L’art. 32 della Costituzione

Commento all’art. 32 della Costituzione

di Gabriele Positano, consigliere della Corte di Cassazione e componente del Comitato Direttivo della Scuola Superiore della Magistratura

Art32. La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.

Abstract: lo scritto ricostruisce l’evoluzione giuridica e sociale che, dall’impostazione tradizionale prettamente del diritto alla salute come vigilanza in materia di igiene e sanità, giunge ad una nozione di salute come condizione di benessere, quale valore percepito dall’individuo, sotto il profilo fisico e psichico. E’ illustrata la molteplicità di contenuti dell’art. 32 della Costituzione: il diritto all’integrità psico-fisica ed a vivere in un ambiente salubre, ma anche il diritto alle prestazioni sanitarie. Il superamento del perimetro pubblicistico, in favore della valenza individuale della salute come diritto fondamentale, viene ricostruito attraverso due percorsi paralleli: il primo riguarda la complessa evoluzione della nozione di danno biologico. L’altro ambito riguarda il profilo più propriamente pubblicistico, in cui gli apporti del legislatore, della Corte costituzionale e delle altre Corti superiori, consentiranno di spostare il ruolo del diritto alla salute verso la componente psicologica dell’individuo. Ampio spazio è dedicato al diritto alla salute nell’ordinamento comunitario e sovranazionale ed al necessario bilanciamento tra il diritto individuale all’autodeterminazione e la salute dell’intera collettività, attraverso il richiamo alle vicende giurisprudenziali più delicate in tema di bioetica e biodiritto. Infine, il tema dell’obbligo vaccinale, con il riferimento alla attuale pandemia.

Parole chiave: salute, integrità, bilanciamento, autodeterminazione, vaccinazione.

Sommario: 1. L’idea unitaria del diritto alla salute dell’individuo e della collettività. 2. Il contributo della Corte costituzionale alla definizione del diritto alla salute. 3. Consapevolezza storica del contenuto del diritto alla salute. 4. Il diritto alla salute come diritto fondamentale. 5. L’evoluzione privatistica del concetto di diritto alla salute. 6. Evoluzione e superamento del profilo pubblicistico del diritto alla salute. 7. Il diritto alla salute nell’ordinamento comunitario e sovranazionale. 8. La difficile convivenza tra autodeterminazione e tutela della vita. 9. Gli approdi delle giurisprudenze costituzionali. 10. I trattamenti sanitari imposti e l’obbligo vaccinale

  1. L’idea unitaria del diritto alla salute dell’individuo e della collettività.

1.1 L’art. 32 Cost.[1]esprime una visione unitaria del bene salute, quale oggetto di un interesse, sia individuale, che collettivo, connotata da un forte elemento di novità rispetto all’impostazione di fondo che caratterizzava i precedenti periodi, liberale e fascista.

L’Assemblea costituente, in occasione dell’esame dell’articolo 26 del Progetto della Costituzione italiana, ha rimarcato il collegamento, anche giuridico, tra la salute e la realizzazione integrale della libertà e dell’eguaglianza degli individui. In occasione della seduta del 19 aprile 1947 è stata rivisitata in chiave critica l’impostazione tradizionale secondo cui il tema della salute riguardava soprattutto la vigilanza igienica della sicurezza pubblica[2].

Alla fine del 1800 il Codice sanitario[3] accentrava le competenze in materia nel Ministero degli Interni e la legge n. 6972 del 1890 sulle “Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza” (cd legge sulle IPAB) riconduceva le attività delle Opere pie e degli istituti religiosi di assistenza all’ambito dell’amministrazione statale[4]. Tale inquadramento restò sostanzialmente immutato, anche nel periodo fascista, in cui le competenze in materia di igiene rappresentavano il profilo più rilevante del diritto alla salute (r.d. n. 1267 del 1934[5]).

1.2 La norma costituzionale, invece, colloca la salute in una condizione di benessere, quale valore percepito dall’individuo come risultato di elementi interni ed esterni al soggetto[6] e, sotto tale profilo, si differenzia dal contenuto degli altri diritti costituzionali, poiché non è riconducibile direttamente ad una attività materiale o ad una condotta giuridica. Rispetto all’impostazione precedente, la considerazione unitaria della salute contenuta nell’articolo 32 della Carta costituzionale consente di superare una serie di distinzioni giuridiche, come quella tra libertà costituzionali negative e positive[7] e quella tra disposizioni programmatiche e precettive[8].

  1. Il contributo della Corte costituzionale alla definizione del diritto alla salute

2.1 La giurisprudenza della Corte costituzionale si è occupata del diritto alla salute sin dal suo esordio. Nell’ordinanza n. 1 del 21 luglio 1956 ([9]) si leggeva che “la norma, la quale attribuisce un diritto non esclude il regolamento dell’esercizio di esso…il concetto di limite è insito nel concetto di diritto e che nell’ambito dell’ordinamento le varie sfere giuridiche devono di necessità limitarsi reciprocamente, perché possano coesistere nell’ordinata convivenza civile”.

Tale considerazione di carattere generale ha consentito alla Consulta di affermare che il diritto alla salute è «riconosciuto e garantito dall’art. 32 della Costituzione come un diritto primario e fondamentale che impone piena ed esaustiva tutela»[10] e che si articola in situazioni giuridiche soggettive che possono variare sulla base dell’ambito di protezione che l’ordinamento costituzionale assicura al bene dell’integrità e dell’equilibrio psico-fisico della persona.

La nozione dinamica di salute, in quanto tale soggetta a un continuo adeguamento alle condotte umane e, soprattutto alla tecnologia, ha reso il diritto alla salute il terreno privilegiato di sperimentazione degli istituti pubblicistici, consentendogli di coprire l’arco giuridico e sociologico che va dalla definizione fornita dall’OMS, quale “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale”[11], sino alla categoria della libertà costituzionale.

Alla complessità del concetto giuridico di salute come bene unitario della persona, corrisponde una varietà di contenuti. L’affermazione “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo”, esprime, da un lato, un diritto dell’individuo e, dall’altro, un obbligo della persona (con specifico riferimento alla dizione “diritto dell’individuo e interesse della collettività”).

2.2 L’art. 32 della Costituzione, racchiude una molteplicità di significati: il diritto all’integrità psico-fisica ed a vivere in un ambiente salubre, ma anche il diritto alle prestazioni sanitarie, alle cure gratuite per gli indigenti e quello a non ricevere trattamenti sanitari, se non di carattere obbligatorio volti a tutelare non già solo il destinatario, ma soprattutto la collettività, come avviene nel caso delle vaccinazioni o degli interventi effettuati per la salute mentale.

La norma introduce, poi, la categoria del diritto a usufruire di prestazioni (“e garantisce cure gratuite agli indigenti”), mentre nella parte finale si atteggia come elencazione di libertà negative, ponendo dei limiti al legislatore ordinario (“nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”).

2.3 Il diritto alla salute presenta, quindi, una connotazione sia oppositiva che pretensiva. Oppositiva, nella parte in cui attribuisce al titolare il potere di rifiutare i trattamenti sanitari non voluti, anche se vitali e, al contrario, di richiedere la cessazione dei comportamenti lesivi della integrità psicofisica. Sotto tale profilo si coglie il collegamento tra il diritto alla salute e le libertà fondamentali.

Il diritto alla integrità psicofisica è connotato dall’intangibilità, che opera sia nei confronti dei privati, che della pubblica amministrazione, la quale in questo ambito non gode di discrezionalità amministrativa piena, ma solo di discrezionalità tecnica. Secondo la giurisprudenza di legittimità “il diritto alla salute è sovrastante all’amministrazione, di guisa che questa non ha alcun potere, ancorché agisca per motivi di interesse pubblico, di affievolire o di pregiudicare indirettamente il diritto alla salute, il quale, garantito come fondamentale dall’art. 32 della Costituzione, appartiene a quella categoria di diritti che non tollerano interferenze esterne che ne mettano in discussione l’integrità”[12].

Il profilo oppositivo si atteggia diversamente quando occorre modulare in concreto il diritto dell’individuo a rifiutare trattamenti sanitari, nel caso in cui l’esercizio di tale diritto entri in conflitto con l’interesse della collettività. Il caso tipico è quello delle vaccinazioni obbligatorie (oggetto dell’ultimo paragrafo) tese a prevenire la diffusione di malattie infettive.

2.4 Nello stesso tempo il diritto alla salute è anche pretensivo consentendo all’individuo di richiedere dallo Stato l’adozione delle misure necessarie al mantenimento della salute, al recupero di quella eventualmente compromessa e al miglioramento delle aspettative future. Tale profilo va correttamente inteso, non come pretesa ad essere sano, ma come possibilità di accedere ai servizi necessari per realizzare il diritto alla salute. Come specificato dal Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani, corrisponde al “diritto al godimento del più elevato livello di salute fisica e mentale ottenibile” e vede come unica controparte lo Stato apparato.

Anche la pretesa al miglioramento degli standard di cura deve essere necessariamente bilanciata con altri interessi generali, connessi al limite delle risorse disponibili e alla conseguente necessità che analoghe cure possano essere assicurate a tutti. Se è vero che il legislatore non può intaccare il nucleo irriducibile di tutela, senza violare l’articolo 32 della Costituzione, è anche vero che il diritto alla salute è funzionale alla “determinazione degli strumenti, dei tempi e dei modi di attuazione” attraverso il necessario bilanciamento dell’interesse tutelato, con gli altri interessi costituzionalmente protetti[13].

2.5 In sostanza occorrerà verificare, di volta in volta, ed ex post, attraverso un doveroso bilanciamento, se quel nucleo essenziale di tutela è stato violato o meno. Il perimetro dell’intangibilità del diritto alla salute è rappresentato dai “Livelli essenziali di assistenza” (fissati dal DPCM 12 gennaio 2017) che rappresentano le prestazioni sanitarie minime che il Servizio Sanitario regionale deve comunque garantire[14].

Il limite delle risorse disponibili è anche alla base dell’orientamento della giurisprudenza amministrativa[15] riguardo alla necessità di fissare dei tetti alla spesa sanitaria a livello regionale e, della conseguente definizione del diritto alla salute come diritto condizionato alle esigenze di spesa.

In definitiva, lo Stato deve garantire il diritto alla salute con il massimo delle risorse disponibili con riferimento ai livelli essenziali di assistenza. Un ambito differente riguarda la tutela sanitaria ulteriore, rispetto alla quale opera il principio della sostenibilità economica.

  1. Consapevolezza storica del contenuto del diritto alla salute

3.1 Anche dopo l’introduzione dell’articolo 32 della Costituzione e nonostante il chiaro riferimento al “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, l’impostazione tradizionale del concetto del bene salute ha continuato ad influenzane l’interpretazione. Pertanto, l’approccio iniziale vedeva la prevalenza del profilo programmatico, nell’ambito di una visione prettamente pubblicistica, che ruotava intorno alla tutela dell’igiene e dell’assistenza pubblica. L’ambito privatistico era ancora estraneo alla disciplina in commento, trovando il proprio riferimento prioritario nello strumento negoziale e un filtro insuperabile nell’articolo 5 del Codice civile, che prevede il divieto degli atti dispositivi del proprio corpo.

3.2 Il primo riconoscimento del diritto alla salute nei rapporti tra privati va collocato alla fine degli anni sessanta ad opera della giurisprudenza in materia di lavoro, che ha inserito, tra gli obblighi datoriali, anche quello di garantire le condizioni di sicurezza per la salute dei dipendenti, ancorando il riferimento all’articolo 2087 c.c. secondo cui “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza della tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, così anticipando quello che sarà il contenuto dell’articolo 9 dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300 del 1970) in tema di misure idonee alla tutela della salute e della integrità fisica nei luoghi di lavoro.

Sarà la Corte costituzionale, nel 1974, ad affermare in materia di inquinamento atmosferico il principio della risarcibilità del danno per violazione della salute umana secondo le regole della responsabilità per fatto illecito[16] e qualche anno dopo, la Corte di cassazione a riconoscere il diritto alla salute come fondamentale diritto dell’individuo[17], rispetto al quale è recessiva l’azione della amministrazione a tutela della salute pubblica (la vicenda riguardava la costruzione di impianti contro l’inquinamento nel Golfo di Napoli).

3.3 Ma sarà la complessa evoluzione della nozione di danno biologico, attraverso il superamento, da parte della giurisprudenza soprattutto di merito, dell’impostazione prettamente patrimoniale del risarcimento del danno alla persona, a spostare il baricentro del diritto alla salute verso una connotazione anche privatistica e non solo pubblicistica.

  1. Il diritto alla salute come diritto fondamentale

4.1 Le posizioni soggettive che presentano una tutela di rango costituzionale possono atteggiarsi quali diritti fondamentali, quando sono caratterizzate da importanza primaria, così connotando un ordinamento, oppure presentano l’ulteriore requisito della inviolabilità (come le libertà) che costituisce un elemento aggiuntivo rispetto al diritto fondamentale (come, per esempio, la salute, ai sensi dell’articolo 32 Cost) e sono pertanto intangibili, avendo ad oggetto aspetti inerenti alla “persona umana”, che presentano una vocazione relazionale da tutelare anche nelle formazioni sociali nelle quali si realizzano.

A rigore, il diritto alla salute non rientra tra le posizioni giuridiche soggettive definite come inviolabili dalla Costituzione, al contrario della libertà personale, del domicilio, della libertà e segretezza della corrispondenza, della libertà di difesa e neppure tra le posizioni giuridiche soggettive che la Corte Cost. ha definito come diritti inviolabili, diversamente dalla libertà di pensiero, dalle libertà religiose e dalla libertà di associazione.

4.2 Può essere utile tentare una elencazione dei diritti inviolabili:

– Costituzionali: posizioni giuridiche soggettive definite inviolabili dalla Costituzione (art. 13 libertà personale, art. 14 domicilio, art. 15 libertà e segretezza della corrispondenza e qualsiasi altra forma di comunicazione, art. 24 libertà di difesa -da tenere in considerazione con l’art.111 Cost.);

– ritenuti tali dalla Consulta: posizioni giuridiche soggettive definite inviolabili dalla Corte Costituzionale (ad esempio, art. 21 libertà di pensiero, art. 19 libertà religiose, art. 18 libertà di associazione ecc.);

– inerenti all’essere umano: posizioni giuridiche soggettive definite inviolabili poiché riferite all’uomo (art. 31-37 diritto alla famiglia, art. 32 diritto alla salute, art. 38 diritti previdenziali).

4.3 Lo sviluppo della giurisprudenza in tema di risarcibilità del danno biologico permetterà l’inquadramento della salute tra i diritti inviolabili, non perché l’articolo 32 della Costituzione definisca in questi termini il diritto alla salute, ma perché tale caratteristica è desumibile dalla previsione dell’articolo 2 della Costituzione e trova riscontro anche nelle convenzioni e negli atti internazionali ai quali l’Italia ha aderito.

Infatti, l’art. 2 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Roma 4 novembre 1950) e il Protocollo addizionale affermano che “il diritto di ogni persona alla vita è protetto dalla legge” e ciò è espressione internazionale del diritto fondamentale alla salute, riconosciuto dall’ordinamento italiano all’art. 32 della Costituzione.

  1. L’evoluzione privatistica del concetto di diritto alla salute.

5.1 La ricostruzione del profilo risarcitorio del diritto alla salute muove dal suo inquadramento come diritto della personalità, fondamentale ed indisponibile, ai sensi dell’articolo 2 della Costituzione, perché costituisce la precondizione per il godimento della maggior parte degli altri diritti della persona.

5.2 Alla fine degli anni sessanta e all’inizio degli anni settanta, la Cassazione raccoglieva le inquietudini che i giudici di merito cominciavano a prospettare sulla incongruenza delle conseguenze di un’interpretazione letterale delle due disposizioni principali di tutela ordinaria (gli artt. 2043 e 2059 c.c.); norme queste che, rimaste immutate nella loro formulazione letterale, stentavano a fare i conti con una realtà non solo costituzionalmente, ma anche antropologicamente diversa da quella che aveva visto la nascita del Codice civile.

Ad esempio, in tema di danno patrimoniale riconducibile all’art. 2043 cc, qualora tale norma fosse stata intesa con riferimento all’art. 1223 c.c., ritenendo, quindi, il lucro cessante e il danno emergente come aspetti necessari per dar luogo a un danno patrimoniale, ciò avrebbe escluso la risarcibilità di quel pregiudizio che non si traduceva nella diminuzione del reddito, come nel caso di lesioni subite da una casalinga, da un minore o da un disoccupato.

I giudici di merito erano consapevoli il problema non poteva essere risolto nemmeno ponendo l’accento sul danno non patrimoniale, in quanto l’art. 2059 c.c. ne prevede la risarcibilità “nei soli casi previsti dalla legge”.

La risposta a questa situazione di insoddisfazione è stata graduale e variamente articolata; si è cominciato con la creazione di figure di danno che si è tentato di adeguare alla categoria del danno patrimoniale in senso lato, perché non soltanto avevano conseguenze sul reddito, ma, si diceva, erano comunque risarcibili sulla base di criteri oggettivi: danno alla vita di relazione, danno alla diminuzione della capacità lavorativa generica, danno estetico, danno sessuale e via di seguito.

Ci si pose il problema se il danno biologico potesse essere considerato, a sua volta, un danno patrimoniale in senso lato, oppure un danno non patrimoniale, con tutte le conseguenze negative ricavabili.

La Corte Costituzionale, con la nota sentenza Dell’Andro n. 184 del 1986 optò per la prima soluzione, sollecitando una nuova lettura del concetto di patrimonio di cui all’art. 2043 c.c., in senso non solo economico, ma anche personale, comprensiva del bene salute tutelato dall’art. 32 Cost.

5.3 Il sistema così delineato ha costituito il quadro di riferimento per alcuni anni, finché non è stato sottoposto a fondate obiezioni dalla dottrina e dalla stessa giurisprudenza della Corte costituzionale.

Il cammino intrapreso dalla giurisprudenza per riempire di contenuto reale il diritto ex art. 32 Cost. non è stato semplice. A Genova nasce il danno biologico che i giudici di merito tentano di definire come danno alla salute di tipo relazionale, che ricomprenda in sé anche le conseguenze “dinamiche” di quel pregiudizio. Sarà la scuola triestina, contrapposta alla dottrina pisana, a dar veste giuridica ad una diversa figura di danno cui ricondurre tutti quei pregiudizi che colpiscono la persona nel suo fare a-reddituale. Invece, per la dottrina torinese il danno esistenziale copriva ogni distonia accertata, che coinvolgesse, sia il profilo del fare, sia quello del sentire, “purché collegato alla lesione ingiusta di un interesse del danneggiato”.

5.4 Si pose, quindi, all’attenzione dei giuristi il problema di che cosa fosse questa nuova figura di danno e la Cassazione intervenne in tema di danno non patrimoniale con le due note sentenze gemelle del 2003, adottando un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059, alla luce dell’art. 2 Cost. che tutela i diritti inviolabili dell’uomo; conseguentemente, l’art. 2 della Cost. costituiva la previsione di legge che, al più altro grado, giustificava l’inserimento di questo tipo di danno nell'”ombrello” dell’art. 2059 c.c.

Tale orientamento della S.C. fu recepito e avallato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 233 del 2003. Poiché la tempistica degli eventi spesso conta quanto quella delle decisioni, va detto che pochi mesi prima della pubblicazione delle sentenze della Terza Sezione civile, era stata sollevata la questione di costituzionalità dell’art. 2059 c.c. proprio lamentando che la diposizione non avrebbe consentito una tutela adeguata dei diritti della personalità. Quando la questione era già all’esame della Corte Costituzionale, furono pronunciate le due decisioni della Cassazione del 2003.

5.5 Cinque anni dopo arrivano le sentenze delle Sezioni Unite dell’11 novembre 2008 nn. 26972/5. Il tentativo era quello di costruire, intorno al diritto alla salute ex art. 32 Cost.  un concetto di ingiustizia del danno funzionalmente qualificata, imperniata sulla lesione dei diritti inviolabili della persona, con l’obiettivo di creare una unitarietà della categoria del danno non patrimoniale e la conseguente derubricazione, a fini meramente descrittivi, di tutte quelle sottocategorie che erano venute proliferandosi nell’elaborazione giurisprudenziale e nella riflessione dottrinale nei decenni precedenti.

Neanche con le pronunce dell’11 novembre del 2008. il processo di ridefinizione dello statuto del danno alla salute è approdato ad un assetto definitivo; ed anzi, è proseguito nell’elaborazione giurisprudenziale attraverso un indirizzo che, valorizzando la concreta fenomenologia del danno non patrimoniale, ne ha proposto la scomposizione nel duplice pregiudizio della sofferenza interiore e delle ripercussioni sulla vita quotidiana nel suo aspetto dinamico-relazionale, da valutarsi autonomamente nella liquidazione del ristoro pecuniario.

5.6 La tesi della struttura binaria del danno non patrimoniale non modifica la nozione di onnicomprensività del danno, intesa quale esigenza di tenere conto di tutte le conseguenze derivate dall’evento di danno, fermo il concorrente limite di evitare duplicazioni risarcitorie, attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici e di non oltrepassare una soglia minima di apprezzabilità.

In questi termini è l’approdo delle dieci sentenze del cd progetto sanità della Terza Sezione, pubblicate tutte l’11 novembre 2019, undici anni dopo quelle cd di San Martino, senza il passaggio attraverso le Sezioni Unite in quanto, nelle more, era mutato l’assetto normativo (la modifica degli artt. 138 e 139 c.d.a. ad opera dell’art. 1, comma 17, della legge 4 agosto 2017, n. 124).

Il cammino della giurisprudenza di legittimità ci restituisce una più ampia tutela del diritto alla salute  richiedendo al giudice di valutare, a fini risarcitori, tanto le conseguenze subite dal danneggiato nella sua sfera morale (che si collocano nella dimensione del rapporto del soggetto con sé stesso), quanto quelle incidenti sul piano dinamico-relazionale della sua vita (che attengono all’ambito della relazione del soggetto con la realtà esterna, con tutto ciò che, in altri termini, costituisce “altro da sé”).

  1. Evoluzione e superamento del profilo pubblicistico del diritto alla salute

6.1 Analoga e forse ancora più rilevante evoluzione ha subito la nozione di diritto alla salute sotto un profilo più propriamente pubblicistico. Sin dagli anni settanta, il legislatore aveva gradualmente attribuito al diritto alla salute il ruolo di diritto primario e assoluto dell’individuo a conservare la propria identità fisica e psichica. In questo cammino sono essenziali la legge 13 maggio 1978, n. 180, sull’assistenza psichiatrica, che equipara la posizione del malato di mente ad ogni altro paziente e la legge 22 maggio 1978, n. 194, secondo cui la donna che “accusi” circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza comporterebbe un serio pericolo per la salute fisica e psichica, può chiedere di interrompere la gravidanza. Infine, la legge 23 dicembre 1978, n. 833 (Riforma sanitaria), individua nel Servizio Sanitario Nazionale lo strumento per la tutela della salute la quale, a sua volta, viene definita nei termini previsti dall’articolo 32 Cost.

6.2 La Corte costituzionale a partire dalla sentenza n. 88 del 1979 ha affermato che la salute è soprattutto “un diritto individuale fondamentale, primario ed assoluto, da inquadrare tra quelle posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione”. Alla promozione della salute a diritto primario consegue il divieto di violazione di tale diritto individuale da parte del privato e da parte della amministrazione, anche per lo svolgimento di attività produttive. L’assetto normativo permetteva di separare il concetto di salute pubblica, dal diritto individuale alla salute, con una tendenziale prevalenza di quest’ultimo rispetto al primo. Da un lato, l’art. 32 Cost. attribuiva il diritto a non subire trattamenti sanitari obbligatori, se non nell’interesse anche della salute dell’individuo, dall’altro, la pretesa a ricevere cure adeguate alle patologie in atto. L’art. 1 della legge n. 833 del 1978, individuava nel Servizio Sanitario Nazionale il mezzo per realizzare proprio quel profilo pretensivo, come delineato dalla Costituzione.

6.3 Nel decennio successivo l’apporto più significativo alla definizione del diritto alla salute è stato fornito da importanti decisioni della Corte costituzionale. Così, ad esempio, la sentenza in materia di mutamento di sesso[18], secondo cui l’intervento che adegua il corpo alla dimensione psichica, assume anche un rilievo terapeutico. La Corte costituzionale supera l’opinione che collega l’identità sessuale al mero dato cromosomico, dando centralità anche all’aspetto psichico, con la conseguenza che l’atto terapeutico è finalizzato alla realizzazione del “diritto alla salute” del transessuale. Il rilievo della salute psichica costituirà oggetto di un importante pronunciamento della Corte di cassazione, in ambito penale[19]. Con l’assoluzione del ginecologo si concludeva la vicenda del “Centro informazione sterilizzazione e aborto” diretto in Toscana dal professionista che praticava interventi di sterilizzazione in favore di numerosi pazienti consenzienti. La Corte ha escluso la rilevanza penale della sterilizzazione volontaria (reato di lesioni personali) specificando che il diritto alla salute legittima “il legislatore, a prescindere dalle integrità fisica, quando, come nella specie, la sua materiale lesione risponda a una scelta dell’individuo (non contraria all’ordine pubblico ed al buon costume) nel senso della salute, anche solo psichica”.

Un’altra vicenda legata alla medesima area geografica prende invece le mosse dall’affermazione, da parte della Corte d’assise di Firenze, della responsabilità di un medico (Carlo Massimo) per omicidio preterintenzionale; decisione confermata anche in cassazione[20]. Rispetto al consenso prestato dalla paziente, limitato all’asportazione di polipi, il sanitario aveva svolto un intervento molto più invasivo. Viene affermato il principio secondo cui ciascuno deve poter disporre della propria di salute e dell’integrità personale e in tale ambito deve “essere ricompreso il diritto di rifiutare le cure mediche, lasciando che la malattia segua il suo corso, anche fino alle estreme conseguenze”. Il rapporto medico paziente viene così rivisitato, affermando che le scelte in ordine alla qualità della vita sono rimesse alla valutazione del diretto interessato. A partire da quella decisione la giurisprudenza farà ricorso all’articolo 32 Cost, anche in ambito penale, per affermare la responsabilità dei medici per la mancanza di informazione adeguata.

Ai fini che qui rilevano, l’importanza di tali decisioni riguarda, non tanto il profilo dell’adeguatezza dell’informazione (l’informazione adeguata, ovviamente, deve precedere il consenso e ne costituisce una pre-condizione[21]) che sarà oggetto di un importante filone giurisprudenziale, ma l’individuazione del soggetto legittimato a detenere le informazioni mediche che appartengono esclusivamente al paziente.

6.4 L’insieme di tali elementi ha consentito di spostare il baricentro del diritto alla salute, dall’originaria componente pubblicistica, a quella più prettamente privatistica, attraverso la progressiva centralità della componente psicologica dell’individuo, che si atteggia sia in termini oppositivi, come diritto alla protezione della salute fisica e psichica, sia, soprattutto, nella dimensione pretensiva, come diritto di disporre di sé e, sostanzialmente, di autodeterminarsi.

  1. Il diritto alla salute nell’ordinamento comunitario e sovranazionale

7.1 Il diritto unionale si occupa della salute sotto una molteplicità di aspetti. Il Trattato sull’Unione Europea (TUE) all’art. 6, lettera a), attribuisce all’Unione la competenza in materia di tutela e miglioramento della salute umana e quest’ultima, ai sensi del successivo articolo 9, rappresenta una delle esigenze di cui l’Unione deve tenere conto. Il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), all’articolo 36, consente limitazioni alle esportazioni per la tutela della salute; l’articolo 137, attribuisce all’Unione la competenza in materia di salute dei lavoratori e l’articolo 168 si occupa di garantire “un livello elevato di protezione della salute umana” con riferimento alla posizione dei consumatori (articolo 169) e dell’ambiente (articolo 191). La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea tutela il lavoro minorile (articolo 32) e ribadisce che nell’attuazione delle politiche dell’unione è “garantito un livello elevato di protezione della salute umana” (articolo 35).

Del diritto alla salute si occupa anche la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo che, sulla base del nuovo articolo 34 del protocollo n. 11 (reso esecutivo con legge 28 agosto 1997, n. 296) può essere adita, non solo dagli Stati membri, ma anche da ogni persona fisica, organizzazione non governativa e gruppo di privati che alleghi di essere stata vittima di una violazione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione o dai Protocolli. Sebbene la Convenzione non si occupi espressamente del risarcimento del danno e del diritto alla salute (al tempo dell’approvazione della Convenzione, nel 1950, il diritto alla salute ed altri diritti soggettivi inviolabili costituivano profili sociali, dei quali avrebbero dovuto occuparsi la Carta Sociale Europea o il Codice europeo di sicurezza sociale), la giurisprudenza della Corte EDU ha progressivamente inserito il diritto alla salute tra quelli fondamentali, sanciti e tutelati dalla Convenzione sotto il duplice profilo, già delineato nell’articolo 32 della Costituzione, del diritto alla tutela dell’integrità psicofisica e del diritto a pretendere cure adeguate.

I riferimenti normativi dell’art. 3 sul divieto di tortura e nell’art. 2 della Convenzione, che regola l’inviolabilità del diritto alla vita, la norma sulla quale maggiormente la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha fatto leva è l’articolo 8, che disciplina il diritto al rispetto della vita privata, nella quale è stata inserito in via interpretativa anche quello alla protezione del proprio stato di integrità fisica, morale e psicologica e il diritto di scegliere volontariamente se rifiutare o accettare le cure mediche.

Da tale norma la Corte ha tratto l’obbligo degli Stati di garantire il diritto al rispetto effettivo dell’integrità fisica e psicologica degli individui ([22]). Conseguentemente, la norma interna contrastante con il diritto alla salute, come delineato dalla Convenzione, è costituzionalmente illegittima per contrasto con la “norma interposta”, rappresentata dall’articolo 117 della Costituzione. Ciò non ne consentirà la disapplicazione da parte del giudice, ma la necessità di sottoporre la questione al vaglio della Consulta.

Anche la Carta Sociale Europea (resa esecutiva con legge del 3 luglio 1965, n. 929) si occupa, al punto 11 del Preambolo, dei diritti fondamentali del lavoratore, ribadendo che “ogni persona ha diritto di usufruire di tutte le misure che le consentano di godere del miglior stato di salute ottenibile”. La tutela è assicurata attraverso il meccanismo dei reclami collettivi, nei quali la legittimazione attiva spetta alle organizzazioni di lavoratori o datori di lavoro.

  1. La difficile convivenza tra autodeterminazione e tutela della vita.

8.1 La progressiva elaborazione di una nozione di salute sempre più ampia, rispetto alla figura tradizionale della mera patologia, ha consentito di prendere in esame una serie di nuove istanze tese al perseguimento di una migliore condizione di salute, intesa anche quale diversa qualità della vita, che non necessariamente coincide con l’eliminazione della patologia.

La centralità del principio di autodeterminazione individuale ha trovato una tipizzazione nella legge n. 219 del 22 dicembre 2017 che, all’articolo 1, prevede che “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge”. Il legislatore recepisce l’impostazione che emerge dalle decisioni della Consulta sul collegamento tra l’articolo 13 e l’articolo 32 della Costituzione, a causa del riferimento –presente in entrambe le disposizioni- ad una connotazione estesa di libertà personale, con riferimento all’autodeterminazione dell’individuo e alla libertà di disporre di sé.

La tutela è azionabile direttamente dai soggetti legittimati nei confronti dei responsabili dei comportamenti illeciti, residuando, in capo al legislatore, il potere di scelta degli strumenti, dei tempi e dei modi per la sua tutela.

Nell’art. 32, pertanto, convivono due esigenze. La Costituzione riconosce i diritti inviolabili dell’uomo, tra i quali quello dell’autodeterminazione in funzione della realizzazione dei progetti di vita, della crescita e della maturazione della personalità di ogni individuo, ma anche l’adempimento dei doveri di solidarietà, in assenza del quale l’idea di comunità resterebbe un involucro vuoto.

8.2 Le concrete opportunità tecnologiche fornite dallo sviluppo scientifico, da una parte e l’allargamento dell’area tutelabile del diritto individuale all’autodeterminazione, dall’altra, hanno creato le condizioni per un confronto, non solo giuridico, ma anche etico e biologico, tra il concetto di libertà individuale e il diritto alla vita. La relazione tra bioetica e biodiritto è una delle questioni più complesse e delicate del nostro ordinamento giuridico e pone l’interprete di fronte ad un sistema non solo e non tanto normativo, quanto, soprattutto, valoriale.

L’accresciuta sensibilità sociale sulle questioni legate alla dignità del vivere e del morire e l’affermarsi di una cultura maggiormente laica sui delicati temi dell’inizio e fine vita, ha determinato nuove istanze di giustizia e la conseguente metamorfosi della bioetica in biodiritto. Termine entrato nell’uso corrente per indicare l’insieme dei problemi posti dalla relazione tra diritto, bioetica e scienze della “vita” ed è, in estrema sintesi, la risposta giuridica a questioni bioetiche.

La tutela, inizialmente legata alle tematiche dell’inizio e del fine vita, si è allargata ad altri aspetti essenziali per la persona quali l’identità, la dignità, l’autodeterminazione e la responsabilità, sino ad abbracciare la cura dell’ambiente e dei viventi non umani.

Al giudice di merito, così, è stato richiesto di esaminare una serie vicende spesso caratterizzate da clamore mediatico, nelle quali contemperare la libertà della persona rispetto al proprio corpo ed il principio dell’indisponibilità del bene vita che, a sua volta, trae fondamento, oltre che nell’articolo 5 del codice civile, che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo, soprattutto nelle norme di diritto penale (articoli 575, 576, 577, primo comma n. 3, 579 e 580 c.p.) che sanzionano l’omicidio e l’aiuto al suicidio. Le vicende che hanno interessato Piergiorgio Welby, Fabiano Antoniani ed Eluana Englaro hanno visto una contrapposizione tra la centralità del diritto alla vita, come diritto fondamentale costituzionale previsto anche dall’articolo 2 della CEDU, ritenuto prevalente rispetto a quello all’autodeterminazione e l’impostazione opposta, della priorità del decidere della propria esistenza distinguendo, a sua volta, il caso di pazienti coscienti e capaci, da quelli invece in stato vegetativo permanente (SVP).

Non è questa la sede per ricostruire le complesse argomentazioni esaminate dalla giurisprudenza per risolvere, in assenza di una normativa specifica, tali note vicende giudiziarie. Ai fini che qui rilevano va segnalato che la Corte di cassazione[23], ha accolto il ricorso del padre-tutore, che chiedeva, sulla base delle opinioni espresse dalla figlia, prima della perdita di coscienza, l’autorizzazione ad interrompere l’idratazione e la nutrizione della paziente, affermando che la disattivazione del presidio sanitario può essere autorizzata solo “quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno”. L’ulteriore condizione è quella che “tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona”.

La Corte di legittimità ha affermato la centralità del consenso informato per l’autodeterminazione e, nell’ipotesi ricorrente di paziente non capace (SVP), ha fondato la decisione sul principio di parità di trattamento, in modo da superare il rischio di incostituzionalità per violazione del principio di uguaglianza tra i soggetti capaci e quelli non capaci. L’affermazione della centralità della volontà del paziente è complicata dalla necessità di individuare il soggetto giuridico in grado di garantire il dualismo dei soggetti nel processo di elaborazione della decisione medica. Questione risolta in favore del tutore, quale interlocutore dei medici, ma con alcuni correttivi. Il carattere personalissimo del diritto alla salute dell’incapace connota l’istituto giuridico della rappresentanza legale, non legittimando il trasferimento al tutore di un potere incondizionato sulla salute del rappresentato. Il tutore dovrà agire nell’interesse esclusivo dell’incapace e, nel suo interesse, deve decidere “con” l’incapace e non al posto o per l’incapace. E ciò sulla base dei desiderata espressi prima della perdita della coscienza e con riferimento a tutto l’ambito della pregressa personalità dell’incapace.

8.3 La legge 22 dicembre 2017, n. 219, contenente “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” ha poi introdotto una serie di strumenti tesi a prevenire la verificazione di scelte esiziali analoghe a quelle affrontate dalla giurisprudenza, al fine di ricostruire la volontà del paziente divenuto incapace prima del ricovero o dal momento in cui deve essere eseguito il trattamento rifiutato.

Il legislatore ha tentato di superare il principio della indisponibilità del bene della vita, riconoscendo il diritto di lasciarsi morire e prevedendo il dovere del medico di adoperarsi per limitare le sofferenze del paziente. La soluzione adottata consente di rifiutare un trattamento di sostegno vitale, ma non anche la richiesta di interventi tesi a provocare liberamente la morte del paziente che ne faccia richiesta. Questo, pertanto, ha sollecitato nuovamente l’intervento della Corte costituzionale in tema di assistenza al suicidio[24]. Nel procedimento a carico di chi aveva accompagnato in Svizzera il paziente, tetraplegico, il quale aveva espresso la lucida volontà di porre termine alla propria esistenza, la Corte costituzionale, è intervenuta in due tempi.

Con l’ordinanza n. 207 del 2018, valutando la legittimità costituzionale dell’articolo 580 del Codice penale, la Consulta ha disposto il rinvio della decisione per consentire al legislatore di introdurre una disciplina legislativa in materia e, in considerazione dell’inerzia dello stesso legislatore, con sentenza n. 242 del 2019, ha dichiarato l’illegittimità parziale della norma, individuando un’area di conformità costituzionale dell’assistenza al suicidio.

La decisione si fonda sulla sostanziale irragionevolezza che il divieto assoluto di assistenza al suicidio pone riguardo alle limitazioni alla libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze. Secondo la Consulta, il fondamentale rilievo della vita non si traduce in un ostacolo assoluto “penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento conseguente alla anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale”.

9.Gli approdi delle giurisprudenze costituzionali

9.1 Rispetto al quadro giurisprudenziale italiano, in ambito sovranazionale il profilo determinante non è costituito dall’esistenza o meno di una malattia incurabile o grave, ma dal concetto di dignità. La tutela della vita che si ponga in antitesi con l’autonomia, contraddice l’immagine di una società in cui la dignità degli individui è posta al centro della scala valoriale[25]. La legislazione tedesca, ad esempio, non sanzionava ogni forma di assistenza al suicidio, ma solo lo svolgimento in forma “commerciale” di tale attività. La Corte federale ha affermato che il divieto di servizi di suicidio assistito, di cui alla sezione 217 del Codice penale tedesco (Strafgesetzbuch – StGB), viola la legge fondamentale, laddove prevede che “ognuno ha diritto al libero sviluppo della propria personalità” e che “la dignità dell’uomo è intangibile”.

Il tema del bilanciamento tra il diritto alla vita e quello dell’individuo di decidere in che modo porre fine alla propria esistenza è stato al centro di importanti decisioni della Corte EDU. La sentenza del 29 aprile 2002 (caso Pretty c. Regno Unito) e quella successiva del 20 gennaio 2011 (Haas c. Svizzera) hanno tentato di contemperare le opposte esigenze. Nel primo caso, la ricorrente aveva chiesto alle autorità britanniche di concedere l’impunità al marito per l’assistenza al suicidio. Nel secondo caso, il ricorrente, affetto da una sindrome psichica, non avendo acquisito dagli psichiatri interpellati la diponibilità a porre fine alla propria vita, aveva dedotto l’illegittimità della norma che subordina il rilascio del farmaco letale alla prescrizione medica. Nella prima vicenda, la Corte ha ritenuto legittima la disciplina inglese che attribuisce rilievo penale all’assistenza al suicidio. Nella seconda controversia, la Corte ha affrontato il tema della compatibilità del diritto al rispetto della vita privata, ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione, con la richiesta rivolta allo Stato di assumere misure idonee a consentire un suicidio dignitoso. Anche in questo caso, la normativa svizzera non violerebbe tale principio, richiedendo la prescrizione medica come condizione necessaria per ottenere la sostanza letale.

9.2 La giurisprudenza delle Corti supreme consente di aggiungere almeno due tasselli alla definizione del diritto alla salute in ambito sovranazionale. Innanzitutto, il profilo pretensivo del diritto alla salute, inteso anche come aspettativa alla corretta valutazione delle richieste riguardanti il fine vita, viene collocato sotto la copertura dell’articolo 8 della CEDU, con ciò permettendo un controllo sui parametri previsti nei diversi Stati e, quindi, anche dalla scienza medica, per il rilascio delle prescrizioni finalizzate a porre fine all’esistenza individuale. Il secondo aspetto è quello di una tendenziale sovrapponibilità della giurisprudenza della Corte costituzionale italiana a quella della Corte EDU riguardo alla centralità del ruolo dell’identità personale, rispetto al consenso ai trattamenti medici, intendendo la prima, sia nella sua componente fisica che, soprattutto, nella sua dimensione morale.

  1. I trattamenti sanitari imposti e l’obbligo vaccinale

10.1 L’obbligo vaccinale coinvolge necessariamente la tutela del diritto alla salute e il tema della riserva di legge in materia di trattamenti sanitari obbligatori di cui all’art. 32 Cost, in quanto, secondo autorevole dottrina, “i trattamenti sanitari obbligatori che riguardano la generalità della popolazione sono essenzialmente le vaccinazioni obbligatorie”[26] e per “trattamento sanitario” si intende ogni attività prodromica alla tutela della salute e, quindi, di carattere diagnostico, d’indagine o preventiva.

Sebbene tale tematica abbia assunto un enorme rilievo nel recente periodo della pandemia di Covid-19, la vaccinazione obbligatoria è un istituto noto da tempo all’ordinamento italiano e già disciplinato, dal d.l. 7 giugno 2017 n. 73, conv. nella legge 31 luglio 2017, n. 119. L’addentellato normativo di rango costituzionale per l’imposizione di un obbligo vaccinale risiede nel primo comma dell’art. 32 ai sensi del quale «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» e ciò nella misura in cui la scienza certifichi l’efficacia preventiva della vaccinazione, così rispondendo ad un chiaro dovere di solidarietà. L’obbligatorietà del trattamento sanitario incide sul diritto all’autodeterminazione in materia di salute, quale attribuzione della facoltà di esercitare in tale materia una scelta libera e consapevole e non tanto quale “libertà dai trattamenti sanitari, ex art. 32, comma 2 Cost.”[27]. Secondo l’impostazione più accreditata per i trattamenti sanitari sussiste una riserva assoluta di legge (statale), mentre per quelli meramente obbligatori insiste una riserva di legge relativa[28].

Il profilo più delicato riguarda la legittimità costituzionale della previsione di un obbligo vaccinale rispetto al diritto all’autodeterminazione della persona, attesa l’indispensabilità di un bilanciamento di interessi. L’autodeterminazione, come tutti i diritti fondamentali, non può prescindere dai limiti fondati sul dovere di solidarietà e “perciò giustificati in nome dei diritti degli altri o – il che è praticamente lo stesso – dell’interesse della collettività”[29].

Sotto tale profilo due condizioni appaiono imprescindibili: la previsione per legge statale e l’idoneità del trattamento obbligatorio a tutelare la salute del singolo e della collettività, sulla base di scelte ragionevoli fondate sull’evidenza scientifica. Questo in quanto, secondo l’insegnamento della Consulta (in particolare i principi a fondamento di Corte cost. n. 307 del 1990, n. 132 e n. 210 del 1992, n. 258 del 1994, n. 118 del 1996), l’imposizione di un obbligo vaccinale, previsto con legge, che risponda ad un interesse della collettività, rientra tra i trattamenti sanitari obbligatori, volti alla tutela della salute, ex art. 32 Cost. quando sia finalizzato a migliorare o preservare lo stato di salute del soggetto a cui è diretto, e non incida negativamente sulla salute del destinatario. Elementi significativi possono trarsi a riguardo da due decisioni della Consulta: la sentenza n. 5 del 18 gennaio 2018, che ha dichiarato la legittimità costituzionale del decreto Lorenzin (d.l. n. 73 del 2017) e la decisione n. 37 del 2021[30], che –al contrario- ha dichiarato l’incostituzionalità della legge della Regione Valle d’Aosta n. 11 del 2020 contenente misure di contenimento della diffusione del contagio da Covid-19 di minor rigore rispetto a quelle statali.

In entrambi i casi la Corte ha ritenuto compatibile con l’art. 32 Cost la legge impositiva di un trattamento sanitario, quando quel trattamento è finalizzato, non solo a migliorare o a mantenere lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare la salute degli altri, quando non incida negativamente sullo stato di salute del destinatario dell’obbligo. Tale incidenza va rapportata alle conseguenze che appaiano normali e tollerabili. L’ulteriore condizione è che, nell’ipotesi di danno ulteriore, sia prevista la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato.

NOTE 

[1] Sui profili costituzionali del diritto alla salute: B. Pezzini, Il diritto alla salute: profili costituzionali, in Dir. Soc., 1983, 25; Luciani, Salute, Il Diritto alla salute, dir. Cost., in Enc. Giur., XXVII, Roma, 1991, 5; A. Baldassarre, Diritti sociali, in Enc. Giur., XI, Roma, 1989, 25 ss, e da A. Pace, Problematica delle libertà costituzionali, p.te generale, III ed. agg. Modif. Padova 2003, 83; R. Balduzzi, Salute (diritto alla), in S. Cassese (dir.), Dizionari di diritto pubblico, VI, Milano, 2006; A. Simoncini – E. Longo E., Art. 32, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, I, Torino, 2006, 655 ss., R. Balduzzi, D. Servetti, La garanzia costituzionale del diritto alla salute e la sua attuazione nel servizio sanitario nazionale, in R. Balduzzi G. Carpani (a cura di) Manuale di diritto sanitario, Bologna, 2013.

[2] La legge n. 3793 del 1859, nota come “legge Rattazzi” affidava al potere pubblico le funzioni amministrative in materia sanitaria, con specifico riferimento alla “vigilanza igienica, all’assistenza sanitaria e gestione dei servizi in materia di igiene e sanità”. Tali disposizioni erano state estese a tutto il Regno, attraverso l’allegato C alla legge n. 2248 del 1865 “Legge sulla sanità pubblica”.

[3] Legge n. 5849 del 1888 “Sulla tutela della igiene della sanità pubblica”.

[4] Gli articoli 35 e 36 della legge n. 6972 del 1890 collocavano gli atti di gestione del patrimonio di tali enti sotto il controllo statale: De Siervo, Assistenza e beneficenza pubblica, in Digesto pubbl., I, 1987, 445 e ss.

[5] A. Labranca, Sanità pubblica, in Nuovo Dig. it, XI. Torino, 1939, 1044.

[6] G. Cesana, il Ministero della salute. Note introduttive alla medicina, Firenze, 2000, 31 ss.

[7] A. Baldassarre, Diritti pubblici subiettivi, Enc. Giur., IX. Roma, 1989.

[8] V. Crisafulli, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Milano, 1952, 75, ss.

[9] In https://www.Cortecostituzionale.it.

[10] Corte cost. n.: 88 del 1979; n. 184 del 1986; n. 559 del 1987; n. 992 del 1988; n. 307 del 1990; n. 455 del 1990; n. 282 del 2002; n. 338 del 2003.

[11] G. Cesana, opera cit, 32 ss.

[12] Cass. S.U. 1° agosto 2006, n. 17461, in Dir e giustizia, 2006, fasc. 39,18.

[13] In questi termini, Corte cost. 16 ottobre 1990, n. 455, in Rass. Avv. Stato, 1990, I, 418.

[14] Corte cost., 10 aprile 2020, n. 62, in Foro it., 2020, I, 2263.

[15] Consiglio di Stato, Sezione terza, 20 gennaio 2015, n. 146, in Foro amm., 2015, 123.

[16] Corte costituzionale, 25 luglio 1974, n. 247, in Giur. Cost, I, 1974, 2371.

[17] Cass., Sezioni Unite, 6 ottobre 1979, n. 5172, in Foro It., 1979, I, 939.

[18] Corte costituzionale, 24 maggio 1985, n. 161, in Giurisprudenza Italiana, 1986, I, col. 806 ss.

[19] Cass. 18 marzo 1987, in Foro it, II, 1988, pp. 447/452.

[20] Cass., 21 aprile 1992 n. 699, con commento di A. Santosuosso, Un chirurgo condannato per omicidio preterintenzionale, in Pol. Dir., 2, 1991, 317.

[21] La nozione di consenso è entrata per la prima volta nel lessico giudiziario negli Stati Uniti nel 1914, quando il giudice Cardozo, nel caso Schloendorf, ha ritenuto colpevole, un chirurgo che aveva eseguito un intervento senza il consenso del paziente, in base al principio che « ogni essere umano adulto e capace ha il diritto di determinare cosa debba essere fatto con il suo corpo e un chirurgo che effettua un intervento, senza il consenso del suo paziente, commette una aggressione per la quale egli è perseguibile per danni ». L’espressione informed consent, si fa invece risalire al 1957, quando, in relazione al caso Salgo, la Corte Suprema della California, ha affermato il principio del dovere del medico di comunicare al paziente «tutti i fatti che coinvolgono i suoi diritti e interessi e circa il rischio chirurgico, alea e pericolo, se vi siano» necessari a formare la base di un consenso al trattamento.

[22] Corte EDU, 8 luglio 2003, Sentges c. Paesi Bassi.

[23] Cass. n. 21748 del 16 ottobre 2007, Mass. Giur. It, 2007.

[24] Il riferimento è al caso di Fabiano Antoniani e Marco Cappato.

[25] Corte costituzionale federale tedesca, 26 febbraio 2020.

[26] M. Cartabia, La giurisprudenza costituzionale relativa all’art. 32, secondo comma, della Costituzione italiana, Quaderni costituzionali 2012 p. 456.

[27] Corte cost. n. 307 del 1990, R. Balduzzi, D. Paris, Corte costituzionale e consenso informato tra diritti fondamentali e ripartizione delle competenze legislative, in Giur. cost. fasc. 6, 2008, 4962 ss.

[28] A. Patané, La costituzionalità dell’obbligo vaccinale all’interno del difficile equilibrio tra tutele e vincoli nello svolgimento dell’attività lavorativa, in LavoroDirittiEuropa 2/2021.

[29] A. Ruggeri, La vaccinazione contro il Covid-19 tra autodeterminazione e solidarietà in www.dirittifondamentali.it fasc.2/2021 del 22 maggio 2021.

[30] Corte cost. n. 37 del 12 marzo 2021, F. Bocchini, Il problema della individuazione della disciplina costituzionale della pandemia nella giurisprudenza costituzionale, in Nomos, 2, 2021.

 

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Gabriele Positano è componente del Comitato Direttivo della Scuola Superiore della Magistratura e consigliere della Corte Suprema di Cassazione Civile. Ha svolto le funzioni di giudice civile del Tribunale di Lecce, per oltre venti anni e in grado di appello, le funzioni penali presso la Corte d’Appello di Salerno e, nell’anno 2013, è stato designato Consigliere della Corte di Cassazione, dapprima presso la Quinta Sezione Penale e, successivamente, presso la Terza Sezione Civile e poi coassegnato alla Sesta Sezione Civile. Ha trattato le tematiche dell’organizzazione giudiziaria, come componente del Consiglio Giudiziario di Lecce e, con riferimento ai progetti tabellari, si è interessato della determinazione dei carichi esigibili e, in generale, delle misure organizzative volte alla valorizzazione della tecnologia al servizio della giustizia. Profili trattati da ultimo, quale componente della Commissione Flussi del Consiglio Direttivo e Referente per l’Innovazione del settore civile per la Suprema Corte di Cassazione e componente dell’Ufficio per l’Innovazione della Corte di Cassazione (UIC). Ha ricoperto l’incarico di componente del Comitato Scientifico del CSM per il settore civile ed in precedenza, per due mandati, era stato Referente per la Formazione Distrettuale di Lecce per il settore civile e del lavoro. Ha svolto l’incarico di coordinatore ed organizzatore, oltre che di relatore, in numerosi incontri organizzati dal CSM e dalla SSM. Ha redatto le “Tabelle” del danno non patrimoniale presso il Tribunale di Lecce, successivamente estese a livello distrettuale. Ha curato numerosi contributi giuridici e redatto monografie sulle tematiche di diritto processuale, sostanziale ed ordinamentale, con particolare attenzione al tema della responsabilità civile ed ha redatto note a sentenza. Nel marzo del 2021 è stato nominato componente del Comitato Direttivo della Scuola Superiore della Magistratura.