
Commento all’art. 20 della Costituzione
di Antonino Liberto Porracciolo, presidente di sezione della Corte di Appello di Palermo
Art. 20 – Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività.
Abstract: Lo scritto parte dai lavori dell’Assemblea costituente per evidenziare l’intento dei Conditores alla luce delle note vicende storiche (culminate nelle cosiddette Leggi eversive) che avevano coinvolto gli enti ecclesiastici dopo l’Unità d’Italia.
Si passa, quindi, all’analisi della portata dell’art. 20 (con riguardo a: soggetti destinatari della norma; provvedimenti vietati e consentiti; ambito tutelato), con un breve esame di alcune disposizioni della normativa primaria (quelle, specificamente, in materia di ICI, IMU, Terzo settore e impresa sociale), che risultano di particolare interesse anche sul versante delle problematiche sottese allo stesso art. 20.
Il lavoro si sofferma poi, brevemente, sulla giurisprudenza della Corte costituzionale relativamente all’articolo in esame, e si conclude ipotizzando, per le disposizioni contenute nello stesso articolo, un orizzonte di riferimento più ampio di quello strettamente confessionale/religioso.
Parole chiave: carattere ecclesiastico; religione; culto; gravami fiscali.
SOMMARIO: I lavori dell’Assemblea costituente; 2. La struttura dell’art. 20 Cost.: I soggetti destinatari della norma…; 3. segue: … I provvedimenti vietati (e quelli consentiti)…; 4. segue: … L’ambito della tutela; 4.1. L’ICI e l’IMU…; 4.2. … la TARI…; 4.3. … il Terzo settore e l’impresa sociale; 5. L’art. 20 Cost. nella giurisprudenza della Consulta; 6. L’art. 20 Cost. tra ragioni storiche e potenziali valorizzazioni
- I lavori dell’Assemblea costituente
L’art. 20 Cost. così dispone nel suo unico comma: «Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività».
Com’è stato osservato in dottrina, i «costituenti non dedica[ro]no lunghe discussioni all’art. 20»[1]. Ciò essenzialmente per due ragioni. Innanzi tutto, perché il dibattito sulla questione religiosa era stato polarizzato dalla materia concordataria, e quindi dalla posizione da assumere verso i Patti lateranensi; in secondo luogo, perché all’epoca dei lavori preparatori della Costituzione non era ancora sufficientemente sviluppata l’idea che la leva fiscale potesse costituire strumento di promozione delle libertà[2].
Il primo testo dell’articolo in esame[3] fu approvato (con 13 voti favorevoli, 1 contrario e 2 astensioni) dalla prima Sottocommissione della Commissione per la Costituzione il 19 dicembre 1946. Il relatore Giuseppe Dossetti espose che, mentre in altri Stati la personalità giuridica degli enti ecclesiastici non era mai stata contestata, viceversa nello Stato italiano, «in seguito a vicende a tutti note», gli enti ecclesiastici erano stati privati della personalità di diritto.
Era chiaro, in questo passaggio, il riferimento alle cosiddette Leggi eversive.
Innanzi tutto, al Regio decreto 7 luglio 1866, n. 3036, sulla soppressione delle Corporazioni religiose, il cui art. 1 disponeva, al 1° comma: «Non sono più riconosciuti nello Stato gli Ordini, le Corporazioni e le Congregazioni religiose regolari e secolari, ed i Conservatorii e Ritiri, i quali importino vita comune ed abbiano carattere ecclesiastico»; e che al 2° comma aggiungeva: «Le case e gli stabilimenti appartenenti agli Ordini, alle Corporazioni, alle Congregazioni ed ai Conservatorii e Ritiri anzidetti sono soppressi».
In secondo luogo, alla legge 15 agosto 1867, n. 3848, sulla liquidazione dell’asse ecclesiastico, che negava la personalità giuridica agli enti ecclesiastici ivi elencati[4].
Dunque – aggiungeva Dossetti –, l’articolo mirava ad «affermare un concetto negativo», e cioè che «il carattere ecclesiastico o lo scopo di culto non possono essere causa di un trattamento odioso a danno degli enti stessi». Con l’ulteriore precisazione che la norma nasceva a tutela non solo «degli enti ecclesiastici della Chiesa cattolica, ma anche degli enti religiosi non appartenenti» alla stessa.
Durante la discussione, l’on. Mario Cevolotto propose che nel testo formulato da Dossetti fosse fatta la seguente aggiunta: «Tali limitazioni possono essere però sancite dalla legge quando l’ente e i suoi titolari siano sussidiati dallo Stato o da altri enti pubblici, o godano esenzioni tributarie».
Dossetti affermò allora che la proposta non era in contraddizione con la norma contenuta nel testo in discussione, «perché questo non riguarda le eventuali restrizioni o il diritto di intervento dello Stato là dove lo Stato dà una contropartita all’ente stesso, ma riguarda il principio della riconoscibilità, per cui si vuole assicurare che non ci siano esclusioni di riconoscibilità fondate sul carattere ecclesiastico e lo scopo dell’ente». Cevolotto dichiarò quindi di rinunciare alla proposta aggiuntiva e di votare a favore del testo in esame, «tenendo però presenti i chiarimenti dati dall’on. Dossetti».
A sua volta, l’on. Concetto Marchesi chiese a Dossetti se alle associazioni ecclesiastiche contemplate dalla disposizione in discussione, che, in quanto persone giuridiche, potevano «avere il possesso e l’amministrazione di beni mobili ed immobili», fosse «consentita la proprietà di larghe estensioni di terreno» destinate a rimanere «immuni da riforme legislative»; se, cioè, la norma non mirasse «a stabilire oasi ferme di proprietà, escluse dalle vicende delle legislazioni sociali».
Il relatore rispose che l’ordinamento giuridico aveva già una disciplina sugli acquisti degli enti morali, essendo gli stessi ammessi solo con autorizzazione governativa; e ribadì che la norma di cui si discuteva non precludeva allo Stato la possibilità di introdurre ulteriori limitazioni, avendo, piuttosto, il solo scopo di chiarire che tali «eventuali limitazioni devono essere adottate per tutti gli enti e non soltanto per gli enti aventi scopo o finalità di culto». Quindi, il testo in esame mirava unicamente a evitare che la personalità giuridica degli enti ecclesiastici potesse «essere colpita in modo speciale per il semplice fatto di essere persona ecclesiastica», ferma restando la sua soggezione a «tutte le leggi restrittive in vigore per gli altri enti morali».
Il testo definitivo fu approvato dall’Assemblea costituente nella seduta antimeridiana del 14 aprile 1947.
- La struttura dell’art. 20 Cost.: I soggetti destinatari della norma…
L’analisi testuale dell’art. 20 si deve snodare su tre versanti: soggetti destinatari delle norme; provvedimenti vietati (e consentiti); ambito della tutela.
Quanto agli enti beneficiari, gli stessi vanno individuati nelle associazioni o istituzioni aventi «carattere ecclesiastico» e «fine di religione o di culto». Si è visto che già durante i lavori dell’Assemblea costituente fu messo in rilievo come le previsioni contenute nell’art. 20 mirassero a tutelare gli enti tanto della Chiesa cattolica quanto di altre religioni. Del resto, non si è mai dubitato che i destinatari-beneficiari delle norme in questione fossero tutti gli enti religiosi[5].
Nell’esegesi della norma, si è sostenuto che le due locuzioni (relative al «carattere» e al «fine») costituivano, in effetti, solo un’endiadi; altro filone interpretativo ha invece ritenuto che i costituenti intendessero – da un lato – riferire il «carattere ecclesiastico» agli enti della Chiesa cattolica, e invece – d’altro lato – attribuire il «fine di religione o di culto» alle altre confessioni. Impostazione, questa, decisamente superata dalla legislazione, che dal 1984[6] ha utilizzato il termine «ecclesiastico» per tutte le confessioni cristiane non cattoliche con le quali venivano stipulate le intese previste dall’art. 8, 3° comma, Cost.[7]
Deve rilevarsi che in dottrina si è affermato che sarebbero confessioni religiose quelle che «come tali si autoreferenziano e si autolegittimano nella prassi sociale», sicché «lo Stato non dovrebbe che prendere atto della loro esistenza»[8]. Impostazione, questa, non solo criticata da quegli autori i quali hanno affermato il rischio, insito in essa, di rendere non operative, «per indeterminatezza della fattispecie concreta», le disposizioni normative che facessero riferimento al fattore religioso[9], ma anche respinta dalla Consulta in due pronunce della prima metà degli anni 90.
In un caso, il giudice a quo riteneva, fra l’altro, che l’applicazione delle esenzioni tributarie stabilite dalla normativa fiscale in discussione[10] si dovesse fondare sull’autoattribuzione, da parte dell’associazione che chiedesse di ottenere il beneficio fiscale, del carattere di religiosità, sicché non fosse previsto né consentito un controllo della conformità degli statuti ai principi dell’ordinamento giuridico.
Di diverso avviso la Corte costituzionale, che ha invece affermato: «Le associazioni a carattere religioso che non siano già state civilmente riconosciute come tali (secondo le regole poste sulla base di intese o secondo la disciplina, che ancora sopravvive, della legge 24 giugno 1929, n. 1159) devono comprovare la natura e la caratteristica religiosa dell’organizzazione, secondo i criteri che qualificano nell’ordinamento dello Stato i fini di religione e di culto. Ciò dovrà essere fatto alla stregua della reale natura dell’ente e dell’attività in concreto esercitata, non potendosi ritenere, in conformità al principio già enunciato dalla Cassazione per altri tipi di enti non commerciali, che una associazione sia arbitra della propria tassabilità»[11].
Nell’altra vicenda, la Consulta, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale di una legge regionale (recante la disciplina urbanistica dei servizi religiosi) nella parte in cui la stessa prevedeva la possibilità di concedere contributi alle sole confessioni religiose i cui rapporti con lo Stato fossero regolati per legge, sulla base di intese, ai sensi del 3° comma dell’art. 8 Cost., ha comunque chiarito: «Resta fermo che per l’ammissione ai benefici sopra descritti non può bastare che il richiedente si autoqualifichi come confessione religiosa. Nulla quaestio quando sussista un’intesa con lo Stato. In mancanza di questa, la natura di confessione potrà risultare anche da precedenti riconoscimenti pubblici, dallo statuto che ne esprima chiaramente i caratteri, o comunque dalla comune considerazione»[12].
L’art. 20 fa generico riferimento ad associazioni e istituzioni. Alcuni autori hanno ritenuto che la disposizione in esame riguardi solo gli enti privati, mentre altri hanno sostenuto che la stessa concerne anche gli enti che hanno natura pubblica, laddove esistenti[13]. Ancora in dottrina si è osservato che l’art. 20 Cost. pone un divieto di discriminazione su due livelli: il primo si esplica tra gli enti che hanno acquistato personalità giuridica e quelli privi di tale personalità; il secondo riguarda l’impossibilità di ammettere disparità di trattamento tra gli enti delle diverse confessioni[14].
Inoltre, va segnalato che da tempo la dottrina ritiene che l’art. 20 non possa non riferirsi anche agli enti che agiscano con scopo negativo, sotto forma di propaganda ateististica.
- segue: … I provvedimenti vietati (e quelli consentiti)…
L’art. 20 non ammette speciali limitazioni legislative né speciali gravami fiscali relativamente agli ambiti che verranno esaminati nel prossimo paragrafo.
Dal ripetuto uso dell’aggettivo «speciali» (e richiamato quanto emerge dai lavori dell’Assemblea costituente) è agevole desumere che le norme contenute nell’art. 20 vietano provvedimenti che colpiscano le associazioni e le istituzioni in questione in maniera più sfavorevole rispetto a quanto stabilito per gli enti che non hanno carattere ecclesiastico; invece, non possono escludersi, in relazione all’art. 20, né limitazioni legislative e gravami fiscali previsti, con carattere di generalità, in maniera uniforme per tutte le associazioni e le istituzioni, indipendentemente dal loro fine, né un trattamento di favore a vantaggio degli enti in esame[15].
Nei prossimi paragrafi saranno esaminati alcuni interventi legislativi contenenti norme di favore per gli enti destinatari della tutela prevista dall’art. 20 Cost. Qui richiamiamo, a livello di considerazioni generali, quelle riflessioni dottrinali che insistono nell’affermare un necessario rapporto tra rinunce e vantaggi connessi alla concessione delle agevolazioni fiscali, «nel senso che debba esistere una corrispondenza tra il minor gettito fiscale e le utilità sociali derivanti dalla promozione dei valori tutelati»[16]. Certamente, il riferimento a un valore costituzionale quale la religione rappresenta una solida base di legittimazione per derogare al principio di capacità contributiva previsto dal 1° comma dell’art. 53 Cost.; ma la correlazione «tra costi e benefici impone la tutela dell’interesse erariale, mediante l’adozione di misure che garantiscano l’effettiva destinazione a finalità religiose del finanziamento indiretto di natura fiscale»[17].
- segue: … L’ambito della tutela
I divieti indicati nel paragrafo precedente riguardano la costituzione, la capacità giuridica e ogni forma di attività delle associazioni o istituzioni in questione: cioè, «tutto l’arco della rilevanza sociale» di tali enti[18].
D’altra parte, è evidente come non possa ipotizzarsi che qualsiasi attività esercitata da un ente religioso abbia sempre e necessariamente finalità di religione o di culto. E l’ordinamento italiano (come non ammette, quanto al profilo soggettivo, l’autoattribuzione del carattere di religiosità[19], allo stesso modo) «non accoglie passivamente la qualificazione confessionale dell’attività» e, «all’interno della legislazione negoziata con le confessioni religiose, procede, sia pure ai soli fini delle leggi civili, a una classificazione delle attività confessionali distinguendo tra quelle “con fine di religione o di culto” e quelle “diverse”»[20].
In particolare, l’art. 16 della legge 222/1985 («Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi») dispone, alla lett. a) dell’unico comma, che si considerano «attività di religione o di culto quelle dirette all’esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi, all’educazione cristiana», mentre nella successiva lett. b) stabilisce che si reputano «attività diverse da quelle di religione o di culto quelle di assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura e, in ogni caso, le attività commerciali o a scopo di lucro».
Infatti, un ente ecclesiastico può esercitare liberamente – nel rispetto delle leggi dello Stato – anche un’attività di carattere commerciale; non per questo, però, si modifica la natura di quell’attività, sicché le norme applicabili allo svolgimento della stessa rimangono – anche agli effetti tributari – quelle previste per le attività commerciali, senza che rilevi che l’ente la eserciti, o meno, in via esclusiva o prevalente[21].
È dunque del tutto ragionevole la scelta del legislatore di disporre, come si vedrà nei prossimi paragrafi, determinati benefici fiscali per gli enti ecclesiastici solo in relazione alle attività di religione o di culto (§ 4.1.) o, comunque, a quelle che abbiano natura non commerciale (§ 4.3.).
4.1. L’ICI e l’IMU…
Casi emblematici, in tal senso, sono rappresentati dalle norme dettate in materia di ICI (imposta comunale sugli immobili) e di IMU (imposta municipale propria).
L’art. 7, 1° comma, Dlgs 504/1992, e poi l’art. 1, 759° comma, della legge 160/2019, hanno rispettivamente e allo stesso modo previsto, per quel che qui interessa, l’esenzione dall’ICI e dall’IMU[22] [le lettere riportate tra parentesi nei primi tre punti che seguono vanno identicamente riferite a entrambi i commi; per il quarto punto, invece, il rinvio è alla lett. i) per il 1° comma dell’art. 7, e alla lett. g) per il 759° comma dell’art. 1]:
1) per i fabbricati classificati o classificabili nelle categorie catastali da E/1 a E/9 (lett. b); dunque anche i fabbricati rientranti nella categoria E/7, quelli, cioè, destinati all’esercizio pubblico dei culti, anche se di proprietà di privati.
Il riferimento tanto agli edifici già «classificati» quanto a quelli «classificabili» è stato ritenuto, con riguardo alla categoria E/7, «indice di un’attenzione verso nuove manifestazioni della religione e del sacro, che non trovano collocazione nel solco della tradizione giudaico-cristiana»[23]. Infatti, gli edifici in cui si svolge il culto dei nuovi movimenti religiosi potrebbero presentare «note caratteristiche estremamente diverse da quelle tradizionali»[24]; quindi, mediante la norma in esame, il legislatore ha inteso aprire «prospettive di tutela da possibili discriminazioni fiscali per i luoghi di culto delle realtà religiose che si affacciano sulla scena sociale»[25];
2) per i fabbricati destinati esclusivamente all’esercizio del culto, purché compatibile con le disposizioni degli artt. 8 e 19 Cost., e le loro pertinenze (lett. d);
3) per i fabbricati di proprietà della Santa Sede indicati negli artt. 13[26], 14[27], 15[28] e 16[29] del Trattato lateranense, sottoscritto l’11 febbraio 1929 (lett. e);
4) per gli immobili utilizzati dai soggetti indicati nell’art. 73, 1° comma, lett. c), del Dpr 917/1986 («Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi»), e cioè, per quel che qui interessa, dagli enti pubblici e privati diversi dalle società, residenti nel territorio dello Stato, che siano destinati esclusivamente allo svolgimento delle attività di religione o di culto previste dall’art. 16, lett. a), l. 222/1985; cioè – come si è visto al precedente paragrafo – le attività dirette all’esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi, all’educazione cristiana.
Quest’ultima previsione è stata ritenuta «una coraggiosa scelta di superamento della tradizionale connessione tra esenzione fiscale e irrilevanza economica»: infatti, tra i beni che beneficiano di questa agevolazione ve ne sono alcuni che possono avere un’apprezzabile consistenza patrimoniale; e tuttavia, il legislatore «ha evidentemente inteso tutelare l’effettiva destinazione dei cespiti in questione a una finalità, quale quella religiosa, che si pone come strumento fondamentale di formazione umana»[30].
La giurisprudenza, poi, ha disegnato il perimetro di operatività delle esenzioni in esame, escludendole tutte le volte che quegli immobili fossero strumentali all’esercizio di un’attività oggettivamente commerciale.
Così la Corte suprema ha ritenuto insussistenti le condizioni per il beneficio dell’esenzione dall’ICI relativamente a immobili gestiti da enti religiosi e destinati, dietro pagamento del dovuto corrispettivo da parte dei fruitori dei servizi, a case di cura e pensionati[31], attività alberghiera[32], scuola paritaria[33], casa per ferie[34].
4.2. … la TARI…
I giudici tributari hanno avuto modo di trattare, a più riprese, la questione della TARI (tassa sui rifiuti) richiesta a istituti pontifici. Le opposizioni alle pretese di pagamento si sono fondate sul Trattato lateranense stipulato l’11 febbraio 1929 tra la Santa Sede e l’Italia, e precisamente sull’art. 16, richiamato nel precedente paragrafo, per il quale gli immobili adibiti a sedi degli istituti pontifici ivi elencati non sarebbero stati «mai assoggettati a vincoli o ad espropriazioni per causa di pubblica utilità, se non previo accordo con la Santa Sede», e inoltre sarebbe stati «esenti da tributi sia ordinari che straordinari tanto verso lo Stato quanto verso qualsiasi altro ente».
La Corte suprema[35] ha affermato, innanzi tutto, che si tratta di una norma programmatica, che dunque, come tale, contiene l’impegno dello Stato a darvi attuazione. Il che è avvenuto, ad esempio, con l’art. 2 Dpr 601/1973, il quale ha previsto che il reddito dei fabbricati in questione è esente dall’imposta locale sui redditi e da quella sul reddito delle persone giuridiche, altresì stabilendo l’esenzione dei relativi incrementi di valore dall’imposta comunale sull’incremento di valore degli immobili; o, come si è già visto, con gli art. 7, 1° comma, Dlgs 504/1992 e 1, 759° comma, della legge 160/2019, che hanno disposto, entrambi alla lett. e), l’esenzione dall’ICI e dall’IMU dei fabbricati indicati negli artt. 13, 14, 15 e 16 dei Patti lateranensi.
Il giudice di legittimità ha quindi rilevato che il legislatore italiano non è, invece, intervenuto con norme analoghe per quel che riguarda la tassa sui rifiuti, con ciò convalidando l’ipotesi che l’esenzione di cui si discute concerne[36] «esclusivamente le imposte che gravano sui redditi degli immobili in questione». Né, comunque, potrebbe procedersi all’applicazione analogica della citata lett. i) dell’art. 7, 1° comma, Dlgs 504 in materia di ICI, trattandosi di norma agevolativa di stretta interpretazione[37].
4.3. … il Terzo settore e l’impresa sociale
In termini particolarmente incisivi – e di precipuo interesse anche sul fronte delle problematiche sottese all’art. 20 Cost. – è recentemente intervenuta la disciplina del Terzo settore e dell’impresa sociale, che ha previsto agevolazioni tributarie legate non più «alle modalità di produzione del reddito», quanto piuttosto «all’effettiva destinazione dello stesso alle finalità incentivate»[38].
Il Dlgs 117/2017, contenente le norme del «Codice del Terzo settore», prevede, al 3° comma dell’art. 4, l’estensione delle previsioni di quel corpus normativo agli enti religiosi civilmente riconosciuti, limitatamente allo svolgimento, da parte degli stessi, delle «attività di interesse generale» indicate nel successivo art. 5 di quel Codice. Tra queste, ve ne sono alcune che tipicamente caratterizzano l’opera sociale e umanitaria degli enti cattolici e non cattolici: interventi e prestazioni sanitarie, educazione, istruzione e formazione professionale, formazione universitaria e post-universitaria, ricerca scientifica di particolare interesse sociale, organizzazione e gestione di attività culturali, artistiche o ricreative di interesse sociale, comprese le attività, anche editoriali, di promozione e diffusione della cultura e della pratica del volontariato.
Ebbene, l’applicazione delle norme del Dlgs 117/2017 agli enti religiosi civilmente riconosciuti che esercitano un ramo di attività di interesse generale fa sì che quegli enti possano beneficiare, limitatamente a quel segmento di attività e purché lo stesso abbia «natura non commerciale»[39], di un regime fiscale di favore per le imposte sui redditi (art. 80 Dlgs 117) e per quelle di registro, ipotecaria e catastale (art. 82, 3° comma, dello stesso decreto), nonché dell’esenzione dall’IMU (art. 82, 6° comma)[40].
A sua volta, il Dlgs 112/2017 – «Revisione della disciplina in materia di impresa sociale» – ha previsto, al 3° comma dell’art. 1, che le disposizioni contenute in quel provvedimento si applicano anche agli enti religiosi civilmente riconosciuti limitatamente alle attività d’impresa di interesse generale, quelle, cioè, dirette al «perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale» indicate nel successivo art. 2. Il quale effettua un’elencazione in larga parte sovrapponibile a quella contenuta nell’art. 5 del Dlgs 117/2017, richiamando, dunque, alcune di quelle attività che, come si è detto, costituiscono l’azione tipica degli enti cattolici e non cattolici.
Orbene, l’art. 18 del Dlgs 112 contiene «Misure fiscali e di sostegno economico» per le imprese sociali (misure di cui, a determinate condizioni, possono dunque beneficiare anche gli enti religiosi), prevedendo casi in cui determinati importi non concorrono alla formazione del reddito imponibile dell’impresa sociale, nonché ammettendo detrazioni, dall’imposta lorda sul reddito delle persone fisiche, di un importo pari al trenta per cento della somma investita dal contribuente nel capitale sociale delle società che abbiano acquisito la qualifica di impresa sociale da non più di cinque anni.
- L’art. 20 Cost. nella giurisprudenza della Consulta
La norma contenuta nell’art. 20 è stata presa a parametro di riferimento, nelle ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale, in un numero non elevato di casi (e, comunque, unitamente ad altre previsioni costituzionali ipoteticamente violate).
La Consulta ha affermato, fra l’altro, che nella materia in esame ciò che viene in rilevo è il divieto di discriminazione, sancito in generale dall’art. 3 Cost. e ribadito «dagli artt. 8, 1° comma, 19 e 20 Cost.»; divieto diretto ad assicurare anche «l’eguaglianza dei singoli nel godimento effettivo della libertà di culto, di cui l’eguale libertà delle confessioni di organizzarsi e di operare rappresenta la proiezione necessaria sul piano comunitario»[41].
Di particolare rilievo la sentenza 259/1990, nella quale la Consulta ha esaminato la questione di legittimità, con riferimento (anche) all’art. 20, di 17 articoli del Regio decreto 30 ottobre 1930, n. 1731, contenente «Norme sulle Comunità israelitiche e sulla Unione delle Comunità medesime»[42]; il dubbio di conformità alla Costituzione era stato sollevato dalle Sezioni unite della Corte di cassazione in un giudizio per regolamento preventivo di giurisdizione, relativo a controversia di lavoro promossa nei confronti di una Comunità israelitica.
Il giudice a quo riteneva che le norme denunciate, considerate nel loro complesso, dessero luogo all’attribuzione della personalità giuridica di diritto pubblico alle Comunità israelitiche, con conseguente contrasto sia con il principio costituzionale dell’autonomia delle confessioni religiose, sia con quello della laicità dello Stato, princìpi espressi nei parametri costituzionali di riferimento, tra cui, appunto, l’art. 20 Cost.
La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di quegli articoli: secondo il giudice delle leggi, infatti, le norme in essi contenute formavano un corpo unitario che imprimeva alle Comunità israelitiche il carattere di enti pubblici, e dunque una qualità «del tutto incompatibile con il principio costituzionale dell’autonomia statutaria delle confessioni religiose diverse dalla cattolica (art. 8, 2° comma, Cost.) e con quello della laicità dello Stato (artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 Cost.)».
In altre vicende sottoposte al vaglio della Consulta, la questione è stata dichiarata manifestamente inammissibile[43], oppure manifestamente infondata[44] o, ancora, non fondata.
Tra le decisioni che si sono pronunciate nel senso da ultimo indicato, vanno segnalate le sentenze 86/1985 e 235/1997; entrambe hanno affermato la non fondatezza del dubbio di legittimità dell’art. 8, 3° comma, della legge 904/1977, nella parte in cui lo stesso prevedeva l’esenzione dall’INVIM decennale per i soli «immobili appartenenti ai benefici ecclesiastici», così lasciando fuori dall’esonero quelle istituzioni, aventi personalità giuridica e dotazione patrimoniale immobiliare, espressione o emanazione di confessioni religiose ammesse dallo Stato e diverse dalla religione cattolica.
In particolare, nella sentenza del 1985 si è escluso che la norma impugnata realizzi, in contrasto con l’art. 20 Cost., una speciale limitazione legislativa o uno speciale gravame fiscale, e dunque una discriminazione delle confessioni religiose acattoliche[45].
- L’art. 20 Cost. tra ragioni storiche e potenziali valorizzazioni
Nel primo paragrafo di questo lavoro ci si è soffermati sulle ragioni storiche che portarono all’approvazione della normativa contenuta nell’art. 20 Cost. In chiusura, va adesso segnalato che in dottrina si è sostenuto che, se l’art. 20 avesse avuto la sola funzione di prevenire il ripetersi dell’eversione dell’asse ecclesiastico, lo stesso probabilmente sarebbe stato superfluo, giacché altre norme della Carta fondamentale sono poste a presidio della libertà di religione[46].
Piuttosto, l’art. 20 avrebbe realizzato una «prima revisione del Concordato»[47] nel settore ecclesiastico tributario; e, a conferma di ciò, è sintomatico il fatto che l’art. 7 dell’Accordo di Villa Madama del 18 febbraio 1984 si apra con il richiamo «al principio enunciato dall’art. 20 della Costituzione», a cui segue l’intera riproduzione del relativo contenuto.
Va ulteriormente segnalato che autorevole dottrina ha altresì attribuito all’art. 20 una «prospettiva più ampia di tutela della libertà religiosa, anche in favore degli enti confessionali non istituzionalizzati»; o, più precisamente, «di un sentimento religioso che può essere efficacemente tutelato ancorché sia espressione di forme non tradizionali o non istituzionalizzate»[48].
L’art. 20 si muoverebbe, cioè, anche verso un orizzonte altro (e oltre) rispetto a quello strettamente confessionale/religioso, costituendo espressione di «quel pluralismo valoriale e di quel personalismo sociale che fanno quasi da “trama” alla Costituzione italiana»[49]. Un pluralismo effettivo, «che pone al centro la persona umana in relazione ai suoi simili, e che trova la sua espressione giuridica nel principio di sussidiarietà, il quale a sua volta rimanda a una società fondata sul pluralismo dei corpi sociali e sul principio di solidarietà basato sull’inscindibile lettura congiunta degli artt. 2 e 3, 2° comma, Cost.»[50]
Del resto, la stessa Corte costituzionale ha più volte affermato che il principio di laicità, che contraddistingue l’ordinamento repubblicano, va inteso «non come indifferenza di fronte all’esperienza religiosa, bensì come salvaguardia della libertà di religione in regime di pluralismo confessionale e culturale»[51].
Ed è emblematico, a conferma dell’ampia portata dell’art. 20 (ma anche delle sue potenzialità ancora da valorizzare), che, nell’ordinanza 7893/2020, la Corte suprema di Cassazione, chiamata a decidere sulla denunciata sussistenza della violazione del principio di libera espressione della libertà religiosa nella forma negativa della mancanza di un credo religioso, abbia affermato il seguente principio di diritto, facendo esplicito richiamo all’articolo in esame tra quelli ritenuti come posti a presidio di tale libertà: «Ai sensi degli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 Cost. e dell’art. 1 del Protocollo addizionale al Concordato tra Stato e Chiesa del 1984, dai quali si desume l’esistenza nell’ordinamento del “principio supremo di laicità” dello Stato, nonché ai sensi dell’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dell’art. 9 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, deve essere garantita la pari libertà di ciascuna persona che si riconosca in una fede, quale che sia la confessione di appartenenza, ed anche se si tratta di un credo ateo o agnostico, di professarla liberamente».
***
Note blibliografiche
[1] A. Guarino, Diritto ecclesiastico tributario e articolo 20 della Costituzione, Napoli, 2001, 91.
[2] Idem, 92.
[3] Che era del seguente tenore: «Il carattere ecclesiastico o lo scopo di religione o di culto di una associazione o di una istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative per la sua costituzione od attività, per la sua erezione in persona giuridica e per la sua capacità di acquistare, di possedere ed amministrare beni mobili ed immobili, come non possono essere causa di speciali gravami fiscali».
[4] P. Tanzarella, Articolo 20, in La Costituzione italiana. Commento articolo per articolo, a cura di F. Clementi-L. Cuocolo-F. Rosa-G.E. Vigevani, Bologna, 2021, 153-154, riconduce proprio all’esperienza storica il motivo per cui i Costituenti, e in particolare Dossetti, si erano posti l’esigenza di prevedere una disposizione che specificamente tutelasse gli enti religiosi; e ciò, aggiunge l’A., per proteggere non solo gli enti cattolici («in passato vessati dallo Stato»), ma anche quelli non appartenenti alla Chiesa, giacché – come subito si dirà – «tutti potevano costituire un probabile oggetto di trattamenti odiosi».
Anche S. Lariccia, Diritto Ecclesiastico, 1982, 104, dopo aver affermato che «molto spesso le disposizioni costituzionali sono una protesta contro ciò che avvenne nel periodo precedente», sottolinea che con l’art. 20 il costituente aveva inteso evitare che in Italia si potesse ancora adottare la formula organizzatoria del «giurisdizionalismo» attraverso norme restrittive speciali, dirette, cioè, ai soli enti di culto.
[5] In dottrina si è pure affermato che, essendo gli organismi della Chiesa cattolica già tutelati dai Patti lateranensi, con l’art. 20 si vollero garantire specificamente le prerogative di istituzioni ed enti non cattolici; così S. Curreri, Lezioni sui diritti fondamentali, Torino, 2012, 328.
[6] Con la legge 11 agosto 1984, n. 449, contenente «Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e le chiese rappresentate dalla Tavola valdese»; il 2° comma dell’art. 2 della stessa così dispone: «La Repubblica italiana, richiamandosi ai diritti di libertà garantiti dalla Costituzione, riconosce che le nomine dei ministri di culto, l’organizzazione ecclesiastica e la giurisdizione in materia ecclesiastica, nell’ambito dell’ordinamento valdese, si svolgono senza alcuna ingerenza statale».
[7] L’elenco delle intese approvate con legge ai sensi dell’art. 8 Cost. si può consultare su https://presidenza.governo.it/USRI/confessioni/intese_indice.html.
[8] N. Colaianni, Confessioni religiose e intese. Contributo all’interpretazione dell’art. 8 della Costituzione, Bari, 1990, 82.
[9] A. Guarino, op. cit., 105.
[10] Si trattava dell’art. 4 del Dpr n. 633/1972 e dell’art. 20 del Dpr n. 598/1973.
[11] In questi termini la motivazione della sentenza 467/1992.
[12] Così Corte costituzionale, sentenza 195/1993.
[13] Ne dà atto A. Bettetini, Articolo 20, in Commentario alla Costituzione. Artt. 1-54, a cura di R. Bifulco-A. Celotti-M. Olivetti, I, Torino, 2006, 444.
[14] P. Tanzarella, op. cit., 154. Sulla questione si veda anche A. Bettetini, op. cit., 444, per il quale la questione dell’ammissibilità di distinzioni fra enti della Chiesa cattolica e di altre confessioni religiose, nonché fra queste ultime, a seconda dell’esistenza o meno di intese con lo Stato, è piuttosto da porre in relazione all’art. 3 e non all’art. 20 (pur precisandosi che il problema è «evidentemente connesso con la questione qui trattata»).
[15] «Fatta salva – ovviamente – la ragionevolezza della distinzione»: così A. Bettetini, op. cit., 444.
[16] A. Guarino, op. cit., 120.
[17] Idem, 121.
[18] Così G. Barberini, Lezioni di diritto ecclesiastico, Torino, 2001, 49.
[19] Si veda quanto esposto al § 2.
[20] A. Guarino, op. cit., 108.
[21] Cass. 4645/2004.
[22] Già l’art. 9, 8° comma, Dlgs 23/2011 aveva disposto che per l’IMU si applicassero le esenzioni previste (per quanto qui rileva) dalle lett. b), d), e) e i) dell’art. 7, 1° comma, Dlgs 504/1992, a cui si fa riferimento nel paragrafo. L’art. 1 della legge 160/2019, nell’abrogare (al comma 780°) l’art. 9 appena citato, al 759° comma ha comunque disposto l’esenzione dall’IMU nei termini indicati nel paragrafo.
[23] In questi termini, A. Guarino, op. cit., 132.
[24] Ibidem.
[25] Ibidem.
[26] Tra gli altri, le Basiliche di San Giovanni in Laterano e di Santa Maria Maggiore.
[27] Innanzi tutto, il palazzo pontificio di Castel Gandolfo.
[28] Tra i quali, il palazzo di «Propaganda Fide in piazza di Spagna» e quello «del Sant’Offizio».
[29] A cominciare dagli immobili destinati a sede di alcuni istituti pontifici.
[30] A. Guarino, op. cit., 133.
[31] Cass. 4645/2004, citata alla nota 21, che proprio dal pagamento delle rette ha fatto desunto l’esistenza di «attività oggettivamente commerciali».
[32] Cass. 5041/2015.
[33] Cass. 14226/2015, per la quale il pagamento era stato ritenuto «rivelatore dell’esercizio dell’attività con modalità commerciali».
[34] Cass. 7415/2019; l’ordinanza, che cassava la pronuncia del giudice di merito per un nuovo esame delle questioni, ha affermato che l’attività in questione, a meno che non sia offerta gratuitamente o a prezzo simbolico, «non dà diritto ad esenzione Ici, diversamente configurandosi come aiuto di Stato».
[35] Si veda, da ultimo, Cass. 41533/2021, che richiama la propria «consolidata giurisprudenza».
[36] «Ed è ragionevole che concerna»: così chiosa la pronuncia citata alla precedente nota.
[37] Cass. 13375/2021.
[38] Utilizziamo le stesse espressioni già usate da Guarino, op. cit., 115, con riguardo al panorama normativo che dall’inizio degli anni 90 si è venuto delineando con gli interventi legislativi contenenti la speciale disciplina tributaria in favore di enti di volontariato (l. 266/1991), cooperative sociali (l. 381/1991) ed enti non profit (Dlgs 460/1997).
[39] Ai sensi dell’art. 79, 2° comma, Dlgs 117/2017, le attività di interesse generale previste dall’art. 5 dello stesso decreto «si considerano di natura non commerciale quando sono svolte a titolo gratuito o dietro versamento di corrispettivi che non superano i costi effettivi».
[40] Se, come dispone il 6° comma dello stesso art. 82, si tratti di immobili, per quanto qui di interesse, destinati esclusivamente allo svolgimento, con modalità non commerciali, delle attività elencate nell’art. 16, 1° comma, lett. a), l. 20 maggio 1985, n. 222 (sul cui contenuto si rinvia ai §§ 4. e 4.1.).
[41] Corte costituzionale, sentenze 346/2002 e 63/2016.
[42] Precisamente, gli artt. 1, 2, 3, 15, 17, 18, 19, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 56, 57 e 58.
[43] Così l’ordinanza 389/2004 in relazione alla questione di legittimità costituzionale degli artt. 159, 190 e 676 del Dlgs 297/1994 («Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado»), sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 Cost., dal Tribunale amministrativo regionale per il Veneto.
[44] Si veda l’ordinanza 160/1986 relativamente alle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8 della legge 904/1977 («Modificazioni alla disciplina dell’imposta sul reddito delle persone giuridiche e al regime tributario dei dividendi e degli aumenti di capitale, adeguamento del capitale minimo delle società e altre norme in materia fiscale e societaria»), sollevate, in relazione agli artt. 3, 8, 19 e 20 Cost., da due Commissioni tributarie di primo grado. La Corte richiama la propria sentenza 86/1985, a cui si fa subito cenno nel paragrafo.
[45] Infatti – come si legge in motivazione –, «non è in questo ambito […] che si colloca l’INVIM decennale e non è a questi effetti che opera, nemmeno in modo indiretto, l’impugnata norma di esenzione».
[46] A. Guarino, op. cit., 92.
[47] Idem, 94.
[48] A. Bettetini, op. cit., 445.
[49] Ibidem.
[50] Idem, 446. Anche P. Tanzarella, op. cit., 155, afferma che l’articolo in questione si inserisce «in un quadro costituzionale tutto incentrato a sottolineare il fine di progresso sociale».
[51] In questi termini la sentenza 63/2016, citata alla nota 41, che richiama precedenti pronunce.
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Antonino Liberto Porracciolo è presidente di sezione della Corte di appello di Palermo.
In magistratura dal 1991, dal 1992 al 2020 ha prestato servizio a Caltanissetta negli uffici di Pretura, Tribunale (come giudice e poi presidente di sezione), Corte di appello e, infine, Tribunale per i minorenni, che ha presieduto dal 2015 al 2020. Dal 1989 al 1991 è stato funzionario dell’amministrazione civile del Ministero dell’Interno. Dal 2012 è giudice della Commissione tributaria provinciale di Caltanissetta. È autore di oltre 450 articoli pubblicati sul quotidiano Il Sole 24 Ore e su riviste dello stesso Gruppo (Guida al Diritto, Famiglia e minori, Responsabilità e risarcimento). Dal 2015 è giornalista pubblicista.