L’art. 11 della Costituzione

Commento all’art.11 della Costituzione

di Paolo Bruno, Magistrato, Consigliere per la giustizia e gli affari interni alla Rappresentanza Permanente d’Italia presso l’Unione Europea

 

Art.11 – L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

Abstract: Osservandolo da angolazioni diverse, l’art.11 della Costituzione rivela la sua straordinaria attualità e induce l’interprete ad approfondirne le molteplici anime. Per comprenderlo appieno non ci si può fermare, infatti, alla sola analisi storica – che pure ne disvela la solidità e la capacità di adattamento al mutare dei contesti geopolitici – ma occorre esaminarne la fisionomia tanto da un punto di vista interno (il diverso atteggiarsi dei concetti di guerra e sovranità nazionale, le limitazioni di quest’ultima, le clausole europee, le dinamiche parlamentari rispetto al coinvolgimento del nostro Paese in contesti bellici) quanto nella sua proiezione esterna (l’apertura verso le organizzazioni internazionali, il cammino comunitario della giurisprudenza costituzionale, la reciprocità nei rapporti con i partner regionali e globali). È solo al termine di questo percorso, non privo di ostacoli, che si riesce a cogliere la forza di un disposto nato per testimoniare la discontinuità con un tragico passato bellico e per esprimere l’anelito ad un futuro di pace da costruirsi anche con l’aiuto – e nel contesto – delle nuove forme di aggregazione sovranazionale.

Parole chiave: art.11, sovranità, guerra, clausole europee, organizzazioni internazionali

Sommario: 1. Introduzione. 2. La natura composita o unitaria della norma. 3. Il ripudio della guerra. 4. Le limitazioni di sovranità in un contesto internazionale in continua evoluzione. 5. Dal ripudio della guerra alle missioni di pace. 6. Conclusioni.

 

  1. Introduzione

L’invasione russa dell’Ucraina, iniziata nei giorni in cui questo contributo ha visto la luce, ha reso di ancor maggiore attualità una disposizione della Costituzione italiana che – nata dall’esigenza di chiudere il tragico capitolo della Seconda guerra mondiale, che aveva visto l’Italia tra le nazioni sconfitte, e di guardare con speranza ad un futuro di ricostruzione e pace – aveva raccolto tra i Costituenti un consenso unanime, senza distinguo di aree politiche e di orientamenti culturali, rispetto all’introduzione di un principio che sancisse una netta cesura con il passato bellico del nostro Paese.

La stessa scelta dei termini usati per comporre l’art.11 – affidata al confronto nella Commissione dei 75 ed in Assemblea – rivela come la struttura della norma sia stata costruita con l’intento espresso di dare ad ognuno di essi un preciso significato, senza tuttavia privarla di quel margine di flessibilità necessario a fare sì che essa potesse resistere al rapido evolversi degli scenari internazionali e ad ospitare tutte le diverse sensibilità che in sede costituente trovarono una mirabile sintesi.

L’art.11 è, da questo punto di vista, una norma che riserba molteplici sorprese all’interprete; non solo, come si è detto, per la sua straordinaria capacità di conservare sempre attuale il suo messaggio rispetto al mutare degli scenari geopolitici ed internazionali nei quali il nostro Paese è coinvolto, ma anche per la sua attitudine a fungere da valvola di sicurezza nei rapporti tra l’Italia ed i suoi alleati.

Collocata tra i principi fondamentali della nostra Carta, rappresenta quella che non a caso è stata definita come “la più intima essenza del nostro ordinamento costituzionale[1].

 

  1. La natura composita o unitaria della norma.

Il dibattito sulla natura programmatica o precettiva dell’art.11, che non ha avuto ad oggetto unicamente questa norma e che comunque può considerarsi concluso con la constatazione che la stessa non necessita di intermediazioni per spiegare tutta la sua efficacia[2], si è affiancato ad altro che con la stessa intensità ha stimolato la dottrina.

L’attenzione si è infatti rivolta anche alla coerenza sostanziale e formale del suo enunciato, ed in particolare all’ipotesi che la disposizione di cui trattasi potesse comporsi di più postulati indipendenti tra loro (rispetto all’opposta opinione che si trattasse di un unico principio): dal che discenderebbe un diverso atteggiarsi della stessa, per legittimare interpretazioni diverse e finanche diametralmente opposte del messaggio che essa intende veicolare.

Ed invero, secondo una prima tesi le varie proposizioni di cui si compone la norma sarebbero concatenate tra loro al fine di esprimere un unico pensiero coerente che parte da un postulato (il ripudio della guerra) ed arriva a delle enunciazioni (consenso a limitazioni di sovranità e atteggiamento proattivo rispetto allo sviluppo di organizzazioni internazionali con un dato fine) che sono tra loro poste in rapporto di mezzo a fine.

Secondo altra tesi, le enunciazioni di cui sopra derogherebbero al postulato iniziale e dipingerebbero un quadro costituzionale in cui il principio del ripudio della guerra sarebbe in alcuni casi pretermesso da una cessione di sovranità funzionale alla legittimazione della partecipazione ad una guerra[3]; si tratterebbe – come osservato dalla migliore dottrina – di una interpretazione in alcuni casi motivata dal richiamo ad un “primo e secondo comma riguardo ad una disposizione nella quale non esistono commi e neppure parti separate” e inequivocabilmente volta “al preciso scopo di neutralizzare il valore forte del ripudio[4].

Sennonché, molteplici elementi militano in favore dell’unitarietà dell’art.11.

Sul piano della costruzione sintattica non si è mancato di far notare che – sebbene il testo abbia subito plurimi rimaneggiamenti – il risultato finale testimonia di una formulazione in cui le differenti proposizioni si tengono l’un l’altra piuttosto che escludersi o porsi tra loro in rapporto di regola ad eccezione. La stessa scelta della punteggiatura è emblematica: se si eccettuano due virgole (peraltro necessarie per ragioni metriche) l’articolo ha solo due punti e virgola che separano le tre frasi di cui si compone.

Dal punto di vista contenutistico, poi, si nota un’armoniosa progressione tra il principio (dirompente, considerato il momento storico in cui fu enunciato) del ripudio della guerra e le proposizioni conseguenti, tutte orientate a realizzarlo. In questo senso, proprio perché l’Italia ripudia la guerra – ed una tale presa di distanza non può consumarsi nell’intima convinzione di chi la esprime ma necessita di azioni positive – essa accetta di cedere quote di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni, e (quindi) promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

Si tratta di una sequenza di grande impatto emotivo, strutturata – come è stato osservato[5] – secondo un modello che prevede un obbligo di astensione (ripudio della guerra), un’autorizzazione ad un’ablazione (cessione di sovranità) e un obbligo di fare (promuovere le organizzazioni internazionali).

Il messaggio è chiaro: lasciandosi alle spalle un passato nazionalista e guerrafondaio che ha portato il Paese ad una catastrofe umanitaria ed economica, il ruolo dell’Italia nel nuovo ordine mondiale non potrà essere meramente passivo – come si converrebbe a chi prende atto del fallimento delle proprie politiche nazionaliste ma non si adopera per invertirne la tendenza – ma nemmeno neutrale (ciò di cui si parlerà più avanti): deve essere, invece, un atteggiamento proattivo, genuinamente orientato al creare le condizioni per una adesione allo spirito libertario di quegli ordinamenti il cui fine precipuo è proprio di “assicur[are] la pace e la giustizia tra le Nazioni”.

 

  1. Il ripudio della guerra.

Si è accennato sopra alla costruzione sintattica dell’articolo 11, e si è osservato che l’unica interpretazione fedele allo spirito e alle intenzioni dei Costituenti è quella che vi rinviene un unico impegno solenne, di certo composito nella sua formulazione letterale ma unitario nell’intento di aprire al mondo esterno l’Italia del dopoguerra, facendola uscire dall’infausto circolo delle Nazioni sconfitte[6].

Ed è proprio su questo terreno che – come emerge limpidamente dal dibattito nella Commissione dei 75 e in Assemblea – ci si confrontò sul termine da utilizzare per marcare quella cesura di cui si diceva, alfine convenendosi che i verbi “rinuncia” o “condanna” per quanto netti non compendiassero esattamente tutte le sfumature dei sentimenti espressi dal ripudio.

Quest’ultimo, evidentemente, nell’includere le alternative anzidette, le superava ed esprimeva – come in effetti emerge chiaramente – un quid pluris: “l’abbandono della proiezione, mai rinunziata, della sovranità statale oltre i confini statali (…) e una nuova concezione della convivenza umana[7].

Peraltro, sul punto si è anche notato che il termine “rinuncia” avrebbe fatto pensare a qualcosa che lo Stato deteneva (quasi fosse un diritto) e del quale si sarebbe spogliato: ciò che invece non corrispondeva all’intima convinzione dei Costituenti, tutti concordi nell’esprimere un netto cambio di prospettiva rispetto alla precedente storia del nostro Paese[8]. Ed invero, il termine – vero centro di gravità dell’articolo – “esprime al massimo grado sia la condanna di una certa azione, che la rinuncia alla stessa (…) perché quando si ripudia qualcuno o qualcosa è evidente l’intenzione di allontanarsene in via definitiva e senza possibilità di ripensamenti, con una negazione totale, che presuppone un’estraneità quasi ontologica[9].

Come evidenziato da autorevole dottrina, il ripudio della guerra è riconosciuto come uno dei principi supremi del nostro ordinamento costituzionale e come tale prevale su ogni eventuale vincolo internazionale, da qualsiasi fonte provenga, e non può essere oggetto di revisione costituzionale[10]. Nello stesso senso si è affermato limpidamente che “qualunque evoluzione del diritto internazionale (sia formale che di origine consuetudinaria) non potrebbe, certamente, pregiudicare e svalutare l’istanza pacifista introdotta dalla prima locuzione dell’art.11 Cost.[11]

Va tuttavia chiarito un punto fondamentale, a proposito del concetto di ripudio.

La scelta fatta in sede costituente è quella di una ferma – direi irreversibile – presa di distanza dalla guerra offensiva, quella appunto che costituisce uno “strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e [come] mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”: il che non significa che l’Italia abbia fatto una scelta di neutralità vera e propria, come nel caso della Svizzera. Significa piuttosto che con la prima proposizione dell’art.11 ha fatto una scelta di campo, coerente con le due proposizioni successive, di non ricorrere alla guerra offensiva al fine di limitare la libertà di altri popoli e di non allontanarsi dal diritto internazionale quale via maestra per risolvere eventuali contenziosi con altri Stati.

L’osservazione non è di poco momento, e ci aiuta a gettare le basi per uno sviluppo del ragionamento che parte da una premessa pacifista ma approda alla possibilità che esistano teatri di guerra in cui l’Italia può operare (con piena copertura costituzionale).

È vero, come si osserverà più avanti, che la storia recente ha mostrato come quegli approdi siano stati talvolta travisati, ma è anche vero che fallace in tal caso non è il principio assunto dall’art.11 ma il modo in cui esso è stato applicato.

Ad ogni modo, tornando al concetto di ripudio della guerra quale strumento offensivo o anti-diplomatico, vale ribadire che esso esprimeva la piena adesione dei Costituenti al principio antibellicista e internazionalista che li accomunava, e che nel dibattito sull’art. 11 – di cui è traccia completa negli archivi[12] – non vi è mai stata una sostanziale incrinatura di questa armonia di intenti[13].

Per dirla con le parole di Togliatti nella seduta del 24 gennaio 1947, “In particolare, il principio della rinuncia alla guerra come strumento di politica offensiva e di conquista, oltre il fatto che è compreso in tutte le Costituzioni, deve essere sancito nella Costituzione italiana per un motivo speciale interno, quale opposizione cioè alla guerra che ha rovinato la Nazione”.

La scelta semantica dell’Assemblea costituente ha aperto la strada al mantenimento di un apparato bellico in funzione difensiva e dissuasiva, necessaria alla realizzazione di un altro importante principio costituzionale: quello dell’art.52, inserito tra le disposizioni in materia di rapporti politici, che identifica “la difesa della Patria [quale] sacro dovere” dei cittadini e che per oltre 140 anni ha richiesto a questi ultimi di esercitare obbligatoriamente il servizio militare[14].

 

  1. Le limitazioni di sovranità in un contesto internazionale in continua evoluzione.

Come si è anticipato, l’orientamento che ha prevalso in sede costituente è stato quello – certamente del tutto nuovo rispetto alla postura che il nostro Paese aveva mantenuto nel passato, e che l’aveva trascinato in una guerra fallimentare dagli esiti devastanti – di rinunciare al nazionalismo che l’aveva contraddistinto, e di farlo solennemente.

L’art.11 afferma pertanto che l’Italia “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni” e con ciò introduce un principio non assoluto, ma pragmaticamente agganciato alla ricorrenza di due condizioni: che la cessione di sovranità avvenga a condizione di reciprocità e che la stessa sia necessaria per consentire la partecipazione ad un ordinamento dai fini ben precisi.

Si tratta di una parte molto importante dell’art.11, nella quale si introduce per la seconda volta il concetto di sovranità, la stessa che – a mente dell’art.1 – appartiene al popolo, il quale la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione, e che viene parzialmente ceduta per confutare il “falso dogma della sovranità assoluta dello Stato, fonte e premessa di ogni ingiustizia e violenza internazionale[15].

Peraltro, già nel Manifesto di Ventotene se ne preconizzava il ridimensionamento, dal momento che “la sovranità assoluta degli Stati nazionali ha portato alla volontà di dominio di ciascuno di essi, poiché ciascuno si sente minacciato dalla potenza degli altri e considera suo spazio vitale territori sempre più vasti, che gli permettano di muoversi liberamente e di assicurarsi i mezzi di esistenza, senza dipendere da alcuno. Questa volontà di dominio non potrebbe acquetarsi che nella egemonia dello Stato più forte su tutti gli altri asserviti[16].

Ciononostante, il dibattito in sede costituente ha rivelato una certa ritrosia nell’abbracciare l’idea di una deminutio della sovranità nazionale e tanto si riflette nella formulazione della disposizione, che non ha assunto la fisionomia di una norma “in bianco”, legittimante una cessione gratuita di sovranità o l’accettazione di una relazione subalterna dell’Italia rispetto ai suoi alleati.

Al contrario, l’aver delimitato così chiaramente il perimetro entro cui i Costituenti hanno convenuto che l’anzidetta apertura verso gli altri ordinamenti fosse necessaria, contiene in sé il riconoscimento di una identità nazionale che non doveva essere dispersa ma semmai rimodulata nel nome di valori universali; quelli, appunto, della pace e della giustizia.

L’intento era dunque quello di muovere verso una forma diversa di sovranità, identitaria ma non assoluta e comunque comprimibile solo a condizione di reciprocità; tale cautela è evidentemente all’origine della stessa scelta dei termini, così diversi tra la prima e la seconda proposizione della norma (ripudia, da un lato, ma consente, e solo a determinate condizioni, dall’altro).

Orbene, la formulazione del secondo e del terzo periodo dell’art.11 (il quale ultimo stabilisce che l’Italia “promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”) sono intimamente legate, sono sostanzialmente un tutt’uno che muove da una necessaria precondizione – la limitazione della sovranità – per arrivare alla fase propositiva della nascita e sviluppo di organismi internazionali il cui scopo sia quello di assicurare pace e giustizia tra le Nazioni. Si assiste qui ad una evoluzione della postura del Paese, che dimostra al tempo stesso di volersi lasciare alle spalle la disponibilità a partecipare a guerre offensive e di imboccare deciso la strada del pacifismo attivo: quello non solo proclamato, ma perseguito nel contesto di organizzazioni internazionali a ciò dedite.

In parallelo, su scala regionale e mondiale si gettavano le basi per la nascita di nuove forme di integrazione al fine di trovare un nuovo ordine globale basato sulla pace, ed è proprio in questo scenario che in sede costituente si è ragionato sulla forma da dare ad una norma che assicurasse questa partecipazione.

Il tema era duplice: da un lato, restare agganciati al (e finanche favorire il) processo di aggregazione che il Manifesto di Ventotene aveva avviato; dall’altro, evitare che la partecipazione a forme di aggregazione regionale potesse implicitamente collocare il Paese in uno scacchiere troppo limitato. Soprattutto, ciò che si voleva evitare era un distanziamento dagli Stati Uniti, verso i quali il debito morale e materiale derivante dalla liberazione imponeva un atteggiamento di particolare attenzione.

La ricerca di questo delicato equilibrio traspare con tutta evidenza dalla lettura dei resoconti del dibattito in sede costituente: dalla richiesta dell’On. Lussu di fare specifico riferimento ad una “organizzazione europea ed internazionale” alla replica dell’On. Moro secondo cui “dicendo internazionale sono già comprese tutte le ipotesi[17]; dalla perplessità dell’On. Pieri, secondo cui “noi crediamo che l’O.N.U. sia in grado di evitare la guerra fra le nazioni minori, ma che non sia in grado di evitarla fra le nazioni maggiori, e che molto meglio servirebbe la causa della pace il movimento federalista europeo, in quanto verrebbe ad unificare quell’Europa che è stata finora il focolaio di origine delle recenti guerre[18] alla replica dell’On. Ruini ad avviso del quale “in questo momento storico, un ordinamento internazionale può e deve andare anche oltre i confini d’Europa. Limitarsi a tali confini non è opportuno di fronte ad altri continenti, come l’America, che desiderano di partecipare all’organizzazione internazionale[19].

La sintesi finale, come è noto, fu trovata menzionando le “organizzazioni internazionali”, come tali comprensive sia di quelle regionali che di quelle globali, ed andando dunque nella direzione di una norma che – per la sua onnicomprensività – si è prestata a fungere da clausola aperta rispetto alla partecipazione dell’Italia ad ordinamenti sovranazionali che soddisfacessero i requisiti previsti dalla norma medesima.

Orbene, questa disposizione non ha subito alcuna modifica durante lo sviluppo dell’integrazione europea, a differenza di altri Stati[20] che hanno previsto specifiche clausole costituzionali (c.d. clausole europee) che sostituissero o si affiancassero a quelle – più risalenti – rivolte alle organizzazioni internazionali esistenti all’epoca della loro redazione, anche al fine di evitare le problematiche procedurali e di natura sostanziale derivanti dalla ratifica dei trattati europei ed internazionali.

Non è questa la sede per una dettagliata ricognizione di tali problematiche, ma possono qui sinteticamente richiamarsi i dibattiti relativi all’autorizzazione alla ratifica dei trattati istitutivi delle Comunità europee e dell’Unione Europea (se necessitasse di una legge ordinaria o costituzionale) ed ai riflessi della ratifica sulle disposizioni costituzionali già esistenti (se le stesse dovessero essere emendate di conseguenza, o potessero sopravvivere al recepimento di quelle poste nei trattati)[21].

Ebbene, la giurisprudenza della Corte Costituzionale ha fatto leva esattamente sul richiamo alle cessioni di sovranità contenuto nell’art.11 per metabolizzare la sempre maggiore espansione dell’ordinamento europeo rispetto a quelle che un tempo erano aree di competenza strettamente nazionali (risultato non del tutto scontato dal punto di vista giuridico, se ci si fosse limitati a guardare alle modalità di ratifica ed esecuzione dei trattati istitutivi, avvenuta appunto con legge ordinaria, come fece da principio la Corte con la sentenza n.14 del 1964). E lo ha fatto con le successive pronunce del 1973 (n.183) e del 2010 (n.227) con le quali ha – rispettivamente – affermato che le limitazioni dei poteri dello Stato necessarie all’istituzione di una comunità tra Stati europei erano legittime alla luce dell’art.11 senza necessità di una legge costituzionale, e che detta norma costituisce il fondamento del rapporto tra ordinamento nazionale e comunitario.

Si tratta di quello che è stato non a caso definito il “cammino comunitario” della Corte costituzionale, che è arrivata per tale via a giustificare la rinuncia a spazi sempre più ampi di sovranità nazionale (anche delimitati da norme costituzionali) ponendo le basi per una successiva attività di adeguamento del nostro legislatore (che ha modificato alcune norme della Carta inserendovi appropriati richiami alle Istituzioni dell’Unione Europea ed ai vincoli derivanti dall’appartenenza alla stessa)[22].

 

  1. Dal ripudio della guerra alle missioni di pace.

L’attualità dell’art.11 va misurata rispetto ad alcuni fattori tra loro interconnessi: l’evoluzione degli scenari geopolitici in cui l’Italia si trova ad operare[23]; le nuove caratteristiche che sempre più spesso assumono gli scontri tra Nazioni sovrane, ed il nuovo approccio delle organizzazioni internazionali multilaterali rispetto alla tutela dei diritti umani.

Quanto al primo aspetto, è agevole ricordare che la fine della c.d. guerra fredda ha ridisegnato i rapporti tra Stati all’interno dei blocchi (est-ovest) e tra i blocchi medesimi, producendo nuove aggregazioni ma anche nuove tensioni. Le incertezze nella politica estera americana, il ruolo più assertivo della Cina, la nuova postura della Russia, l’allargamento della NATO e dell’Unione Europea, sono tutti fattori che hanno ridisegnato il panorama delle relazioni internazionali e degli interessi strategici e che rimettono in discussione il tradizionale coinvolgimento degli Stati rispetto a vicende che accadono anche a distanze considerevoli dai loro confini.

Il secondo profilo attiene alla constatazione che la guerra non è più (solo) quella combattuta sul campo, con le armi convenzionali, per cui occorre interrogarsi sulla perdurante validità dell’art.11 a sostenere il ruolo del nostro Paese in questi nuovi scenari, nei quali hanno fatto la loro apparizione le c.d. guerre asimmetriche.

Infine, e qui viene in gioco il terzo aspetto sopra citato, la postura dell’Italia e l’attualità della norma che stiamo analizzando vanno indagate con riferimento alla progressiva trasformazione del diritto internazionale classico ed all’emergere della consapevolezza dell’esistenza di diritti fondamentali che prescindono dal loro riconoscimento da parte di un ordinamento giuridico (premessa da cui si arriva all’affermazione di una sovranità dei valori che a sua volta apre la porta a tutta una serie di iniziative umanitarie che – implicando azioni di forza al di là dei confini nazionali delle Nazioni che vi partecipano – rimette in discussione il modello tradizionale di guerra e le relative regole di ingaggio).

Vero è che la guerra a cui pensavano i Costituenti era quella allora appena conclusa: la guerra di trincea, dell’artiglieria pesante, dei bombardamenti a tappeto. Ed è certamente a quel modello di scenario bellico che essi pensavano quando hanno deciso che l’Italia vi sarebbe stata coinvolta da allora in avanti solo per ragioni difensive.

Orbene, mentre l’art.2 della Carta delle Nazioni Unite stabilisce che “i Membri devono risolvere le loro controversie internazionali con mezzi pacifici, in maniera che la pace e la sicurezza internazionale, e la giustizia, non siano messe in pericolo” e che essi “devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite” l’art.51 precisa tuttavia che “nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale” e salvo il successivo intervento di quest’ultimo dopo la notifica di tali azioni.

Analogamente, l’art.5 del Trattato Nord Atlantico prevede che “le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell’America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti, e di conseguenza convengono che se un tale attacco si producesse, ciascuna di esse, nell’esercizio del diritto di legittima difesa, individuale o collettiva, riconosciuto dall’art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell’Atlantico settentrionale”.

Sennonché, come si anticipava sopra, questo modello di guerra è stato soppiantato negli ultimi decenni da diverse tipologie di conflitti (talvolta definiti “a bassa intensità”, talvolta “asimmetrici”) in cui alla tradizionale contrapposizione tra Stati sovrani si è sostituita – in un sempre maggiore disordine mondiale – una diversa concezione di scontro, quello tra Stati ed organizzazioni criminali, che riporta al centro delle riflessioni dei costituzionalisti e degli internazionalisti il concetto di guerra[24].

È oggi pacifico in dottrina che questa sia l’interpretazione dell’art.11 da ritenere, e che pertanto a costituzione vigente l’Italia possa partecipare ad azioni di guerra per difendere sé stessa ed un alleato da una violazione della propria integrità territoriale; il punto su cui, invece, si registrano le maggiori divergenze è proprio quello dei caratteri di tale violazione. Se, in altre parole, essa possa includere anche la partecipazione ad azioni umanitarie approvate dalle organizzazioni internazionali a cui partecipa, nel corso delle quali sia anche previsto l’impiego della forza armata.

Sembrerebbe in definitiva che non vi siano spazi interpretativi per ritenere che interventi ulteriori, rispetto a quelli di difesa individuale o collettiva – sia essa da attacchi armati o dalla minaccia dei medesimi – siano “coperti” dalla Costituzione; tuttavia, sono proprio le operazioni di tipo umanitario che hanno visto negli ultimi anni il maggior coinvolgimento delle democrazie occidentali al di fuori della propria sfera di azione territoriale, ed è in questo tipo di scenari che le maggiori perplessità sono state avanzate rispetto alla “tenuta” dell’art.11 della Costituzione.

Sono molteplici le occasioni, dal Rwanda alla Bosnia, dalla Somalia al Kosovo, in cui negli ultimi trent’anni si è assistito ad un proliferare di azioni umanitarie – talvolta condotte sotto l’egida delle Nazioni Unite ma spesso anche unilateralmente, confidando in una ratifica a posteriori – che compongono il panorama delle situazioni che possono essere considerate borderline rispetto alla copertura offerta dalle norme sopra letteralmente trascritte. Il tema abbraccia infatti le multiformi espressioni dell’interventismo internazionale, ovvero quelle peace support operations variamente declinate in peace keeping, peace enforcement o peace building, che superano (per giustificare l’intervento armato) il concetto stesso di guerra quale opposizione tra Stati e che sono dirette a reprimere le violazioni del diritto internazionale in vista dell’obiettivo del mantenimento della pace e della tutela dei diritti umani.

Secondo una teoria largamente accettata, l’impiego della forza armata non sarebbe più circoscritto esclusivamente alle situazioni che si caratterizzano per uno scontro tra Nazioni sovrane ma sarebbe esteso alle gravi violazioni dei diritti umani; si sarebbe dunque formata una consuetudine secundum legem o praeter legem che legittima l’intervento armato per far cessare l’emergenza umanitaria[25] e che trova la sua giustificazione nella dottrina della c.d. “responsabilità di proteggere” (responsibility to protect) che ha visto un primo riconoscimento anche in sede ONU[26].

Ma vi è di più: uno dei profili più problematici riguarda un aspetto del diritto umanitario che ha a che fare con la tutela delle vittime, ovvero il passaggio dalla ingerenza umanitaria per confortarle (attraverso forniture di medicinali, generi alimentari, beni di prima necessità, che è appunto divenuta una consuetudine internazionale sia nei casi di conflitto tra Nazioni che di conflitti interni alle stesse) al diverso tema della possibile esecuzione forzata del diritto di libero accesso alle vittime (se, cioè, uno Stato sovrano debba tollerare una ingerenza umanitaria attuata con l’uso della forza per garantirsi l’accesso alle vittime).

Sembra allora di poter individuare quale limite “esterno” del diritto di intervento di uno Stato – o di una coalizione di Stati – la sua unilateralità disgiunta dalla legittima difesa[27] a cui fanno espresso riferimento lo Statuto dell’ONU e della NATO; per tali ragioni, i momenti di maggiore attrito con il diritto internazionale si sono verificati in occasione di quegli interventi armati “preventivi” dei quali è stata ricercata la copertura postuma in qualche risoluzione delle Nazioni Unite[28].

Pare agevole concludere nel senso che questo tipo di azioni militari – che come tutte le guerre preventive altro non sono se non gravi violazioni del diritto internazionale – non trovano adeguato supporto nell’art.11, che dal canto suo può offrire copertura costituzionale solo all’azione di quegli ordinamenti “che assicurano la pace e la giustizia tra le Nazioni” quando agiscono secondo le regole che gli stessi si sono consensualmente dati.

 

  1. Conclusioni.

L’art.11 della Costituzione italiana esprime una molteplicità di valori, che vanno dal ripudio della guerra offensiva alla promozione della sicurezza e della pace non solo come impegno nazionale (testimoniato dall’irreversibile abbandono di passate posture bellicistiche) ma anche nelle organizzazioni multilaterali a ciò deputate; per tali motivi l’Italia sostiene con convinzione gli sforzi in tal senso a livello di Unione Europea, di NATO e di Organizzazione delle Nazioni Unite.

Per partecipare a tali consessi, peraltro, il nostro Paese ha scelto di cedere quote significative di sovranità, e ciò è stato possibile – attraverso un cammino che la Corte costituzionale ha seguito e sostenuto con le sue decisioni – anche grazie ad una formulazione dell’art.11 magistralmente bilanciata.

Tuttavia, la scelta di libertà e di cooperazione per la ricerca della pace e della giustizia fatta dai Costituenti, e che nella norma in esame ha trovato la sua massima espressione, è oggi messa alla prova dall’evoluzione dei rapporti di forza tra Nazioni sovrane verso scenari imprevedibili all’indomani della Seconda guerra mondiale. Accanto ad un diritto internazionale classico si è invero venuto a delineare un diritto internazionale “di fatto” che ha colmato i vuoti delle costituzioni nazionali[29] e che ha portato la dottrina a parlare di internazionalizzazione del nostro ordinamento giuridico.

Non può mancarsi di notare che l’adeguatezza dell’art.11 a rispondere alle nuove sfide globali che chiamano in causa il ruolo dell’Italia è stata da più parti messa in discussione, da un lato invocandosi norme primarie che ridefiniscano procedure e limiti della nostra partecipazione nei teatri di guerra, dall’altro auspicando una “ricostituzionalizzazione” della norma qui analizzata[30]. Resta il fatto che essa ha conservato intatto il suo valore di principio fondamentale, vera e propria chiave di volta del nostro sistema costituzionale, grazie al quale il nostro Paese ha potuto partecipare pienamente a tutte le più importanti organizzazioni internazionali a livello globale, concorrendo alla definizione di un nuovo ordine mondiale basato sulla pace e la giustizia.

 

Note

[1] M. Cartabia, L. Chieffi, Art.11, in Commentario alla Costituzione, a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Torino, 2006, pp.263-305

[2] Tra i tanti, V. Crisafulli, Efficacia delle norme costituzionali programmatiche, in Riv. trim. dir. pubb., 1951

[3] Per una diffusa descrizione delle opposte tesi, cfr. M. Benvenuti, Il principio del ripudio della guerra nell’ordinamento costituzionale, Napoli, 2010.

[4] Così L. Carlassare, L’art.11 nella visione dei Costituenti, in Costituzionalismo.it, 1/2013

[5] Lo schema è così descritto da G. Ferrara, Ripudio della guerra, rapporti internazionali e responsabilità del Presidente della Repubblica. Appunti., in Costituzionalismo.it, 1/2003

[6] A questo proposito merita di essere ricordato lo straordinario passaggio del discorso di Alcide De Gasperi, pronunciato il 10 agosto 1946 in relazione alla bozza del Trattato di Parigi fra l’Italia e le potenze alleate, che mise formalmente fine alle ostilità tra l’Italia e le potenze alleate della seconda guerra mondiale, laddove afferma: “Prendo la parola in questo consesso mondiale e sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: è soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa ritenere un imputato, l’essere arrivato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione”.

[7] Cfr. G. Ferrara, Ripudio della guerra, cit.

[8] Cfr. sul punto anche M. Benvenuti, La prima proposizione dell’articolo 11 della Costituzione tra (in)attualità e (in)attuazione. Un principio decostituzionalizzato o da ricostituzionalizzare?, in La comunità internazionale, 2/2013

[9] Cfr. P. Ceola, Sempre giovane. L’articolo 11 della Costituzione italiana di fronte ai nuovi scenari di guerra e di crisi internazionali, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia, 2017, pag.13

[10] Così U. Allegretti, La pace e il suo statuto, in www.forumcostituzionale.it , 2001

[11] Così M. Cartabia, L. Chieffi, Art.11, in Commentario alla Costituzione, cit., pag.278

[12] Il resoconto completo è accessibile al seguente indirizzo: https://www.nascitacostituzione.it/index.htm

[13] Salvo le obiezioni di quei deputati, tra i quali gli On. Russo-Perez e Nitti, i quali ne avevano chiesto lo stralcio non già perché non ne condividessero lo spirito, ma perché la condizione politica, sociale e militare nella quale si trovava il nostro Paese all’indomani della Seconda guerra mondiale (di rovina economica e di sostanziale incapacità offensiva sul piano militare) ne rendeva paradossale e in un certo modo grottesca l’enunciazione. Ancora nella seduta del 18 marzo 1947, l’On. Nitti affermava “Ma non farà ridere all’estero l’idea che noi, che siamo sotto il dominio di fatto di altri popoli, e siamo ora deboli e inermi, ci prendiamo il lusso di darci per primi questa specie di obbligo morale, che non vogliamo la guerra di conquista? Vinti e umiliati ora ingiustamente, vogliamo darci il lusso di rinunciare a guerre e a conquiste? Tutto ciò mi fa ricordare quanto male fanno queste affermazioni di vanagloria”.

[14] Obbligo sospeso a norma dell’art.1 della Legge 23 agosto 2004, n. 226 a decorrere dal 1 gennaio 2005.

[15] Così il par.96 del Codice di Camaldoli, letteralmente citato da L. Carlassare, L’art.11, cit., nota 13

[16] Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto. Altiero Spinelli – Ernesto Rossi.

[17] Seduta del 24 gennaio 1947

[18] Seduta del 15 marzo 1947

[19] Seduta del 24 marzo 1947

[20] Una estensiva disamina del tema si rinviene in N. Lupo, Clausole “europee” implicite ed esplicite nella Costituzione italiana, in Il costituzionalismo multilivello nel terzo millennio: scritti in onore di Paola Bilancia, 2022

[21] Su questo, cfr. M. Cartabia, L. Chieffi, Art.11, in Commentario alla Costituzione, cit., pag.279 e ss.

[22] Cfr. gli artt.97, 117(1), 119 e 122 della Costituzione.

[23] Evoluzione che tende verso una “globalizzazione delle crisi” come l’ha definita C. Galli, La guerra globale, Roma-Bari, 2002

[24] Che Rousseau, nel suo Contratto sociale del 1752 definiva “una reazione non tra uomo e uomo ma tra Stato e Stato, nella quale gli individui sono nemici solo accidentalmente, e non come uomini, e neanche come cittadini, ma come soldati”.

[25] M. Cartabia, L. Chieffi, Art.11, in Commentario alla Costituzione, cit., pag.273.

[26] Risoluzione dell’Assemblea delle Nazioni Unite del 16.09.2005, A/RES/60/1.

[27] In tema anche N. Ronzitti, Il diritto applicabile alle Forze armate italiane all’estero: problemi e prospettive, Servizio Studi del Senato della Repubblica e Servizio Affari Internazionali, 2008.

[28] Il pensiero corre, in primo luogo, all’intervento armato in Iraq del marzo 2003 ed alla successiva Risoluzione 1511 (2003) Adottata dal Consiglio di Sicurezza in occasione della 4844° riunione tenutasi il 16 ottobre 2003

[29] Cfr. anche G. De Vergottini, Costituzione e regole di ingaggio, Riv. trim. dir. pubbl., 2008; R. Somma, La partecipazione italiana a missioni internazionali: disciplina vigente e prospettive di riforma, in www.federalismi.it, n.7/2011

[30] Cfr. M. Benvenuti, La prima proposizione, cit., pag.281.