L’art. 39 della Costituzione

Commento all’art. 39 della Costituzione

di Chiara Gagliano, Giudice civile e del lavoro presso il Tribunale di Termini Imerese

 

Art. 39 – L’organizzazione sindacale è libera.

Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge.

E` condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica.

I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.

 

Abstract: Nell’immediato dopoguerra, conclusa l’esperienza fascista, si manifesta immediatamente lo scontro tra le diverse forze politiche dell’epoca, di cui l’art. 39 della Costituzione rappresenta un evidente compromesso: compromesso tra le forze liberali, volte a promuovere l’azione e lo sviluppo del fenomeno sindacale e quelle corporative volte a ripristinare l’idea, tipica di un regime autoritario, di un sindacato privo di iniziativa autonoma perché soggetto al controllo e all’ingerenza dello stato.

Il risultato è che nel testo dell’art. 39 ritroviamo forti elementi innovativi come il riconoscimento della libertà sindacale in tutte le sue forme e, dall’altro, elementi di continuità con il recente passato, quali la sottoposizione dei sindacati all’obbligo di registrazione e l’attribuzione dell’efficacia erga omnes solo ai contratti stipulati dalle associazioni sindacali, costituite in proporzione agli iscritti.

Il contrasto tra la prima e la seconda parte della norma è talmente evidente che la ricerca di una formula adeguata a far coesistere le “due anime della norma costituzionale” domina ormai da decenni il dibattito politico ed è ancora oggi fortemente presente.

Quale, dunque, il futuro dell’art. 39 della Costituzione?

A fronte di chi si schiera in favore della reviviscenza della disposizione costituzionale, c’è chi, invece, ritiene che si tratti di un feticcio, oramai vetusto, di cui invoca la dismissione.

Secondo alcuni autori, infatti, l’esatta perimetrazione delle principali forme di riconoscimento della rappresentatività presenti nel nostro ordinamento, tramite l’utilizzo di formule quali “sindacato maggiormente rappresentativo” e “sindacato comparativamente più rappresentativo”, consentirebbe di superare le incertezze che, ancora oggi, nonostante la stipula degli Accordi Interconfederali, si registrano quanto al criterio da utilizzare per la misurazione della rappresentatività dei sindacati e ciò sarebbe perfettamente in linea con la previsione dell’art. 39.

A fronte del suddetto orientamento, se ne registra uno di segno opposto che auspica una riforma della Costituzione, volta ad abolire il quarto comma dell’art. 39 Cost. o la sua riscrittura con una disposizione che attribuisca alla legge ordinaria il compito di stabilire i presupposti per l’attribuzione al contratto collettivo nazionale di una efficacia generale nel settore per il quale è stato stipulato.

Quale sia lo strumento migliore da utilizzare – la legge ordinaria o la revisione della carta costituzionale – non è facile da dire; la soluzione che si potrebbe accogliere, a parere di chi scrive, è quella di chi propone di introdurre nel sistema delle relazioni sindacali del settore privato un modello simile a quello utilizzato dal legislatore nel pubblico impiego.

I principi di unitarietà e proporzionalità nella contrattazione potrebbero, infatti, essere garantiti da una disciplina della rappresentanza dei sindacati che, del modello costituzionale, incorpora i principi fondamentali: determinazione della rappresentatività in base a un dato numerico, oggettivo e certo; definizione della soglia – almeno pari al 51% – superata la quale i sindacati hanno diritto di trattare e negoziare.

In altri termini il modello di rappresentatività, come organicamente disciplinato dal D.Lgs. n. 165/2001, potrebbe rappresentare il momento determinate verso una riforma della contrattazione collettiva nell’ordinamento post-costituzionale.

 

Sommario: 1. I lavori dell’Assemblea costituente e le “due anime” dell’art. 39 della Costituzione 2. La mancata attuazione dell’art. 39, quarto comma, della Costituzione e la stagione dell’ordinamento intersindacale. 3. L’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori. 4. La rappresentatività dei sindacati nelle pubbliche amministrazioni e gli accordi interconfederali. 5. Quale futuro per l’art. 39 della Costituzione?

 

1. I lavori dell’Assemblea costituente e le “due anime” dell’art. 39 della Costituzione

L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. E’ condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”.

Questo il tenore dell’art. 39 della Costituzione.

Quando la norma venne scritta, nell’immediato dopoguerra, si era chiusa da pochissimi anni l’epoca fascista, il cui ordinamento era caratterizzato dalla presenza dei “sindacati unici” dei lavoratori, enti pubblici che stipulavano i contratti collettivi con le associazioni imprenditoriali, enti pubblici anch’esse. Ogni forma di pluralismo sindacale era vietata e i sindacati operavano sotto lo stretto controllo del regime.

Tale sistema prevedeva meccanismi di selezione molto puntuali, solo in parte oggettivi e comunque finalizzati al controllo da parte del Governo dei soggetti del sistema delle relazioni sindacali: si trattava di una forma di monopolio statuale delle relazioni sindacali.

Senonché, nell’immediato dopoguerra, conclusa l’esperienza fascista, si manifesta immediatamente lo scontro tra le diverse forze politiche dell’epoca, di cui l’art 39 della Cost. rappresenta un compromesso: compromesso tra le forze liberali, volte a promuovere l’azione e lo sviluppo del fenomeno sindacale e quelle corporative volte a ripristinare l’idea, tipica di un regime autoritario, di un sindacato privo di iniziativa autonoma perché soggetto al controllo e all’ingerenza dello stato.

Il risultato è che nel testo dell’art. 39 ritroviamo forti elementi innovativi come il riconoscimento della libertà sindacale in tutte le sue forme e, dall’altro, elementi di continuità con il recente passato, quali la sottoposizione dei sindacati all’obbligo di registrazione e l’attribuzione dell’efficacia erga omnes solo ai contratti stipulati dalle associazioni sindacali, costituite in proporzione agli iscritti.

Come si legge, infatti, nella relazione del Presidente della Commissione per la Costituzione che accompagna il Progetto di Costituzione della Repubblica Italiana: Per l’organizzazione sindacale, tra i due estremi dell’assenza d’ogni norma — che ha reso in più casi necessario l’intervento di una legge per rendere obbligatorio il contratto collettivo — e l’opposto e pesante sistema di regolazione minuta e pubblica, a tipo fascista, si è adottato il criterio della libertà senza l’imposizione di un sindacato unico. Vi è il solo obbligo di registrazione a norma di legge, per i sindacati che intendono partecipare alla stipulazione di contratti collettivi; e questo avviene mediante rappresentanze miste costituite a tal fine e proporzionali per numero agli iscritti nei sindacati registrati”.

Il costituente, se da un canto sceglie di dare piena libertà ai sindacati, dando voce alle istanze dei lavoratori oppresse dal regime fascista, dall’altro non rinuncia all’idea di un controllo sull’attività dei sindacati, realizzato tramite l’obbligo della registrazione e la perimetrazione dell’efficacia erga omnes dei contratti collettivi.

Ecco, dunque, le due diverse “facce” dell’art. 39 della Cost.

Nella prima parte della disposizione viene affermato il principio della libertà sindacale, non solo intesa come “libertà da”, ossia come protezione della sfera sindacale dalle ingerenze dello stato e di ogni altro potere, ivi compreso quello economico e/o politico, ma anche come “libertà di”, ossia come attivo esercizio, nelle forme della reciproca interazione tra parti contrapposte (lavoratori e datori di lavoro), della contrattazione collettiva.

Si tratta della libertà di: costituire anche più di un sindacato; libertà per il singolo lavoratore di scegliere a quale sindacato aderire; di esercitare i diritti sindacali e di farne propaganda, anche all’interno dei luoghi di lavoro; oltre alla facoltà cd. negativa, di non aderire ad alcuna organizzazione sindacale; libertà, quest’ultima, il cui concreto esercizio e la cui regolamentazione è affidata alla legge ordinaria.

Il legislatore sceglie, infatti, di non rendere la prima parte della norma costituzionale avulsa alla legge, ammettendo interventi legislativi volti a rendere attuale l’esercizio della libertà sindacale; ciò nonostante, come rilevato da attenda dottrina, non è la legge che fonda le relazioni tra le parti sindacali, essendo essa sempre preceduta dal sistema contrattuale, sul quale può intervenire solo ex post, al fine di disciplinarlo nel dettaglio o meglio regolamentarlo.

Diverso discorso vale, invece, per la seconda parte della disposizione in commento, ove il sistema contrattuale trova le sue origini nella legge che ne disciplina ogni effetto e che ne assicura l’effettività, tramite l’attribuzione dell’efficacia erga omnes ai contratti stipulati dai sindacati, rappresentati unitariamente in proporzione ai lori iscritti, purché rispondenti all’obbligo della registrazione.

Come evidenziato da Pietro Ichino: “a norma del comma 1 la categoria sindacale non preesiste al contratto collettivo, ma è il contratto collettivo che la determina liberamente, di volta in volta; invece per attuare il comma 4 è necessario precostituire (o “perimetrare” come si direbbe adesso) una categoria a livello nazionale in riferimento alla quale una rappresentanza sindacale unitaria composta in proporzione al numero degli iscritti di ciascun sindacato registrato sia abilitata a stipulare il contratto collettivo nazionale con efficacia erga omnes” (1).

Il contrasto tra la prima e la seconda parte della norma è talmente evidente che la ricerca di una formula adeguata a far coesistere le “due anime della norma costituzionale” (così Luigi Mariucci) domina da decenni il dibattito in ordine ai rapporti fra la legge e il nostro ordinamento sindacale.

Al riguardo, due sono le tesi che si sono contrapposte.

Un primo indirizzo, sulla scorta dell’insanabile contraddizione tra la prima e la seconda parte della disposizione, ritiene che, in quanto espressione di un’idea corporativista non più attuale, l’art. 39 sia oramai obsoleto e destinato a essere abrogato o, comunque, a non essere vincolante per le parti sociali (2).

Sulla scorta di questa premessa sono maturate quelle opinioni che hanno ritenuto la legittimità della legge Vigorelli (di cui avremo modo di dire più avanti), poi smentita dalla Corte Costituzionale, o quelle che tuttora ritengono che la disposizione costituzionale si riferisca solo al contratto collettivo nazionale, sicché, per l’estensione dell’efficacia dei contratti aziendali, potrebbero essere utilizzati meccanismi diversi da quello descritto nella carta costituzionale.

Secondo altra tesi, invece, il principio dettato dalla seconda parte dell’art. 39 è ineludibile, poiché i padri costituenti avrebbero scelto di perseguire un duplice obiettivo: da un lato, quello di affermare il principio della libertà sindacale, in posizione di netta rottura con l’oscurantismo tipico del periodo fascista e, dall’altro, quello di realizzare un sistema di relazioni sindacali fondato sul contratto collettivo avente efficacia erga omnes, in cui il contratto promana la propria efficacia ex sé senza necessità di interventi ex post da parte dell’autorità amministrativa o legislativa.

Ciò spiega il pensiero di chi, preso atto della mancata attuazione della seconda parte dell’art. 39, ritiene che la norma costituzionale ammetta modelli alternativi che, pur non giungendo ad attribuire efficacia erga omnes ai contratti stipulati dai sindacati, raggiungono il medesimo risultato tramite una sintesi tra fonti statuali da un lato e sistema volontario e autolegittimato di contrattazione collettiva dall’altro (3).

Della norma costituzionale resterebbe, dunque, solo il principio fondamentale della libertà sindacale nel cui ambito di garanzia si è sviluppato e consolidato un sistema di attori e di relazioni sindacali che si è dimostrato capace di evolversi nel tempo e di autoregolarsi su basi esclusivamente volontarie.

2. La mancata attuazione dell’art. 39, quarto comma, della Costituzione e la stagione dell’ordinamento intersindacale

Lo sforzo del legislatore volto a realizzare il difficile compromesso fra istanze liberali e corporativiste, libertà sindacale e controllo dello Stato è, secondo l’opinione prevalente, drasticamente fallito.

La seconda parte dell’art 39 è rimasta, infatti, priva di attuazione per la resistenza delle stesse organizzazioni sindacali, le quali temevano, nel clima politico ed economico del secondo dopoguerra, che la procedura di registrazione consentisse allo stato un’eccessiva ingerenza nelle loro attività. L’obbligo della registrazione avrebbe, infatti, comportato l’istituzione di un organismo amministrativo volto a controllare che gli statuti, quanto la loro concreta attuazione, rispettassero il requisito di possedere un ordinamento interno democratico.

La conseguenza è che in Italia i sindacati sono delle associazioni non riconosciute e non possono stipulare contratti collettivi aventi efficacia erga omnes, sebbene, nella storia della nostra Repubblica, non siano mancati tentativi in tal senso.

Uno dei primi esempi è rappresentato da alcuni decreti legislativi – cd. decreti Vigorelli (4) – previsti dalla legge delega n. 741/1959.

La legge aveva lo scopo di autorizzare il governo a recepire, in atti aventi forza di legge, i contenuti dei contratti collettivi di diritto comune stipulati fino a quel momento, al fine di assicurare minimi inderogabili di trattamento economico e normativo a tutti gli appartenenti a una stessa categoria.

In altri termini, si cercava di attribuire efficacia erga omnes ai contratti collettivi stipulati da sindacati privi del requisito della registrazione.

I dettami della norma non vennero però mai attuati, poiché la legge non superò il controllo di costituzionalità; la Corte Costituzionale, infatti, con la sentenza n. 106 del 1962, ne dichiarò l’illegittimità per contrasto con l’art. 39, perché avrebbe sottratto ai sindacati, o a taluni sindacati, il potere di stipulare contratti collettivi aventi efficacia per i rispettivi aderenti e, insieme, avrebbe privato questo o quel sindacato di concorrere alla stipulazione di contratti collettivi, nell’ipotesi che il Governo si fosse uniformato, nell’esercizio del potere di delega, agli accordi stipulati da una o alcune delle associazioni sindacali.

Parimenti venne accantonata la proposta del CNEL del 1960 per attuare l’art. 39 Cost. (“Osservazioni e proposte sull’attuazione degli artt. 39 e 40 della Costituzione”) che ancora oggi merita di essere ricordata per avere provato a dare voce alla norma costituzionale al di fuori della vigilanza e del controllo statale, recuperando il ruolo del consenso delle parti sociali (5).

Tra gli interventi legislativi che hanno perseguito tale finalità va annoverato anche l’art.36 dello Statuto dei Lavoratori che impone all’appaltatore di opere pubbliche di applicare ai propri dipendenti condizioni non inferiori a quelle previste dalla contrattazione collettiva, così come medesimo obbligo è imposto dal decreto legge n. 338/1989 – convertito in legge 389/1989 – all’imprenditore che voglia fruire della fiscalizzazione degli oneri sociali.

Dopo questi timidi approcci, non si è più registrato alcun tentativo di modificare o attuare l’art. 39.

A questa inerzia legislativa si è però contrapposta l’azione dei protagonisti del nostro ordinamento sindacale che, a fronte della mancata attuazione dell’art. 39, hanno cercato una soluzione sulla disciplina del terreno privatistico.

Due i momenti principali di questa svolta.

Da un lato, l’interpretazione estensiva e rafforzata del comma primo dell’art. 39, che legittimerebbe l’operato non solo dei sindacati registrati, ma anche di quelli non registrati. La registrazione, infatti, rappresenterebbe per i sindacati soltanto un onere da assolvere nell’ipotesi in cui decidessero di stipulare contratti aventi efficacia erga omnes, ma ciò non impedirebbe ai sindacati non registrati di operare senza chiedere la registrazione e di stipulare contratti collettivi privi di efficacia generale.

Secondo questo schema, dall’affermazione del principio di libertà di organizzazione sindacale si desumerebbe il riconoscimento in sede costituzionale della contrattazione collettiva; non solo di quella dotata di efficacia erga omnes, ma anche di quella di diritto comune posta in essere da sindacati non registrati. Ne conseguirebbe che i sindacati (registrati e non registrati) sarebbero liberi di svolgere tutte le attività loro tipiche, senza, per ciò stesso, subire indebite ingerenze da parte dello Stato (6).

Si tratta di un sistema di relazioni sindacali, in larga parte regolato da un ordinamento autonomo, volto a valorizzare l’autonomia collettiva ed a indurre il legislatore al proliferare di interventi, compatibili con la Costituzione, in materia lavoristica e previdenziale.

All’ordinamento intersindacale si deve inoltre il riconoscimento formale  della contrattazione collettiva a livello aziendale e, conseguentemente, di un sistema di relazioni sindacali che si svolge su più livelli; un sistema fondato sulla individuazione da parte del contratto collettivo nazionale delle materie sulle quali la contrattazione a livello aziendale può intervenire (orari, classificazione ed inquadramento del personale, sicurezza sul lavoro, organizzazione del lavoro, ritmi, cottimi) e sulle cd. clausole di tregua o di pace sindacale (consistenti nell’obbligo di applicare e far applicare il contratto collettivo stipulato e di evitare azioni di carattere conflittuale).

Nel medesimo periodo, sulla scorta della diffusione della contrattazione aziendale, assistiamo anche ad una fervida attività legislativa volta a promuovere e a sostenere l’attività dei sindacati sul luogo di lavoro.

L’esempio maggiormente rappresentativo è costituito dal Titolo III della legge n. 300/70 (cd. Statuto dei lavoratori), chiara esternazione delle finalità perseguite dal primo comma dell’art. 39 Cost.; il riconoscimento della libertà sindacale, infatti, si amplia e si traduce nell’affermazione del diritto di tutti i lavoratori di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività sindacale all’interno dei luoghi di lavoro.

L’effettività di questo disegno è affidata in primo luogo alla norma sulla costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali – R.S.A. (art. 19) nonché al lungo e puntuale elenco di diritti sindacali posti in capo alle R.S.A (quelli previsti dall’art. 20 all’art. 27) ed, infine, all’art. 28, norma di chiusura del Titolo III, volta a reprimere i comportamenti antisindacali del datore di lavoro, intendendo per tali i comportamenti volti ad impedire o limitare tre beni fondamentali: la libertà sindacale, l’attività sindacale nonché l’esercizio del diritto di sciopero.

3. L’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori

Come anticipato, l’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori riconosce ed assicura la presenza di organismi sindacali sugli stessi luoghi di lavoro (le R.S.A.), purché muniti di un certo grado di rappresentatività.

Senonché, non potendosi fare riferimento al criterio della registrazione, atteso che la seconda parte dell’art. 39 era rimasta inattuata, il criterio prescelto dal legislatore, per individuare i sindacati destinatari del beneficio, fu quello delle “associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale”, con ciò facendosi riferimento a quei soggetti che, nel periodo successivo alla caduta del regime fascista e per oltre un ventennio (S.M.R.), avevano rappresentato gli interessi di diverse categorie professionali appartenenti ai più svariati settori.

E siccome l’art. 19, che affida l’iniziativa per la costituzione delle rappresentanze aziendali ai lavoratori, non contiene alcuna indicazione utile per accertare il possesso di tale requisito, sono stati la dottrina e la giurisprudenza ad enucleare quelli che possono ritenersi gli elementi sintomatici di tale qualificazione, e che possono così riassumersi: 1) il numero degli iscritti al sindacato; 2) una equilibrata consistenza associativa in tutto l’arco delle categorie che la confederazione è istituzionalmente intesa a tutelare; 3) una significativa presenza territoriale sul piano nazionale, nel senso che la consistenza numerica e associativa deve essere adeguatamente distribuita sul territorio (anche se non necessariamente sulla totalità di esso), e non localizzarsi soltanto in una determinata area geografica; 4) un’attività di autotutela con caratteri di continuità, sistematicità ed equilibrata diffusione, consistente, in particolare, nella sottoscrizione di contratti collettivi, discutendosi peraltro se per tale possa intendersi anche la mera adesione successiva a contratti stipulati da altre organizzazioni (7).

L’originaria formulazione dell’art. 19 dello Statuto è stata poi modificata dal D.P.R. 28 luglio 1995 n. 312 che ha abrogato il riferimento alle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale, prevedendo l’applicazione di un unico criterio selettivo: l’aver stipulato il contratto collettivo applicato nell’unità produttiva interessata. Essendo stato abrogato anche il riferimento ai contratti collettivi “nazionali o provinciali”, tale contratto può essere anche un mero contratto aziendale.

Si tratta di una svolta epocale nel nostro sistema perché, come affermato dalla stessa Corte Costituzionale, l’art. 19, nella nuova formulazione, “valorizza l’effettività dell’azione sindacale, desumibile dalla partecipazione alla formazione della normativa contrattuale collettiva“; è un indicatore di rappresentatività “sempre direttamente conseguibile e realizzabile da ogni associazione sindacale in base a propri atti concreti e oggettivamente accertabili dal giudice“.

Secondo la Corte, infatti, “(…) la norma impugnata (…) non viola l’art. 39 Cost. perché le norme di sostegno dell’azione sindacale nelle unità produttive, in quanto sopravanzano la garanzia costituzionale della libertà sindacale, ben possono essere riservate a certi sindacati identificati mediante criteri scelti discrezionalmente nei limiti della razionalità; non viola l’art. 3 Cost. perché, una volta riconosciuto il potere discrezionale del legislatore di selezionare i beneficiari di quelle norme, le associazioni sindacali rappresentate nelle aziende vengono differenziate in base a (ragionevoli) criteri prestabiliti dalla legge, di guisa che la possibilità di dimostrare la propria rappresentatività per altre vie diventa irrilevante ai fini del principio di eguaglianza” (8).

A parere della Corte, la sottoscrizione di un contratto collettivo, applicato nell’unità produttiva, giustifica la presunzione legale di rappresentatività del sindacato perché quella sottoscrizione dà la misura della forza del sindacato.

In altre parole, un sindacato che abbia firmato un contratto collettivo (anche di livello aziendale) applicato nell’unità produttiva è, per ciò stesso, forte sì da poter essere considerato rappresentativo e, quindi, meritevole della maggior tutela concessa dal titolo III dello Statuto.

Il criterio utilizzato per individuare i soggetti cui attribuire i diritti previsti dal titolo III dello Statuto, determinando un’eccessiva compressione della libertà contrattuale, non è stato però in grado di adeguarsi ai mutamenti sociali e industriali dell’ultimo ventennio, al punto che su remissione di numerosi Tribunali, è stato sottoposto al giudizio della Corte costituzionale affinché ne venisse valutata la legittimità in riferimento al primo comma dell’art. 39 Cost.

La sentenza 23 luglio 2013, n. 231 ha accolto le perplessità sollevate riconoscendo che i sindacati risulterebbero nel nuovo schema dell’art. 19 “privilegiati o discriminati sulla base non già del rapporto con i lavoratori, che rimanda al dato oggettivo (e valoriale) della loro rappresentatività e, quindi, giustifica la stessa partecipazione alla trattativa, bensì del rapporto con l’azienda, per il rilievo condizionante attribuito al dato contingente di avere prestato il proprio consenso alla conclusione di un contratto con la stessa”. Si tratta di un modello che “condiziona il beneficio esclusivamente ad un atteggiamento consonante con l’impresa, o quanto meno presupponente il suo assenso, sicché risulta evidente il vulnus che ne deriva all’art. 39, primo e quarto comma, Cost. per il contrasto con i valori del pluralismo e della libertà di azione della organizzazione sindacale”.

La Corte, con una sentenza di tipo additivo, sancisce che la norma di cui all’art. 19 risulta costituzionalmente legittima solo se prevede che “la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda”.

Ciò che diventa dirimente, quindi, non è più la sottoscrizione di un contratto collettivo applicato nell’azienda ma che il sindacato abbia partecipato alle trattative volte alla conclusione del contratto medesimo.

Non solo; la Corte, si spinge anche oltre, e pur non indicando un criterio selettivo da prediligere per individuare il carattere della rappresentatività del sindacato, suggerisce al legislatore diverse opzioni; dal numero dei dipendenti dell’impresa iscritti al sindacato alle elezioni sul luogo di lavoro aperte a tutti i lavoratori.

L’invito, sostanzialmente, è quello di riformulare l’art. 19.

4. La rappresentatività dei sindacati nelle pubbliche amministrazioni e gli accordi interconfederali

Nel settore del pubblico impiego la disciplina delle relazioni sindacali risulta molto più compiuta e dettagliata rispetto a quella del settore privato.

Il primo elemento discretivo è costituito dal fatto che la contrattazione collettiva, nel pubblico impiego, è interamente disciplinata dalla legge, in particolar modo dal D.Lgs. n. 165/2001; a ciò si aggiunge che, sul versante datoriale, l’unico soggetto abilitato a negoziare e a stipulare i contratti è l’ARAN (Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni), soggetto di diritto pubblico, dotato di personalità giuridica, istituito nel 1993 con il compito di rappresentare le pubbliche amministrazioni nella negoziazione con le organizzazioni sindacali dei dipendenti pubblici. L’ARAN svolge ogni attività relativa alla definizione dei contratti collettivi del personale dei vari comparti del pubblico impiego e assiste le pubbliche amministrazioni per l’uniforme applicazione dei contratti collettivi di lavoro.

La scelta del legislatore di affidare esclusivamente all’ARAN la rappresentanza sindacale, al netto delle problematiche emerse nella prassi operativa, rappresenta l’innegabile vantaggio di rendere vincolanti i contratti collettivi dalla stessa stipulati e di garantire omogeneità ai diversi comparti interessati.

Anche sul versante dei lavoratori, la contrattazione collettiva, nel pubblico impiego, presenta delle peculiarità.

La rappresentatività delle associazioni sindacali, infatti, è predeterminata secondo parametri oggettivi e certi che sono fissati dalla legge; a tal fine, sono ammessi alla negoziazione i sindacati nazionali che abbiano, nel comparto o nell’area, una rappresentatività non inferiore al 5%, considerando la media tra il dato associativo (cioè la capacità delle parti sociali di aggregare i lavoratori iscritti) e il dato elettorale (ossia la capacità di acquisire consensi, anche tra i lavoratori non iscritti, nelle elezioni delle rappresentanze unitarie del personale nei luoghi di lavoro).

Ma ciò non è sufficiente ai fini della sottoscrizione del contratto, essendo inoltre necessario che, una volta raggiunta l’ipotesi di accordo, il testo concordato riceva il consenso delle organizzazioni sindacali che rappresentano nel loro complesso almeno il 51%, come media tra dato associativo e dato elettorale, nel comparto o nell’area contrattuale, o almeno il 60% del dato elettorale nel medesimo ambito.

In altri termini, i contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni divengono efficaci solo se sorretti da un ampio consenso, il che, come noto, si riverbera sull’efficacia – tendenzialmente generale – dei contratti collettivi pubblici; efficacia  rafforzata, sul versante sindacale, dall’obbligo per le pubbliche amministrazioni di applicare il contratto collettivo a tutti i lavoratori, a prescindere dall’iscrizione al sindacato stipulante nonché di garantire ai propri dipendenti la parità di trattamento contrattuale e “comunque trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi”.

Il descritto meccanismo di estensione dell’efficacia dei contratti collettivi ha superato il vaglio di legittimità costituzionale per la pretesa violazione dell’art. 39, parte seconda, della Cost.

Ed invero, quanto alla forza cogente dei contratti collettivi, la Corte ha sottolineato che: “l’osservanza, da parte delle amministrazioni, degli obblighi assunti con i contratti collettivi rappresenta il conseguente e non irragionevole esito dell’intera procedura di contrattazione, la quale prende le mosse dalla determinazione dei comparti e si conclude con l’autorizzazione governativa alla sottoscrizione delle ipotesi di accordo, che […]interessa a sua volta molteplici profili, non solo di controllo ma anche di verifica della compatibilità finanziari; […] che la forza cogente che a questo punto si produce nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni costituisce, a sua volta, la premessa per realizzare la garanzia della parità di trattamento contrattuale rafforzata dal sancito obbligo di assicurare “trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi” (9).

In ordine all’estensione dell’efficacia generale del contratto collettivo nei confronti dei dipendenti della pubblica amministrazione, la soluzione è stata invece ravvisata nella clausola di rinvio necessariamente contenuta all’interno del contratto individuale, che viene sottoscritta al momento della costituzione del rapporto di lavoro.

Altro elemento di specialità è, inoltre, rappresentato dalle modalità di costituzione delle RSA nei luoghi di lavoro che, nel settore privato, è rimesso all’iniziativa dei lavoratori e subordinato al criterio, come detto, della partecipazione ai sindacati alla negoziazione dei contratti applicati in azienda, mentre nel settore pubblico, per espressa disposizione legislativa, è espressione diretta ed immediata dei sindacati ammessi alle trattative.

Parimenti, anche la costituzione delle rappresentanze sindacali unitarie è rimessa dalla legge all’iniziativa delle organizzazioni sindacali, mediante elezioni alle quali possono partecipare tutti i lavoratori e che si ispirano a tre principi fondamentali: il voto segreto, il metodo proporzionale e il periodico rinnovo.

L’esperienza nel settore pubblico, introducendo criteri oggettivi e certi per misurare la rappresentatività, anziché criteri selettivi diversi, in relazione agli specifici obiettivi da perseguire, ha rappresentato il modello che ha poi condotto le parti sociali, con gli Accordi del sistema confindustriale, oltre che a tentare di riorganizzare il complesso sistema di disposizioni contrattuali in materia di rappresentatività/rappresentanza, anche a individuare una disciplina organica nel sistema delle relazioni sindacali a cui oggi fanno riferimento la maggior parte dei settori produttivi del privato.

In particolare, quanto alla misurazione della rappresentatività, sul versante delle associazioni sindacali dei lavoratori, la scelta – da ultimo confermata nell’Accordo del 2018 – è stata di attribuire rilievo sia al numero delle iscrizioni dei lavoratori alle OO.SS., sia dei risultati elettorali ottenuti dai sindacati dei lavoratori nelle elezioni delle R.S.U.; i dati sono acquisiti ed elaborati mediante l’azione congiunta di INPS, INAIL e CNEL.

Sul versante opposto dei datori di lavoro, invece, le parti sociali hanno deciso di affidare al CNEL due compiti fondamentali: quello di effettuare una precisa ricognizione sia dei perimetri della contrattazione collettiva di categoria sia dei soggetti stipulanti i contratti collettivi nazionali dei diversi settori per verificarne la effettiva rappresentatività sulla base di dati oggettivi.

Si tratta, all’evidenza, di compiti urgenti, come testimoniato dal fatto che negli ultimi anni si è verificato un preoccupante, quanto mai ingiustificato, aumento del numero dei contratti collettivi di categoria: nell’archivio del CNEL se ne contano 868, con un aumento del 74% dal 2010 al 2017; e il numero è in continua evoluzione.

Un primo passo in tale direzione è stato realizzato, con l’approvazione, su iniziativa del CNEL, del “Codice unico dei contratti di lavoro”, in forza del quale i datori di lavoro sono tenuti ad indicare, nelle comunicazioni obbligatorie, il dato relativo al contratto collettivo nazionale di lavoro applicato, indicando un codice alfanumerico, unico per tutte le amministrazioni interessate.

Il “codice unico” rappresenta un importante strumento per arginare il fenomeno diffuso del dumping contrattuale e salariale, ossia del proliferare di un numero indefinito di contratti, non a caso definiti “pirata”, per l’assenza delle naturali dinamiche di contrattazione che sottendono la stesura e l’approvazione di un CCNL di categoria.

Per riprendere le parole del Presidente del CNEL Treu: “Un’unica banca dati che identifichi i contratti e li classifichi è una novità epocale per il nostro Paese. Vorremmo usare questo strumento nuovo per rendere pubblica la grande varietà di contratti, ma soprattutto la disparità di applicazione di tutele e clausole”.

L’intento è chiaramente quello di introdurre dei criteri quanto più certi e obiettivi per misurare la rappresentatività dei sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro, al fine di giungere ad un’applicazione quanto più generale e uniforme possibile dei contratti collettivi, pur in mancanza di una disposizione di legge che attribuisca loro efficacia erga omnes.

5. Quale futuro per l’art. 39 della Costituzione?

Alla luce del contesto sociale e politico appena descritto e dei continui interventi che, anche a livello europeo, si sono registrati nel settore, c’è chi si è schierato a favore della reviviscenza dell’art. 39, chi, invece, ritiene che si tratti di un feticcio, oramai vetusto, di cui invoca la dismissione.

Si tratta di un dibattito che, come abbiamo avuto modo di dire, per l’ambiguità della formulazione dell’art. 39, ha avviluppato la dottrina per decenni e che, se pur nel mutato contesto storico, risulta essere ancora attuale.

Secondo alcuni autori, infatti, l’esatta perimetrazione delle principali forme di riconoscimento della rappresentatività presenti nel nostro ordinamento, tramite l’utilizzo di formule quali “sindacato maggiormente rappresentativo” e “sindacato comparativamente più rappresentativo”, consentirebbe di superare le incertezze che, ancora oggi, nonostante la stipula degli Accordi Interconfederali, si registrano quanto al criterio da utilizzare per la misurazione della rappresentatività dei sindacati e ciò sarebbe perfettamente in linea con la previsione dell’art. 39.

Si tratta di espressioni spesso utilizzate dal legislatore, se pur talvolta in modo approssimativo; mentre, infatti, la formula “sindacato maggiormente rappresentativo” indica quelle associazioni, sia di lavoratori che di datori di lavori, che, all’esito di un processo selettivo, risultano essere le più rappresentative (sull’intero territorio nazionale o in un determinato ambito territoriale o, ancora, in uno specifico settore produttivo), la formula “sindacato comparativamente più rappresentativo” evoca, invece, la comparazione tra sindacati maggiormente rappresentativi firmatari di contratti collettivi applicabili ad uno stesso ambito.

Sicché mentre possono aversi più sindacati maggiormente rappresentativi, si ha un solo sindacato comparativamente più rappresentativo.

L’utilizzo univoco delle espressioni in esame (tenuto conto che anche la giurisprudenza sul punto è fortemente ondivaga), da realizzarsi mediante un intervento legislativo preciso e puntuale, consentirebbe di superare i dubbi che spesso attanagliano gli interpreti: si pensi all’individuazione del CCNL da applicare ai fini della retribuzione imponibile, dei cd. minimi retributivi ex art. 36 Cost. nonché delle imprese che legittimamente possono far ricorso ai benefici di carattere economico e normativo previsti dalla legislazione statale o regionale (10).

A fronte del suddetto orientamento, se ne registra uno di segno opposto che auspica una riforma della Costituzione, volta ad abolire il quarto comma dell’art. 39 Cost. o la sua riscrittura con una disposizione che attribuisca alla legge ordinaria il compito di stabilire i presupposti per l’attribuzione al contratto collettivo nazionale di una efficacia generale nel settore per il quale è stato stipulato.

L’odierno contesto socio-economico, profondamento mutato rispetto a quello in cui è stato formulato il quarto comma dell’art. 39 Cost., la insita contraddittorietà tra la prima e la seconda parte della norma e la vetustà del riferimento, di matrice corporativista, all’obbligo della registrazione imporrebbero, infatti, una rivisitazione totale della nostra carta costituzione in materia di relazioni sindacali.

Che futuro ha, dunque, oggi l’art. 39 della Cost.?

Al di là della tesi che appare preferibile o, ancora meglio, più facilmente percorribile (la modifica della Costituzione richiede, infatti, l’approvazione dei due terzi del Parlamento), ciò che è più urgente è che il legislatore intervenga in modo risoluto per mettere fine al fenomeno della proliferazione della contrattazione collettiva e alle disparità di trattamento, fra lavoratori appartenenti alla stessa categoria, che inevitabilmente ne conseguono.

Quale sia poi lo strumento migliore da utilizzare – la legge ordinaria o la revisione della carta costituzionale – non è facile da dire; la soluzione che si potrebbe accogliere, a parere di chi scrive, è quella di chi propone di introdurre nel sistema delle relazioni sindacali del settore privato un modello simile a quello utilizzato dal legislatore nel pubblico impiego.

I principi di unitarietà e proporzionalità nella contrattazione potrebbero, infatti, essere garantiti da una disciplina della rappresentanza dei sindacati che, del modello costituzionale, incorpora i principi fondamentali: determinazione della rappresentatività in base a un dato numerico, oggettivo e certo; definizione della soglia – almeno pari al 51% – superata la quale i sindacati hanno diritto di trattare e negoziare.

In altri termini il modello di rappresentatività, come organicamente disciplinato dal D.Lgs. n. 165/2001, potrebbe rappresentare il momento determinate verso una riforma della contrattazione collettiva nell’ordinamento post-costituzionale.

Bibliografia

  • Ichino, “Rappresentanza sindacale: il nodo difficile da sciogliere”, in lavoce. Info, 24 settembre 2019;
  • Mancini, “Libertà sindacale e contratto collettivo erga omnes”, RTDPC, 1963, pag. 570;
  • Giugni, “Commento all’art. 39 della Cost.”, pag. 260; Pera, “Problemi costituzionali del diritto sindacale italiano”, Feltrinelli, Milano, 1960, pag. 57 e seg.; Romagnoli, “L’inutile necessità di una disputa”, DLRI, 1996, pag. 1 e seg.;
  • Dal nome dell’allora Ministro del Lavoro Ezio Vigorelli;
  • Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, “Osservazioni e proposte sull’attuazione degli articoli 39 e 40 della Costituzione”, in G. Suppiej, “Fonti per lo studio del Diritto sindacale”, Padova, 1970, p. 235 e segg.;
  • Santoro Passarelli F., “Presente ed avvenire del contratto collettivo in Italia”; nello stesso senso si esprime anche Mengoni L., “Il contratto collettivo nell’ordinamento giuridico italiano”, in Jus, 1975, n. 2, p. 167 e ss.
  • Cassaz. Sez. Lav., 1° marzo 1986, n. 1320 che afferma: “Quanto al quarto criterio, individuato dalla dottrina, ma non utilizzato nelle citate sentenze di questa Corte, deve ritenersi che, indipendentemente dallo specifico rilievo che esso ha ai fini della lett. b) dell’art. 19, non può negarsi, anche traendo spunto da detta norma, che la partecipazione al più importante degli atti posti in essere dalle organizzazioni sindacali, la stipula dei contratti collettivi, per la sua essenzialità nella vita associativa, abbia anch’esso rilevanza, quanto meno sintomatica pur se non di per sé sola (alla pari del primo elemento) decisiva, e che tale rilevanza non possa riconoscersi solo alla partecipazione alle trattative e alla stipula, ma debba esserlo anche, pur se con adeguato dimensionamento in relazione agli altri criteri, alla sottoscrizione per adesione, che è pur sempre indice di una presenza, pur se più affievolita, nella dinamica sindacale, e di una giuridica partecipazione al contratto” (conformi a tale indirizzo, Cass. 10 luglio 1991, n. 7622; Cass. 22 agosto 1991, n. 902; Cass. 27 aprile 1992, n. 5017).
  • Corte Costituzionale, sentenza 12 luglio 1996, n. 244;
  • Corte Costituzionale, sentenza 16 ottobre 1997, n. 309;
  • Arezzo, 12 luglio 2017, n. 256; Trib. Siena, 2 febbraio 2018, n. 17; Trib. Forlì, 19 gennaio 2019, n. 15210. Le sentenze citate, applicando puntualmente la nozione di “sindacato comparativamente più rappresentativo sul piano nazionale”, pervengono a conclusioni opposte. Le prime due identificano l’agente contrattuale comparativamente più rappresentativo e, di conseguenza, il CCNL da assumere a riferimento per la retribuzione imponibile a fini previdenziali per il settore Agenzie di assicurazioni nel CCNL SNA/CONFSAL. La terza sentenza, pur applicando lo stesso metodo, giunge a conclusioni diverse, identificando invece nel CCNL sottoscritto dai sindacati di categoria aderenti a CGIL, CISL e UIL il contratto che risponde ai requisiti richiesti dalla legge.

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Chiara Gagliano è nata il 9 settembre 1976 ed è entrata in magistratura nel 2010. Ha sempre esercitato le funzioni di giudice civile, ed in particolare di giudice del Lavoro, prima al Tribunale di Agrigento e, poi, al Tribunale di Termini Imerese, dove attualmente lavora svolgendo le funzioni di giudice del Lavoro nella misura del 70% e le funzioni di giudice civile nella misura del 30%.

Si è sempre impegnata nell’attività didattica, svolgendo incarichi di docenza presso la Scuola di specializzazione dell’Università degli studi di Palermo e della LUMSA – Libera Università Maria SS. Annunziata di Palermo, nonché incarichi di relatore in corsi di formazione.

Nel quadriennio 2016-2020 ha ricoperto l’incarico di componente del Consiglio Giudiziario del distretto di Corte d’Appello di Palermo ed ha altresì svolto, su delega del Presidente del Tribunale di Termini Imerese, le funzioni di coordinatore degli stagisti ex art. 73 D.L. 69/2013; di magistrato addetto al Cruscotto; di coordinatore e referente dei giudici onorari di pace; di collaboratore per la predisposizione delle tabelle.

E’ componente del Comitato di redazione della Rivista “La Magistratura”.