e 1-bis, rispettivamente sull’individuazione degli enti di governo d’ambito e sull’adesione degli Enti locali all’ente di governo d’ambito per la gestione del servizio idrico integrato; l’art. 152, commi 2 e 3, in caso di inadempimento del gestore rispetto agli obblighi connessi al servizio idrico integrato; l’art. 158, comma 2, sulle opere e interventi per il trasferimento di acqua; l’art. 172, comma 4 per la redazione dei piani d’ambito o per la scelta della forma di gestione e il relativo affidamento, l’art. 191, comma 2, per la corretta gestione dei rifiuti, l’art. 199, comma 9, sull’approvazione o adeguamento del piano regionale sui rifiuti, l’art. 204, comma 3, per la gestione integrata dei rifiuti, l’art. 208, comma 10, in materia di autorizzazione unica per i nuovi impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti.

[102] Corte Costituzionale sentenza n. 171 del 2015, che richiama le sentenze n. 227, n. 173, n. 172 e n. 43 del 2004.

[103] Corte costituzionale, sentenze n. 371 del 2008, n. 236 del 2004.

[104] Cfr. F. Giuffrè, Note minime su poteri sostitutivi statali e unità della Repubblica alla luce della recente legge 131 del 2003 (cd. Legge «La Loggia»), in Forum di quaderni costituzionali, 2003. Per una sintesi del dibattito, cfr. C. Mainardis, Art. 120 Cost., in Commentario alla Costituzione della Repubblica Italiana, a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Torino, 2007, p. 2390; L. Buffoni, La metamorfosi della funzione di controllo nella Repubblica delle autonomie. Saggio critico sull’art. 120, comma 2, della Costituzione, Torino, 2007, p. 223 ss.; A. De Michele, L’art. 120 della Costituzione e il suo ruolo nella riforma del Titolo V, in Le Istituzioni del Federalismo, n. 5 del 2008. In giurisprudenza, cfr. TAR Toscana, Firenze, sez. I, 11 del 16 gennaio 2003, secondo cui la sostituzione amministrativa sarebbe sottratta ad ogni forma di controllo diverso dal controllo politico del Parlamento sull’operato del Governo, nonché dal controllo della Corte costituzionale, diretto alla verifica del rispetto delle procedure disciplinate dalla legge di attuazione dell’art. 120, comma 2, Cost., e dei principi di sussidiarietà e di leale cooperazione.

[105] Su queste basi, sono stati ricondotti alla categoria dell’atto politico: la nomina dei senatori a vita; il documento di programmazione economica e finanziaria con l’allegato relativo all’elenco delle infrastrutture e degli insediamenti strategici da realizzare, qualificati come manifestazioni di indirizzo politico-amministrativo, incapaci di ledere posizioni soggettive; la decisione con cui il Governo chiede alla UE l’autorizzazione alla concessione di aiuti di Stato ; la decisione del Governo di non avviare le trattative con una confessione religiosa ai fini della stipulazione dell’intesa ex art. 8, comma 3, Cost.

[106] In dottrina, cfr. C. Cudia, Considerazioni sull’atto politico, in Diritto Amministrativo, 3, 2021, pag. 621; G. Tropea, Genealogia, comparazione e decostruzione di un problema ancora aperto: l’atto politico, in Diritto amministrativo, 3, 2012, pag. 329; G. Grottanelli De’ Santi, Atto politico e atto di governo, in Enc. giur., IV, Roma, 1988, 4.

Nella giurisprudenza costituzionale, vedi la sentenza n. 81 del 2012, in tema di nomina degli assessori da parte del Presidente della Giunta: «quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto. Nella misura in cui l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate». Vedi anche la recente sentenza n. 52 del 2016 risolve favore del Governo la questione se la richiesta (nella specie, avanzata dalla Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti) di avviare le trattative per l’intesa ex art. 8, comma terzo, Cost., costituisca o meno una “pretesa” giustiziabile. Contraddicendo le sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 16305 del 2013), la Corte afferma che «anche [nel]l’individuazione, in concreto, dell’interlocutore […] hanno peso decisivo delicati apprezzamenti di opportunità». Tale statuizione, che finisce per subordinare un diritto fondamentale della minoranza all’insindacabile apprezzamento della maggioranza di governo, suscita alcune riserve per la dilatazione del politicamente riservato che ne consegue. La qualificazione giuridica dell’istante in termini di confessione religiosa non appare diversa dalla comune attività interpretativa che il giudice deve impiegare in presenza di una fattispecie normativa che contempli tra i suoi elementi un concetto giuridico indeterminato.  La Corte avverte che, in futuro, potrebbe giungersi a diverse conclusioni «se il legislatore decidesse, nella sua discrezionalità, di introdurre una compiuta regolazione del procedimento di stipulazione delle intese, recante parametri oggettivi, idonei a guidare il Governo nella scelta dell’interlocutore». Può, tuttavia, replicarsi che a delimitare la discrezionalità del Governo stavano già le norme che disciplinano il giusto procedimento amministrativo. La sentenza afferma altresì che «un’autonoma pretesa giustiziabile all’avvio delle trattative non è configurabile proprio alla luce della non configurabilità di una pretesa soggettiva alla conclusione positiva di esse». Sennonché, si potrebbe anche qui obiettare che la legalità procedimentale deve essere osservata (forse con maggiore fondamento) anche quando l’istanza avanzata dal cittadino non sia a “risultato garantito”.

[107] La giurisprudenza ha ricondotto alla nozione di alta amministrazione i seguenti atti: la nomina ad avvocato generale dello Stato di persona estranea all’amministrazione; le deliberazioni della Cassa per il Mezzogiorno di diniego di concessione di contributi sugli interessi per finanziamenti industriali; lo scioglimento di associazioni politiche e la confisca dei loro beni; gli atti della Commissione statale di controllo sulle Regioni; la nomina dei membri del CNEL; il provvedimento col quale un ufficiale dei carabinieri in servizio presso il Sismi è stato restituito all’amministrazione di appartenenza; lo scioglimento dei consigli comunali e la rimozione del sindaco; il decreto col quale il Ministro della giustizia concede l’estradizione; il decreto del Ministro dell’interno col quale si dispone “per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato” l’espulsione dello straniero ai sensi dell’art. 13 d.lgs. n. 286/1998; il decreto di scioglimento dei Consigli comunali e provinciali per “collegamenti diretti o indiretti degli amministratori con la criminalità organizzata” ex art. 143 t.u.e.l.; la determinazione con la quale il Ministero delle comunicazioni ha negato l’autorizzazione alla cessione, da parte della Rai, di azioni di una società controllata,

[108] Sulla distinzione, cfr. F. Benvenuti, I controlli sostitutivi nei confronti dei Comuni e l’ordinamento regionale, in Rass. amm. Rep. it., 1956, p. 241 ss.

[109] Corte costituzionale, sentenza n. 50 del 2015.

[110] In base al criterio dell’oggetto del controllo, si ripropone la fondamentale distinzione tradizionalmente stabilita tra «controlli sulle persone» e «controlli sugli atti». In base al criterio della misura i controlli si distinguono spesso in preventivi, repressivi, sostitutivi. In funzione del tempo di formazione della fattispecie che ne è oggetto, si articola la distinzione dei controlli in «preventivi» e «successivi». Si distingue pure tra «controlli necessari» e «controlli eventuali», nonché (in funzione dei canoni di giudizio) tra «controlli di legittimità» e «controlli di merito».

[111] Sulle funzioni dei controlli amministrativi, cfr. Sirianni, Inerzia amministrativa, 1991, 1.

[112] In generale sul tema, cfr. Berti Giorgio, Tumiati Leopoldo, Controlli Amministrativi (voce), in Enciclopedia del diritto, X, 1962.

[113] Su questi profili D. Piccione, Gli enigmatici orizzonti dei poteri sostitutivi del Governo: un tentativo di razionalizzazione, in Giur. cost., 2003, II, p. 1220 ss.

[114] L’art. 8, comma 2, aggiunge lo specifico riferimenti alla «violazione della normativa comunitaria».

[115] Secondo, D’Atena, op. cit., tra le due disposizioni ci sono differenze di campo di applicazione (oggettivo e soggettivo) e di strumenti utilizzabili (in quanto l’art. 120, comma 2, non si estende alla sostituzione legislativa ma solo a quella amministrativa e regolamentare). In tal senso, anche C. Mainardis, Art. 120, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, Vol. III., Milano, 2006, 2391. 

[116] Tale legge reca le norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea.

[117] L’art. 10 della legge 4 febbraio 2005, n. 11 ammette uno specifico intervento legislativo statale preventivo, volto a dare attuazione alla normativa europea nelle materie regionali, qualora tale adeguamento abbia carattere d’urgenza, e in particolare «a fronte di atti normativi e di sentenze degli organi giurisdizionali delle Comunità europee e dell’Unione europea che comportano obblighi statali di adeguamento solo qualora la scadenza risulti anteriore alla data di presunta entrata in vigore della legge comunitaria relativa all’anno in corso».

[118] Cfr. M. Piantedosi, Il nuovo sistema dell’ordine pubblico e della sicurezza dopo la riforma del Titolo V, Parte seconda, della Costituzione, in www.federalismi.it, 2004, p. 12.

[119] Le prime manifestazioni delle c.d. ordinanze ‘libere’ risalgono all’art. 2 del regio decreto18 giugno 1931, n. 773. Nella medesima categoria tipologica di atto amministrativa va ricondotto oggi anche l’art. 54, comma 2, del testo unico degli Enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000 n. 267.

[120] Il decreto legislativo 2 gennaio 2018, n. 1 (Codice della protezione civile) abroga e sostituisce la legge del 1992.

[121] Cfr. Corte costituzionale sentenze n. 214 del 2005, n. 321 del 2005, n. 32 del 2006, n. 82 del 2006, n. 129 del 2006 e n. 284 del 2006, n. 277 del 2008. Secondo una parte della dottrina, invece, la disciplina della legge n. 225 del 1992 avrebbe invece trovato copertura costituzionale proprio a seguito della modifica dell’art. 120 Cost. ad opera della l.c. n. 3 del 2001: cfr. F. Giuffrè, Note minime su poteri sostitutivi ed unità della Repubblica alla luce della recente legge n. 131 del 2003 (cd. legge “La Loggia”), in www.forumcostituzionale.it.

[122] Si tratta di una nozione ampia, comprendente le catastrofi naturali e ogni altro evento che per intensità ed estensione non potesse essere fronteggiato con mezzi ordinari.

[123] Cfr. l’art. 25 del decreto legislativo 2 gennaio 2018, n. 1. Per completezza, va rimarcato che appaiono del tutto diverse le figure commissariali previste dall’art. 11 della legge 23 agosto 1988, n. 400, le quali sono investite di particolari e temporanee esigenze di coordinamento operativo (soltanto) tra amministrazioni statali, prive peraltro del carattere emergenziale.

[124] Cfr. C. Pinelli, I limiti generali alla potestà legislativa statale e regionale e i rapporti con l’ordinamento internazionale e con l’ordinamento comunitario, in Foro it., 2001, V, 10, 198.

[125] La norma costituzionale tedesca stabilisce che, nelle materie riservate dall’art. 74 alla legislazione concorrente, il Bund (la Federazione) ha il potere di legiferare «se lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica, ed in particolare la tutela dell’uniformità delle condizioni di vita, prescindendo dai confini territoriali di ogni singolo Land». La konkurrierende gesetzgebung incide dunque sulla titolarità stessa della funzione legislativa esercitata dal Parlamento e solo nelle materie enumerate. Diversamente, il potere sostituivo previsto dalla Costituzione italiana incide solo sull’esercizio della competenza, è effettuato dal Governo e può riguardare tutti gli ambiti di competenza delle Regioni.

[126] Vedi le sentenze della Corte costituzionale n. 198 del 2004, n. 62 del 2005 e n. 284 del 2006.

[127] P. Capacci, A. Martin, Il potere sostitutivo dopo la modifica del Titolo V della Costituzione (brevi note a margine della sentenza della Corte costituzionale 27 gennaio 2004, n. 43), in Dir. Regione, 2004, 3-4, 397.

[128] Un riferimento all’unità dell’ordinamento, è presente nell’art. 138 del d.lgs. n. 267 del 2000, il quale prevede il potere del Governo di annullare in qualunque tempo, d’ufficio o su denunzia, gli atti degli Enti locali affetti da illegittimità.

[129] Sui livelli essenziali delle prestazioni cfr.: E. Balboni, I livelli essenziali e i procedimenti per la loro determinazione, in Le Regioni, 2003, 6, p. 1187 ss.; R. Tosi, Cittadini. Stato e Regioni di fronte ai livelli essenziali delle prestazioni, in Quad. cost., 2003, 3, p. 629 ss.; C. Pinelli, Sui “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” (art. 117, comma 2, lett. m), Cost.), in Dir. pubbl., 2002, 4, p. 900.

[130] Cfr. Corte costituzionale n. 6 del 2004, secondo cui l’utilizzazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali quale fondamento dell’esercizio dei poteri sostitutivi, ai sensi dell’art. 120, comma 2, Cost., presuppone di norma che lo Stato abbia previamente esercitato la propria potestà legislativa di tipo esclusivo. Vedi anche la sentenza n. 219 del 2013.

[131] Cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 121 del 2012.

[132] In senso contrario all’ammissibilità dell’intervento sostitutivo del Governo in ambito legislativo, cfr., ex plurimis: G. Falcon, Il nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione, in Le Regioni, n. 1/2001, p. 12; C. Mainardis, Il nuovo regionalismo italiano e i poteri sostitutivi statali: una riforma costituzionale con (poche) luci e (molte) ombre, in Le Regioni, 2001, 6, p. 1357 ss.; F. Biondi, I poteri sostitutivi, in N. Zanon, A. Concaro, L’incerto federalismo. Le competenze statali e regionali nella giurisprudenza costituzionale, Milano, 2005, p. 106 ss.; G. Veronesi, Il regime dei poteri sostitutivi alla luce del nuovo art. 120, comma 2, della Costituzione, in questa Rivista, 5, 2002, p. 742 ss.; G. Scaccia, Il potere di sostituzione in via normativa nella legge n. 131 del 2003, in Le Regioni, 2004, 4, p. 683 ss.; R. Dickmann, Osservazioni in tema di sussidiarietà e poteri sostitutivi dopo la legge cost. n. 3 del 2001 e la legislazione di attuazione, in Giur. Cost., n. 1/2003, p. 502.; R. Tosi, La legge costituzionale n. 3 del 2001: note sparse in tema di potestà legislativa ed amministrativa, in Le Regioni, 2001, 1242; G. Marazzita, I poteri sostitutivi fra emergency clause e assetto dinamico delle competenze, in Le istituzioni del federalismo, 2005, 818 ss.

Favorevoli alla surrogazione dello Stato in via legislativa, cfr., ex plurimis: M. Luciani, Le nuove competenze legislative delle Regioni a Statuto ordinario. Prime osservazioni sui nodi problematici della l. cost. n. 3 del 2001, in www.associazionedeicostituzionalisti.it; G.M. Salerno, La disciplina legislativa dei poteri sostitutivi tra semplificazione e complessità ordinamentale, in www.federalismi.it; A. Papa, Art. 8. Attuazione dell’art. 120 della Costituzione sul potere sostitutivo, in AAVV, Il nuovo ordinamento della Repubblica, Milano, 2003, p. 542 ss.; G. Matucci, Il potere sostitutivo in via legislativa e l’attuazione regionale delle direttive comunitarie dopo la riforma del Titolo V, in E. Bettinelli, F. Rigano, La riforma del Titolo V della Costituzione e la giurisprudenza costituzionale, Atti del seminario di Pavia svoltosi il 6-7 giugno 2003, Torino, 2004, p. 475 ss.; S. Pajno, I poteri sostitutivi nei confronti degli enti territoriali, in di G. Corso, V. Lopilato (a cura di), Il diritto amministrativo dopo le riforme costituzionali. Parte generale, Milano, 2006, p. 430 ss.; C. Pinelli, I limiti generali alla potestà legislativa statale e regionale e i rapporti con l’ordinamento internazionale e con l’ordinamento comunitario, in Foro it., 2001, V, p. 189 ss.; F. Giuffrè, Note minime su poteri sostitutivi e unità della Repubblica alla luce della recente legge 131 del 2003 (cd. legge “La Loggia”), in Forum di Quaderni costituzionali, 2003; E. Gianfrancesco, Il potere sostitutivo, in T. Groppi, M. Olivetti (a cura di), La Repubblica delle autonomie, Torino, 2001, 186.

[133] Un riferimento del tutto indiretto è rilevabile nella sentenza della Corte costituzionale n. 236 del 2004, che riferendosi all’art. 120, comma 2, Cost. stabilisce che «La disposizione è posta a presidio di fondamentali esigenze di eguaglianza, sicurezza, legalità che il mancato o illegittimo esercizio delle competenze attribuite, nei precedenti artt. 117 e 118, agli enti sub-statali, potrebbe lasciare insoddisfatte o pregiudicare gravemente». Attraverso il riferimento agli artt. 117 e 118 Cost., la sentenza sembrerebbe presupporre che l’ambito del potere sostitutivo sia esteso anche alle funzioni legislative oltre a quelle amministrative. Ulteriori ‘aperture’ sono contenute nelle sentenze n. 361 del 2010, n. 49 del 2018 (in cui prefigura l’approvazione del rendiconto in via sostitutiva). La sentenza n. 233 del 2019 ha espressamente ricondotto il decreto-legge 30 aprile 2019, n. 35 (relativo ad un complessivo intervento normativo in materia sanitaria per una singola Regione al potere sostitutivo straordinario) alla competenza esclusiva dello Stato, in quanto «attinente all’esercizio del potere sostitutivo statale ex art. 120 Cost., che può estrinsecarsi anche attraverso l’adozione di atti normativi, ai sensi dell’art. 8 della legge n. 131 del 2003» (nello stesso senso e con riguardo allo stesso decreto-legge, vedi anche la sentenza n. 209 del 2021). Sembra presupporre l’ammissibilità della surrogazione in via legislativa anche la sentenza n. 168 del 2021.

[134] La norma di modifica del testo dell’art. 120, comma 2, recitava che «Lo Stato può sostituirsi alle Regioni, alle Città metropolitane, alle Province e ai Comuni nell’esercizio delle funzioni loro attribuite dagli artt. 117 e 118 nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria, oppure di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica e dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali e nel rispetto dei principi di leale collaborazione e di sussidiarietà».

[135] Deduce dal riconoscimento esplicito della sostituzione normativa, ai sensi dell’art. 117, comma 5, Cost., una conferma implicita della limitazione dei poteri sostitutivi ex art. 120 Cost. alle sole funzioni amministrative, P. Cavaleri, Diritto regionale, Padova, 2003, 264 ss.

[136] Si tratta della c.d. “attrazione in sussidiarietà”, enunciato per la prima volta nella sentenza della Corte costituzionale n. 303 del 2003.

[137] Cfr. le considerazioni di S. Pajno, Un bilancio dei poteri sostitutivi straordinari a vent’anni dalla entrata in vigore della legge cost. n. 3 del 2001, con qualche modesta proposta, in www.federalismi.it, 2022, XX, 102 ss.

[138] Cfr. le considerazioni di A. D’Atena, Poteri sostitutivi e konkurrierende Gesetzgebung, sul sito dell’AIC, 14 gennaio 2003, p. 3 ss.

[139] Alcune sentenze della Corte costituzionale (n. 64 del 2020, n. 121 e n. 176 del 2010, n. 401 del 2007, n. 13 del 2004) sembrano ammettere, anche dopo la riforma del Titolo V, la tecnica delle norme di dettaglio cedevoli a completamento dei principi fondamentali. 

[140] In dottrina, cfr., ex plurimis: Cfr. P. Iovino, Gli atti sostitutivi normativi: inquadramento nel sistema delle fonti, in Nuove autonomie, 2003, 4-6, p. 943 ss.; S. Ganci, La sostituzione legislativa: un’ipotesi di dubbia legittimità costituzionale, in Nuove autonomie, 2003, 4-6, p. 945 ss.; D. Piccione, Gli enigmatici orizzonti dei poteri sostitutivi del Governo: un tentativo di razionalizzazione, in Giur. cost., 2003, II, p. 1207 ss.; R. Tosi, La legge costituzionale n. 3 del 2001: note sparse in tema di potestà legislativa ed amministrativa, in Le Regioni, 2001, 6, p. 1242.

[141] M. Picchi, L’amministrazione regionale, Milano, 2005, p. 549.

[142] Cfr. G. Scaccia, Il potere di sostituzione in via normativa, cit., 883 ss., il quale parla di un decreto-legge «atipico», in quanto subordinato a vincoli procedimentali e sostanziali diversi da quelli previsti dall’art. 77 Cost.

[143] G.U. Rescigno, Note per la costruzione di un nuovo sistema delle fonti, in Diritto pubblico, 2002, pp. 816-817.

[144] Cfr. F.S. Marini, Il nuovo Titolo V: l’epilogo delle garanzie costituzionali sull’allocazione delle funzioni amministrative, in Le Regioni, 2002, 2-3, p. 405 ss.

[145] Corte Costituzionale, le sentenze 2 luglio 1956, n. 8, 27 maggio 1961, n. 26, 14 aprile 1995, n. 127. Per la verità, l’analisi empirica rileva che le predette condizioni spesso non sono state osservate. Il presupposto dell’imprevedibilità non era riscontrabile quando la legislazione considerava, tra le circostanze che possono dare vita all’esercizio dei poteri di ordinanza, anche fatti di disfunzione amministrativa e di amministrazione complessa (i c.d. “grandi eventi” sono stati poi abrogati dall’art. 40-bis comma 1, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1).  In dottrina, A. Romano Tassone, La normazione secondaria, in L. Mazzarolli, G. Pericu, A. Romano, F.A. Roversi Monaco, F.G. Scoca, Diritto amministrativo, Bologna, 2005, I, p. 56 ss.; V. Cerulli Irelli, Art. 8. Attuazione dell’art. 120 sul potere sostitutivo, in C. Cittadino (a cura di), Legge La Loggia, Bologna 2003, p. 172 ss.

[146] In dottrina, cfr. F. Corvaja, Preferenza di genere e sostituzione legislativa della regione Puglia: il fine giustifica il mezzo?, cit., p. 610 ss.; P. Colasante, Il Governo “riscrive” la legge elettorale della Regione Puglia con la doppia preferenza di genere: profili problematici dell’esercizio del potere sostitutivo sulla potestà legislativa regionale, cit., p. 15 ss.; D. Casanova, Riflessioni sulla legittimità della sostituzione legislativa da parte del Governo ex art. 120 Cost. Note critiche a partire dal decreto-legge n. 86 del 2020, cit., p. 11 ss.; F. Covino, Potere sostitutivo del Governo e doppia preferenza di genere nelle elezioni pugliesi di fine estate, in Osservatorio AIC, n. 5 del 2020; M. Cosulich, Ex malo bonum? Ovvero del decreto-legge n. 86 del 2020 che introduce la doppia preferenza di genere nelle elezioni regionali pugliesi, in www.federalismi.it, n. 25 del 2020.

[147] P. Colasante, Il Governo “riscrive” la legge elettorale della Regione Puglia con la doppia preferenza di genere: profili problematici dell’esercizio del potere sostitutivo sulla potestà legislativa regionale, cit., 11, sostiene che, in virtù meccanismo è quello previsto dall’art. 10 della legge n. 62 del 1953 (cd. “legge Scelba”), secondo cui «le leggi della Repubblica che modificano i principi fondamentali (…) abrogano le norme regionali che siano in contrasto con esse» (sulla cui operatività, anche dopo la riforma del 2001, cfr. le sentenze della Corte costituzionale n. 376 del 2002, n. 302 e n. 307 del 2003, n. 223 del 2007, n. 272 del 2010 e n. 117 del 2015), la legge elettorale della Regione Puglia sarebbe stata implicitamente abrogata, per la parte incompatibile, dall’art. 4, comma 1, lettera c-bis), n. 1), della legge n. 165 del 2004, che quindi vi avrebbe introdotto il meccanismo della doppia preferenza di genere.

[148] La giurisprudenza costituzionale non si è occupata direttamente della sostituzione c.d. preventiva. Un riferimento nel senso dell’ammissibilità, nei casi di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, sembrerebbe emergere nella sentenza n. 6 del 2004.

[149] Cfr. F. Giuffrè, Note minime sui poteri sostitutivi e unità della Repubblica alla luce della recente legge 131 del 2003 (c.d. «legge La Loggia»), in www.forumcostituzionale.it, 14 luglio 2003; M. Bombardelli, La sostituzione amministrativa, Padova, 2004, 215.

[150] C. Mainardis, Il potere sostitutivo. Commento all’art. 8, in G. Falcon (a cura di), Stato, Regioni ed Enti locali nella legge 5 giugno 2003, n. 131, Bologna, 2003, 157 ss.; P. Veronesi, I principi in materia di raccordo Stato-Regioni dopo la riforma del Titolo V, in Le Regioni 2003, 1056.

[151] La stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 227 del 16 luglio 2004, sia pure in relazione alla cd. sostituzione ordinaria, ha stabilito che l’inerzia può consistere sia in una inattività sia in una violazione dei termini, delle forme e dei contenuti degli atti prescritti. Per il caso dell’estensione del potere in caso di illegittimo esercizio delle competenze attribuite, vedi anche le sentenze nn. 249 del 2009, 44 del 2014, 383 del 2015.

[152] Sulla sopravvivenza, invece, anche dopo la riforma costituzionale del 2011, del generale potere di annullamento governativo nei confronti degli atti degli Enti locali, di cui all’art. 138 del d.lgs. n. 267 del 2000, vedi Consiglio di Stato, sez. I, n. 1313 del 2 aprile 2003.

[153] Cfr. V. Cerulli Irelli, Art. 8. Attuazione dell’art. 120 sul potere sostitutivo, in C. Cittadino (a cura di), Legge La Loggia. Commento alla l. 5 giugno 2003, n. 131 in attuazione del Titolo V Cost., Bologna, 2003, p. 175; R. Dickmann, Note sul potere sostitutivo nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in www.federalismi.it, 2004, 20, p. 7 ss.

[154] Cfr. M. Cammelli, Poteri sostitutivi (art. 5), in Le Regioni, 1998, 4, p. 492 ss. Nella giurisprudenza costituzionale, vedi le sentenze n. 49 del 1987, n. 304 del 1987, n. 617 del 1987.

[155] Su queste basi, la Corte costituzionale, con sentenza n. 252 del 2017, ha dichiarato costituzionalmente illegittima la previsione che rimetteva ad un decreto le modalità di attuazione del potere sostitutivo dello Stato in relazione all’inerzia o ritardo delle Regioni o delle Province ad autonomia speciale.

[156] Sul tema generale, A. D’Atena, Costituzione e principio di sussidiarietà, in Quad. cost., 2001, 1, p. 17 ss.; F. Pizzolato, Il principio di sussidiarietà, in T. Groppi, M. Olivetti, La Repubblica delle autonomie, Torino, 2003, p. 154; A. Police, Sussidiarietà e poteri sostitutivi: la funzione amministrativa nello Stato plurale, in L. Chieffi, G. Clemente di S. Luca (a cura di), Regioni ed enti locali dopo la riforma del Titolo V della Costituzione fra attuazione ed ipotesi di ulteriore revisione, Torino, 2004, p. 315 e ss.

[157] Sul principio di leale collaborazione: F. Merloni, La leale collaborazione nella Repubblica delle autonomie, in Annuario A.I.P.D.A. 2002, 2003, p. 534 ss.; P. Veronesi, I principi in materia di raccordo Stato-Regioni dopo la riforma del Titolo V, in Le Regioni, 2003, 6, p. 1007 ss.; G. BARONE, Intese e leale cooperazione tra Stato, Regioni ed autonomie locali negli interventi sul territorio, in Quad. Reg., 2005, 2, p. 335 ss; S. Agosta, La leale collaborazione tra Stato e Regioni, Milano, 2008.

Nella giurisprudenza costituzionale, con riguardo alla previa diffida cfr. le sentenze della Corte costituzionale n. 240 del 2004, n. 69 del 2004, l’ordinanza n. 53 del 2003.

[158] Sulle garanzie connesse al rispetto del “principio di leale collaborazione, vedi le sentenze della Corte costituzionale n. 49 del 2018, n. 171 del 2015, n. 227, n. 173, n. 172 e n. 43 del 2004.

[159] Sulla disciplina della legge 5 giugno 2003, n. 131, cfr. A. Papa, Art. 8. Attuazione dell’art. 120 della Costituzione sul potere sostitutivo, in AA. VV., Il nuovo ordinamento della Repubblica, Milano, 2003, p. 542 ss.; V. Cerulli Irelli, Art. 8. Attuazione dell’art. 120 sul potere sostitutivo, in C. Cittadino (a cura di), Legge La Loggia, Bologna, 2003, p. 172 ss.

[160] La norma ha disposto l’abrogazione dell’articolo 11 della legge 9 marzo 1989, n. 86. Ai sensi dell’art. 8, comma 6, il Governo può promuovere la stipula di intese in sede di Conferenza Stato-Regioni o di Conferenza unificata, dirette a favorire l’armonizzazione delle rispettive legislazioni o il raggiungimento di posizioni unitarie o il conseguimento di obiettivi comuni; in tale caso è esclusa l’applicazione dei commi 3 e 4 dell’articolo 3 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281.

[161] Corte costituzionale, sentenze n. 56 del 2018, n. 250, n. 254 e n. 249 del 2009, n. 240 del 2004.

[162] Corte costituzionale, sentenze n. 171 del 2015, n. 44 del 2014, n. 209 del 2009.

[163] Corte costituzionale, sentenze n. 254 del 2009, n. 250 del 2009, n. 383 del 2005, n. 227, n. 173, n. 172 e n. 43 del 2004.

[164] Corte costituzionale, sentenza n. 137 del 2018.

[165] Il principio di proporzionalità, come è noto, viene applicato dalla giurisprudenza attraverso tre distinti accertamenti: l’idoneità del mezzo prescelto rispetto al fine perseguito; la necessarietà, intesa come scelta del mezzo meno lesivo o meno invadente degli interessi sacrificati; infine, la c.d. proporzionalità in senso stretto, ovvero il rapporto di adeguatezza tra mezzo prescelto e fine perseguito. Cfr. Cerulli Irelli, Art. 8. Attuazione dell’art. 120 sul potere sostitutivo, in C. Cittadino (a cura di), Legge La Loggia. Commento alla l. 5 giugno 2003, n. 131 in attuazione del Titolo V Cost., Bologna, 2003, p. 175

[166] È rimasta inattuata la forma di coordinamento previsto dall’art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001, secondo cui i regolamenti parlamentari possono prevedere che la Commissione bicamerale per le questioni regionali sia integrata con rappresentanti delle Regioni e degli Enti locali, al fine di dare pareri sulle leggi statali nelle materie di cui all’art. 117, comma terzo, e all’art. 119 Cost., pareri da cui le Camere si potrebbero discostare solo deliberando a maggioranza assoluta.

[167] Nell’assetto costituzionale anteriore al 2001, cfr. le sentenze n. 49 del 1958, n. 94 del 1985, n. 294 del 1986, n. 177 e 470 del 1988, n. 242 del 1997. Tra le più recenti emanate in applicazione del nuovo assetto costituzionale, cfr. le sentenze n. 179 del 2012, n. 165 del 2011, n. 33 del 2011, n. 194 del 2007, n. 383 del 2005, n. 50 del 2005, n. 62 del 2005, n. 88 del 2003. Per i profili storici e ricostruttivi, vedi anche Bertolino, Il principio di leale collaborazione nel policentrismo del sistema costituzionale italiano, Torino, 2007. F. Merloni, La leale collaborazione nella Repubblica delle autonomie, in Diritto Pubblico, 2002, 865. Soprattutto nel contesto dei rapporti finanziari tra Stato ed autonomie speciali, la giurisprudenza costituzionale è giunta ad affermare l’esistenza di un metodo pattizio (cfr. la sentenza n. 19 del 2015; vedi anche sentenze nn. 46, 77 e 82 del 2015).

[168] Vedi sentenze nn. 308 del 2003; 196 e 228 del 2004; 50, 51, 62, 219 e 431 del 2005; 63, 133 e 213 del 2006.

[169] Vedi sentenze n. 303 del 2003 e n. 383 del 2005.

[170] Con riguardo alle competenze esclusive dello Stato, ancorché trasversali, cfr. le sentenze n. 69 del 2004, 231 del 2005; n. 88 del 2009; n. 232 del 2009. Il principio di leale collaborazione non opera allorché lo Stato esercita la propria competenza legislativa esclusiva in materia di tutela della concorrenza (ex plurimis sentenze n. 339 del 2011 e n. 246 del 2009), la cui natura trasversale funge da limite alla disciplina che le regioni possono dettare nelle materie di competenza concorrente o residuale (sentenze n. 38 del 2013 e n. 299 del 2012, n. 165 del 2014).

[171] Corte costituzionale, sentenze n. 216 e 112 del 2010, n. 159 del 2008.

[172] Corte costituzionale, sentenza n. 6 del 2023, secondo cui il principio di leale collaborazione non si impone, di norma, al procedimento legislativo, salvo per il caso di legislazione delegata ove ricorra uno stretto intreccio fra materie e competenze. Vedi anche le sentenze n. 169 del 2020, n. 44 del 2018, n. 237 e n. 192 del 2017.

[173] Cfr. la sentenza della Corte costituzionale n. 41 del 2013, secondo cui le Autorità indipendenti «dovranno, invece, agire nel rispetto delle modalità di partecipazione previste dalla legge generale sul procedimento amministrativo, 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme sul procedimento legislativo e successive modificazioni) e dalle altre leggi dello Stato applicabili alle Autorità indipendenti, tra cui specificamente quelle indicate nella legge n. 481 del 1995 […]».

[174] Cfr. la sentenza n. 43 del 2004, più volte richiamata, secondo cui, nel quadro della riforma del 2001, la previsione di eccezionali sostituzioni per il compimento di specifici atti, considerati dalla legge necessari per il perseguimento di interessi unitari, e non compiuti tempestivamente dall’ente competente, è affidato nella sua attuazione al legislatore competente per materia, sia esso quello statale o quello regionale. Pertanto, l’art. 120, comma secondo, Cost., non preclude al legislatore regionale, nelle materie di propria competenza e in sede di allocazione delle funzioni amministrative, di prevedere anche poteri sostitutivi in capo ad organi regionali, per il compimento di atti o di attività obbligatorie, nel caso di inerzia o di inadempimento da parte dell’ente competente, al fine di salvaguardare interessi unitari che sarebbero compromessi dall’inerzia o dall’inadempimento medesimi. Vedi anche le sentenze n. 167 del 2005, n. 236 e n. 69 del 2004.

[175] Vedi anche Corte costituzionale, sentenza n. 397 del 2006.

[176] Così ancora la sentenza n. 43 del 2004.

[177] Cfr. Mainardis, op cit.

[178] Si tratta degli Enti locali non menzionati nell’elenco contenuto agli articoli 114 Cost., 117, lettera p), e 118 Cost.

[179] Corte Costituzionale, sentenza n. 397 del 2006, secondo cui per gli enti privi di un’autonomia costituzionalmente garantita, l’esercizio del potere surrogatorio deve rispettare le «regole procedimentali eventualmente predeterminate di volta in volta dal legislatore, nonché al principio generale del giusto procedimento, che impone di per sé la garanzia del contraddittorio a tutela degli enti nei cui confronti il potere è esercitato». Vedi in dottrina, Raffiotta, A proposito dei poteri sostitutivi esercitati nei confronti delle comunità montane: davvero non c’è spazio per la leale collaborazione?, in www.forumcostituzionale.it. Vedi anche le sentenze n. 244 del 2005 e n. 456 del 2005. Secondo la Corte, il legislatore regionale non può attribuire il potere sostitutivo al difensore civico, non trattandosi di «organo di governo», bensì di figura titolare di sole funzioni di tutela della legalità e della regolarità amministrativa.

[180] Corte costituzionale, sentenza n. 168 del 2021.

[181] Corte costituzionale, sentenza n. 44 del 2014.

[182] In ragione della inesauribilità delle competenze regionali, nonostante l’attivazione dei poteri sostitutivi statali, la Corte ha dichiarato illegittimo l’art. 6 del decreto-legge n. 150 del 2010, nella parte in cui subordinava l’erogazione di un contributo finanziario unicamente alla presentazione e approvazione, da parte del commissario ad acta, del programma di prosecuzione de piano di rientro per il periodo 2022-2023. Secondo la Corte «non appare ragionevole ed è insieme lesivo delle evocate competenze regionali, nonché dell’equilibrio di bilancio di cui all’art. 97 primo comma, Cost., costringere l’autonomia regionale fino a tutto il 2023 al solo proseguimento della soggezione al potere sostitutivo statale, escludendo quindi l’ipotesi che questa possa recuperare il ruolo che le è proprio».

[183] Sulla figura del commissario ad acta, cfr., ex plurimis, G. Rizza, voce Il Commissario (diritto pubblico), in Enc. Giur. Treccani, vol. VII, Roma, 1990, p. 2; G. Berti, L. Tumiati, Commissario e commissione straordinaria, in Enc. dir., vol. IX, 1961, 843 s.

[184] Sulla compatibilità della nomina di commissari ad acta con il potere sostitutivo straordinario del governo, cfr. le sentenze della Corte n. 237 del 2007, n. 20 del 2010, n. 165 del 2011, n. 104 e n. 228 del 2013.

[185] Sulla questione dell’illegittimità, per questi motivi, dell’art. 8, della legge n. 131 del 2003, cfr. S. Mabellini, L’autonomia regionale “commissariata”: il ruolo delle Regioni nell’emergenza, in Rass. parl., 2011, 973; A. D’Atena, Diritto regionale, Torino, 2019, 349.

[186] La Corte costituzionale, nella sentenza n. 2 del 2010, ha definito il commissario ad acta «organo straordinario dello Stato ai sensi dell’art. 120 Cost.». Nello specifico contesto della surrogazione giudiziaria (disposta cioè nell’ambito del «giudizio di ottemperanza», di cui agli artt. 112 ss. del c.p.a.), l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 8 del 2021, ha stabilito che: a) il potere dell’amministrazione e quello del commissario ad acta sono poteri concorrenti, di modo che ciascuno dei due soggetti può dare attuazione a quanto prescritto dalla sentenza passata in giudicato, o provvisoriamente esecutiva e non sospesa, o dall’ordinanza cautelare fintanto che l’altro soggetto non abbia concretamente provveduto; b) gli atti emanati dall’amministrazione, pur in presenza della nomina e dell’insediamento del commissario ad acta, non possono essere considerati di per sé affetti da nullità, in quanto gli stessi sono adottati da un soggetto nella pienezza dei propri poteri, a nulla rilevando a tal fine la nomina o l’insediamento del commissario; c) gli atti adottati dal commissario ad acta non sono annullabili dall’amministrazione nell’esercizio del proprio potere di autotutela, né sono da questa impugnabili davanti al giudice della cognizione, ma sono esclusivamente reclamabili; d) gli atti adottati dal commissario ad acta dopo che l’amministrazione abbia già provveduto a dare attuazione alla decisione, ovvero quelli che l’amministrazione abbia adottato dopo che il commissario ad acta abbia provveduto, sono da considerare inefficaci e, ove necessario, la loro rimozione può essere richiesta da chi vi abbia interesse, a seconda dei casi, al giudice dell’ottemperanza o al giudice del giudizio sul silenzio.

[187] Corte costituzionale, sentenze n. 361 del 2010, n. 278 del 2014, n. 106 del 2017. In particolare, nella sentenza n. 361 del 2010 – riguardante la «legge» regionale della Calabria 11 febbraio 2010, n. 5, avente ad oggetto l’attuazione del c.d. «piano casa», approvata dal Presidente della Giunta regionale quale Commissario ad acta, anziché secondo il consueto iter di formazione delle leggi regionali – la Corte ha definito, infatti, le ordinanze commissariali come «una mera parvenza di legge, priva dei necessari requisiti previsti dalla Costituzione per poter essere ritenuta atto legislativo, e pertanto insuscettibile fin dalla sua origine di determinare effetti di alcun genere». In dottrina, M. Belletti, Quali margini per la contestazione degli atti commissariali sostanzialmente o (addirittura) formalmente normativi da parte dei Consigli regionali? Percorribilità del conflitto interorganico a fronte della materiale impossibilità di percorrere quello soggettivamente?, in Le Regioni, 6/2011, 1212 ss.

[188] Cfr. M. Nardini, L’esercizio del potere sostitutivo statale in materia ambientale: i Commissari unici, in www.federalismi.it, n. 15/2021; S. Pajno, I poteri sostitutivi in materia di acqua e rifiuti nelle recenti esperienze. Un primo bilancio, in www.federalismi.it, n. 9/2018.

[189] Si pensi alle sentenze che hanno accertato l’inadempimento della Repubblica italiana agli obblighi sulla stessa gravanti in base alla direttiva 1991/271/CEE sulle acque reflue urbane, per non aver predisposto le necessarie reti fognarie e gli adeguati impianti di depurazione con riferimento ad un alto numero di agglomerati urbani (Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sentenze 19 luglio 2012, in causa C-565/10; 10 aprile 2014, in causa C-85/13; 6 ottobre 2021, in causa C-668/2019); oppure alla condanna relative al mancato adeguamento o alla mancata chiusura di un significativo numero di discariche, c.d. “preesistenti”, ossia operative anteriormente alla adozione del d.lgs. n. 36 del 2003, di recepimento in Italia della direttiva 1999/31/CE (Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sentenza 21 marzo 2019, in causa C-498/17).

[190] Sono state, nel corso del tempo, introdotte anche disposizioni ‘comuni’ a specifiche figure commissariali (ad esempio: per le infrastrutture, le disposizioni di cui all’art. 4, comma 1, del decreto-legge n. 32 del 2019; per l’attuazione degli interventi idrici, le disposizioni di cui all’art.1, comma 153, della legge 30 dicembre 2018, n. 145; per il dissesto idrogeologico e per la bonifica dei siti di interesse nazionale, le disposizioni di cui all’art. 252 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152; per le discariche abusive, le disposizioni di cui al decreto-legge n. 111 del 2019).

[191] Corte costituzionale, sentenza n. 168 del 2021, intervenuta in materia di commissariamento di Regioni per il risanamento del deficit finanziario in ambito sanitario, nell’esercizio del potere sostitutivo statale previsto dall’art. 120, comma 2, Cost., dichiarando l’incostituzionalità dell’art. 1, comma 2, decreto-legge n. 150 del 2020, convertito nella legge n. 181 del 2020.

[192] Corte costituzionale, sentenze n. 177 e n. 166 del 2020, n. 247, n. 199 e n. 117 del 2018.  Da ultimo, vedi la sentenza n. 20 del 2023, secondo cui la Regione è obbligata a rimuovere i provvedimenti, anche legislativi, e a non adottarne di nuovi che siano di ostacolo alla piena realizzazione dei piani di rientro (sentenze n. 14 del 2017, n. 266 del 2016 e n. 278 del 2014).

[193] Corte costituzionale, sentenza n. 2 del 2010. In termini analoghi, sentenze n. 193 del 2007, n. 78 del 2011, n. 28 del 2013, n. 180 del 2013, n. 278 del 2014, n. 106 del 2017, n. 247 e n. 199 del 2018, n. 217 del 2020.

[194] Corte costituzionale, sentenza n. 217 del 2020.

[195] Corte costituzionale, sentenze n. 247 e n. 117 del 2018, n. 190, n. 106 e n. 14 del 2017; nello stesso senso, sentenze n. 266 del 2016, n. 227 del 2015 e n. 110 del 2014.

[196] Corte costituzionale, sentenza n. 165 del 2011.

[197] Corte costituzionale, sentenza n. 200 del 2019.

[198] Corte costituzionale, sentenza n. 255 del 2019.  Le distorsioni derivanti dall’assegnazione del ruolo di commissario ad acta allo stesso soggetto che si colloca al vertice dell’ente di cui è accertata l’inadempienza, con conseguente cumulo della funzione di indirizzo politico con quella gestionale, aveva indotto il legislatore all’introduzione di alcune previsioni di incompatibilità: l’art. 1, comma 569, della legge n. 190 del 2014 per i commissariamenti adottati sulla base dell’art. 2, commi 79, 83 e 94, della legge n. 191 del 2009, aveva stabilito che la nomina a commissario ad acta per la predisposizione, l’adozione o l’attuazione del piano di rientro dal disavanzo del settore sanitario era incompatibile con l’affidamento o la prosecuzione di qualsiasi incarico istituzionale presso la regione soggetta a commissariamento. L’art. 25-septies, del decreto-legge 23 ottobre 2018, n. 119, (Disposizioni urgenti in materia fiscale e finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2018, n. 136, aveva esteso la disciplina dell’incompatibilità delle cariche, anche a quelli adottati sulla base dell’art. 4, comma 2, del decreto-legge n. 159 del 2007. La Corte costituzionale, con sentenza n. 247 del 2019, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del citato art. 25-septies, ma solo per estraneità delle norme introdotte in sede di conversione alla disciplina recata dal decreto-legge.

 

Dario Simeoli è Consigliere di Stato, già giudice ordinario e assistente di studio presso la Corte costituzionale. È autore di numerose pubblicazioni nelle materie del diritto pubblico, civile e del lavoro.