Scrivere una sentenza (civile) di appello

1.L’occasione formativa. – 2. La lettura degli atti. – 3. La relazione in camera di consiglio. – 4. La scrittura della sentenza. – 4.1 Il tempo del giudizio. – 4.2 Dal fatto agli atti. – 4.3 La sentenza di primo grado ed i motivi di appello. – 5. Le parti in cerca di autore.

1. L’occasione formativa

Nelle mansioni degli assistenti addetti all’Ufficio per il processo sono compresi, come noto, non solo compiti di preparazione e ricerca necessari alla soluzione degli affari ma anche la stessa stesura delle minute dei provvedimenti1, che possono anche assumere la veste di sentenze: si tratta di un compito che presuppone già una formazione adeguata, oltre che un minimo di esperienza sul campo del contenzioso giudiziario, suscettibile, quindi, di essere assolto solo dopo un periodo di apprendimento e di verifica delle effettive attitudini.

Emerge così l’esigenza di una riflessione sulle modalità attraverso le quali si giunge alla stesura di una motivazione che sia in linea, ad un tempo, con i parametri della massima economia imposta dagli obiettivi di recupero progressivo della durata ragionevole dei processi e con il minimo costituzionale concernente le garanzie del giusto processo, tra le quali rientra, appunto, il principio secondo cui “Tutti i provvedimenti giurisdizionale devono essere motivati” (art.111, comma 6, Cost.).

La formazione sul campo dei nuovi funzionari dell’U.P.P. è destinata, infatti, a ricadere sui singoli magistrati, a supporto dei quali operano come assistenti, pur essendo prevista anche una adeguata formazione “centrale” a cura del Ministero della Giustizia e della Scuola Superiore della Magistratura: di qui l’opportunità di una rimeditazione delle modalità della decisione che, occasionata da intenti formativi, renda più trasparente il compito, tradizionalmente oscuro, del giudizio.

2. La lettura degli atti

La prima fase è la lettura degli atti essenziali: si parte con l’esame della sentenza impugnata per passare, poi, all’atto di appello e, quindi, alla comparsa di risposta con l’eventuale appello incidentale.

Non comincio a scrivere la minuta prima dell’esame di tali atti essenziali, limitandomi, se necessario, solo a rapidi appunti o sottolineature nel corso della lettura: soltanto all’esito di tale lettura, infatti, è possibile selezionare i fatti, sostanziali e processuali, che mantengono ancora la loro rilevanza ai fini della decisione del gravame (le c.d. ragioni di fatto della sentenza), non essendo più necessaria la narrazione integrale dello “svolgimento del processo” a seguito della riforma dell’art.132 c.p.c. operata nel 2009.

Astenersi dalla redazione della minuta contestualmente alla prima lettura agevola, inoltre, il regime di sospensione del giudizio che dovrebbe caratterizzare il primo studio del fascicolo: il processo si fonda, infatti, sul postulato che il giudice soltanto all’esito del confronto tra le contrapposte tesi difensive e la decisione impugnata sia in grado di pervenire ad una attendibile conclusione (“Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale” : art.111, comma 2, Cost.)

3. La relazione in camera di consiglio

La relazione “orale” in camera di consiglio logicamente dovrebbe precedere la stesura della minuta della sentenza; è indubbio però che la facilità delle attuali modalità di scrittura rendono opportuno che le ragioni di fatto e di diritto di una ipotetica decisione siano, per quanto possibile, già abbozzate al fine di meglio strutturare la relazione, nella sua coerenza e nell’orientamento verso le soluzioni proposte.

La camera di consiglio è una sede essenzialmente decisionale e non di mero confronto dialettico: pertanto occorre che la relazione sia già selettiva nel presentare la materia del contendere – nel senso cioè di riportare solo gli elementi di fatto e di diritto in ordine ai quali debba essere presa una decisione – e sia già dotata di soluzioni operative da sottoporre al collegio.

Il vaglio collegiale, infatti, pur essendo indispensabile e senz’altro utile, non deve essere caricato di eccessivi oneri, perché i colleghi non hanno avuto di regola la possibilità di esaminare i documenti e di riflettere sulle questioni di diritto e le relative soluzioni con il tempo che è, invece, riservato al relatore; è, quindi, inevitabile che la proficuità della dialettica collegiale sia condizionata dalla qualità della relazione operata dal consigliere designato e, quindi, dal preventivo studio “monocratico” del fascicolo.

Il ruolo del relatore è, infatti, di prassi reso più marcato dalla necessità di definire contestualmente, nella stessa camera di consiglio, una pluralità di giudizi, con conseguente esigenza di circoscrivere la dialettica collegiale ai profili essenziali di diritto, sostanziale e processuale.

4. La scrittura della sentenza

4.1 Il tempo del giudizio

Sono trascorsi oltre dieci anni da quando la legge 18 giugno 2009, n. 69, a partire dal 4 luglio 2009, sostituendo l’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. ha eliminato, tra i requisiti di forma-contenuto delle sentenze civili, la concisa esposizione dello “svolgimento del processo”, così limitando il requisito propriamente motivazionale alla esposizione, comunque “concisa”, “delle ragioni di fatto e di diritto della decisione”, vale a dire, secondo l’esplicazione operata dall’art.118, comma 1, disp. att. c.p.c., alla “succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi.

Tale novella è stata per lo più interpretata come una mera semplificazione in senso riduttivo – una sorta di dimagrimento – della struttura della sentenza civile, così trascurandone, invero, l’impatto sulle modalità stesse di formulazione della motivazione.

E’ infatti da evidenziare il rilievo assegnato alla essenziale connotazione della sentenza in termini di giudizio (“le ragioni”) piuttosto che di narrazione/rievocazione di fatti, con conseguente emarginazione dei contenuti storici della vicenda sostanziale e processuale.

Nell’orbita propria del giudizio i fatti non sono certamente da trascurare ma sono piuttosto da rappresentare esclusivamente nella loro dimensione di ragioni di fatto, vale a dire nella sola consistenza funzionale alle considerazioni in diritto che se ne traggono, in quanto proprio da tale rappresentazione dei fatti derivano le consuete operazioni inerenti alla sussunzione nella fattispecie astratta e, soprattutto, all’individuazione degli effetti che si spiegano nel caso concreto.

Gli eventi sono, in tal senso, nuovamente rappresentati affinchè sia disposto alcunchè in ordine alla loro ideale prosecuzione nella concreta vicenda sostanziale o processuale: così all’accertamento di un fatto illecito consegue la sanzione restauratrice del corso degli eventi, in forma specifica o per equivalente; alla dichiarazione di nullità dell’atto processuale le conseguenti rinnovazioni ex art. 162 c.p.c..

Si dovrebbe, pertanto, adottare nei verbi un tempo adeguato a rappresentare gli eventi nel loro svolgersi per cogliere la continuità tra tali accadimenti e gli effetti che ne derivano all’attualità e che si protendono nel tempo successivo, in quel divenire tra passato, presente e futuro che contrassegna propriamente l’esercizio della giurisdizione.

Di qui l’incongruità dell’uso dei tempi passati, i quali emarginano il fatto in un contesto già esaurito e segnano una netta cesura rispetto all’attualità della narrazione; è piuttosto da apprezzare l’uso del tempo presente (c.d. presente storico) con riguardo non solo alle considerazioni in diritto ma anche a quelle propriamente in fatto, pur se gli accadimenti risalgono a molti anni indietro rispetto all’epoca della decisione: Tizio stipula il contratto nel 1985, si avvale nel 1996 della clausola risolutiva, chiede oggi la condanna ecc..

Il giudice è, infatti, chiamato ad una operazione essenzialmente logica utilizzando le risultanze processuali ed parametri normativi ed è, quindi, affatto congruo che i fatti – sub specie di ragioni di fatto – siano tutti esposti nel medesimo tempo pur nella diversa – ed ovviamente precisata – collocazione diacronica.

L’effetto drammatico – rievocativo resta, invero, integro così come avviene con il tradizionale uso dell’imperfetto, in quanto l’autore continua a porre se stesso ed il suo ideale lettore sullo stesso piano degli eventi narrati, colti nel momento in cui accadono; ma è, altresì, evidenziato che gli eventi rilevano all’attualità come elementi di un giudizio e non nella loro dimensione propriamente storica.

Ecco, così, che il tempo della sentenza diventa il tempo presente quale tempo proprio del giudizio, vale a dire vale a dire del momento di formulazione delle ragioni di fatto e di diritto in cui si articola la motivazione.

4.2. Dal fatto agli atti

Ogni motivazione è destinata ad essere ovviamente letta: non rileva cioè nella sua mera obiettività, come compiuta e tecnicamente esatta esposizione delle ragioni, ma anche nella idoneità ad essere congruamente percepita.

A tal fine l’uso del tempo presente agevola senz’altro non solo l’esposizione ma anche la comprensione dei fatti rappresentati.

L’attenzione al destinatario della motivazione – che non è solo il difensore o la parte ma potenzialmente l’intera comunità – deve poi indurre ad una più profonda semplificazione della formulazione del giudizio, quanto meno nel senso di attenuare, per quanto possibile, lo sforzo richiesto per la sua percezione.

In tal senso appare funzionale alla immediata leggibilità della sentenza partire nella narrazione da un fatto piuttosto che da un atto processuale.

Se, invece, come purtroppo sovente si riscontra, si comincia la narrazione con un atto processuale, si è, poi, costretti ad una integrale rappresentazione dei fatti non solo in via indiretta, quale contenuto di quel determinato atto processuale, ma anche retrocessa nel tempo rispetto all’atto stesso oltre che ipotetica (quali allegazioni in tesi). Lo schermo “opaco” degli atti rispetto ai fatti è particolarmente evidente negli incipit di talune sentenze nei gradi superiori, laddove si inizia la narrazione con l’accertamento operato nei gradi pregressi per retrocedere, poi, progressivamente nel tempo (c.d. analessi) con una formulazione che, di frequente, solo dopo qualche periodo, se non qualche pagina, consente di comprendere di quale vicenda stiamo trattando.

Così, invece, di scrivere (partendo da un atto) “Tizio propone ricorso per cassazione avverso la sentenza n. …. della Corte …. che in parziale riforma della sentenza del tribunale n. ….. accoglieva la domanda di rilascio che Tizio aveva proposto nei confronti di Caio in relazione ad un contratto che le parti avevano stipulato in data …. laddove era previsto ……”, è da preferire la narrazione subito introdotta con i fatti incontestabilmente alla base della lite: “Tizio stipula il contratto … prevedendo….; successivamente contesta con lettera racc. che …..”; per passare, poi, all’instaurazione del giudizio: “propone, quindi, domanda di condanna …” quando già il lettore è stato reso edotto della vicenda sostanziale controversa.

L’introduzione della sentenza con un fatto è logicamente da circoscrivere a quella vicenda essenziale che incontestabilmente è avvenuta (la stipulazione di un contratto, un’incidente, un matrimonio ecc.) e sulla quale è ancora viva la materia del contendere. Qualora, invece, sia controversa in radice la verificazione di determinati fatti è inevitabile che anche la narrazione si svolga solo attraverso la contrapposizione delle allegazioni in tesi e le conseguenti postulazioni delle parti.

4.3 La sentenza di primo grado ed i motivi di appello

La sentenza gravata deve essere senz’altro richiamata nelle conclusioni alle quali perviene ma non necessariamente nel percorso motivazionale adottato; la materia del contendere è, infatti, circoscritta in appello dai motivi specificamente formulati ex art. 342 c.p.c. ed è, quindi, di regola sufficiente che le argomentazioni formulate dal giudice in primo grado siano richiamate solo successivamente, per verificare se ed in quale misura resistano alle censure dell’appellante.

I motivi del gravame assumono, quindi, un ruolo essenziale nel delineare gli ambiti ancora in contestazione (il c.d. devoluto) . Di qui l’opportunità di una distinzione delle censure mediante una puntuazione simbolica, attraverso un numero od una lettera, anche a prescindere dalla simbologia adottata dalla parte appellante, dovendo attribuirsi rilievo al contenuto effettivo dei motivi piuttosto che agli elementi puramente descrittivi, essendo possibile, ad esempio, che sotto lo stesso numero siano dedotte, compiutamente, plurime censure.

La puntuazione delle critiche alla sentenza gravata consente, poi, successivamente, nella parte propriamente motivazionale, di richiamarne agevolmente il contenuto mediante il mero rinvio al simbolo adottato. Così, ad esempio, quanto al motivo 1) la Corte ritiene che sia dimostrata ….” in modo da evidenziare immediatamente la ragione della decisione, al riguardo, senza ulteriori appesantimenti descrittivi2.

Il passaggio, inoltre, dalla esposizione dei “motivi” delle parti alle considerazioni proprie del giudice può essere opportunamente preceduto dall’incipitLa Corte così ragiona”, in tal senso segnalando al lettore l’avvio della motivazione della decisione.

Il codice processuale, all’art. 118, comma 2, disp. att., prescrive che debbano “essere esposte concisamente ed in ordine le questioni discusse e decise dal collegio”: di regola tali questioni corrispondono, nel secondo grado, ai motivi di appello, anche se residua la possibilità di un rilievo di ufficio, eventualmente sollecitato dalle stesse parti o già sottoposto al contraddittorio ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.c..

Prosegue il richiamato art. 118 disp. att. nel senso che debbano essere indicati “le norme di legge ed i principi di diritto applicati” e che, invece, “in ogni caso” debba “essere omessa ogni citazione di autori giuridici” : previsione che oggi ben potrebbe essere rivalutata, nell’ottica della massima economia delle risorse processuali, in quanto significativa della funzione della sentenza nel solo ambito strettamente giurisdizionale, di attuazione nel concreto della legge alla quale i giudici sono soltanto “soggetti” ex art.101, comma 2, Cost.; con conseguente affievolimento dello spessore culturale o accademico della motivazione, che dovrebbe astenersi dal richiamare non solo i nomi di autori ma i loro stessi contributi ricostruttivi, anche se, ovviamente, di tali contributi si può far effettiva applicazione.

Se ne dovrebbe giovare, di tale semplificazione, non solo la giurisprudenza ma anche la dottrina, alla quale deve essere lasciata, invece, proprio la funzione, in sede di annotazione, di inserire eventualmente la sentenza nel dibattito di carattere scientifico-culturale.

5. Le parti in cerca di autore

Nella giurisdizione avviene, a ben vedere, qualcosa di analogo ad una rappresentazione teatrale. Nei “Sei personaggi in cerca d’autore”, come noto, Pirandello immagina che i personaggi, rimasti orfani del loro autore, si insinuino nel palcoscenico sollecitati dall’ansia di rappresentare il dramma di cui sono vittime-protagonisti: la loro vicenda dolorosa è già trascorsa e, tuttavia, essendo personaggi e non soggetti reali, sono guidati dall’imperativo di rievocarla ancora una volta avanti ad un pubblico.

Il dramma passato si fa, quindi, ogni volta presente nella sua dimensione estetica; i personaggi vivono e si realizzano solo nell’attualità della rappresentazione3.

Nel processo le parti assolvono analogamente un ruolo rappresentativo di eventi trascorsi, richiedendo l’intervento di un “autore” che assegni al passato il corretto significato, suscettibile di fondare il corso successivo della vicenda (il ripristino dello stato dei luoghi, le sanzioni punitive, la costituzione di diritti etc.).

Il dramma che si rappresenta attraverso la sentenza è così analogo a quello che si rappresenta sul palcoscenico: è bensì finzione perché la realtà è già trascorsa ma la rappresentazione è destinata a far rivivere, nel presente, la vicenda passata e ad assegnarle un nuovo senso che si protende anche nel futuro.

Si rinviene, così, la tradizionale ambiguità tra realtà e finzione propria del teatro pirandelliano4; il processo, tuttavia, è proteso a sciogliere, al fine, ogni ambiguità tra la rappresentazione processuale e la concreta vicenda delle parti attraverso la maturazione del giudicato.

Può così immaginarsi che, quando la regola del concreto si consolida, imprimendosi sulla realtà, le parti del processo abbiano trovato quell’autore di cui i sei personaggi di Pirandello restano eternamente in cerca.

1 In tal senso v. l’art.10 della circolare CSM sulle tabelle organizzative degli uffici giudiziari così come modificato dalla delibera CSM in data 13 ottobre 2021

2 Questa modalità semplificatrice non è, tuttavia, adottata dalla nostra Corte Costituzionale, le cui sentenze sono strutturate in una prima parte “In fatto”, corrispondente al tradizionale svolgimento del processo, ed in una seconda “In diritto”, laddove sono però compiutamente riformulate proprio le stesse questioni già esposte in precedenza “in fatto”, al punto che il lettore ben potrebbe limitarsi alle “Considerazioni in diritto” per comprendere il contenuto della sentenza.

3 Si può apprezzare l’analogia tra la dimensione estetica e quella della logica processuale persino sul piano del rispetto della parità nello svolgimento dialettico: … La figliastra: “….. ma io voglio rappresentare il mio dramma! il mio!” – Il capocomico: “Oh, infine, il suo! Non c’è soltanto il suo, scusi! C’è anche quello degli altri! Quello di lui, quello di sua madre! Non può stare che un personaggio venga, così, troppo avanti, e sopraffaccia gli altri, invadendo la scena. Bisogna contener tutti in un quadro armonico e rappresentare quel che è rappresentabile! Lo so bene anch’io che ciascuno ha tutta una sua vita dentro e che vorrebbe metterla fuori. Ma il difficile è appunto questo: farne venir fuori quel tanto che è necessario, in rapporto con gli altri; e pure in quel poco fare intendere tutta l’altra vita che resta dentro! Ah, comodo, se ogni personaggio potesse in un bel monologo, o…senz’altro…in una conferenza venire a scodellare davanti al pubblico tutto quel che gli bolle in pentola!” (Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, Feltrinelli, 1993, pag.90)

4Con questa ambiguità si chiude, come noto, il testo pirandelliano: “La prima attrice : “È morto! Povero ragazzo! È morto! Oh che cosa!” – Il primo attore : “Ma che morto! Finzione! finzione! Non ci creda! – Altri attori : “Finzione? Realtà! realtà! È morto! – Altri attori : “ No! Finzione! Finzione!” – Il padre : “Ma che finzione! Realtà, realtà, signori! Realtà”(Ibidem, pag. 112).

 

Franco Petrolati, magistrato presso la Corte di Appello di Roma