Commento all’art. 54 della Costituzione
di Renato Rordorf, magistrato
Art. 54 – Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi.
I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge.
Sommario: 1. La fedeltà alla Repubblica, alla sua costituzione ed alle sue leggi; 2. Il dovere dei pubblici funzionari di agire con disciplina ed onore; 3. Disciplina ed onore dei magistrati: il codice etico; 4. Un imperativo morale.
- La fedeltà alla Repubblica, alla sua costituzione ed alle sue leggi.
L’art. 54 è posto a conclusione della Prima parte della Costituzione (dopo i Principi fondamentali), quella in cui si tratta dei diritti e doveri dei cittadini[1]. Nel testo costituzionale diritti e doveri appaiono sempre strettamente intrecciati: i primi per garantire che i cittadini non siano mai ridotti a sudditi, ed i secondi per renderli responsabili verso la nazione e la comunità cui appartengono. E’ solo di alcuni doveri che tratta però, in modo particolare, il menzionato art. 54. Nel primo comma se ne enunciano due, che direi generalissimi: quello di essere fedeli alla Repubblica e quello di osservarne la Costituzione e le leggi. Il secondo comma ha una portata più circoscritta, giacché riguarda soltanto i cittadini ai quali siano affidate pubbliche funzioni, i quali debbono adempierle con disciplina ed onore e, nei casi previsti dalla legge, sono tenuti a prestare giuramento.
I doveri menzionati nel primo comma potrebbero oggi apparire, per certi aspetti, quasi ovvi, e la loro espressa enunciazione potrebbe essere fraintesa come un mero esercizio retorico. Occorre però non trascurare che la fedeltà richiesta ai cittadini non è riferita genericamente alla Patria italiana (la cui difesa il precedente art. 52, primo comma, definisce sacro dovere dei cittadini), qualsiasi forma essa abbia. E’ alla Repubblica che qui invece si chiede di restare fedeli, ed occorre non dimenticare che, quando la Costituzione fu emanata, la forma repubblicana dello Stato era stata appena sancita dal Referendum del 2 giugno 1946, sicché nella disposizione in esame mi pare di poter scorgere agevolmente l’intento di rafforzare, per l’appunto, la forma repubblicana ponendo ogni velleità di revanscismo monarchico al di fuori del perimetro costituzionale, benché sia stata espressamente vietata la ricostituzione del partito fascista ma non anche la formazione di partiti monarchici. Vi si scorge forse anche, però, la preoccupazione di evitare che le contrapposizioni ideologiche, ancora in quel momento assai vive nel corpo sociale di un’Italia appena uscita dalla guerra e dalla Resistenza armata, potessero sfociare in atti di aperta ribellione nei confronti degli organi dello Stato quali la Costituzione li ha configurati.
Si può discutere sul fatto che il dovere di fedeltà alla Repubblica abbia o meno una propria valenza autonoma, in quanto dotato di una portata più ampia ed in certo senso prioritaria rispetto al dovere di osservanza della Costituzione e delle leggi[2]. Mi sembra tuttavia evidente che esser fedeli alla Repubblica significa anche – e direi prima di tutto – rispettarne la Costituzione, che della forma repubblicana costituisce l’architrave principale, ed altresì rispettare le leggi attraverso le quali lo Stato repubblicano garantisce i diritti di ciascuno ed esercita le svariate funzioni che la medesima Costituzione gli assegna. Ed è appena il caso si soggiungere che qui la nozione di “legge”, che il cittadino è tenuto ad osservare, non va intesa in senso stretto, bensì come riferita a qualsiasi norma giuridica emanata in conformità al dettato costituzionale o da esso richiamata, ivi comprese quindi tanto le disposizioni nazionali di carattere secondario quanto quelle sovranazionali che l’Italia si sia vincolata a rispettare ed a far direttamente applicare dai suoi cittadini.
Sull’obbligo dei cittadini di rispettare le leggi parrebbe invero non esservi molto da dire, giacché, ove ce ne si volesse svincolare, verrebbe necessariamente meno il senso stesso di appartenenza ad una medesima comunità, la quale si sostanzia di diritti e doveri reciproci al cui rispetto tutti sono tenuti. Due brevissime considerazioni appaiono, tuttavia, opportune a tal riguardo.
Mi pare anzitutto di poter dire che non è priva di rilievo l’esplicita affermazione del dovere dei cittadini di rispettare le leggi, benché per molti aspetti ovvia e quantunque la si possa criticare per non aver tenuto conto che il rispetto delle leggi è doveroso non soltanto per i cittadini ma anche per gli stranieri[3]. In quella affermazione non deve scorgersi un esercizio di mera retorica, perché occorre invece tenere ben presente come la nostra storia nazionale sia stata spesso attraversata da una vena sotterranea di anarchia o, comunque, di ribellismo antistatale, magati talvolta non priva di qualche coloratura romantica, di cui si ravvisano le tracce in fenomeni quale il brigantaggio, che imperversò nel Mezzogiorno all’indomani dell’unità d’Italia (ma aveva radici ben più antiche)[4], e che riaffiora periodicamente anche nelle molteplici forme di criminalità organizzata ormai da tempo presenti sull’intero territorio nazionale (e talvolta esportate anche altrove). Il dettato costituzionale impegna tutti a combattere le tante manifestazioni di illegalità diffusa da cui il nostro Paese è purtroppo afflitto ed a reagirvi, contrastando ad esempio fenomeni quali la corruzione e l’evasione fiscale, nonché rifiutando ogni forma di omertà di cui il crimine si alimenta.
Una seconda considerazione, sicuramente più problematica, riguarda l’eventuale esistenza di limiti al dovere di osservanza della legge laddove questa appaia incompatibile con precetti morali che il cittadino eventualmente avverta come superiori alla stessa legge dello Stato. E’ qui superfluo evocare l’antico scontro tra Antigone e Creonte[5], ma ben si possono richiamare a tal proposito gli spinosi dilemmi suscitati nei tempi moderni da varie manifestazioni di obiezione di coscienza e di disobbedienza civile di cui le cronache giornalistiche ci hanno dato ampia testimonianza[6]. Questo tema è di troppo grande portata perché lo si possa qui anche solo sommariamente discutere, ma un’osservazione mi sembra necessaria. I costituenti non hanno dato esplicito rilievo all’obiezione di coscienza, il che ovviamente non ha impedito al legislatore di prevederla a diversi propositi, nel qual caso essa si coniuga perfettamente col dovere di osservare la legge. Al di fuori del perimetro legislativo non sembra però che possa trovare spazio il rifiuto di osservanza delle leggi, sia pure eventualmente motivato da forti ragioni morali o, comunque, da radicate convinzioni personali. Non ha trovato accoglienza nel testo finale della Carta neppure la proposta, formulata nel corso dei lavori preparatori da Mortati, volta a riconoscere espressamente il diritto-dovere dei cittadini di resistenza nei confronti dei poteri pubblici che agiscano in violazione delle libertà fondamentali e dei diritti riconosciuti dalla Costituzione. Tuttavia, non è senza significato che il primo comma del citato art. 54 enunci il dovere di osservare le leggi subito dopo quello di osservare la Costituzione, al cui rispetto le stesse leggi ordinarie sono tenute. Il dovere di osservare le leggi è dunque concepito all’interno di un sistema nel quale è lecito presumere che queste siano, a loro volta, coerenti con le disposizioni ed i principi generali di rango costituzionale. E’ così che i costituenti hanno inteso realizzare, dopo avere anzitutto bene evidenziato quali sono le libertà fondamentali dell’individuo, un quadro normativo compatibile con le istanze morali dei cittadini, ai quali, dunque, non è concesso rifiutare obbedienza alle leggi in ragione delle loro personali convinzioni ma cui è pur sempre offerta la possibilità, sollecitando in giudizio il rinvio alla Corte costituzionale di qualsiasi disposizione di legge sospetta d’incostituzionalità, di farne saggiare la compatibilità con le libertà garantite dalla Carta.
- Il dovere dei pubblici funzionari di agire con disciplina ed onore.
Nel secondo comma dell’art. 54 della Costituzione v’è chi ha individuato una sorta di “dovere di fedeltà qualificata” gravante sui pubblici ufficiali[7]. Una fedeltà poi ulteriormente rafforzata dall’obbligo di prestare giuramento, che non è però esteso a tutti coloro cui sono affidate funzioni pubbliche ma sussiste solo nei casi espressamente previsti dalla legge[8]. Così accade, ad esempio, per i magistrati, i quali, in base a quanto dispone l’art. 9 dell’Ordinamento giudiziario (r.d. 30 gennaio 1941, n.12), modificato dall’art. 4 della legge 23 dicembre 1946, n. 478, all’atto dell’ingresso nell’ordine giudiziario debbono prestare giuramento con la formula: “Giuro di essere fedele alla Repubblica italiana e al suo Capo, di osservare lealmente le leggi dello Stato e di adempiere con coscienza i doveri inerenti al mio ufficio”[9].
Ci si può interrogare, ovviamente, sull’effettivo surplus di valore che il giuramento aggiunge ai doveri che il citato art. 54 pone a carico dei pubblici funzionari, e quindi sulle conseguenze giuridiche derivanti dall’eventuale mancanza del giuramento, quando prescritto, o dalla sua non corretta o irrituale prestazione. Ma son queste per lo più, con ogni evidenza, questioni di modesto rilievo pratico. Non si può infatti disconoscere, per un verso, la tradizionale valenza più morale che giuridica del vincolo nascente dal giuramento[10] e, per altro verso, la sua progressiva perdita di valore sociale[11].
Quel che è importante, invece, è che per coloro i quali esercitano pubbliche funzioni, abbiano essi o meno dovuto prestare giuramento, la fedeltà alla Repubblica e l’obbligo di osservarne la Costituzione e le leggi assumono anche caratteri più specifici di quanto accade per gli altri cittadini, perché si traducono nel dovere di adempiere i propri compiti con disciplina ed onore.
Sono termini – disciplina ed onore – dal sapore antico, che appaiono forse oggi persino alquanto desueti: l’uno sa un po’ di caserma, l’altro rischia di evocare immagini di presuntuosa alterigia[12]. A ben guardare, però, essi esprimono bene la responsabilità che dovrebbe avvertire chi impersona una pubblica istituzione e la necessaria consapevolezza di come il modo in cui egli lo fa è inevitabilmente destinato a riflettersi sull’immagine che di quella medesima istituzione i cittadini percepiscono e ad incidere, perciò, sulla fiducia che dovrebbero potervi riporre e sul rispetto che le dovrebbero portare. L’onore va qui inteso non nel suo significato soggettivo, ossia come coscienza della propria personale dignità, bensì in senso oggettivo, cioè come reputazione e stima della quale il pubblico funzionario deve rendersi meritevole per non ledere l’immagine della pubblica amministrazione che egli impersona nei confronti dei terzi. E’ questa la ragione per la quale gli si richiede qualcosa di più della mera osservanza della Costituzione e delle leggi cui ogni cittadino è tenuto. Evidente è, d’altronde, il legame logico della disposizione in esame con il principio di buon andamento ed imparzialità dell’amministrazione al quale, come prescrive il secondo comma del successivo art. 97 della Costituzione, deve ispirarsi l’organizzazione dei pubblici uffici. Buon andamento ed imparzialità attengono al modo in cui gli uffici pubblici sono organizzati ed operano nella loro oggettività, la disciplina e l’onore riguardano invece l’agire individuale dei singoli funzionari pubblici, ma è chiaro che, se costoro non rispettassero le regole da cui è disciplinato la loro azione o si comportassero in modo disonorevole, anche il buon andamento e l’imparzialità dell’ufficio ne sarebbero compromessi[13].
I doveri costituzionali di agire con disciplina ed onore hanno ciascuno un proprio specifico significato ed una diversa valenza. Il rispetto degli obblighi disciplinari attiene al rapporto di servizio che lega il funzionario all’amministrazione di appartenenza, mentre l’onorabilità si percepisce invece soprattutto nel risvolto esterno del suo operare e per i riflessi sulla fiducia dei cittadini nella correttezza della pubblica amministrazione che egli impersona. Il primo ha una valenza propriamente giuridica e fornisce la base degli ordinamenti disciplinari vigenti nei singoli reparti della pubblica amministrazione, con le relative regole, procedure e potere sanzionatorio; l’altro – che non riguarda solo i c.d. funzionari onorari, svincolati da uno stabile rapporto di servizio, bensì chiunque eserciti pubbliche funzioni a qualsiasi titolo – ha anzitutto una valenza morale, che di regola si esprime in codici etici ugualmente presenti in molti settori pubblici (e talvolta anche in enti privati). I doveri di carattere disciplinare hanno quasi sempre connotati più precisi e stringenti, dettagliati in specifiche disposizioni di legge, regolamenti o accordi contrattuali collettivi, pur non implicando mai un obbligo di obbedienza cieca, tale da deresponsabilizzare totalmente il singolo funzionario[14]. I doveri deontologici sono invece sovente, per loro stessa natura, più vaghi, giacché nella maggior parte dei casi traggono origine da principi di ordine generale. Il confine tra le due tipologie di doveri è però sottile e non sempre ben percepibile, non foss’altro perché i principi ispiratori delle regole disciplinari e delle regole deontologiche sono sovente i medesimi o, quanto meno, sono analoghi. Non può d’altronde farsi a meno di notare che proprio il disposto dell’articolo costituzionale qui in esame, nell’accostare tra loro il dovere disciplinare e di quello di onorabilità cui sono soggetti gli esercenti una pubblica funzione, fornisce anche questo secondo dovere di un fondamento giuridico, perché ovviamente i dettami della Costituzione hanno di per se stessi una valenza giuridica.
La grande varietà degli ordinamenti disciplinari e dei codici etici (o deontologici) vigenti nel settore pubblico impedisce qui di prenderli singolarmente in considerazione. Qualche pur sommario rilievo può farsi, tuttavia, con specifico riguardo alla magistratura.
- Disciplina ed onore dei magistrati: il codice etico.
L’indipendenza dei giudici è garantita dal secondo comma dell’art. 101 Cost, che li vuole soggetti soltanto alla legge. Quanto ai magistrati che esercitano funzioni di pubblico ministero, l’ultimo comma del successivo art. 107 rimanda alle garanzie che la legge sull’ordinamento giudiziario deve loro assicurare, ma non v’è da dubitare che tali garanzie implichino anch’esse un regime d’indipendenza, che d’altronde, essendo espressamente indicato per i magistrati del pubblico ministero operanti presso le giurisdizioni speciali (art. 108, primo comma, Cost.), non potrebbe logicamente far difetto per quelli operanti nella giurisdizione ordinaria.
L’indipendenza dei magistrati, però, non li rende certo legibus soluti, come è ben evidenziato dalla stessa formula del citato art. 101, secondo comma, che espressamente ne prevede la soggezione alla legge. In particolare, poi, il primo comma del successivo art. 102 stabilisce che la funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati i quali non sono soltanto istituiti, ma anche “regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario”. Risulta pertanto chiarissimo che il requisito dell’indipendenza, che si risolve nella piena ed incoercibile libertà di giudizio di ogni singolo magistrato, non esclude affatto che egli debba operare all’interno di un sistema di regole non solamente volte a definire le sue attività processuali ma anche riguardanti più in generale il suo comportamento: sono le regole disciplinari, dettate dalla legge sull’ordinamento giudiziario, che hanno la funzione di garantire il buon funzionamento del servizio di giustizia reso ai cittadini e di favorire la fiducia che essi dovrebbero potervi riporre. Il che direttamente riconduce al dovere di adempiere con disciplina i propri compiti, di cui parla il più volte citato art. 54, al quale anche i magistrati, non diversamente da tutti gli esercenti di una pubblica funzione, sono ovviamente soggetti.
Non è qui il caso di procedere, nemmeno per sommi capi, ad una disamina della normativa disciplinare riguardante i magistrati, che condurrebbe davvero troppo lontano[15]. Merita però di essere ulteriormente sottolineato, in via generale, che l’intera endiadi “disciplina ed onore”, di cui all’art. 54 della Costituzione, è riferibile alla condotta dei magistrati. Per essi, cioè, non v’è solo il dovere di rispettare le prescrizioni disciplinari specificamente enunciate dal r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, ma altresì un più generale dovere di onorabilità, appunto a presidio del quale è stato elaborato dall’Associazione Nazionale Magistrati (Anm) un apposito codice etico la cui prima versione risale al 7 maggio 1994 e che è stato poi aggiornato il 13 novembre 2010[16].
Il fondamento giuridico del codice etico della magistratura risiede nell’art. 58-bis, comma 4, del d.lgs. n. 29 del 1993, poi sostituito dall’art. 54 del d.lgs. n. 165 del 2001, la cui rubrica recita “Codice di comportamento”. Con tali norme il legislatore ha inteso fare in generale riferimento ai codici di comportamento dei dipendenti pubblici, destinati ad essere emanati con provvedimenti della medesima pubblica amministrazione, ma il citato quarto comma dell’art. 58-bis parla espressamente di un “codice etico” per la magistratura e per l’Avvocatura dello Stato, demandandone l’elaborazione agli “organi delle associazioni di categoria” o, in caso di loro inerzia, all’organo di autogoverno.
Non è questa la sede neppure per passare in rassegna le disposizioni del codice etico della magistratura. Basterà dire, in sintesi, che esso è composto di tre parti. La prima contiene le regole generali, ivi comprese quelle che riguardano i rapporti del magistrato col mondo esterno (altre istituzioni, cittadini ed utenti della giustizia, stampa, associazioni private). Le regole contenute nella seconda parte investono il modo di esercizio della giurisdizione (indipendenza, imparzialità, correttezza). Quelle della terza parte si riferiscono più specificamente alla condotta nel processo e nell’esercizio di funzioni dirigenziali. La figura di magistrato che me risulta così delineata è una figura moralmente e professionalmente “alta”, che deve riuscire a mantenersi tale sia nel processo sia fuori del processo. Gli si richiede di essere consapevole, al tempo stesso, dell’importanza sociale della funzione che svolge – la quale quindi non può mai essere immiserita in una prospettiva grettamente burocratica – e del fatto che l’ampiezza dei poteri da lui esercitati e la gravità delle conseguenze che possono derivare dal suo agire deve imporgli la massima umiltà ed il massimo rispetto per le prerogative ed i diritti di tutti coloro con cui interagisce. Il suo ruolo predominante deve rimanere circoscritto al processo, perché, tolta la toga, nessun privilegio o posizione di preminenza glie ne può derivare (egli “considera le garanzie e le prerogative del magistrato come funzionali al servizio da rendere alla collettività”: art. 1, comma 3, e nelle relazioni sociali ed istituzionali “non utilizza la sua qualifica al fine di trarne vantaggi personali o di procurare vantaggi a sé o ad altre persone”: art. 2, comma 2). Si può forse più o meno correttamente parlare di potere giudiziario, e lo si può definire un potere diffuso, ma bisogna sempre tenere ben presente che il potere attiene alla funzione non alla persona di chi lo esercita. Nel processo il giudice è, di regola, colui che dice l’ultima parola: ma per poter avere la legittimazione morale (oltre che giuridica) per farlo deve aver dato alle parole delle parti il massimo ascolto (“agisce riconoscendo la pari dignità delle funzioni degli altri protagonisti del processo assicurando loro le condizioni per esplicarle al meglio”: art. 11, comma 2; “ascolta le altrui opinioni, in modo da sottoporre a continua verifica le proprie convinzioni e da trarre dalla dialettica occasione di arricchimento professionale e personale”: art. 12, comma 2). Ed ancor più il rispetto delle parti si impone per il magistrato che esercita funzioni di pubblico ministero, nella consapevolezza che il suo ruolo non è di “pubblico accusatore” ad ogni costo, bensì di garante della legge. C’è una forte valenza deontologica nel modo in cui il pubblico ministero si pone rispetto all’indagato o all’imputato. Se è vero che la struttura dialettica del processo gli assegna il ruolo formale di parte, è vero altresì che egli non deve mai dimenticare che sta in giudizio non già per salvaguardare la posizione di una parte che sia portatrice di uno specifico interesse contrapposto a quello della parte avversa, perché il suo compito è di assicurare la corretta attuazione del diritto per garantire i valori di legalità che fanno capo all’intera comunità sociale (“Indirizza la sua indagine alla ricerca della verità acquisendo anche gli elementi di prova a favore dell’indagato e non tace al giudice l’esistenza di fatti a vantaggio dell’indagato o dell’imputato“: art. 13, comma 2). Tanto il giudice quanto il pubblico ministero sono oggi caricati da un surplus di responsabilità sociale: una maggiore esposizione mediatica impone loro di osservare regole di comportamento che non ne compromettano la funzione e l’onorabilità (per cui, tra l’altro, ”il magistrato non sollecita la pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di ufficio”, “evita la costituzione o l’utilizzazione di canali informativi personali riservati o privilegiati”, “si ispira a criteri di equilibrio, dignità e misura nel rilasciare dichiarazioni ed interviste”: art. 6).
Stando alle parole adoperate dal legislatore nel citato art. 58-bis (“devono aderire”), si potrebbe ritenere che l’adesione dei magistrati al codice etico emanato dall’Anm abbia carattere obbligatorio, e questa conclusione parrebbe avallata dagli ultimi due commi del medesimo articolo, che nella loro genericità sembrano riferibili anche ai codici etici della magistratura e dell’Avvocatura erariale, i quali impongono non solo ai dirigenti degli uffici di vigilare sull’applicazione di quei codici ma altresì alle competenti pubbliche amministrazioni di verificarne annualmente l’applicazione e di organizzare la relativa attività d’informazione.
Qualche dubbio è però lecito nutrire sulla legittimità costituzionale di un obbligo di adesione di tutti i magistrati al codice etico emanato dall’Anm, stante la riserva di legge stabilita dall’art. 108, comma 1, Cost. per le norme sull’ordinamento giudiziario[17]. Il che induce a ritenere che, nonostante l’apparente obbligatorietà dell’adesione al codice etico anche di un magistrato non iscritto all’Anm, alle prescrizioni del codice non si possa riconoscere quell’efficacia cogente nell’ordinamento generale che solo la normativa primaria può avere in questa materia. Il codice etico, che è espressione della pluralità degli ordinamenti, pur se richiamato dalla legge può trovare applicazione solo nell’ambito associativo da cui promana.
Anche per questa ragione è necessario tener distinta la sfera deontologica, in cui opera il codice etico, da quella disciplinare che ovviamente riguarda l’intero ordine giudiziario. Era una distinzione forse meno agevole in passato, quando gli illeciti disciplinari non erano tipizzati e, perciò stesso, potevano apparire connotati dalla violazione di principi generali di sapore più o meno vagamente etico-deontologico. Ed, infatti, la giurisprudenza si era talvolta spinta a ravvisare nella violazione del codice etico la prova della compromissione dell’immagine del magistrato e del prestigio dell’ordine giudiziario che, ai sensi dell’allora vigente art. 18 del r.d. n. 511 del 1946, comportava l’irrogazione di sanzioni disciplinari[18]. Nell’attuale sistema di illeciti disciplinari tipizzati la distinzione tra violazione di regole deontologiche e di regole disciplinari si fa più netta, anche se non può certo escludersi che un medesimo comportamento le violi entrambe (specialmente, ma non solo, con riferimento agli illeciti disciplinari extrafunzionali); ma se un illecito disciplinare è quasi sempre anche deontologico non è vero il reciproco.
Se deve quindi escludersi che la violazione di singole disposizioni del codice etico possa, in quanto tale, determinare conseguenze sul piano strettamente disciplinare, potendo invece implicare l’adozione di sanzioni unicamente sul piano associativo a carico dei magistrati aderenti all’Anm, è lecito nondimeno affermare che un comportamento contrario a quelle disposizioni ben possa assumere rilievo – questa volta per qualsiasi magistrato, sia o meno iscritto all’Anm – in quanto sintomo assai significativo della violazione del dovere di onorabilità che, come si è già più volte ribadito, è imposto dalla Costituzione ai magistrati tutti. E, pertanto, non mi pare che sarebbe un fuor d’opera tenerne conto in occasione delle periodiche valutazioni di professionalità alle quali i magistrati sono soggetti – non dubiterei che pure l’attitudine ad adempiere con onore i propri compiti costituisca un requisito di professionalità – oltre che quando si tratti di conferire incarichi direttivi o semidirettivi.
- Un imperativo morale.
Fedeltà, disciplina, onore: parole antiche, che però appaiono tuttora in grado di esprimere valori attuali. Anzi, attualissimi, specie nel mondo della magistratura, se solo si considera quanto la scarsa considerazione da taluno mostrata proprio per quei valori abbia concorso al verificarsi dei ben noti e scandalosi episodi balzati in questi anni alla ribalta della cronaca[19], in conseguenza dei quali la fiducia del cittadino medio nei confronti dei magistrati è stata gravemente scossa in un crescendo cacofonico di polemiche di ogni genere, talora alimentate anche artificiosamente da chi mal sopporta un rigoroso ed efficace esercizio dei controlli di legittimità, rischiando però in tal modo di provocare un indebolimento dei fondamentali requisiti di autonomia ed indipendenza della magistratura.
Fanno bene i magistrati, e l’Associazione che li rappresenta, a rivendicare con forza l’importanza di quei requisiti ed a denunciare i progetti di riforma che appaiano espressione più di intenti punitivi nei loro confronti che di una reale volontà di migliorare il funzionamento della giustizia. Ma perché la loro voce risulti credibile è anzitutto indispensabile che i magistrati stessi, nel loro insieme e non solo per virtù personale di singoli, dimostrino di aver recuperato appieno il senso di quegli antichi valori di fedeltà costituzionale, disciplina ed onore ai quali, come in queste pagine ho cercato di dire, perentoriamente li richiama l’art. 54 della Costituzione.
Non credo di esagerare. Dopo la tempestosa stagione di “tangentopoli”, con le violente a tuttora vive ma non sempre disinteressate polemiche tra magistratura (o parte di essa) e mondo politico (o parte di esso), la tenuta dello Stato di diritto, quale disegnato dalla Costituzione, dipende anche da questo: dalla capacità della magistratura di riportarsi all’altezza dell’imperativo morale cui ho fatto cenno, che è insito nei suoi stessi compiti e dovrebbe essere avvertito come imprescindibile da ciascun magistrato che voglia tener fede al giuramento di fedeltà e che, soprattutto, sia consapevole dell’importanza del ruolo che la sua funzione gli assegna nel contesto di una società che voglia dirsi civile.
Note bibliografiche
[1] E’ forse proprio in questa parte della Costituzione che soprattutto si manifesta l’influenza del pensiero mazziniano, quale espresso nel suo celebre saggio, Dei doveri dell’uomo, Rizzoli, Milano, 2021, su cui vedi da ultimo le interviste a L. Salvato, I. Nicotra, A. Morelli, L. Trucco e R. Rordorf, con le conclusioni di A. Ruggeri, in www.Giustizia insieme, 2022.
[2] Si veda, in argomento, G. Lombardi, voce Fedeltà (dir. cost.), in Enc. dir., Giuffré, Milano, 1968, pagg. 165 e segg.
[3] Secondo G. Balladore Pallieri, Diritto costituzionale, Giuffré, Milano, 1965, pag. 440, “L’obbligo di osservare le leggi non ha bisogno, per sussistere, di un esplicito articolo costituzionale e riguarda inoltre non solo i cittadini ma anche, in molte ipotesi, gli stranieri”.
[4] Sul fenomeno del brigantaggio nell’Italia meridionale negli anni immediatamente successivi alla spedizione dei Mille ed alla riunificazione nazionale si veda il bel saggio storico di C. Pinto, La guerra per il Mezzogiorno, Laterza, Bari, 2019.
[5] La tragedia di Sofocle ha suscitato innumerevoli riflessioni dei giuristi, ma basti qui citare per tutti L. Pepino e N. Rossi, Il potere e la ribelle. Creonte o Antigone? Un dialogo, Edizioni Gruppo Abele, 2019; e M. Cartabia e L. Violante, Giustizia e mito. Con Edipo, Antigone e Creonte, Il Mulino, 2018.
[6] Si vedano, in proposito, F. Grandi, Doveri costituzionali e obiezione di coscienza, Esi, Napoli, 2014; e M. Saporiti, La coscienza disubbidiente – Ragioni, tutele e limiti dell’obiezione di coscienza, Giuffrè, Milano, 2014.
[7] G. Lombardi, op. cit., pagg. 173 e segg.
[8] L’obbligo di prestare giuramento è richiesto dalla stessa Costituzione al Presidente della Repubblica (art. 91), al Presidente del Consiglio ed ai Ministri (art. 93).
[9] E’ considerata incompatibile col giuramento di fedeltà allo Stato, che ne risulterebbe indebolito, l’adesione del magistrato ad una loggia massonica, quantunque non segreta: Cass. civ, sez. un., 20 dicembre 1996, n. 11416; 14 novembre 1997, n. 11259; e 16 gennaio 1998, n. 359.
[10] Tuttavia, Cass. civ., 12 gennaio 1995, n. 330, ebbe a statuire che l’investitura nell’ufficio di sindaco (all’epoca eletto dal consiglio comunale secondo la disciplina anteriore alla legge n. 81 del 1993) implica, quale elemento costitutivo, la prestazione del giuramento, che deve avvenire prima di assumere le funzioni e non è una mera formalità, dato che l’art. 54 Cost. è norma dotata di giuridicità la quale impegna all’onore i cittadini investiti di funzioni pubbliche.
[11] L’obbligo di prestare giuramento di fedeltà alla Repubblica, alla sua costituzione ed alle sue leggi è altresì condizione perché sia trascritta nei registri dello stato civile il decreto presidenziale di concessione della cittadinanza ad uno straniero, in base all’art. 10 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, ma Corte cost. 7 dicembre 2017, n. 258, in Foro it., 2018, I, 439, ha dichiarato detto articolo incostituzionale nella parte in cui non prevede che sia esonerata dal giuramento la persona incapace di soddisfare tale adempimento in ragione di grave e accertata condizione di disabilità.
[12] L’onore, fa dire a Falstaff Arrigo Boito nel mirabile libretto dell’ultima opera musicata da Giuseppe Verdi, non è che una parola, e Falstaff, dopo essersi beffardamente chiesto cosa ci sia in quella parola, risponde: “c’è dell’aria che vola”, e poi si lancia in una colorita dimostrazione che l’onore non serve a nulla ed infine esclama “lo gonfian le lusinghe, lo corrompe l’orgoglio, l’ammorban le calunnie; e per me non ne voglio!”. Falstaff, in Verdi non meno che in Shakespeare, è indubbiamente un personaggio simpatico, ma non può certo esser preso a modello del buon funzionario pubblico!
[13] Così, ad esempio, Cass. pen., 21 febbraio 2019, n. 22871, ha ravvisato nel demansionamento di un pubblico dipendente attuato con intento discriminatorio o ritorsivo sia l’inosservanza dei doveri costituzionali di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione di cui all’art. 97 Cost., sia la violazione del dovere di adempiere con disciplina ed onore all’esercizio di funzioni pubbliche previsto dall’art. 54 Cost., precisando in motivazione che le suddette norme costituzionali dettano regole di immediata portata precettiva ed esprimono il divieto per i pubblici agenti di comportamenti connotati da ingiustificate preferenze e favoritismi.
[14] La facoltà del pubblico dipendente di non eseguire un ordine, previa rimostranza a chi lo ha impartito, prevista dall’art. 17 del d.p.r. n. 3 del 1957 e dalla contrattazione collettiva di vari comparti, presuppone la palese ed oggettiva illegittimità dell’ordine, perché in violazione di una legge penale o costituente un illecito amministrativo o comunque affetto da altri vizi che lo rendano incompatibile con i principi di imparzialità e di buon andamento di cui all’art. 97 Cost. Da tale premessa Cass. civ., 30 novembre 2018, n. 31086, ha fatto discendere la conseguenza che, pur non sussistendo un obbligo incondizionato del pubblico dipendente di eseguire le disposizioni impartite dai superiori, il limite al dovere di obbedienza derivante dall’illegittimità dell’ordine ricevuto deve fondarsi su di un’obiezione ragionevole, basata su una illegittimità reale ed oggettiva, che può essere esternata e percepita anche soltanto dal destinatario dell’ordine medesimo, ma esclusivamente nel suo ruolo di “sentinella” e di collaboratore insito nel disposto del secondo comma dell’art. 54 della Costituzione, e non per finalità, ragioni e percezioni meramente personali.
[15] Sulla responsabilità disciplinare dei magistrati v’è un’ampia letteratura. Si vedano, tra gli altri, L. Longhi, Studi sulla responsabilità disciplinare dei magistrati, Editoriale scientifica, Napoli, 2017; G. Campanelli, Il sistema normativo in materia di responsabilità disciplinare dei magistrati, in www.federalismi.it, 2017; S. Di Amato, La responsabilità disciplinare dei magistrati – Gli illeciti – Le sanzioni – Il procedimento, Giuffrè, Milano, 2013; P. Fimiani e M. Fresa, Gli illeciti disciplinari dei magistrati ordinari, Giappichelli, Torino, 2013.
[16] Si vedano in argomento, tra gli altri, F. Ippolito, Per un rinnovato codice etico dei magistrati, in Questione giustizia, 2003, pagg. 1149 e segg.; Deontologia giudiziaria – Il codice etico alla prova dei primi dieci anni, a cura di L. Aschettino, D. Bifulco, H. Épineuse e R. Sabato, Jovene, Napoli, 2006; G. Conti, Il codice etico dei magistrati – Un passo avanti o un’occasione perduta?, in Criminalia, 2010, pagg. 531 e segg.; e M. Cassano, Il nuovo codice etico: utopia o realtà?, ivi, 2010, pagg. 519 e segg.
[17] Dubbio di legittimità costituzionale segnalato anche da M. Cassano, op. cit., pag. 520, la quale rileva anche un possibile eccesso di delega giacché la legge n. 421 del 1992, in base alla quale fu emanato dal Governo il citato d. lgs. n. 29 del 1993, non prevedeva l’adozione di un codice etico per i magistrati.
[18] Cfr., ad esempio, Cass. civ., sez. un., 20 novembre 1998, n. 11732, in Foro it., 1999, I, 871; e Cass. civ., sez. un., 17 novembre 2005, n. 23235, in Dir. e giustizia, 2005, fasc. 47, 21.
[19] E’ superfluo dire che mi riferisco da ultimo, soprattutto, alla vicenda che ha visto un ex presidente dell’Anm ed alcuni componenti del Consiglio superiore della Magistratura ricercare accordi sottobanco con esponenti politici per condizionare la nomina del procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma ed a come questa penosa vicenda è stata poi sfruttata da alcuni dei suoi stessi protagonisti per finalità editoriali ed altresì politiche; ma penso anche ai conflitti esplosi in seno agli uffici requirenti milanesi a proposito della gestione di alcuni delicati processi ed al modo in cui questi conflitti sono stati gestiti e si sono ingigantiti, anche nell’ambito dello stesso Consiglio superiore, sino a sfociare in reciproche denunce tra magistrati.
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Renato Rordorf nasce a Napoli il 12 aprile 1945. Magistrato dal 1970, ha svolto la propria attività inizialmente nella Procura della Repubblica presso il Tribunale di Monza, poi nel Tribunale e nella Corte d’appello di Milano ed infine in Corte di Cassazione, come consigliere e quindi come presidente della Prima sezione civile, sino a ricoprire da ultimo la carica di Primo Presidente Aggiunto prima di esser collocato a riposo per limiti di età nel dicembre del 2017. E’ stato commissario della Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (Consob) nel quinquennio 1997-2002. Ha partecipato a diverse commissioni ministeriali per la predisposizione di testi normativi in materia di diritto societario e di diritto dei mercati finanziari e, negli anni tra il 2015 ed il 2017, ha presieduto la commissione incaricata dal Ministro della Giustizia di preparare i testi di riforma del diritto della crisi d’impresa e dell’insolvenza. E’ autore di molte pubblicazioni, apparse su molteplici riviste giuridiche. Dal 2015 al 2018 è stato direttore della rivista Questione giustizia. Nel 2020 ha dato alle stampe una raccolta di scritti raccolti nel volume intitolato Magistratura Giustizia Società, Edizioni Cacucci, Bari.