di Pierluigi Consorti, professore ordinario di Diritto e religione nell’Università di Pisa; già presidente dell’Associazione dei professori universitari italiani della disciplina giuridica del fenomeno religioso e Segretario generale della Conferenza delle associazioni scientifiche di area giuridica
Art. 7 – Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.
I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi.
Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.
Abstract: l’articolo 7 apparentemente regola un ambito tematicamente circoscritto, eppure rappresenta uno dei nodi cruciali del compromesso costituzionale. Questo commento muove dalla sua genesi storica per offrirne un’interpretazione attuale centrata sul delicato equilibrio tra separazione e cooperazione tra Stato e Chiesa. Le intricate dinamiche politiche tra le forze laiche e quelle cattoliche che nel contesto del dopoguerra hanno portato alla redazione dell’articolo 7, sono state parte centrale per il superamento del regime fascista e per la costruzione di un nuovo rapporto tra Stato e Chiesa, basato sulla distinzione degli ordini e sulla laicità dello Stato.
Il commento si concentra sull’evoluzione di quest’ultimo principio e sulle sfide interpretative che l’articolo 7 continua a porre per la sua inevitabile relazione con altri principi fondamentali della Costituzione, come la libertà religiosa e la tutela delle minoranze.
SOMMARIO: 1. Contesto storico della genesi dell’articolo 7 – 2. Il compromesso costituzionale: fra separazione e collaborazione – 3. Laicità dello Stato e articolo 7: un rapporto delicato – 4. L’articolo 7 e gli altri principi costituzionali – 5. I Patti lateranensi nella dinamica delle fonti – 6. Sfide interpretative e prospettive
1. Contesto storico della genesi dell’articolo 7
Tutti i commentari spiegano che l’adozione di questa norma costituzionale fu travagliatissima. Pur vertendo su una materia circoscritta, essa fu al centro di un dibattito politico che mise a dura prova i tentativi di mantenere l’equilibrio che i padri e le madri costituenti cercavano di prospettare come condizione ineludibile per la futura convivenza pacifica. La neonata Repubblica doveva fondare le basi della ricostruzione post-bellica sopendo le polarizzazioni che contrapponevano i sostenitori del blocco sovietico e i fautori dell’alleanza atlantica. Le relazioni fra il Partito comunista, ideologicamente ateo, e le forza cattoliche che guardavano al papa, imponevano di trovare una soluzione ai conflitti fra Stato e Chiesa che il fascismo aveva gestito attraverso i Patti lateranensi con modalità inefficaci.
La retorica della Conciliazione[1] ha nascosto i conflitti che continuavano a dividere lo Stato dalla Chiesa e alimentato ulteriori conflitti interni al mondo cattolico che durante la guerra – e la resistenza[2] – hanno portato a percepire i Patti lateranensi come una ferita istituzionale che non poteva essere nuovamente aperta, col rischio di [3]: i partiti cercavano di consolidare il difficile equilibrio fra l’indole anticlericale del fronte laico e di sinistra e l’anticomunismo che animava la Democrazia cristiana e la destra. Queste forze, peraltro, non senza distinzioni interne, volevano in qualche modo difendere la posizione privilegiata che il fascismo aveva attribuito alla Chiesa cattolica. L’art. 7 pertanto superava la materia specifica per proiettarsi polemicamente e politicamente verso il futuro repubblicano. Il dibattito sul punto raccoglieva quindi ansie e preoccupazioni rivolte alla preoccupazione di trovare linea di orientamento capaci di superare gli schemi proposti dal regime precedente, senza tuttavia alterare la posizione di privilegio che era stata assunta dalla Chiesa cattolica.
Il primo capoverso fissa quindi il principio di separazione dell’ordine spirituale da quello temporale. Tuttavia, le parole usate dai Costituenti oggi appaiono antiquate e non sono più immediatamente evocative di una realtà giuridicamente ben determinata. Oramai siamo abituati a ragionare di «laicità dello Stato», e sembra strano che la Costituzione non faccia alcun cenno a questo principio. È vero che sotto il profilo tecnico-giuridico l’espressione «laicità», benché molto usata, non è ben definita. Jemolo, ad esempio, sosteneva che la laicità non fosse un principio giuridico, ma un modo di essere dello Stato[4], e in seguito autorevolissima dottrina ha continuato a domandarsi se la laicità avesse un contenuto giuridico e se potesse essere intesa come un principio di rango costituzionale[5]. In effetti, il silenzio della Costituzione su questo elemento priva l’interprete di un dato formale primario, e non resta che affidarsi alla giurisprudenza costituzionale, che ha annoverato la laicità fra i «principi supremi dell’ordinamento costituzionale» solo dopo l’entrata in vigore del Concordato del 1984.
Se indossiamo lenti giuridiche contemporanee restiamo senz’altro delusi da questa assenza formale della laicità. Tuttavia, se invece facciamo lo sforzo di una minimale contestualizzazione storica, non possiamo non ammettere che negli anni costituenti il tema della laicità, in Italia, fosse pressoché assente. Come accennato, il nodo dell’epoca era quello di superare l’emergenza politica sancendo una chiara frattura col passato regime, senza tuttavia fa cadere le basi dell’attaccamento popolare alla religione cattolica, praticata dalla «stragrande maggioranza degli italiani». La Costituzione non poteva certo recuperare il confessionismo predicato dallo Statuto albertino, che i Patti ribadivano attribuendogli un valore persino di rango internazionale, né la relazione privilegiaria con la Chiesa cattolica, che collocava in una posizione subalterna le altre espressioni religiose, fra le quali – non si può certo dimenticare – l’ebraismo, che durante il regime era stato sottoposto ad una vera e propria discriminazione di stampo razzista. Insomma, la Repubblica doveva scegliere, e lo stesso Jemolo ha messo in luce che tutte le soluzioni erano possibili, comprese quelle estreme di fare finta di niente o di «includere il Concordato nelle Costituzione»[6].
A distanza di settant’anni l’articolo 7 mostra bene la fatica di una decisione compromissoria e sofferta. La scelta di costituzionalizzare in qualche modo i Patti lateranensi appare inequivocabile, e al tempo stesso poco chiara. Essa si presenta come evidente conseguenza di un’affermazione di principio («Lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani») che la dottrina ha per lo più considerato di mero valore dichiarativo di uno stato di fatto imprescindibilmente consolidato, e invece assume un in realtà un ruolo costitutivo, ancorché non del tutto determinato, sul quale merita soffermarsi.
2. Il compromesso costituzionale: fra separazione e collaborazione
La formula «Lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani» fa riferimento a due soggetti affatto eterogenei. Non vale la pena insistere sul primo dei due, anche se oggi potremmo forse domandarci se qui «Stato» non corrisponda in realtà a «Repubblica», ma il senso della norma è comunque chiaro: essa prende in considerazione due soggetti diversi, fra loro indipendenti e ciascuno sovrano rispetto all’altro. L’affermazione costituzionale presenta infatti un’imprescindibile natura relazionale. Indipendenza e sovranità non sono richiamate in termini assoluti, ma in funzione della relazione giuridica che collega i due soggetti. È evidente che non sarebbe stata questa la sede opportuna per dichiarare la sovranità e indipendenza dello Stato in chiave generale, e proprio l’inciso «ciascuno nel proprio ordine», aiuta a circoscrivere l’ambito della materia in funzione dell’affermazione immediatamente successiva, che rinvia ai Patti lateranensi, e che lasciamo ancora per un attimo in sospeso.
Vale la pena prima identificare meglio il secondo dei due soggetti menzionati nell’art. 7, ossia la Chiesa. Il riferimento intuitivo non meriterebbe troppa fatica: la Chiesa è la Chiesa cattolica, sennò non si parlerebbe poi dei Patti lateranensi. Tuttavia, non può sfuggire che i Patti non sono stati sottoscritti con la Chiesa cattolica, bensì con la Santa Sede, che in effetti è il soggetto giuridico che rappresenta la Chiesa cattolica nell’ambito delle sue relazioni di diritto internazionale (con la «comunità degli Stati», secondo la formula usata nel diritto canonico[7]). L’indipendenza e la sovranità della Santa Sede non sono revocate in dubbio, anzi si può persino dire che la Santa Sede sia l’unico soggetto di diritto internazionale che vanta una continuità storica millenaria, documentata, per non dire altro, almeno dal Concordato di Worms del 1122. Un concordato che appunto definì i limiti delle competenze della Santa Sede rispetto a un soggetto che sarebbe (storicamente) improprio definire «Stato», ma che per semplicità possiamo assimilare a quello che oggi chiameremmo «Stato».
Sotto questo profilo, la menzione della Chiesa in luogo della Santa Sede risveglia una serie di problematicità non ancora completamente chiarite. Dal punto di vista istituzionale, e politico, emerge la volontà dell’Assemblea costituente di assegnare alla Chiesa una posizione soggettiva costituzionalmente rilevante, in un certo senso paritaria a quello dello Stato, marcando però bene l’ontologica differenza di questi due soggetti, che coesistono – entrambi «indipendenti e sovrani» – ma insistono su ambiti affatto distinti: «ciascuno nel proprio ordine».
3. Laicità dello Stato e articolo 7: un rapporto delicato
La formula «ciascuno nel proprio ordine» rivela la logica bilaterale che all’epoca prevaleva nello sguardo sui rapporti fra Stato e religioni, intesi come potere sostanzialmente equiordinati. Tale schema non funzionava verso le denominazioni di minoranza – considerate «culti ammessi» – ma esprimeva bene la realtà concordataria tipizzata nella relazione che lo Stato italiano intratteneva con la Chiesa cattolica ai sensi del diritto internazionale. Tuttavia, a ben vedere, il contenuto giuridico di questo inciso («ciascuno nel proprio ordine») non è immediatamente evidente.
L’interpretazione intuitiva indica la volontà di scongiurare intromissioni di uno dei due soggetti negli affari dell’altro. La sua menzione nella Costituzione repubblicana, in verità, tende a sottolineare una sorta di self restraint dello Stato verso la Chiesa, che certamente non fa derivare i suoi poteri dalla Costituzione italiana. L’espressione «ordini propri» rinvia a una reciprocità implicita, che segnala la distinzione fra due campi diversi, che però non sono sufficientemente delimitati. La petizione di principio è inequivocabile: d’ora in poi, Stato e Chiesa cattolica si riconoscono come soggetti distinti, indipendenti e sovrani. Sono due poli a sé stanti: si parlano, si confrontano e persino collaborano, ma da due diversi punti di vista.
Piero Bellini a questo proposito parlava di «principio bipolare»[8]. Una condizione di non facile sopportabilità quando si manca di definire i contorni dei due poli, in quanto si rischia facilmente di sconfinare. La qualificazione di diritto internazionale della Chiesa cattolica va peraltro letta in combinazione con il successivo art. 8 che, nel primo comma, si riferisce a «tutte le confessioni religiose» e ne proclama l’«uguale libertà». Ne deriva che la Chiesa cattolica è «ugualmente libera», «sovrana» e «indipendente» – non in assoluto, ma – nel suo ordine proprio. Questa connessione si mostra come un primo seme della futura laicità dello Stato, che nel 1948 ancora doveva essere ben definita, proprio perché manca la delimitazione contenutistica dei due ordini, e ancora oggi soffre di una certa indeterminatezza[9]. Potremmo dire oggi: una delimitazione delle materie di rispettiva competenza. Se lo Stato e la Chiesa fossero davvero due enti fra loro simili (in quanto entrambi «Stati»), tale distinzione si potrebbe riferire ai loro limiti territoriali. Però nel nostro caso la geografia non aiuta, in quanto l’ordine della Chiesa si svolge in territori sconfinati, dai limiti apertissimi: planetari (e, dal punto di vista religioso, persino ultraterreni). L’ordine ecclesiale è di matrice spirituale (divina, secondo la terminologia dei credenti) e presenta contenuti affatto spirituali, in quanto attraversa le coscienze e non si limita a toccare i soli aspetti materiali.
Questa circostanza spiega perché la Costituzione parli di «ordini» e non di «ordinamenti». Se «ordine» fosse un sinonimo di «ordinamento» la nostra digressione non avrebbe senso. Ma se i Costituenti avessero voluto parlare di «ordinamenti» avrebbero benissimo potuto farlo. Il fatto che, invece, abbiano scritto «ordine» rivela la necessità di perfezionare l’ottica con cui lo Stato guarda le relazioni con la Chiesa cattolica. Che supera la dimensione interordinamentale, tipica degli schemi internazionalistici.
4. L’articolo 7 e gli altri principi costituzionali
Per trovare un’interpretazione giuridicamente sensata e meno scontata di quella consueta, che di fatto toglie valore all’importanza del dato letterale, è opportuno farci aiutare da considerazioni di contesto generale. Il buon senso e una minima attenzione al dato storico aiutano a capire che i due ordini si differenziano innanzitutto per lo scopo che ciascuno dei due soggetti persegue. Lo Stato mira a garantire l’interesse nazionale, la sicurezza interna ed esterna, il benessere dei cittadini, e via dicendo. La Chiesa invece persegue lo scopo di salvare le anime, animare le coscienze, tendere all’elevazione spirituale, specialmente attraverso l’esercizio del culto. Questa differenza aiuta a delimitare i campi, ma non risolve i dubbi sui rispettivi limiti.
La coscienza personale, ad esempio, si sviluppa in maniera complessa e tocca al tempo stesso aspetti interiori ed esteriori, che rendono difficile distinguerne con nettezza i limiti materiali. Basta pensare alle questioni classiche della fine e dell’inizio della vita, regolate da leggi di natura etica, sociale, statale. Esistono certamente due ordini distinti, ma differenziarli in concreto è tremendamente complicato.
A tal proposito ci sono già stati diversi tentativi. Una prima distinzione riguarda l’ordine profano da quello religioso, ma abbiamo già visto che la religione sconta una pervasività semantica tale da non restare imbrigliata facilmente i limiti predefiniti. È stato fatto notare che «la demarcazione del confine fra l’ordine civile e quello religioso non si articola per tipi di materie (per categorie comportamentali, per classi di rapporti), bensì si snoda essenzialmente per tipi di valori», che muovono le singole attività umane «onde i medesimi atti umani acquistano significazioni assiologiche diverse secondo che siano rapportati ad un codice valutativo religioso o ad uno invece secolare»[10].
Sotto questo profilo, l’art. 7 appare claudicante. Esprime un principio ma omette di definirne i contorni pratici. Manca anche l’individuazione dell’autorità eventualmente incaricata di decidere in caso di conflitto. Questo problema è stato più volte messo in evidenza, sotto la specie della questione c.d. «della competenza delle competenze». Un altro nodo inestricabile, se solo si pensa che la Chiesa, per statuto proprio, non ammette di essere sottoposta ad alcun giudice diverso da Dio; e l’art. 7 esclude che lo Stato possa sottomettersi al giudizio della Chiesa[11].
Alla fine dei conti, ciò che resta inequivocabilmente in piedi, è il solo principio della distinzione degli ordini. Tanto vago quanto sufficiente per impedire che lo Stato torni a identificarsi con la Chiesa. Almeno sotto il profilo istituzionale, in quanto dal punto di vista sociale la sfida della non identificazione del potere statale con quello religioso appare ancora aperta. Sebbene la formula albertina del confessionismo inteso come riconoscimento della Chiesa cattolica quale «sola religione» dello Stato sia stata formalmente abrogata, la tentazione di insistere sull’identità culturale italiana in termini di riconoscimento dei valori del solo cattolicesimo quali «valori comuni» dell’intero popolo, è dura a morire. Del resto, la struttura ordinamentale pluralista e laica deve contrastare un virus normativo sempre vivo nel corpo statale, che è la legge del 1929 sui «culti ammessi». Una legge vecchia, fascista, e tuttora vigente. Questo virus rischia di dilagare e infettare l’intero corpo, e l’art. 7 non pare essere un vaccino sufficientemente efficace; anzi, rischia di assomigliare a un brodo di cultura favorevole allo sviluppo di una malattia liberticida. Sul punto l’art. 7 è troppo implicito e lascia sufficiente spazio di azione a interpretazioni che possono ostacolare l’affermazione della laicità per lasciare il passo a una rischiosa confusione fra identità nazionale e cultura (non religione, né fede: cultura) cattolica.
5. I Patti lateranensi nella dinamica delle fonti
È venuto il momento di prendere in esame il capoverso dell’art. 7, anch’esso molto studiato per l’influenza che ha avuto sulla comprensione del sistema delle fonti. Anche qui però bisogna riconoscere che l’utilità contemporanea di quel dibattito sarebbe da dimostrate. Com’è noto, esso dispone che i rapporti fra lo Stato e la Chiesa cattolica sono regolati dai Patti lateranensi e che «le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale». Non c’è bisogno di ricordare che i «Patti lateranensi» sono composti da più convenzioni internazionali, fra le quali spiccano per importanza il Concordato, il Trattato, e una Convenzione finanziaria. Il primo è lo strumento tradizionale per il mezzo del quale la Chiesa cattolica, sin dal XII secolo, regola i suoi rapporti con i poteri secolari. È considerato l’antesignano dei trattati internazionali, e difatti segue tutte le regole di questi ultimi. Il contenuto è però molto particolare, in quanto regola le c.d. «materie miste», ossia di interesse sia religioso sia temporale. Il Trattato del Laterano si distingue dal Concordato in quanto tratta materie squisitamente secolari e di nessun rilievo religioso: si tratta del trattato che ha messo formalmente fine al conflitto risorgimentale che vedeva il nascente Regno d’Italia combattere contro lo Stato pontificio, anche noto come «Stato della Chiesa». La capitolazione di quest’ultimo non è mai stata accettata dalla Chiesa, e l’istituzione, grazie al Trattato, dello Stato della Città del Vaticano, segna la fine della guerra e l’inizio della già accennata Conciliazione. Infine, con la Convenzione finanziaria l’Italia assegna alla Santa Sede cospicue somme di danaro (in contante e in titoli di Stato) in riparazione dei danni che la Chiesa subì nelle guerre di indipendenza (se non si rischiasse di andare fuori tema, sarebbe utile trattare le relazioni economiche fra Italia, Santa Sede, Chiesa cattolica e Stato Città del Vaticano[12]).
Il richiamo dei Patti lateranensi nel corpo dell’art. 7 ha fatto versare fiumi di inchiostro, specialmente perché esso è completato dalla clausola per la quale «le modificazioni dei Patti, accettate dalle due Parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale». Bisogna ammettere che la frase non è molto chiara. Una volta accertato che i Patti del Laterano sopravvivono alla Costituzione, resta da capire quale sia il loro posto nel sistema delle fonti, in quanto una loro modifica da parte dello Stato senza il consenso della Chiesa sembrerebbe potersi adottare solo mediante un procedimento di revisione costituzionale. Non si capisce se questo inciso significa che i Patti vanno cambiati con la forma prevista dall’art. 139, oppure se si debba cambiare l’art. 7. In entrambi i casi, appare evidente che i Patti rivestono una forza passiva maggiore dei comuni trattati internazionali. Non è mancato chi ha sostenuto che, a ben guardare, la Costituzione sarebbe composta anche dai Patti lateranensi (questo è il c.d. principio di costituzionalizzazione dei Patti), anche se è prevalsa l’idea che l’art. 7 si sia limitato a costituzionalizzare il principio pattizio (o concordatario)[13]. In ogni caso, la Corte costituzionale ha chiarito che nel caso di un contrasto fra norme concordatarie e costituzionali, le prime prevalgono sulle seconde in forza del principio che porta a preferire la legge speciale su quella generale.
Questo dibattito ha perso di appeal. L’enfasi che nel passato è stata messa sul punto della costituzionalizzazione dei Patti – e quindi sulla loro maggiore forza rispetto alle fonti ordinarie – ha fatto perdere di vista il cuore della norma costituzionale, che punta a chiarire che i Patti sono modificabili anche unilateralmente, sebbene con una procedura rinforzata. Oggi siamo in grado di chiarire che l’art. 7 capoverso va letto in combinazione col terzo comma dell’art. 8, e che entrambe le disposizioni servono a garantire che lo Stato non tratti le materie di interesse religioso senza prima avviare un dialogo con le confessioni religiose. Questo è il c.d. «principio di bilateralità», che punta a mantenere ferma la distinzione degli ordini e consequenzialmente il principio di laicità.
6. Sfide interpretative e prospettive
I Patti del Laterano sono stati modificati consensualmente nel 1984, limitatamente al Concordato. Quello del 1929 è stato abrogato, e sostituito con un atto che ha preso il nome di «Accordo», siglato a Villa Madama nel 1984. L’«Accordo di Villa Madama» ha quindi sostituito il Concordato lateranense, e in poche parole la protezione costituzionale relativa ai Patti si è estesa – per continuità – all’Accordo.
Il nome di Accordo è meno impegnativo del più classico «Concordato», ma la sostanza non cambia. Sono invece cambiati, anche molto, i contenuti. Tanto che ci si è chiesti se il «nuovo Concordato» fosse una semplice modificazione dei Patti, e non un atto così nuovo da uscire dall’ombrello protettivo che l’art. 7 riservava al vecchio Concordato. La dottrina si è interrogata a lungo su questo tema, ma bisogna dire che in termini pratici la volontà concorde della Chiesa e dello Stato era chiarissima: l’Accordo di Villa Madama andava inteso come una modificazione consensuale del Concordato, e pertanto l’impianto dell’art. 7 veniva totalmente confermato.
Resta da capire se a distanza di quarant’anni (più cinquantacinque, per un totale di quasi un secolo) il sistema concordatario richiamato dall’art. 7 sia ancora funzionale alla efficace regolamentazione dei rapporti fra Stato Chiesa, oppure non appaia come la permanenza di qualcosa di superato. A me pare che la dimensione attuale dei rapporti fra diritto e religione chieda di superare gli schemi bilaterali e pattizi per estendersi ad un livello partecipativo più largo e democratico. Devo tuttavia ammettere che la Repubblica sembra poco intenzionata a percorrere strade nuove, e anche la Chiesa non pare interessata a toccare lo status quo che ha finalmente raggiunto. Qualcuno ha detto che «a pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca»[14], e non escludo che la grande novità del 1984 – ossia, l’istituzione del sistema dell’8 per mille – suggerisca alla Chiesa di non toccare quello che ha ottenuto. Credo quindi che l’art. 7, nonostante la sua scarsa efficacia, abbia ancora molta vita davanti a sé.
[1] Fra gli altri, cfr. C. A. Biggini, Storia inedita della Conciliazione, Milano, Garzanti, 1942; E. Pucci, La pace del Laterano, Firenze, Lef, 1929; F. Pacelli, Diario della Conciliazione, a cura di M. Maccarone, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 1959; F. Margiotta Broglio, «Il Fascismo e la Conciliazione», in ISAP, Congresso celebrativo del centenario delle leggi amministrative di unificazione, Vicenza, N. Pozza, 1965; Id., Italia e Santa Sede dalla grande Guerra alla Conciliazione, Bari, Laterza, 1966; A. C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino, Einaudi, 1948; P. Scoppola, La Chiesa e il fascismo. Documenti e interpretazioni, Bari, Laterza, 1971; G. Spadolini (ed.), Il cardinale Gasparri e la questione romana (con brani delle memorie inedite), Firenze, Le Monnier, 1972; R. De Felice, Mussolini il fascista, vol. II, Torino, Einaudi, 1968; F. Traniello, «L’Italia cattolica nell’età fascista», in Storia dell’Italia religiosa, vol. III: L’età contemporanea, Roma – Bari, Laterza, 1995.
[2]Cfr. Chiesa, mondo cattolico e società civile durante la Resistenza, a cura di L., Edizioni di Storia e Letteratura, 2009.
[3] Ex plurimis, cfr. V. Tondi Della Mura, La crescente legittimazione popolare per un nuovo compromesso costituzionale, in Rivista AIC, 2016, pp. 1-4; G. Parlato, Culture politiche e compromesso costituzionale, in La Costituzione repubblicana. Fondamenti, principi e valori tra attualità e prospettive, Ares, 2010, I, pp. 384-392.
[4] A.C. Jemolo, 1960, ora in Coscienza laica, a cura di C. Fantappiè, Morcelliana, 2008, p. 88.
[5] G. Dalla Torre, Laicità dello Stato. A proposito di una nozione giuridicamente inutile, in Id., Il primato della coscienza. Laicità e libertà nell’esperienza giuridica contemporanea, Studium, Roma, 1992, pp. 35 sgg.; F. Finocchiaro, La Repubblica italiana non è uno Stato laico, in Diritto ecclesiastico, 1997, I, pp. 11 ss.
[6] A.C. Jemolo, Che cos’è la Costituzione, p. 58
[7] Cfr. B. Esposito, Il rapporto del Codice di Diritto canonico latino con il Diritto internazionale. Commento sistematico-esegetico al can. 3 del CIC/83, in Angelicum, 2006, pp. 397-449.
[8] P. Bellini, Realtà sociale religiosa e ordine proprio dello Stato, in Normativa ed organizzazione delle minoranze confessionali in Italia, a cura di V. Parlato e G.B. Varnier, Giappichelli, Torino, 1992, passim.
[9] Chiarisco questo aspetto in Laicità e indirizzo politico: uno sguardo complessivo negli ultimi 30 anni, in 30 anni di laicità dello Stato. Fu vera gloria?, a cura di A. Cardone e M. Croce, Roma, Nessun Dogma, 2021, pp. 275-282.
[10] Piero Bellini, Realtà sociale religiosa e ordine proprio dello Stato, cit., p. 294.
[11] Francesco Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, Zanichelli, Bologna, 2020, p. 119.
[12] Ex plurimis, cfr. G. Vegas, Spesa pubblica e confessioni religiose, Padova, Cedam, 1990; Finanze vaticane e Unione europea. Le riforme di papa Francesco e le sfide della vigilanza internazionale, a cura di E. Bani e P. Consorti, Il Mulino, Bologna, 2015.
[13] Più ampliamente, su questo, vedi P, Consorti, Diritto e religione. Basi e prospettive, Laterza, 2023.
[14] Aforisma riferito a Giulio Andreotti, che ricorda la più autorevole espressione di Pio XI «a pensare male del prossimo si fa peccato, ma si indovina».