
Commento all’articolo 13 della Costituzione
di Costantino De Robbio, componente del comitato direttivo della Scuola Superiore della Magistratura
Art. 13 – La libertà personale è inviolabile.
Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.
In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto.
E` punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà.
La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva.
Abstract: Il commento esamina il concetto di libertà personale dalle origini storiche (Magna Charta, Habeas corpus) e, attraverso l’analisi dei lavori dell’Assemblea Costituente, ripercorre i ragionamenti che hanno portato alla formulazione attuale dell’articolo 13 della Costituzione in reazione al fascismo. Si sofferma sull’inviolabilità del diritto e sulla necessità di un presidio dagli abusi dell’autorità statale sulla dignità individuale. Sono poi trattati i presidi e le garanzie disciplinati dalla norma, dalla riserva di legge alla riserva di giurisdizione e le limitazioni alle restrizioni della libertà personale e i provvedimenti provvisori adottabili per motivi di ordine pubblico e sicurezza. Un’analisi particolare è riservata ai rapporti tra il diritto alla libertà personale e il processo penale, sia con riferimento alle pene che alle misure cautelari, con specifica attenzione alla fase esecutiva ed al divieto di violenza sui detenuti. Infine, dopo una riflessione sulle deroghe ai presidi costituzionali della norma vissuti in passato per motivi di sicurezza (terrorismo, criminalità organizzata) ci si interroga sulle attuali declinazioni della libertà personale in tempo di pandemia.
Parole chiave: libertà personale; dignità; sicurezza; misure cautelari; detenzione.
Sommario: 1. L’affermazione del concetto di libertà personale prima della Costituzione: lo Statuto albertino e il ventennio fascista. 2. I lavori dell’Assemblea costituente. 3. Libertà personale e inviolabilità. 4. La riserva di legge e la riserva di giurisdizione. 5. I limiti della libertà personale derivanti dal processo penale: dalla carcerazione preventiva alle misure cautelari. 6. Libertà personale e sicurezza collettiva. 7. Le eccezioni alla riserva di giurisdizione: i provvedimenti provvisori emessi dalle forze dell’ordine. 8. Il divieto di violenza sui detenuti. 9. La libertà personale ai tempi della pandemia.
- L’affermazione del concetto di libertà personale prima della Costituzione: lo Statuto albertino e il ventennio fascista.
La necessità di proclamare con una norma di rango costituzionale che la libertà personale è un diritto fondamentale del cittadino nasce dall’esigenza di proteggere l’individuo dagli abusi del potere di coercizione fisica dello Stato e dei suoi rappresentanti.
E’ insito nel concetto stesso di Stato come di qualsiasi comunità di individui l’impegno ad obbedire alle regole comuni (leggi) e l’accettazione delle sanzioni per chi tali regole violi, anche quando tali sanzioni implicano la compressione della libertà del reo, purché tale violazione sia accertata seguendo regole condivise e giuste (processo).
Tuttavia, la necessità di provvedere, per motivi di sicurezza o di ordine pubblico, nell’immediatezza o comunque con urgenza non sempre consente di attendere l’esito dell’accertamento giurisdizionale, rendendo inevitabile affidarsi agli organi di polizia per l’adozione di provvedimenti di limitazione o compressione della libertà personale.
La proclamazione del diritto alla libertà personale si accompagna dunque, da quasi mille anni, al bisogno di affermare che ogni persona privata di tale diritto debba comunque essere portata al cospetto di un giudice e ivi giudicata (“Nessun uomo libero può essere arrestato, imprigionato […] o danneggiato in alcun modo, eccetto dal giudizio legale dei suoi pari e della Legge del Paese”: Magna Charta, n. 39, linea 40, anno 1215) ed alla periodica necessità di ribadire l’illiceità di ogni ritardo nella consegna dei detenuti alle autorità giudiziaria e degli abusi di “sceriffi, carcerieri altri funzionari alla cui custodia sono affidati sudditi del re per fatti criminosi o supposti tali” (Habeas Corpus Act, anno 1679).
In Italia, il principio risulta adottato già dalla nascita dello Stato unitario, attraverso un richiamo – alquanto generico – contenuto nell’articolo 29 dello Statuto Albertino, che prevedeva che la libertà personale potesse essere compressa mediante arresti nelle forme e nei casi previsti dalla legge.
Proprio nella mancanza di analiticità della norma la dottrina aveva individuato la causa della sua inefficacia a fungere da presidio ad eventuali abusi: di fatto, si demandava alla legge ordinaria il compito di specificare i limiti della libertà personale, sicché il diritto perdeva in concreto il rango di principio superiore.
La fragilità dell’impianto di garanzia della libertà personale ha mostrato tutti i suoi limiti nel corso della dittatura fascista, allorquando il diritto in esame è stato di fatto cancellato senza che fosse necessario nemmeno intervenire con modifica della Carta fondamentale.
- I lavori dell’Assemblea costituente.
Con il ritorno della democrazia parlamentare e la conseguente necessità di ribadire il patto sociale tra gli italiani, ferito dal Ventennio, i padri costituenti compresero immediatamente l’importanza di assegnare al diritto alla libertà personale il ruolo di primo e più importante dei diritti fondamentali dei cittadini.
L’esperienza passata convinse tutti della importanza di assegnare all’articolo 13 della Costituzione il ruolo di presidio forte ed invalicabile della libertà, attraverso una disciplina il più possibile analitica e non soggetta ai mutevoli cambiamenti delle maggioranze di Governo che si sarebbero succedute alla guida del Paese.
La disciplina dei poteri restrittivi e dei modi concreti del loro esercizio, così certosinamente elencati nella norma in esame, risponde dunque all’esigenza di prevenire le degenerazioni del passato (M. Ruotolo, 2003).
Non mancarono, durante i lavori dell’Assemblea Costituente, perplessità da parte di chi, ricordando che tutti i diritti fondamentali erano stati calpestati durante il fascismo e non solo la libertà personale, paventava il rischio che per scongiurare il pericolo di rivivere tale esperienza si appesantisse la Costituzione con una tale congerie di norme di carattere minuto da trasformarla di fatto in una sorta di compendio di diritto penale (Grilli).
Prevalse però la linea di costituzionalizzare non solo l’enunciazione di principio ma le sue declinazioni concrete: troppo forte era l’eco del periodo appena trascorso e l’impressione di fragilità di un diritto fondamentale che occorreva non dare per scontato ma difendere da attacchi e abusi.
- Libertà personale e inviolabilità.
Il primo comma dell’articolo 13 proclama l’inviolabilità della libertà personale.
Ne viene in tal modo in primo luogo affermata l’appartenenza al genus dei diritti che l’articolo 2 della Costituzione pone considera architrave del patto sociale del nostro Paese e che la Repubblica nel suo testo fondamentale e tendenzialmente immodificabile non solo “riconosce” ma si impegna a “garantire”.
Va sottolineato che l’uso del termine “riconoscere” implica che i diritti inviolabili preesistono alla stessa Costituzione e sono insiti in qualsiasi tipo di consesso sociale. Eventuali modifiche limitative di tali diritti implicherebbero dunque non una semplice revisione del testo costituzionale ma il sovvertimento dell’ordinamento: i diritti inviolabili non possono essere oggetto di revisione costituzionale, in quanto costituiscono fondamento dello Stato democratico (Corte cost., sentenza n. 366 del 1991).
Le corrispondenti norme contenute nelle Carta fondamentali internazionali e convenzionali mettono in correlazione il concetto di libertà con quello di sicurezza (“Ogni individuo ha diritto alla libertà e alla sicurezza della propria persona”: art. 9 del Patto ONU; “Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza”: art. 5 Cedu), senza specificazioni sul fatto che la libertà di cui si tratta sia quella “personale”; manca altresì ogni riferimento al predetto concetto di inviolabilità.
Non manca chi spiega la mancanza di riferimento alla libertà personale sottolineando che la norma costituzionale sarebbe in questa parte superata, in quanto ormai si dovrebbe parlare di libertà al plurale, ricomprendendovi anche altre fondamentali declinazioni dell’individuo oltre alla libertà personale in senso stretto; in tal senso, le norme internazionali richiamate costituirebbero un presidio più aggiornato ed omnicomprensivo rispetto a quello offerto dall’articolo 13.
Quest’ultima ha indubbiamente una valenza assai più specifica e come detto in precedenza nasce come libertà di non essere sottoposti a coercizione fisica, come si evince con chiarezza dal secondo comma, ove le restrizioni alla libertà personale sono individuate in detenzione, ispezione e perquisizione, anche se l’elenco non è esaustivo (si parla infatti a chiusura di “qualsiasi altra forma di restrizione della libertà personale”).
L’interpretazione tradizionale data dalla giurisprudenza costituzionale alla norma in esame è dunque che tutte le prestazioni imposte all’individuo che non attengono al ristretto ambito sopra delineato trovano tutela – assai meno stringente – in altre previsioni costituzionali, quali quelle degli articoli 16, 23 e 32.
Il regolamento di confini tra le norme richiamate e il diritto inviolabile sancito dall’articolo 13 è tema di strettissima attualità in una fase storica in cui, a seguito della pandemia degli ultimi anni, sono state emanate una rilevante serie di norme volte a comprimere in modo molto rilevante la gran parte di diritti individuali che si credevano intangibili (il punto sarà approfondito nell’ultimo paragrafo di questo commento).
Va peraltro rilevato che, come dalla stessa Corte Costituzionale (sentenza n. 105 del 2001) rilevato a proposito della delicata questione dei centri di trattenimento degli stranieri, anche compressioni delle libertà di circolazione o altre analoghe rientrano nell’alveo della tutela dell’articolo 13 allorquando siano talmente stringenti da determinare di fatto una detenzione o, cosa ancora più importante, quando vengano a ledere la sfera della dignità.
Da questa apertura è scaturita in dottrina la conclusione che rientrino nell’alveo della libertà personale non più solo il diritto alla integrità fisica ma anche quello alla libertà morale, che al pari della prima non può essere mortificato o annullato ad opera dello Stato o di suoi rappresentanti. Tale posizione appare attualmente minoritaria, preferendo la maggior parte dei commentatori della norma riferire anche i trattamenti degradanti sopra descritti alla sfera della coercizione fisica, nonostante un’esplicita – ma isolata – apertura della Corte alla libertà morale tout court (sentenza 30 del 1962).
Un ampliamento della sfera di tutela dell’articolo 13 della Costituzione comporterebbe la possibilità di ricondurre all’alveo dell’inviolabilità le ulteriori declinazioni della personalità (diritto alla vita, diritto alla propria identità sessuale ed altre) allineando la norma costituzionale alle previsioni internazionali di cui si è detto.
- La riserva di legge e la riserva di giurisdizione.
Proclamare l’inviolabilità di un diritto non significa naturalmente sancirne l’intangibilità, ed infatti lo stesso articolo 13 della Costituzione, nel disciplinare analiticamente i limiti alle restrizioni della libertà personale implicitamente ammette che tali restrizioni vi possano essere e che siano pienamente ammissibili, in presenza di determinate condizioni.
E’ però indispensabile che gli interventi di compressione del diritto siano limitati a casi tassativi e giustificati da ragioni predeterminate; occorre inoltre che la potestà di intervento sia limitata ad organi specifici in grado di garantire da ogni abuso (come detto, all’origine del writ sull’habeas corpus del 1679 vi era la esplicita necessità di non consegnare tale potestà agli abusi “degli sceriffi”).
Agli scopi indicati servono in particolar modo la riserva di legge e la riserva di giurisdizione previste dall’articolo 13 al secondo comma.
La riserva di legge, limitando gli interventi del potere esecutivo e concentrando la potestà di intervento in capo al potere legislativo, sottolinea la necessità che questa delicata materia sia sempre espressione della più ampia volontà popolare e non della maggioranza di Governo del momento.
Viene dunque esclusa, secondo la lettura della norma da parte della Corte Costituzionale, la possibilità di una interposizione di discrezionalità amministrativa tra norma ed atto applicativo.
Secondo l’interpretazione rigorosa, discenderebbe dalla riserva di legge una limitazione anche dei fini per cui il legislatore può imporre restrizioni alla libertà personale: sarebbero ammessi solo interventi finalizzati ad interessi di rango costituzionale (riserva di legge rinforzata). Altra parte della dottrina ritiene invece che gli interventi del legislatore possano riguardare qualsiasi finalità: sarebbero ammessi, ad esempio, provvedimenti limitativi della libertà personale per motivi di buon costume.
La riserva di giurisdizione attribuisce il potere di limitare o annullare la libertà personale in via esclusiva all’autorità giudiziaria: ogni volta che si interviene su questo diritto fondamentale occorre dunque un provvedimento di un magistrato.
Secondo alcuni per autorità giudiziaria dovrebbe intendersi solo la magistratura giudicante ed occorrerebbe dunque un provvedimento del giudice, non essendo sufficiente quello del Pubblico Ministero. In merito, appare sufficiente osservare che la norma costituzionale prevede tra le forme di limitazione della libertà personale esplicitamente ispezioni e perquisizioni, atti di competenza della magistratura inquirente secondo il nostro codice di rito.
Interessante notare che alcuni commentatori della norma fanno discendere dal principio in esame altresì il diritto alla revisione del provvedimento limitativo della libertà da parte della Corte di Cassazione (con rinvio implicito all’articolo 111 della Costituzione) e persino del Tribunale per il Riesame.
- I limiti della libertà personale derivanti dal processo penale: dalla carcerazione preventiva alle misure cautelari.
Tutti gli ordinamenti giuridici prevedono che il soggetto riconosciuto colpevole di un reato possa essere assoggettato ad una pena detentiva: la privazione della libertà personale è anzi la risposta di gran lunga prevalente della collettività alla violazione dei precetti che sono inseriti nel codice penale.
Aver circoscritto la privazione della libertà personale all’ambito penale è peraltro conquista relativamente recente, poiché come noto sia nel diritto romano che in tutti gli ordinamenti più risalenti tale tipo di sanzione assisteva anche molti illeciti civili (basti pensare all’arresto per debiti, ancora presente nell’ordinamento italiano in tempi moderni, tanto che il legislatore del nostro codice di procedura penale ha nel 1989 ritenuto ancora necessario specificare, all’articolo 214 delle disposizioni di attuazione, che “sono abrogate le disposizioni di leggi o decreti che prevedono l’arresto o la cattura da parte di organi giudiziari che non esercitano funzioni penali”).
La Costituzione riserva la disciplina della pena ad altre previsioni (articoli 25 e 27) e non ne fa menzione nell’articolo 13, non certo perché non considera la sanzione irrogata al termine del processo una vera e propria privazione della libertà personale, quanto piuttosto perché era all’epoca così indissolubile il legame tra pena e detenzione che non meritava di essere menzionato nella norma dedicata alle restrizioni alla limitazione della medesima.
La norma costituzionale in commento si occupa invece, opportunamente, delle ipotesi in cui l’effetto della pena è anticipato ad un momento antecedente l’affermazione della responsabilità penale: si tratta dei casi che, con terminologia oggi ritenuta obsoleta, l’ultimo comma della norma in commento definisce “carcerazione preventiva” e che nei lavori preparatori dell’assemblea costituente era stata evocata come “immoralità necessaria” (Ferrara).
Immoralità che consiste non nella detenzione in sé, ma nella sua esecuzione prima di avere accertato la responsabilità dell’imputato.
E’ in ogni caso evidente che per i legislatori costituenti le misure cautelari avevano un legame molto più forte con la pena finale, di cui costituivano applicazione “preventiva”, rispetto a quanto si ritiene oggi.
Al di là delle scelte lessicali (oggi nessuno definirebbe più le misure cautelari come forma di carcerazione preventiva), in questa sede appare opportuno sottolineare che l’articolo 13 della Costituzione menziona e dunque ritiene perfettamente compatibile con il nostro ordinamento giuridico provvedimenti volti a limitare o annullare la libertà personale come conseguenza della commissione di reati, anche prima che vi sia stata una formale e irrevocabile affermazione della responsabilità.
L’unico limite posto dalla norma costituzionale è che questa privazione della libertà non si protragga a tempo indefinito: è dunque demandato al legislatore il compito di stabilire dei termini massimi di vigenza della misura adottata.
Incidere, sia pur temporalmente, sul più sacro dei diritti costituzionali o anche semplicemente comprimere tale diritto, in assenza della certezza processuale di avere di fronte il colpevole del reato sembra un controsenso.
Anche la presunzione di innocenza è infatti un principio costituzionale, dal quale dovrebbe discendere de plano l’impossibilità di qualsiasi compressione della libertà personale prima che sia terminata la fase processuale con una sentenza di condanna non più impugnabile.
Tuttavia, è altrettanto vero che la proclamazione della responsabilità penale non può prescindere da un accertamento serio, approfondito e in cui sia garantito il pieno rispetto del contraddittorio (anche in questo caso sono in gioco principi tutelati costituzionalmente).
Questo tipo di processo comporta l’impiego di un notevole lasso di tempo: la formazione della prova richiede la massima attenzione e, nonostante i principi di oralità ed immediatezza che informano il nostro sistema processuale, un’attenta ponderazione sia nella fase delle indagini che in quella del dibattimento.
Prima ancora della formazione in contraddittorio e della valutazione, le prove devono essere raccolte, ed in una fase ancora antecedente cercate e individuate, in quella fase delicata e importante del processo denominata nel nostro attuale sistema processuale penale “indagini preliminari”.
E’ pertanto fondamentale preservare tutta la fase delle indagini, nonché quella del dibattimento, dal pericolo che le prove siano occultate, nascoste, manipolate, distrutte, distorte: ed è inevitabile che sia proprio chi ha commesso il reato ad essere interessato ad un accertamento incompleto o distorto.
Sorge dunque la necessità di “proteggere” (rectius: “cautelare”) il procedimento penale dalle possibili aggressioni del suo attore principale: l’indagato/imputato.
A ciò va aggiunto che, laddove si raccolgano elementi consistenti su una persistente attività delinquenziale dello stesso soggetto lo Stato è chiamato ad intervenire per evitare che il tempo occorrente per lo svolgimento del giusto processo comporti un prezzo eccessivamente alto per la collettività e l’ordine pubblico.
In queste ipotesi è richiesto all’autorità giudiziaria un vaglio degli atti di indagine al fine di verificare la fondatezza della ricostruzione accusatoria, anche se questo accertamento non può e non deve essere pregnante ed approfondito come quello richiesto al giudice del processo per giungere ad una sentenza di condanna.
Non è necessaria, in altri termini, la prova del reato per cui si procede.
La misura cautelare non ha infatti lo scopo di punire taluno per un delitto commesso, ma quello – ben diverso – di garantire la genuinità dell’accertamento della colpevolezza mentre questo accertamento è ancora in fieri.
Secondo alcuni, tuttavia, l’adozione di provvedimenti limitativi della libertà personale stride così fortemente con la presunzione di innocenza da rendere sospetti di illegittimità tutti i tipi di interventi di questo genere, viziati dal paradosso per cui si sottopone taluno a privazione di diritti pur presumendo, a norma dell’articolo 27 della Costituzione, che egli non abbia commesso alcun reato.
Il punto di compromesso, che trova il suo fondamento in una corretta composizione delle norme costituzionali richiamate ed è sancito dal nostro codice di procedura penale è che si può intervenire quando si ha una ragionevole probabilità della sussistenza della colpevolezza, anche se manca ancora la certezza che solo la celebrazione di un processo in contraddittorio ed il perfezionamento dell’iter processuale possono fornire.
La richiesta di applicazione di una misura cautelare avanzata dal Pubblico Ministero pone il giudice ad un dilemma apparentemente insolubile: questi è chiamato ad applicare una pena senza avere le prove, al fine di consentire al Pubblico Ministero di acquisire le prove che legittimeranno ex post il suo intervento.
Non stupisce dunque che le norme sulle misure cautelari siano state oggetto di continue e contrastanti riforme, oscillanti periodicamente tra esigenze opposte e difficilmente conciliabili.
E’ infatti evidente che quanto più si innalza lo standard richiesto per l’adozione di una misura cautelare, tanto più si evita il rischio predetto di ingiuste detenzioni, ma si rende per altro verso inefficace in concreto lo strumento cautelare limitandone la sfera di applicazione ai soli casi di compendio indiziario particolarmente evidente e facendone un inutile duplicato del concetto di prova.
A contrario, un’interpretazione troppo permissiva di tale standard, aumentando sensibilmente i casi in cui si adotteranno misure cautelari, rende lo strumento assai più incisivo a scapito delle istanze garantiste e di tutela della libertà personale ed avvicinando pericolosamente il concetto di indizio a quello di mero sospetto.
Attualmente è in attesa di celebrazione un referendum abrogativo delle più importanti ipotesi previste in tema di esigenze cautelari: in particolare, si vorrebbe abrogare la possibilità di adottare una misura cautelare per il rischio di reiterazione del delitto, proprio perché è ritenuta esigenza contrastante con la presunzione di non colpevolezza.
Da altra parte si obietta che, in caso di abrogazione della norma in esame, non vi sarebbe più la possibilità di tutelare sicurezza ed ordine pubblico.
- Libertà personale e sicurezza collettiva.
La sicurezza collettiva è in effetti da sempre il pendant della libertà personale, e gli interventi legittimi del legislatore a detrimento della seconda sono pressocché sempre giustificati con l’esigenza di garantire il superiore interesse collettivo alla pacifica convivenza sociale.
Il nostro ordinamento ha vissuto diverse stagioni emergenziali, dal terrorismo interno alla criminalità organizzata e, più di recente, al terrorismo internazionale, che hanno portato interventi legislativi tesi generalmente a sottrarre all’autorità giudiziaria la discrezionalità nelle decisioni sulla libertà personale, sostituite da automatismi: si pensi alle alterne vicende dell’articolo 275, terzo comma del codice di procedura penale, norma che impone al giudice l’adozione della misura custodiale massima in presenza di gravi indizi di colpevolezza di determinati reati.
A fungere da contrappeso a queste scelte legislative è spesso intervenuta la Corte costituzionale, che ha ricordato sin da tempi ormai risalenti la “preferibilità di un sistema che demandi sempre al giudice il potere di valutare di volta in volta se il lasciare in libertà l’imputato determini un pericolo di entità tale da giustificarne la cattura e la detenzione” (sentenza 64 del 1970).
Coerentemente con questo enunciato, sono stati dichiarate incostituzionali numerose delle ipotesi inserite, tutte le volte che la Corte è stata sollecitata ad intervenire per valutare la legittimità costituzionale della presunzione di inadeguatezza di misure cautelari diverse dalla custodia in carcere, fino alla sacralizzazione di questo principio nel corpo della norma avvenuta a seguito della legge numero 47 del 2015.
In dottrina, è stato altresì rilevato che gli scopi preventivi di tipo sostanziale sono estranei alle finalità cautelari che governano i meccanismi de libertate, che vanno lasciati alla libera valutazione dell’autorità giudiziaria, pena la distonia con il disposto dell’articolo 13 della Costituzione (Di Chiara 2019).
- Le eccezioni alla riserva di giurisdizione: i provvedimenti provvisori emessi dalle forze dell’ordine.
Il punto di maggior torsione tra le esigenze di garanzia sottese alla riserva di giurisdizione e quelle di tutela dell’ordine pubblico si verifica quando la collettività è messa in pericolo dall’azione di un individuo in modo così grave ed immediato che non è possibile nemmeno attendere un provvedimento emesso dall’autorità giudiziaria in via cautelare.
Si tratta dei non rari casi in cui la risposta deve essere necessariamente affidata alle forze dell’ordine, il che ci riporta al punto di partenza da cui ha avuto origine il writ del 1679, richiamato nel primo paragrafo di questo commento, ovvero la necessità di prevedere una tutela dai possibili abusi negli arresti e dai ritardi nella consegna del soggetto privato della libertà all’autorità giurisdizionale.
Il problema è stato risolto dai costituenti con una disciplina ad horas che costituisce un unicum nella Carta fondamentale: è prevista una scansione “momento per momento” del procedimento che dall’atto di polizia che priva il cittadino della libertà personale porta alla presa in carico del soggetto da parte dell’autorità giudiziaria.
Viene innanzitutto esplicitato che i provvedimenti emessi da autorità di polizia sono consentiti solo “in casi eccezionali di necessità ed urgenza indicati tassativamente dalla legge”: il codice di procedura penale ha circoscritto tali casi alle ipotesi di arresto in flagranza di reato e di fermo di indiziato di delitto.
Solo quando si è in presenza di un delitto in corso di consumazione o appena consumato o se esiste un concreto pericolo di fuga è possibile privare un soggetto della libertà personale senza attendere il provvedimento dell’autorità giudiziaria.
Inoltre, se la situazione di eccezionale urgenza legittima l’adozione di provvedimenti siffatti, essi hanno comunque una durata estremamente limitata nel tempo, perché perdono efficacia se l’atto non viene trasmesso entro 48 ore all’autorità giudiziaria e se quest’ultima non lo convalida (ed eventualmente lo sostituisce con una propria ordinanza) entro le successive 48 ore.
Nel corso dei lavori dell’assemblea costituente si era discusso sulla opportunità di non costringere anche il giudice in un limite di tempo così stretto, paventandosi da parte di alcuni (Leone) il rischio che il giudice convalidasse il provvedimento senza la dovuta ponderazione.
E’ prevalsa però l’idea che fosse imprescindibile convalidare coprire in tempi brevissimi il provvedimento provvisorio, con una conseguente assunzione di responsabilità da parte del potere giudiziario.
Si tratta anche in questo caso di una forma di tutela notevolmente rafforzata dalla nostra Costituzione: l’articolo 26 dello Statuto albertino prevedeva la convalida ma in caso di accertamento da parte dell’autorità giudiziaria della mancanza dei presupposti per l’arresto eseguito non era prevista la liberazione del detenuto ma la molto più debole facoltà di richiedere alla Polizia Giudiziaria informazioni supplementari.
Dall’obbligo di convalida discende altresì, secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale, quello di fornire adeguata motivazione del provvedimento, anche al fine di consentire un vaglio a posteriori nonché adeguati strumenti riparativi in caos di mancata convalida o di riforma del provvedimento nelle fasi successive del giudizio.
Quattro giorni è dunque il limite massimo che la Costituzione ha posto per la validità della detenzione senza provvedimento di un giudice e dunque in deroga alla riserva di giurisdizione.
In questo termine deve altresì essere assicurata l’instaurazione del contraddittorio: ciò discende da altra disposizione costituzionale, l’articolo 24, che al secondo comma statuisce che “la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”.
Entro i termini strettissimi previsti dall’articolo 13 della Costituzione il soggetto privato della libertà personale deve dunque essere interrogato alla presenza di un difensore, prima che il giudice proceda alla eventuale convalida. Ad ulteriore garanzia, l’interrogatorio deve essere registrato.
Va però rilevato che, attraverso le ulteriori previsioni codicistiche dell’obbligo immediato di avvisare il difensore designato dall’arrestato (o di quello di ufficio) e della prassi di avvisare immediatamente dell’arresto il Sostituto Procuratore di turno si realizza una sorta di contraddittorio anticipato che coinvolge sin dai primi momenti dopo l’intervento sulla libertà personale le due future parti processuali più importanti. Si realizza in tal modo un’anticipazione della garanzia costituzionale disegnata dalla norma in esame.
Il provvedimento provvisorio in esame deve inoltre essere limitato ai soli delitti più gravi, anche se l’elenco di tali delitti (articolo 380 del codice di procedura penale) si è da ultimo arricchito con l’inserimento del reato di omicidio stradale (aggiunto dalla legge 23 marzo 2016, numero 41).
Trattasi, va rilevato, di un’ipotesi del tutto eccentrica rispetto alle originarie previsioni, in quanto prevede come obbligatorio l’arresto e quindi colpisce con la privazione del diritto costituzionale più importante il soggetto che è sospetto responsabile di un evento attribuibile a titolo di colpa. Appare difficile ricondurre questa ipotesi alle ragioni di eccezionale urgenza e pericolo per l’ordine pubblico richieste dalla norma costituzionale.
- Il divieto di violenze sui detenuti.
Ad ulteriore riprova che il focus della norma costituzionale sulla libertà personale è incentrato sulla tutela dagli abusi compiuti dall’autorità sull’individuo posto in stato di soggezione legale, il penultimo comma della norma in commento proclama il ripudio di ogni forma di violenza fisica e morale su chi si trova in stato di detenzione.
La scelta di inserire un principio del genere nella Carta fondamentale è ancora una volta frutto del periodo di dittatura fascista che all’epoca della scrittura della norma era appena terminato, tanto che durante i lavori preparatori a chi sostenne che la materia era di pertinenza codicistica si obiettò che nell’Italia appena uscita da venti anni in cui della libertà personale si era fatto strame non si poteva dare per scontato che lo Stato non usasse violenza su dei cittadini inermi.
Interessante rilevare che nella discussione emerse l’idea di inserire in Costituzione l’obbligo per gli aspiranti magistrati di compiere una parte del tirocinio presso gli istituti penitenziari, per sensibilizzarli alle conseguenze anche fisiche dei destinatari dei provvedimenti che avrebbero adottato nel corso delle funzioni che si accingevano a svolgere.
Anche se questa proposta non fu coltivata (ma la Scuola Superiore della Magistratura organizza attualmente appositi stage presso le case circondariali; né va dimenticata la meritoria iniziativa della Corte Costituzionale che qualche anno fa promosse un “viaggio nelle carceri” per sensibilizzare l’opinione pubblica e la magistratura al tema), si ritiene che un’interpretazione attenta della norma costituzionale in esame comporti l’attribuzione all’autorità giudiziaria del potere di direzione e controllo sulle condizioni dei detenuti.
Non a caso, l’articolo 285 del codice di procedura penale definisce lo stato di detenzione come quello di chi è “a disposizione dell’autorità giudiziaria”: ne discende che non può essere l’autorità penitenziaria a stabilire in concreto le modalità di detenzione ed il regime cui assoggettare i detenuti.
A tutela del principio costituzionale in esame deve essere inoltre ascritta la norma del codice di rito che impone la registrazione di ogni tipo di interrogatorio cui è sottoposto un indagato sottoposto a misura cautelare (articolo 141 bis).
La norma costituzionale in esame ricollega dunque il concetto di libertà personale a quello di dignità umana.
- La libertà personale ai tempi della pandemia.
La pandemia che ha caratterizzato gli ultimi due anni ha modificato indirettamente la percezione dei diritti fondamentali degli individui, al pari delle altre emergenze in precedenza menzionate (terrorismo, criminalità organizzata).
In particolare, si è assistito ad un proliferare di provvedimenti legislativi e governativi che, nel tentativo di arginare i contagi, ha imposto sensibili restrizioni alla libertà di circolazione disciplinata dall’articolo 16 della Costituzione, prevedendo in alcuni periodi un “obbligo si permanenza domiciliare”, consistente in un divieto pressocché assoluto di lasciare il proprio domicilio o all’isolamento coatto di tutti coloro che, pur non contagiati, avevano avuto contatti con soggetti affetti dal Covid.
Tali misure sono state portate all’attenzione dei giudici di merito, anche perché era stata prevista in un primo momento una sanzione penale per chi avesse violato le stesse: una pronuncia di un GIP, nel ritenere non punibile chi aveva dichiarato il falso nella autocertificazione che si doveva tenere con sé per potere allontanarsi dal domicilio, aveva motivato il provvedimento con la disapplicazione della norma per contrasto con l’articolo 13 della Costituzione.
Anche una parte della dottrina aveva rilevato che era stata imposta una generalizzata e molto significativa compressione della libertà individuale a tutti gli individui a tutela dell’interesse alla salute pubblica, assurto in una fase di emergenza senza precedenti negli anni di vigenza della Carta Costituzionale a valore primario e prevalente sul diritto inviolabile alla libertà personale.
Oltre al ritenuto sovvertimento, per quanto emergenziale, della gerarchia dei valori in dicato dai costituenti si è messo l’accento sul temporaneo abbandono di uno dei presidi posti dalla norma a tutela del diritto, quello della riserva di legge (le linee programmatiche della normativa di emergenza sono state dettate dal succedersi, dal alcuni commentatori definito “convulso”, dei DPCM).
In merito, deve essere rilevato che i provvedimenti in questione sembrano comunque riconducibili ad una compressione della libertà di circolazione, protetta dall’articolo 16 della Costituzione (norma assistita da garanzie naturalmente meno stringenti di quelle previste dalla libertà personale) e non rientrano nell’alveo del diritto inviolabile alla libertà personale, risolvendosi in una compressione della libertà di movimento dell’individuo più che nella aggressione alla integrità fisica o alla dignità che sono i valori protetti dalla norma in commento, come evidenziato nei primi paragrafi di questo scritto.
Quanto detto sarebbe di per sé sufficiente a togliere rilievo anche alla critica incentrata sulla presunta violazione della riserva di legge rinforzata. In ogni caso, sul punto si è espressa di recente la Corte Costituzionale (sentenza 198 del 2021), rilevando che i decreti, “lungi dal delegare impropriamente la funzione legislativa dal Parlamento al Governo, hanno attribuito a quest’ultimo unicamente il compito di dare esecuzione alla norma primaria mediante atti amministrativi sufficientemente tipizzati, precludendo l’assunzione di provvedimenti extra ordinem”.
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Costantino De Robbio è nato nel 1969, è in magistratura dal 1997. Ha lavorato per dieci anni come Pubblico Ministero alla Procura di Termini Imerese e alla Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo, occupandosi di criminalità organizzata e di misure di prevenzione patrimoniali antimafia. Dal 2008 al 2013 ha svolto servizio come Giudice penale al Tribunale di Latina con funzioni di Giudice di Corte di Assise, Giudice di Tribunale e poi di G.I.P.. Dal 2013 al gennaio del 2020 è stato G.I.P. al Tribunale di Roma. Ha ricoperto la carica di Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati di Roma e del Distretto del Lazio. Dall’ottobre 2011 al 2015 è stato referente della formazione decentrata per il distretto della Corte di Appello di Roma. Dal 2011 al 2016 è stato curatore unico della mailing list “formazionedecentratapenale”, che quasi quotidianamente ha inviato, durante la sua gestione, aggiornamenti sulla giurisprudenza di legittimità e di merito e divenuta sotto la sua direzione la più importante mailing list per magistrati di carattere scientifico esistente in Italia, con 2500 magistrati iscritti. La S.S.M. lo ha coinvolto sin dalla sua istituzione in molteplici attività di formazione, in tutti i ruoli esistenti: come relatore per la formazione permanente e per la formazione iniziale nonché per i corsi di riconversione, come Coordinatore di Gruppi di lavoro, Esperto Formatore, nonché Coordinatore e Tutor per i MOT. A tale dato vanno aggiunte le numerose esperienze come relatore per quasi tutte le Formazioni Decentrate. Il contributo didattico fornito, lungi dall’essere limitato ad un settore specializzato, è stato richiesto per tutti i settori del diritto penale e della procedura penale nonché per materie di carattere spiccatamente organizzative. E’ autore di numerose monografie (4 negli ultimi anni) ed articoli di diritto penale e procedura penale. Due delle opere sono state inserite nella biblioteca della Corte Costituzionale per il particolare pregio riconosciuto alle stesse. Ha inoltre partecipato come coautore a numerose opere collettive (due nel solo 2019) ed ha scritto numerosissimi articoli per riviste giuridiche. Ha svolto incarichi di docenza in tutte le Università di Roma ed in numerose Università italiane; è titolare da diversi anni di un corso presso l’Università Alma Mater di Bologna nell’ambito di un Master di II livello in materia di contrasto patrimoniale alla criminalità organizzata. Ha svolto funzioni di relatore in centinaia di convegni negli ultimi anni. Da sempre partecipa ad incontri di promozione della cultura della legalità presso le scuole di ogni grado ed è stato tra i promotori ed organizzatori della “Notte Bianca della legalità” evento che ha portato nel maggio 2015 e nel maggio 2016 oltre 4000 studenti al Tribunale di Roma per una giornata dedicata alla legalità.