L’art. 21 della Costituzione

Commento all’art. 21 della Costituzione

di Francesco Cortesi, Consigliere della Corte di cassazione

 

Art. 21 – Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.

La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.

Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili.

In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia all’autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro s’intende revocato e privo d’ogni effetto.

La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica.

Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni.

Abstract: Lo scritto ricostruisce anzitutto l’origine storica della libertà di manifestazione del pensiero e l’elaborazione del suo contenuto nella previsione dell’art. 21 della Costituzione, in particolare evidenziandone il fondamento – come diritto individuale ed autonomo, piuttosto che come proiezione della forma di Stato democratica – attraverso le indicazioni offerte dalla giurisprudenza costituzionale.

Vengono quindi esaminate le varie forme di manifestazione del pensiero e le applicazioni dell’art. 21 nei diversi ambiti in cui la libertà di espressione può essere esercitata. Fra questi ultimi, un ruolo preminente è assegnato al settore dell’informazione e della comunicazione, del quale vengono esaminati i profili attinenti alla libertà di stampa e al pluralismo nel settore radiotelevisivo e le problematiche – di più stretta attualità – concernenti il flusso informativo trasmesso a mezzo di internet e dei social network.

Infine, lo scritto illustra i limiti posti dalla stessa Costituzione alla manifestazione del pensiero, ripercorrendo l’evoluzione del concetto di “buon costume” e prendendo in considerazione alcune ipotesi di possibile conflitto fra l’esercizio di tale libertà e la tutela costituzionale di altri beni individuali e collettivi.

Parole chiave: manifestazione del pensiero – libertà – informazione – pluralismo – limiti

Sommario: 1. Libertà di pensiero e libertà di espressione. – 2. Evoluzione storica, sviluppo e contenuto attuale del diritto alla manifestazione del pensiero. – 2.1. Cenni sul percorso storico. – 2.2. Teoria «individualista» e teoria «funzionalista». – 2.3. Il perimetro della libertà garantita secondo l’insegnamento della Corte costituzionale: espressione, propaganda, apologia, critica. –  3. Gli ambiti della manifestazione del pensiero. – 3.1. In generale. – 3.2. La propaganda elettorale. – 3.3. La libertà di informazione, la stampa e il pluralismo radio–televisivo. – 3.4. La rete e i social network. –3.5. La libertà di espressione in ambito artistico e culturale. – 4. I limiti. – 4.1. Il limite del buon costume. – 4.2. I limiti impliciti.

 

  1. Libertà di pensiero e libertà di espressione.

«La manifestazione del vento del pensiero non è la conoscenza; è l’attitudine a discernere il bene dal male, il bello dal brutto. Il che, forse, nei rari momenti in cui ogni posta è in gioco, è realmente in grado di impedire le catastrofi, almeno per il proprio sé»[1].

Tra i principali approdi della filosofia universale – originariamente elaborato dalla dottrina aristotelica, quindi sviluppato dalla moderna antropologia e riassunto nella nota formula cartesiana[2]– vi è l’assunto secondo cui il pensiero costituisce un attributo essenziale dell’Io.

Il tratto distintivo di ogni essere umano è, infatti, la capacità di fare esperienza della realtà e di svilupparne la conoscenza, di riflettere sul significato di ciò che accade, di interrogarsi sulla natura di sentimenti ed emozioni, di maturare idee e convincimenti.

Ma se questo nucleo costitutivo di ogni personalità fosse destinato a restare confinato nella sfera intima dell’individuo, esso rimarrebbe privo di significato.

Nella propria esistenza, ciascuno avverte invece il bisogno insopprimibile di esprimere agli altri le sue idee; e la soddisfazione di tale bisogno realizza l’unica possibilità perché una traccia dell’uomo permanga anche al di là dei confini materiali e terreni della sua esistenza.

Nella più ampia varietà delle forme che può assumere, il pensiero dell’uomo è così destinato ad essere comunicato: coessenziale al libero pensiero è la possibilità della sua espressione, perché la destinazione naturale di ogni libertà dell’individuo è la sua relazione con tutti gli altri soggetti dell’ordinamento (M. Manetti, 2001).

Del resto, nell’affermare il diritto di ciascun uomo a esprimere liberamente il proprio pensiero, le costituzioni moderne riconoscono il beneficio che ciò arreca al bene comune e alla possibilità di sviluppo della società; la libera manifestazione del pensiero realizza così, insieme con quello individuale, anche l’interesse generale alla formazione di una coscienza collettiva.

Tutte le società democratiche si fondano sul riconoscimento del fatto che non esiste una sola verità – della quale il potere possa ergersi a custode – e che la convivenza fra gli uomini si alimenta dal libero confronto fra le opinioni di ciascuno.

Ciò deriva, anzitutto, dalla constatazione della diversità di ogni essere umano dall’altro, cosicché diversa è anche la corrispondente percezione della realtà ed il nucleo di convinzioni che ne derivano, dimodoché «al vero ci si possa avvicinare attraverso il confronto fra verità relative» (A. Barbera – C. Fusaro, 2020); d’altro canto, la comune esperienza insegna che la più ampia circolazione delle idee comporta ben più vantaggi (in termini di conoscenza, abitudine alla tolleranza, sviluppo di capacità critica e di confronto) che svantaggi per la crescita di una società autenticamente democratica (A. Pace – M. Manetti, 2006).

Non a caso, il termine più significativo dell’esistenza di un sistema democratico è il riconoscimento della libera manifestazione del pensiero come elemento indicatore della struttura del rapporto tra i poteri pubblici e i cittadini; per contro, ogni deriva autoritaria ha sempre avuto inizio con l’adozione di un controllo sulla diffusione del pensiero, in funzione del mantenimento del regime e, perciò, del contrasto alle forme di dissenso.

Su questa duplice natura della libertà di manifestazione del pensiero – insieme diritto individuale e garanzia per lo sviluppo del confronto democratico all’interno della comunità – si fonda la tutela che ad essa offre l’art. 21 della Costituzione.

 

  1. Evoluzione storica, sviluppo e contenuto attuale del diritto alla manifestazione del pensiero.

2.1. Cenni sul percorso storico.

Gli storici del diritto individuano il nucleo primordiale della libertà di manifestazione del pensiero in alcune forme espressive della libertà religiosa; nel riconoscere ad ogni individuo il pieno esercizio della propria coscienza, fino all’esternazione delle convinzioni riconducibili al credo, si affermava infatti il superamento della pretesa di esclusività del potere spirituale o temporale, solitamente tendente a conformare le ideologie e le inclinazioni collettive (M. Manetti, 2001).

L’elaborazione di una vera e propria dottrina sulla libera manifestazione del pensiero si deve, tuttavia, allo sviluppo delle teorie razionaliste che si colloca fra il XVII e il XVIII secolo; di tanto costituisce la prima testimonianza il riconoscimento della freedom of speech contenuto nel Bill of Rights inglese del 1689, ancorché nel solo ambito del dibattito parlamentare.

Da tanto il passo fu breve per il successivo riconoscimento, seppure a livelli diversi, nelle Costituzioni emanate a partire dalla fine del XVIII secolo[3]; tra queste lo Statuto albertino, che tuttavia si limitò a garantire la libertà di stampa, prevedendo che una legge ne avrebbe repressi gli abusi.

Un tale intento protettivo – in ragione del carattere flessibile dello Statuto, e in assenza di un sistema di controllo di legittimità costituzionale delle leggi – fu ben presto eluso, dapprima dalle cd. leggi di polizia di fine secolo[4], che attribuivano all’autorità di pubblica sicurezza il potere di procedere al sequestro preventivo degli stampati, quindi dal regime fascista, che attuò un rigido controllo sulle condizioni e sui mezzi di esercizio dell’attività di stampa[5].

Ancorché segnata da tale ultima esperienza, l’Assemblea costituente esitò a riconoscere alla manifestazione del pensiero un valore assoluto.

Dai lavori preparatori emerge, ad esempio, che i costituenti si preoccuparono di evitare la diffusione di pubblicazioni oscene e, più in generale, di impedire che l’eventuale uso improprio dei mezzi di diffusione del pensiero potesse limitare altri diritti individuali, muniti di protezione costituzionale, oltreché nuocere al complessivo funzionamento del sistema politico-istituzionale[6].

Ne derivò la formulazione di una norma di principio che, se certamente annovera la manifestazione del pensiero fra le libertà fondamentali, ne assicura anche la compatibilità con altri valori costituzionalmente garantiti. Di qui la previsione di un limite esplicito, individuato nella «non contrarietà al buon costume», con la possibilità di un intervento regolatore da parte del legislatore ordinario; ma anche, e soprattutto, l’avvio di un percorso interpretativo che ricostruisce il contenuto di tale libertà tenendo conto del possibile coinvolgimento di altri beni, individuali o collettivi.

 

2.2. Teoria «individualista» e teoria «funzionalista».

La volontà dei costituenti fu, in ogni caso, quella di riconoscere un diritto dal più ampio contenuto.

Coerente con tale impostazione è, pertanto, la posizione degli interpreti – definita «individualista» – che, riconoscendo la libertà di manifestazione del pensiero come coessenziale all’uomo, la colloca fra i diritti inviolabili di cui all’art. 2 Cost.

Si tratta di una tesi certamente preferibile a quella «funzionalista», secondo la quale l’espressione del pensiero sarebbe finalizzata al perseguimento dei valori democratici; inquadrata in questo rapporto di scopo, tale libertà costituirebbe un valore da tutelare non in sé, ma solo in quanto strumentale al miglioramento della vita della comunità (C. Mortati, 1972). I relativi limiti, pertanto, non andrebbero rinvenuti in altri specifici valori costituzionali, ma implicitamente dedotti dal fatto che essa è funzionale alla piena attuazione del regime democratico.

La posizione «funzionalista» valorizza senz’altro il nesso che l’art. 21 Cost. presenta con il modello di società democratica; nondimeno, essa è concettualmente errata nel metodo.

La libera manifestazione del pensiero si pone infatti come causa, e non come conseguenza, della democrazia; è il riconoscimento di tale libertà, con le ragioni ideali che lo sostengono, a consentire che un ordinamento autenticamente democratico nasca, cresca e si affermi.

In altri termini, l’art. 21 attribuisce il diritto di manifestare il proprio pensiero ad ogni uomo in quanto tale e a suo vantaggio, non all’uomo in quanto facente parte di una comunità e a vantaggio della stessa e dei suoi valori, quand’anche si tratti dei valori democratici (G. Nicastro, 2015).

Di tanto, del resto, giungono chiare conferme dalla giurisprudenza costituzionale.

La Corte ha infatti affermato che la libertà di manifestazione del pensiero va inclusa tra i «diritti inviolabili dell’uomo» di cui all’art. 2 Cost. (sentenze n. 126 del 1985 e n. 112 del 1993), costituendo, anzi, «il più alto, forse» dei «diritti primari e fondamentali» sanciti dalla Costituzione (sentenze n. 168 del 1971 e n. 138 del 1985), con la conseguenza che la Repubblica ha il dovere non solo di non comprimerla, ma anche di garantirla nei reciproci rapporti interpersonali, imponendone «il rispetto da parte delle pubbliche autorità come dei consociati» (sentenze n. 122 del 1970 e n. 15 del 1975).

La stessa Corte, per vero, ha spesso evidenziato che questa libertà rappresenta «una di quelle […] che meglio caratterizzano il regime vigente nello Stato, condizione com’è del modo di essere e dello sviluppo della vita del Paese in ogni suo aspetto culturale, politico, sociale» (sentenze n. 9 del 1965, n. 11 del 1968 e n. 100 del 1981); e, in altre occasioni, ha posto l’accento sul rapporto tra libertà di manifestazione del pensiero e ordine democratico, osservando che la prima è «pietra angolare» del secondo (sentenza n. 84 del 1969), «cardine di democrazia nell’ordinamento generale» (sentenza n. 132 del 2020), figura di «rilevanza centrale […] anche e soprattutto in forma collettiva […] ai fini dell’attuazione del principio democratico» (sentenza n. 126 del 1985).

Tuttavia, per giungere a tali affermazioni la Corte ha adottato l’impostazione metodologica caratteristica della teoria «individualista», attribuendo alla libertà di manifestazione del pensiero un valore costituzionale originario, anziché derivato dal principio democratico.

È il caso, ad esempio, della sentenza n. 9 del 1965, con la quale la Corte ha rilevato che la manifestazione del pensiero rientra tra le libertà fondamentali proclamate dalla Costituzione e che, pertanto, «limitazioni sostanziali […] non possono essere poste se non per legge […] e devono trovare fondamento in precetti e principi costituzionali, si rinvengano essi esplicitamente enunciati nella Carta costituzionale o si possano, invece, trarre da questa mediante la rigorosa applicazione delle regole dell’interpretazione giuridica».

 

2.3. Il perimetro della libertà garantita secondo l’insegnamento della Corte costituzionale: espressione, propaganda, apologia, critica.

Se, dunque, oggetto di tutela è una libertà individuale, la portata della garanzia è la più estesa possibile.

Essa riguarda, anzitutto, il contenuto dell’atto espressivo.

In questo senso, i confini della libertà di manifestazione del pensiero trascendono l’ambito dell’espressione – scritta, parlata o raffigurata – e arrivano a comprendere anche la rappresentazione dei sentimenti o degli stati passionali.

Entro tali confini va così inclusa ogni manifestazione esteriore, anche quando consistente in un comportamento con significato implicito (si pensi alla condotta di chi brucia una bandiera o un simbolo) o nel semplice silenzio, inteso come diritto a non esprimere alcun pensiero, che costituisce un profilo rappresentativo di quella «libertà di non fare» insita nel riconoscimento di ogni libertà.

Negli stessi confini rientrano poi tutte le forme diffusive di un’idea, comprese quelle che mirano ad influenzare le altrui coscienze od opinioni.

La tutela riconosciuta dall’art. 21 riguarda così anche l’attività di propaganda, come la Corte costituzionale ha espressamente chiarito per i profili attinenti all’ambito politico[7].

Al riguardo, tuttavia, la Corte ha tracciato una netta linea di demarcazione.

La propaganda, ha infatti osservato, «non si identifica perfettamente con la manifestazione del pensiero», in quanto «è indubbiamente manifestazione, ma non di un pensiero puro ed astratto, quale può essere quello scientifico, didattico, artistico o religioso, che tende a far sorgere una conoscenza oppure a sollecitare un sentimento in altre persone»; essa è invece volta «al raggiungimento di uno scopo diverso», che la Costituzione protegge «fino al limite oltre il quale risulti leso il metodo democratico», che gli artt. 1 e 49 proclamano come «il solo che può determinare la politica sociale e nazionale» (sentenza n. 87 del 1966; nello stesso senso, sentenze n. 16 del 1973 e n. 126 del 1985)[8].

Il «limite del metodo democratico» è superato quando la propaganda è «diretta al ricorso alla violenza come mezzo per conseguire un mutamento nell’ordinamento vigente», o ha «finalità di suscitare reazioni violente»; in questi casi, infatti, la manifestazione del pensiero si pone «in rapporto diretto ed immediato con un’azione» e, che raggiunga o meno la forma di un’aperta istigazione, è comunque idonea a determinare reazioni pericolose per la conservazione dei valori «che ogni Stato, per necessità di vita, deve pur garantire». Quando, invece, la propaganda ha ad oggetto «soltanto un sentimento, che sorgendo e sviluppandosi nell’intimo della coscienza di ciascuno, fa parte esclusivamente del mondo del pensiero e delle idealità», ogni eventuale limitazione stabilita dalla legge contrasta con l’art. 21 (sentenza n. 87 del 1966).

Lo stesso limite, secondo la Corte, riguarda la manifestazione che assuma la forma dell’apologia, intesa come esaltazione di un’ideologia, di una dottrina o di una persona, in particolare se rifiutate dalla maggioranza dei consociati.

In tali casi, la tutela costituzionale tollera «la critica anche aspra delle istituzioni, la prospettazione della necessità di mutarle, la stessa contestazione dell’assetto politico sociale sul piano ideologico», arrestandosi soltanto di fronte a «un incitamento all’azione e quindi un principio di azione, e così di violenza contro l’ordine legalmente costituito, come tale idoneo a porre questo in pericolo» (sentenza n. 126 del 1985).

Rientra, infine, nel perimetro delle manifestazioni protette anche l’esercizio del diritto di critica.

Nella critica, l’espressione del pensiero assume la forma di una contrapposizione polemica, che mira a censurare opinioni o comportamenti altrui e, talvolta, anche a provocare la reazione dei destinatari del messaggio; e proprio da tale modalità espressiva, ha evidenziato la Corte, si «trae alimento per assicurare, in una libera dialettica delle idee, l’adeguamento dell’ordinamento e delle istituzioni ai mutamenti intervenuti nella coscienza sociale» (sentenza n. 199 del 1972).

 

  1. Gli ambiti della manifestazione del pensiero.

3.1. In generale.

Ma la tutela costituzionale della manifestazione del pensiero non riconosce solo la libertà del suo contenuto; essa, infatti, si esplica anche nella scelta del mezzo attraverso il quale il pensiero viene veicolato.

A seconda del mezzo di divulgazione, infatti, il pensiero diversifica la sua forma e capacità diffusiva; del resto, le modalità di repressione del pensiero, tipiche dei regimi totalitari, si sono spesso concentrate nell’inibire l’accesso a mezzi di diffusione particolarmente efficaci.

La Costituzione non attribuisce un «diritto al mezzo», inteso come possibilità per i consociati di accedere a tutti i possibili veicoli di diffusione; l’accesso a un mezzo presuppone, pertanto, che esso si trovi nella disponibilità giuridica dell’interessato, ferma restando la necessità – più volte sottolineata dalla Corte costituzionale – che il legislatore garantisca a tutti la relativa possibilità, sia regolamentando i mezzi di diffusione sprovvisti di disciplina, sia consentendone la più ampia fruibilità possibile, «con le modalità ed entro i limiti resi eventualmente necessari dalle peculiari caratteristiche dei singoli mezzi» (sentenze n. 105 del 1972, n. 94 del 1977, n. 112 del 1993).

Dall’entrata in vigore della Costituzione, il sistema dei mezzi di diffusione del pensiero ha conosciuto una continua evoluzione, fino a caratterizzare l’epoca contemporanea come un’età dominata dal ruolo dei mass-media nella formazione dell’opinione pubblica e dalla centralità della comunicazione nel contesto della società globale.

Per questo, le problematiche costituzionali relative alla manifestazione del pensiero si addensano, oggi, sul tema della disciplina dei relativi mezzi; questi tendono a formare un catalogo aperto, al cui interno emergono figure di maggior rilievo.

 

3.2. La propaganda elettorale.

Quantunque garantita, nei limiti già esposti, dalla previsione dell’art. 21, la propaganda politica può svolgersi nel contesto di una consultazione elettorale, nel qual caso occorre tener conto delle interferenze che ne derivano con l’esercizio del diritto di elettorato e di libera associazione in partiti, governato dai principi desumibili dagli artt. 1, 48, 49 e 51 Cost. (R. Zaccaria, 2016).

Di qui la peculiarità della relativa disciplina, essenzialmente volta a consentire parità di accesso a tutti i soggetti coinvolti nella competizione; come ha sottolineato la Corte costituzionale, infatti, quello elettorale è «un momento essenziale per lo svolgimento della vita democratica» ed occorre perciò impedire che «sia di fatto ostacolato da situazioni economiche di svantaggio o politiche di minoranza» (sentenza n. 48 del 1964[9]).

Per questo, «i principi fondanti del nostro Stato esigono che la democrazia sia basata su una libera opinione pubblica e sia in grado di svilupparsi attraverso la pari concorrenza di tutti alla formazione della volontà generale»; tali principi assumono maggior forza ove riferiti «al corretto svolgimento del confronto politico su cui si fonda il sistema democratico», e perciò evidenziano la necessità di regolare specificamente i criteri «della partecipazione in contraddittorio e del confronto dialettico tra i soggetti intervenienti secondo il canone della pari opportunità» (sentenza n. 112 del 1993).

Una tale disciplina, ha precisato la Corte, «incide su modalità organizzative che non toccano la libertà di espressione, se non sotto il profilo del dovere di osservanza di un comportamento neutrale ed imparziale» (sentenza n. 155 del 2002); essa, in altri termini, riguarda solo l’uso del mezzo con il quale si esplica la libertà di espressione dell’autore della comunicazione politica.

Negli ultimi vent’anni, peraltro, il tema del pari accesso ai mezzi di diffusione – la cd. par condicio – è stato interessato da un’articolata produzione normativa, a fronte della capillare diffusione dei mass-media come strumento di orientamento del consenso politico elettorale[10].

 

3.3. La libertà di informazione, la stampa e il pluralismo radio–televisivo.

Nel più generale ambito dell’informazione si collocano, in ogni caso, i profili di maggiore interesse.

Già in epoca sostanzialmente coeva alla Costituzione, la libertà di informazione fu espressamente affermata, in uno con il diritto alla libera espressione delle idee, dall’art. 19 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo, sul presupposto di una sostanziale coincidenza fra narrazione di fatti ed espressione del pensiero.

Secondo una consolidata opinione, infatti, la libertà di informazione deriva dall’esser la vita pubblica e istituzionale improntata ad un regime di trasparenza, nel quale la regola è costituita dalla divulgazione delle notizie e l’eccezione dalla loro segretezza (A. Barbera – C. Fusaro, 2020). In questo senso, essa comprende sia il diritto ad informare – ovvero il diritto di cronaca, nelle sue diverse modulazioni, che non può essere sottoposto ad interventi censori da parte dell’autorità – sia il diritto a essere informati, inteso come accesso a tutte le possibili informazioni e alle relative fonti.

Tale libertà, priva di una specifica disciplina costituzionale, è stata sempre ricondotta dalla giurisprudenza all’art. 21, che, infatti, detta «specifiche norme a tutela della stampa, quale mezzo di diffusione tradizionale e tuttora insostituibile ai fini dell’informazione dei cittadini e quindi della formazione di una pubblica opinione avvertita e consapevole» (sentenza n. 206 del 2019).

Secondo la Corte, in particolare, «i princìpi fondanti della forma di Stato delineata dalla Costituzione […] esigono che la nostra democrazia sia basata su una libera opinione pubblica e sia in grado di svilupparsi attraverso la pari concorrenza di tutti alla formazione della volontà generale»; donde «l’imperativo costituzionale che il diritto all’informazione garantito dall’art. 21 Cost. sia qualificato e caratterizzato dal pluralismo delle fonti cui attingere conoscenze e notizie […] in modo tale che il cittadino possa essere messo in condizione di compiere le sue valutazioni avendo presenti punti di vista differenti» (sentenze n. 112 del 1993 e n. 155 del 2002).

L’art. 21, in verità, prende espressamente in considerazione il solo settore della stampa per evidenti ragioni connesse al contesto storico della sua adozione.

Esso ne garantisce la libertà attraverso la previsione di un divieto assoluto di «autorizzazioni o censure» e traccia una disciplina minimale delle relative eccezioni, prevedendo una doppia riserva, di legge (quanto alla ricorrenza dei casi, delittuosi o meno, che consentono il sequestro della pubblicazione) e di giurisdizione (riservando il potere di procedere al sequestro all’autorità giudiziaria, se del caso con successiva convalida del relativo provvedimento che sia stato disposto in via d’urgenza da ufficiali di polizia giudiziaria) nonché la possibilità, a fini di trasparenza e per evitare condizionamenti da parte di qualsivoglia centro di potere, che la legge disponga la pubblicazione dei relativi mezzi di finanziamento.

E tuttavia, la successiva comparsa dell’informazione radio-televisiva nello scenario dei mezzi di comunicazione ha dato origine ad una nutrita produzione normativa, anch’essa volta alla tutela del pluralismo e spesso sollecitata dalle decisioni della Corte costituzionale, che vi ha sempre attribuito la natura di «ineludibile imperativo» per un’effettiva libertà di espressione (sentenza n. 420 del 1994).

Il tema del pluralismo nell’informazione, in particolare, si innesta nel nesso ravvisabile fra l’art. 21 e il principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, comma 2°, Cost. (M. Manetti, 2001); in particolare, la tutela del pluralismo presenta un profilo esterno – volto a favorire l’ingresso nel mercato di quante più voci consentano i mezzi tecnici, impedendo la concentrazione degli stessi nelle mani di pochi – ed uno interno, che garantisce l’imparzialità dell’informazione pubblica e la sua apertura alle diverse tendenze politiche e culturali.

Su tali basi, le trasmissioni radio-televisive furono inizialmente affidate al monopolio statale, in quanto, come venne osservato dalla Corte, «lo Stato monopolista si trova istituzionalmente nelle condizioni di obbiettività e imparzialità più favorevoli per […] assicurare ai singoli la possibilità di diffondere il pensiero con qualsiasi mezzo» (sentenza n. 59 del 1960).

Successivamente, però, la Corte ritenne di non giustificare tale regime nei casi che non presentavano il rischio d’insorgenza di situazioni monopolistiche od oligopolistiche; ciò fece venir meno il monopolio per le reti locali di televisione via cavo (sentenza n. 226 del 1974) e, successivamente, anche via etere (sentenza n. 202 del 1976). Di lì a poco, diverse emittenti locali cominciarono a trasmettere su scala nazionale ricorrendo alla diffusione simultanea dello stesso programma, e la Corte ritenne legittimo l’intervento del legislatore che consentiva la prosecuzione di tale attività in via provvisoria[11], fino all’adozione di una disciplina di riordino del settore (sentenza n. 826 del 1988).

Quest’ultima ebbe luogo con la cd. legge Mammì[12], ben presto dichiarata illegittima dalla Corte perché fissava un tetto alle frequenze non adatto a garantire il rispetto del pluralismo esterno (sentenza n. 420 del 1994); anche il sistema di assegnazione successivamente adottato con la cd. legge Maccanico[13] venne poi dichiarato illegittimo, poiché ripartiva le frequenze con l’intento di «mantenere le situazioni di mera occupazione di fatto […] al di fuori di ogni logica di incremento del pluralismo» (sentenza n. 466 del 2002).

L’ultima disciplina di riordino, che ha modificato i limiti di concentrazione introducendo il SIC (Sistema Integrato delle Comunicazioni), esteso ad una piattaforma diversificata di strumenti diffusivi[14], non ha mancato di suscitare perplessità, in particolare con riferimento alla permanenza di elevati tassi di concentrazione nel settore televisivo, pur nella formale assenza di operatori che detengano una posizione di preminenza prossima alla soglia, stabilita nel 20% (R. Zaccaria, 2016).

 

3.4. La rete e i social network.

L’epoca attuale è invece contraddistinta dall’avvento della comunicazione tramite internet.

Nell’efficace rappresentazione offerta dalla sociologia contemporanea, la rete ha l’immagine di una piazza globale nella quale la diffusione del pensiero è favorita soprattutto dalle vetrine privilegiate dei social network.

Per le sue caratteristiche, internet costituisce un agevole canale comunicativo, che assicura la massima rapidità di circolazione delle notizie e garantisce agli utenti un accesso generalizzato, destinato a svilupparsi senza imbattersi nelle barriere che normalmente incidono sul tessuto delle relazioni nel mondo reale. Attraverso i social network, ad esempio, qualsiasi individuo, almeno potenzialmente, è in grado di interloquire in modo immediato e diretto con un’istituzione, un organismo politico nazionale o internazionale, un giornale o un’emittente radiotelevisiva, un Capo di Stato o un personaggio noto, incrementando un flusso di comunicazione destinato a propagarsi immediatamente su scala globale.

La rete, dunque, ha dilatato le frontiere della libera manifestazione del pensiero, consentendo la soddisfazione dei bisogni individuali di comunicazione e di partecipazione alla vita sociale e politica e, al contempo, arrecando beneficio alla coscienza democratica.

Tuttavia, un esame più approfondito del fenomeno rivela che la sua immagine di “società aperta” presenta, in realtà, aspetti oscuri e che, dietro la promessa di libertà e di disintermediazione, la piazza virtuale di internet è disseminata di insidie, rispetto alle quali i sistemi normativi non hanno ancora trovato i giusti anticorpi (L. Califano, 2021).

Un primo problema emerge dal fatto che, nel manifestare il suo pensiero, l’utente della rete svela gusti, idee, preferenze e abitudini di vita, diffondendo dati e informazioni che i gestori delle piattaforme comunicative possono facilmente acquisire e trattare senza controlli efficaci da parte delle autorità statali.

Tutto ciò avviene, per lo più, con la creazione simultanea di algoritmi, con i quali si costruiscono forme di orientamento e di influenza, su larga scala, sia a fini commerciali che politici, ideologici o culturali. L’utente, pertanto, finisce per trovarsi in una “bolla” costruita su informazioni selezionate, che confondono la verità oggettiva con dati immessi per esercitare una forma di persuasione occulta, provocando, in modo sostanzialmente inconsapevole, un vulnus al suo stesso diritto alla riservatezza o all’identità personale.

D’altro canto, emerge in termini crescenti un allarme circa i potenziali rischi che la comunicazione via internet arreca all’interesse alla verità dell’informazione.

Per le sue stesse caratteristiche intrinseche – l’assenza di filtri o di controlli sulle fonti, la possibilità di accesso indistinto senza preventiva identificazione da parte degli utenti, ed altro – il web alimenta infatti la diffusione virale di notizie false o manipolate (cd. fake news), o di messaggi violenti e che incitano all’odio (hate speech); gli aspetti positivi della comunicazione “orizzontale” rischiano, così, di essere totalmente annullati dal pericolo di danni gravissimi alla coesione del tessuto sociale.

Arduo, al riguardo, è il compito dell’interprete chiamato ad individuare un punto di equilibrio: l’adozione di cautele preventive potrebbe costituire un argine efficace, ma al contempo si porrebbe come un limite alla manifestazione del pensiero che eccede il dettato costituzionale, tant’è che la decisione di eliminare contenuti e profili, adottata da alcune piattaforme social, è stata talvolta qualificata come forma di censura surrettizia.

D’altro canto, la risposta sanzionatoria si è rivelata troppo spesso inappagante, a fronte delle straordinarie capacità diffusive del mezzo; l’ordinamento, infatti, ha offerto soluzioni soltanto parziali, come la previsione del cd. diritto all’oblio, che l’art. 17 del GDPR[15] accorda al titolare di informazioni ai fini della loro cancellazione, onde impedirne la rintracciabilità sulla rete, o il diritto all’oscuramento dei dati personali del minore, assentito dalla cd. legge sul cyberbullismo[16].

Allo stato, pertanto, molti problemi connessi all’informazione via internet sono destinati a rimanere aperti, nel dibattito fra chi sostiene che la più ampia garanzia costituzionale della libera manifestazione del pensiero, in quanto fonte di sviluppo della coscienza democratica, debba necessariamente tollerare uno spazio per tutte le voci e chi, d’altra parte, sottolinea i gravi rischi insiti in tale tolleranza (L. Califano, 2021).

 

3.5. La libertà di espressione in ambito artistico e culturale.

Anche l’arte e le attività culturali veicolano il pensiero del loro autore; la tutela offerta dall’art. 21, in questo caso, si interseca con il principio di libertà dell’arte di cui all’art. 33, comma 1°, Cost.

In proposito, la Corte costituzionale ha più volte chiarito che la tutela della libertà di pensiero «riguarda anche quelle più elevate espressioni di esso, che sono le creazioni artistiche e scientifiche», della cui diffusione «non si occupa l’art. 33 Cost., il quale proclama e tutela la libertà dell’arte o della scienza e quella del loro insegnamento», bensì l’art. 21 (sentenza n. 59 del 1960).

La libertà dell’arte, tuttavia, non è assoggettata ad alcun limite; e ciò giustifica il permanere di dubbi circa la legittimità della previsione del necessario nulla-osta preventivo, da parte dell’apposita commissione istituita presso il Ministero dei Beni culturali, alla rappresentazione di un’opera cinematografica (o alla restrizione del pubblico in base all’età) che ne verifichi la non contrarietà al buon costume[17]; non è mancato chi, al riguardo, ha sottolineato che il rapporto fra l’artista e il suo pubblico presenta sempre profili di peculiare delicatezza, inidonei a consentirne la regolazione con la bilancia non sempre precisa della censura, soprattutto ove riconducibile al potere esecutivo (R. Viriglio, 2000).

Arte e manifestazione del pensiero confluiscono anche nell’esercizio della satira; quest’ultima – fin dalla sua origine, risalente al II sec. a.C. – consiste infatti nell’atto creativo con il quale si mette alla berlina un personaggio pubblico, ponendolo sullo stesso piano dell’uomo medio.

Per tale ragione, realizzando una particolare applicazione del principio di uguaglianza, l’opera satirica è considerata veicolo di democrazia, e può essere limitata solo nella misura in cui essa entri in conflitto con altri diritti muniti di protezione costituzionale, tenendo in debito conto le sue peculiarità.

 

  1. I limiti

4.1. Il limite del buon costume.

L’unico limite espressamente previsto dall’art. 21 – che lo riferisce alla stampa, agli spettacoli e alle «altre manifestazioni» – è la non contrarietà di queste al buon costume.

Il buon costume è concetto dal significato ondivago, riferito ad un sentimento della collettività che risente necessariamente dell’evolversi dei tempi e del correlato mutamento della sensibilità generale, tanto da apparire come «naturalmente indeterminato» (Chiola, 1990).

Emblematica, in tal senso, è la posizione della stessa giurisprudenza costituzionale.

Nel breve volgere di pochi anni, ad esempio, la Corte ha dapprima rigettato, quindi accolto, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 553 c.p. – che vietava la pubblica propaganda e l’incitamento a «pratiche contro la procreazione» – riconoscendo nell’un caso (sentenza n. 9 del 1965[18]) che si trattava di norma a tutela della moralità pubblica, coincidente con il buon costume in quanto summa di «regole di convivenza e di comportamento che devono essere osservate in una società civile […] che impongono un determinato comportamento nella vita sociale » ed osservando invece, nel secondo (sentenza n. 49 del 1971), che «il problema della limitazione delle nascite ha assunto, nel momento storico attuale, una importanza e un rilievo sociale tale […] da non potersi ritenere che, secondo la coscienza comune e tenuto anche conto del progressivo allargarsi della educazione sanitaria, sia oggi da ravvisare un’offesa al buon costume nella pubblica trattazione dei vari aspetti di quel problema, nella diffusione delle conoscenze relative, nella propaganda svolta a favore delle pratiche anticoncettive».

La stessa giurisprudenza, in ogni caso, ha tradizionalmente ricondotto il buon costume all’esigenza di proteggere il pudore sessuale (artt. 528 e 529 c.p.), soprattutto in un’ottica di protezione dei minori; non sono mancate, tuttavia, pronunzie improntate a un’accezione più ampia, nelle quali si osserva che il limite attiene piuttosto al «rispetto della persona umana, valore che anima l’art. 2 della Costituzione» e giustifica una «reazione dell’ordinamento» quando «la soglia dell’attenzione della comunità civile è colpita negativamente, e offesa, dalle pubblicazioni di scritti o immagini con particolari impressionanti o raccapriccianti, lesivi della dignità di ogni essere umano, e perciò avvertibili dall’intera collettività» (sentenza n. 293 del 2000).

 

4.2. I limiti impliciti.

Quello del buon costume non è, tuttavia, il solo limite che incontra la libertà di manifestazione del pensiero; altri ne discendono, come si è detto, dalla necessità di armonizzare la tutela offerta dall’art. 21 con quella di ulteriori beni, individuali e collettivi, di rango costituzionale.

Il compito di individuare questi beni è essenzialmente rimesso all’interprete[19]; e a tale riguardo, la Corte costituzionale ha scelto non già di individuare nella carta fondamentale una rigida gerarchia di valori da utilizzare come criterio generale, bensì di operare un bilanciamento, volta per volta, fra gli interessi in conflitto.

Più in particolare, la Corte ha affermato che le restrizioni all’esercizio della libera manifestazione del pensiero competono esclusivamente al legislatore (sentenze n. 9 del 1965, n. 20 del 1974, n. 18 del 1981), sulle cui scelte ha poi svolto lo scrutinio di legittimità dapprima individuando il bene costituzionale protetto, quindi procedendo al bilanciamento degli interessi in conflitto.

Nel novero dei beni che possono fungere da limite, un ruolo preminente è rivestito dai diritti della personalità fondati sull’art. 2 Cost.

Tra questi, rilevano anzitutto il diritto all’onore e alla reputazione – desumibili anche dal riconoscimento della pari dignità sociale dei cittadini di cui all’art. 3, comma 1°, Cost. – ai quali può equipararsi l’identità personale, definita dalla Corte come il «diritto ad essere sé stesso, inteso come rispetto dell’immagine di partecipe alla vita associata […] con le convinzioni ideologiche, religiose, morali e sociali che differenziano, ed al tempo stesso qualificano, l’individuo» (sentenza n. 13 del 1994).

La protezione di questi diritti funge da limite alla libertà di manifestazione del pensiero soprattutto tramite la previsione del reato di cui all’art. 595 c.p. e del corrispondente illecito civile; e il delicato equilibrio tra gli interessi qui contrapposti conosce il suo terreno di frontiera nel campo dell’informazione, essendo consentito al giornalista accusato di diffamazione di invocare l’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca.

Al riguardo, è noto il criterio metodologico fornito dal giudice di legittimità, che condiziona l’operatività dell’esimente all’utilità sociale dell’informazione, alla verità dei fatti narrati (oggettiva o anche soltanto putativa, purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca) e alla continenza nell’esposizione, intesa come narrazione coerente con lo scopo informativo, rispettosa della dignità dell’interessato e improntata a leale chiarezza quando assume la forma della critica[20].

Il bilanciamento non si gioca, tuttavia, sul solo piano dell’esimente. In tempi recenti, la Corte costituzionale è intervenuta sul trattamento sanzionatorio riservato al giornalista per il caso di diffamazione commessa a mezzo stampa mediante attribuzione di un fatto determinato, ritenendo illegittima la prevista pena della reclusione da uno a sei anni (sentenza n. 150 del 2021[21]).

Nel frangente, la Corte ha ritenuto che la stampa e i mezzi di informazione possano effettivamente arrecare «aggressioni illegittime» alla reputazione individuale, tali da «incidere grandemente sulla vita privata, familiare, sociale, professionale, politica delle vittime»; tuttavia, la sanzione detentiva è giustificata nei soli casi caratterizzati da eccezionale gravità, al di fuori dei quali essa sarebbe idonea a «produrre effetti di indebita intimidazione nei confronti dell’esercizio della professione giornalistica e della sua essenziale funzione per la società democratica», poiché è comunque possibile assicurare tutela effettiva alla reputazione individuale con il ricorso a diverse strategie sanzionatorie.

Anche il diritto alla riservatezza, che costituisce ormai posizione soggettiva codificata[22], può fungere da limite alla manifestazione del pensiero; sui rapporti fra diritto all’informazione e tutela della privacy degli interessati, peraltro, valgono le considerazioni concernenti i limiti all’esercizio del diritto di cronaca, fatta salva l’adozione di più speciali cautele circa i dati relativi allo stato di salute e alla vita sessuale degli interessati.

La comunicazione del pensiero, infine, può incontrare anche il limite del diritto d’autore e della protezione delle opere dell’ingegno; si tratta di un limite posto dal legislatore ordinario[23] sulla scorta della rilevanza costituzionale dei segni distintivi della persona, riconducibile agli artt. 2 e 22 Cost. (A. Pace – M. Manetti, 2006).

Vi sono, infine, limiti posti a tutela di beni collettivi costituzionalmente protetti.

È il caso, ad esempio, del limite dell’ordine pubblico, che in passato è stato applicato dalla Corte costituzionale per giustificare alcune restrizioni normative alla manifestazione del pensiero (sentenze n. 108 del 1974, n. 138 del 1985).

A tale atteggiamento del giudice delle leggi hanno fatto seguito consistenti voci critiche, che vi hanno ravvisato l’intento di apporre all’art. 21 un limite non previsto, ulteriore rispetto a quello del buon costume; né è valsa una certa tendenza della Corte a ricostruire la nozione di ordine pubblico in senso “ideale”, riconducendolo all’esigenza di protezione dei sentimenti dei cittadini (come nel caso della sentenza n. 39 del 1965, che ritenne legittimo il reato di vilipendio della religione cattolica perché giustificato dalla tutela del sentimento religioso più rilevante nella comunità statale), poiché tale opzione ha insito il rischio di imporre valori non effettivamente condivisi.

Da ultimo, la diffusione di informazioni incontra il limite dei segreti posti dal legislatore a protezione di interessi di rilievo costituzionale.

Fra questi, il più importante è il segreto di Stato[24], che la Corte costituzionale ha definito come «strumento necessario per raggiungere il fine della sicurezza dello Stato e garantirne l’esistenza, l’integrità, nonché l’assetto democratico», come espressi dagli artt. 1, 5 e 52 e dal principio di sicurezza nazionale di cui all’art. 126 Cost. (sentenza n. 40 del 2012).

Nell’ambito specifico dell’informazione, inoltre, può operare il limite del segreto processuale, rispetto al quale vanno bilanciate l’esigenza di corretta informazione dell’opinione pubblica e quella di garanzia dell’efficacia della funzione giurisdizionale, soprattutto in fase di indagine.

Al riguardo, la Corte ha affermato che tale valutazione «non può che essere in via di principio rimessa alla discrezionalità del legislatore», e ha quindi ritenuto non irragionevole il divieto normativo di pubblicare gli atti coperti da segreto perché in tal modo la stampa «finisce col non assolvere più la funzione sociale che le è propria, di offrire cioè al pubblico informazioni obiettive quando queste non siano pregiudizievoli» per gli interessi della giustizia (sentenza n. 18 del 1981).

 

Note

[1] Hannah Arendt, La vita della mente, Bologna, 1987, 289.

[2]Cogito, ergo sum” – Discorso sul metodo, 1637.

[3] Si veda, ad esempio, l’art. 11 della Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789, cui si ispirarono le Costituzioni liberali successive, come ad esempio la Costituzione di Weimar (art. 118).

[4] Quali, fra le altre, la legge “Lanza” n. 2248 del 20 marzo 1865 e il r.d. n. 6144 del 30 giugno 1889.

[5] Si pensi all’istituzione dell’Albo dei giornalisti – per l’ammissione al quale erano, fra l’altro, previsti requisiti di allineamento politico al regime – o alla creazione di apposite strutture amministrative, come l’Ente nazionale cellulosa e carta e il Ministero per la stampa e la propaganda (in seguito Ministero per la cultura popolare).

[6] V. ad es. discussione del 26 settembre 1946, Sottocomm. I, su legislature.camera.it.

[7] La Corte (v. ad es. sentenza n. 231 del 1985) ha tuttavia escluso dall’ambito applicativo dell’art. 21 la propaganda a fini commerciali e la pubblicità, se del caso riconducibili, invece, alla libertà di iniziativa economica privata, tutelata dall’art. 41 Cost.

[8] In particolare, con la sentenza n. 87 del 1966 la Corte decise la questione di legittimità relativa ai primi due commi dell’art. 272 c.p. (rubricato “Propaganda ed apologia sovversiva e antinazionale”, e successivamente abrogato), che punivano, rispettivamente, la condotta di chiunque «nel territorio dello Stato fa propaganda per l’instaurazione violenta della dittatura di una classe sociale sulle altre, o per la soppressione violenta di una classe sociale o, comunque, per il sovvertimento violento degli ordinamenti economici o sociali costituiti nello Stato, ovvero fa propaganda per la distruzione di ogni ordinamento politico e giuridico della società» (primo comma) o fa propaganda «per distruggere o deprimere il sentimento nazionale». Il solo secondo comma fu dichiarato illegittimo per contrasto con l’art. 21.

[9] Con la sentenza in questione, la Corte dichiarò infondata la questione di legittimità, sollevata in relazione all’art. 21 Cost., degli artt. 1 e 8, comma quarto, della l. n. 212/1956, contenente “norme per la disciplina della propaganda elettorale”, a norma dei quali l’affissione di manifesti elettorali veniva consentita nei soli spazi stabiliti dal Comune (egualmente distribuiti fra le forze politiche) e le relative trasgressioni erano sanzionate penalmente.

[10] Si possono citare, in proposito, la l. n. 81/1983 relativa alle elezioni locali, la l. n. 515/1993, relativa ad ogni tipo di competizione elettorale, ed infine la l. n. 28/2000, che riguarda la parità di accesso non solo in corso di competizione, ma per ogni tipo di comunicazione politica; peraltro, l’urgenza di introdurre una tale disciplina è stata acuita dall’introduzione di sistemi elettorali a prevalente carattere maggioritario.

[11] Legge 10 gennaio 1985, n. 1.

[12] Legge 6 agosto 1990, n. 223.

[13] Legge 31 luglio 1997, n. 249.

[14] Legge 3 maggio 2004, n. 112 (cd. legge Gasparri).

[15] Regolamento generale sulla protezione dei dati, approvato con Regolamento UE 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016) e applicabile a decorrere dal 25 maggio 2018.

[16] L. 29 maggio 2017, n. 71.

[17] Legge 21 aprile 1962 n. 161, come modificata dalla l. 30 maggio 1995, n. 203 del 1995 e dal d.lgs. 8 gennaio 1998, n. 3.

[18] V. par. 2.2.

[19] A differenza di quanto accade nell’interpretazione della CEDU, il cui art. 10, par. 2, individua espressamente i limiti alla libertà di espressione garantita dal par. 1.

[20] Cass. civ., n. 5259 del 18 ottobre 1994; v. anche, fra le numerose altre, Cass. Pen., sez. V, 16 aprile 1982, Bianchi; Cass. Pen. sez. V, 16 giugno 1981, Cederna ed altri; Cass. Pen., sez. V, 10 aprile 1981, Ferraresi.

[21] La questione, relativa agli artt. 13 della l. n. 47 del 1948 e 30, comma 4, della l. n. 223 del 1990, era stata in un primo tempo decisa con l’ordinanza n. 132 del 2020, che aveva rinviato di un anno la statuizione onde consentire al legislatore di approvare nel frattempo una nuova disciplina della materia, adottando un miglior bilanciamento. La riforma auspicata, tuttavia, non è stata approvata. Con la stessa sentenza, la Corte ha invece ritenuto legittimo l’art. 595, comma 3, c.p. laddove prevede, in via alternativa, la reclusione da sei mesi a tre anni o la multa in caso di condanna per diffamazione commessa a mezzo della stampa o di altro mezzo di pubblicità.

[22] Si vedano gli artt. 615-bis c.p., il d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 e il d.lgs. 10 agosto 2018, n. 101 (emanato in attuazione dell’art. 13 della Legge di delegazione europea 2016-2017), che traggono fondamento costituzionale dagli artt. 2, 14 e 15, oltreché dall’art. 8 CEDU.

[23] Cfr. art. 2575 c.c. e legge l. 22 aprile 1941, n. 633.

[24] V. legge 13 agosto 2007, n. 124.

 

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Francesco Cortesi è Consigliere della Corte di cassazione.

In precedenza è stato giudice di merito, magistrato addetto all’Ufficio del Massimario e assistente di studio presso la Corte costituzionale.

È stato docente a contratto presso le Università di Bologna e Urbino e presso la New York University Law School.

È autore di pubblicazioni nelle materie del diritto civile e del diritto del commercio internazionale.