Testo dell’Intervento introduttivo alla Tavola rotonda “Le nuove buone prassi del C.S.M. per il processo esecutivo” svoltasi nel corso del convergono su “Attualità e prospettive della Espropriazione Immobiliare” (Tivoli, 8-9 luglio 2022).
Mi sono state affidate alcune parole introduttive sulle prassi processuali in generale, per dare avvio ad una tavola rotonda dedicata in particolare a quelle in materia di esecuzione forzata, e cioè ad un ambito che è il regno elettivo delle prassi ed ove esse rappresentano o dovrebbero rappresentare una decisiva fonte di efficienza e risultati produttivi molto di più che semplice galateo.
- Iniziamo inevitabilmente dalla Costituzione.
“La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”.
L’art. 111, c. I, Cost. condanna le prassi processuali ad essere semmai solo soft law, e non consuetudine efficace in senso proprio.
Re Sole cominciò a scardinare, in nome dello statalismo o statocentrismo d’antan, le prassi dei Parlamenti locali che si erano fatte legge e che perpetuavano, dal diritto comune, una realtà secondo cui “tribunale che andavi processo che trovavi”.
Oggi l’art. 111 Cost. è di matrice garantistica, non statalistica, pur se affonda le sue radici nel carattere pubblicistico ed eminentemente statuale dell’esercizio della giurisdizione (anche civile). In Italia – diversamente che altrove – è solo la legge la regola cogente del processo. La prassi dunque – vuoi se solo fattuale e materiale vuoi se oggetto di ricognizione o addirittura di promozione e incentivazione scritta in “protocolli” e strumenti simili – resta solo tale ed appunto non diviene consuetudine fonte di diritto; e le nostre corti, anche quelle superiori, a differenza che altre grandi corti passate e presenti, esercitano la giurisdizione interpretando la legge sostanziale e processuale e non costruendosi quest’ultima a loro misura per i rispettivi processi. Paradossalmente, per altro, quando una grande corte lo fa, all’estero o a livello sovranazionale, il frutto di questo prestigioso esercizio di potere e cioè le apposite Rules o l’apposito Regolamento di procedura, sia che essi cristallizzino prassi pregresse sia che esprimano innovazione normativa, restringono lo spazio operativo e concreto delle prassi, e tuttavia con apprezzabili benefici di certezza informativa per chi è geograficamente estraneo: per cui – altro e correlato paradosso – se sono un avvocato del foro nazionale e devo produrmi innanzi alla Corte di Giustizia, il Regolamento di procedura ed in aggiunta le Istruzioni pratiche alle parti di quest’ultima mi dicono già quasi tutto; ma se sono un avvocato del foro di Pordenone e devo chiedere la nomina di un curatore speciale o eseguire un sequestro di quote a Palermo lo sforzo informativo che mi necessita riguardo alle prassi locali, pur non cogenti, può essere perfino maggiore.
- Che poi i giudici italiani si siano ripresi una sorta di ultra-potere processuale attraverso quella “macroprassi” ipertrofica che è la giurisprudenza sul processo è un’altra faccenda. Lo hanno fatto provocati e favoriti dalla confusione e dal parossismo della legislazione processuale degli ultimi trent’anni; lo hanno fatto anche per la malsana attrattiva che le questioni di diritto processuale esercitano da un po’ di tempo sui nostri giudici (ed in parte anche sui nostri avvocati). Il problema è che lo hanno fatto in senso contrario alle normali virtù uniformatrici della prassi, e cioè con incertezze, andamenti ondivaghi, contraddizioni: insomma tutta la interessante (teoricamente) ma praticamente scoraggiante proteiformità della nostra recente giurisprudenza in materia processuale (e l’esecuzione forzata non fa eccezione e anzi tutt’altro). Sicchè non abbiamo oggi né una legge processuale semplice e chiara come dovrebbe essere, né una prassi interpretativa in materia processuale sobria, quieta come un lago alpino e decifrabile come dovrebbe essere. Anzi abbiamo un approccio alla interpretazione giudiziale delle norme processuali che troppo spesso segue le chimere della, anche personale, fantasia giuridica piuttosto che i binari della certezza e perciò di un sano conformismo, il quale è tutt’altro che un disvalore quando si tratta delle regole del gioco. Tra gli esempi più recenti di ciò è la recentissima Cass. sez. III, n. 17984 del 3.6.2022, con quella mini-monografia intesa a dimostrare che la domanda ab origine limitata alla condanna generica, da numerosi decenni tranquillamente invalsa, non si può più proporre: il tutto palesemente e dichiaratamente in obiter ma con sussiegosa perentorietà pro futuro da suprema corte e dunque tale da disorientare chiunque; con argomentazione rispettabile ma tutt’altro che inossidabile; con il supporto di spunti dottrinali, ma la dottrina è appunto altra cosa, essa sì potendo essere avveniristica ex abrupto, ove la giurisprudenza processuale dovrebbe esserlo invece solo gradatamente; e senza il supporto delle Sezioni Unite, le uniche in grado di innovare così drasticamente, e non interpellate – almeno così si legge nella motivazione in discorso – perché la communis opinio che si andava allegramente a scardinare era consacrata da una Sezioni Unite del 1995 ed era …. trascorso molto tempo (e non sorge neppure il dubbio che le Sezioni Unite non fossero ritornate in argomento semplicemente perché nessuno aveva nella pratica dubitato nel frattempo della proponibilità della domanda di c.g.), ma in realtà le Sezioni Unite non erano neppure interpellabili perché, almeno al mio paese, esse possono indulgere come qualunque giudice all’obiter, ma non possono essere scomodate solo per pronunciare un obiter.
Naturalmente occorre essere chiari. La prassi è condotta reiterata che non ha bisogno di norma ed anzi ha bisogno di spazi liberi da norme; e visto il nostro punto di partenza costituzionale è, nei nostri lidi e quanto al processo, mero fatto giuridico. La giurisprudenza, anche quella in materia processuale – sebbene si possa convenientemente discorrere di prassi giurisprudenziale nel senso di “condotta interpretativa” reiterata – è altra cosa. È l’insieme degli atti giuridici interpretativi istituzionalmente idonei a concretizzare le norme rispetto ai casi concreti. Essa dunque vive di – ed accanto alle – norme dell’ordinamento positivo, non avendo alcun senso una interpretazione di ciò che ad essa non preesista.
Ecco perché negli spazi liberi da norme una idea fantasiosa ed intelligente, sagacemente adeguata alla singola situazione concreta, è sempre benemerita come potenziale inaugurazione di nuova prassi, offerta com’è alla reiterazione e perciò al successo ove si riveli davvero utile in modo seriale e di là dal caso singolo.
Viceversa, quando il punto di partenza sono le norme, l’interpretazione, vuoi nel caso singolo vuoi se proiettata (dalla Corte di cassazione) pro futuro, deve restare tale, pur scontata la sua insopprimibile libertà e creatività, in modo cioè ed anzitutto che le norme retrostanti, e massimamente le regole del gioco processuali, non siano diverse nello spazio e si evolvano nel tempo senza scossoni bruschi. Sicché – scontata la necessità di governare adeguatamente gli effetti dell’overruling e soprattutto dell’overruling in materia processuale – non ogni fantasiosa idea interpretativa, per quanto in parte intelligente (come ad esempio quella insita nella cennata Cass. 17984/2022) merita di essere adottata in via sperimentale se non adeguatamente preparata da una corale spinta evolutiva.
- Ma torniamo alle prassi in senso proprio e cioè alle condotte processuali del giudice e delle parti o degli altri comprimari del processo ripetute sistematicamente nel tempo e nello spazio (o per lo meno in territori confinati e ben individuati) nelle aree lasciate aperte e libere dalle norme di legge.
Le prassi processuali, dunque, non sono vincolanti e non possono essere contra legem: non lo potrebbero essere ovviamente neanche se fossero consuetudine in senso tecnico.
Ma siamo uomini e donne di mondo. Ci sono state prassi birichine o persino perfide, appunto perché sostanzialmente contra legem, alle quali tuttavia ben raramente ci siamo ribellati, e se lo abbiamo fatto lo abbiamo fatto volta per volta e previamente alla ennesima adozione della prassi e non (come pure sarebbe stato astrattamente possibile sebbene alquanto difficile) per via impugnatoria: pensiamo alla prova testimoniale assunta nei corridoi dagli avvocati, o a quella stagione fortunatamente breve dell’“in Cassazione parla un solo avvocato per parte”.
Queste ed altre hanno comunque il vantaggio di essere prassi alla luce del sole e controllabili: finché ci adeguiamo tutti, pur obtorto collo, nulla quaestio: vorrà dire che la teorica illegittimità della prassi decade nel complesso, ed in una esperienza per definizione non perfetta, verso il modestamente rilevante. Stiamo però attenti alle prassi occulte che potrebbero ad esempio instaurarsi nella gestione ed utilizzazione dell’Ufficio del processo: occorrerà davvero che ciò che accade concretamente in quell’ambito, specialmente quanto alla formazione e redazione dei provvedimenti, non resti interna corporis incontrollabile dagli utenti della giustizia.
- Vi sono poi prassi semplificatorie che solo con molta o sufficiente elasticità si possono definire praeter legem, ma che solo un pazzoide privo di buon senso vorrebbe abolire e non invece, all’occorrenza, estendere e rafforzare.
Alcune pressoché immediatamente affiorate e poi inveterate: la scritturazione del verbale di udienza del tutto difformemente rispetto all’art. 130 c.p.c., col cancelliere da tutt’altra parte e nella migliore delle ipotesi a svolgere altre sue incombenze. Oppure – e questa sì andrebbe largamente implementata soprattutto in opposizione alla più diffusa prassi esattamente contraria – la prassi che adegua agli spazi disponibili ed alla necessità di attenzione e tranquillità la pur sacrosanta pubblicità della udienza, consentendo che gli avvocati entrino nell’aula del giudice “una causa per volta”….e che gli altri attendano fuori (magari con la porta aperta), evitandosi così perniciosi affollamenti più consoni al mercato che ad un’aula di giustizia.
- Vi sono prassi apparentemente inutili e/o apparentemente complicatorie invece che semplificatorie: la prassi del cd. “pre-verbale” nel foro messinese e di qualche altro (una verbalizzazione scambiata informalmente fra i legali in anticipo rispetto all’udienza), o quella milanese ma ormai largamente diffusa del “foglio di precisazione delle conclusioni”. Queste ed altre trasformazioni pragmatiche della oralità in scrittura possono anche apparire barocche e dettate da puro conformismo, ma non è facile in concreto superarle visto il loro successo, in termini di generalizzato adeguamento, sia pure in contesti locali più o meno estesi.
Naturalmente occorre sempre rimanere vigili e considerare che ogni prassi ha una sua immanente vischiosità e che la pura reiterazione è spesso idonea a nascondere il venir meno della originaria ragionevolezza. Vi è da dire per altro che su di un piano non già pragmatico bensì normativo la trasformazione della oralità in scrittura si è comunque verificata, anche intorno all’udienza, per l’azione combinata della irreversibile telematizzazione e delle invece contingenti misure da Covid. E proprio alcune di queste ultime, grazie alla facilitazione telematica, sembrano destinate, anche ove non siano perpetrate a livello normativo, ad una possibile trasformazione da norma in prassi una volta trascorsa l’emergenza: occorrerà capire se vi sia per ciò una giustificata e razionale convenienza, e per chi (ci si augura non certo solo per gli uffici giudiziari), diversa da quella emergenziale.
Più in generale va osservato che quanto alla conduzione delle udienze e delle incombenze di trattazione, le quali nel nostro sistema, sebbene prevalentemente scritte, sono comunque ancorate allo snodarsi delle udienze, vi è una disposizione piuttosto negletta ed invece significativamente concessiva di un qualche case management al nostro giudice-burocrate, ed è quella scritta nell’art. 175 c.p.c.. Essa dovrebbe rappresentare una ideale fonte generatrice di prassi, ma all’occorrenza anche di superamento occasionale ovvero duraturo del conformismo da prassi.
- Vi sono ancora prassi apparentemente esornative o meglio giuridicamente irrilevanti perché non comportano reiterazione di condotte a rilevanza processuale, ma sono in realtà irrinunciabili presidi di buona educazione e dignità del processo: al Palazzaccio ci si leva la giacca, per indossare la toga, fuori dall’aula, la quale aula non è e non può essere uno spogliatoio.
Vi sono, su tutt’altro versante, prassi di scritturazione degli atti o delle sentenze: quelle che i vecchi dovrebbero insegnare ai giovani. E qui il discorso è delicato. Esse sono sicuramente rilevanti e spesso molto rilevanti perché riguardano la realizzazione materiale di atti processuali e di atti processuali fondamentali, e per di più in relazione alla componente fondamentale del processo che è il linguaggio. Non sono però, o non dovrebbero essere, regole pragmatiche (e beninteso non vincolanti) del gioco, bensì regole pragmatiche per giocare meglio e vincere (non insomma la regola del tennis secondo cui se la pallina sfiora anche solo l’esterno della riga va considerata in campo, bensì quella aurea secondo cui quando fai il rovescio, che tu lo faccia ad una mano o a due, ti devi molto piegare sulle ginocchia altrimenti la palla finisce in rete). Come tali – regole per giocare meglio e non regole del gioco – esse dovrebbero essere particolarmente sfrondate dalla sclerosi e particolarmente aperte alla fantasia ed alla evoluzione (vi sono infiniti e personalissimi modi di piegare le ginocchia ed impostare il rovescio). Non sempre ciò accade, come ben sa chi tenta invano di convincere il neofita ad eliminare il vetusto “salvis iuribus” o altri più o meno ridicoli ancoraggi (ammetto tuttavia in qualche modo rassicuranti proprio per il neofita) all’eloquio curiale, o più seriamente chi ancora si imbatte nella farraginosa e superflua formulazione dei “quesiti” in arbitrato.
Vi è poi che una regola aurea di scritturazione efficace dei prodotti giuridico-processuali – la sintesi – si è sclerotizzata nei “protocolli” e perfino in accenni di norme giuridiche, innocue quando semplicemente ottative, micidiali quando dovessero spingersi fino alla sanzione processuale della inammissibilità o improcedibilità.
Il fatto è che le regole del gioco e le regole per giocare bene non dovrebbero mai essere confuse, nel processo come negli sport e nei giochi. Le prime devono essere il più possibile certe, e ben vengano le prassi o gli strumenti di soft law a riempire in modo il più possibile uniforme, standardizzato e certo i vuoti inevitabili o contingenti della legge. Le seconde sono regole per modo di dire, anzi sono e dovrebbero essere il contrario delle regole e rimanere libere ed aperte all’apporto individuale (puoi codificare il gioco del tennis, anche attraverso regole consuetudinarie non scritte nel regolamento della Federazione, ma non puoi codificare il gioco di Federer).
- Ed infine vi sono le prassi senza mezzi termini buone e più importanti: quelle sicuramente secundum legem, quelle che sicuramente ed utilmente si innestano negli spazi che la legge processuale lascia aperti, inevitabilmente o per contingenti distrazioni o incertezze, ovvero a causa della impossibilità normativa (epperò necessità concreta per altra via, quella pragmatica appunto) di fare i conti con situazioni logistiche contingenti.
Queste buone prassi sono, poi, anche potenziali incubatrici di norme: norme di softlaw quando vengano codificate e si traducano in protocolli o strumenti similari, cosa in linea di massima utile perché il protocollo è insieme razionalizzazione e ricognizione decentemente univoca della prassi e cioè di una cosa che per definizione è tale solo se costante e sufficientemente certa, ma che fin quando mera reiterazione di condotte non delineate per iscritto presenta margini di equivocità. Oppure vere proprie norme di legge: quando la prassi nasce non già in spazi che la legge è costretta inevitabilmente a lasciare bianchi (perché allora la prassi seguiterà ad essere sempre prassi o al più protocollo), ma in spazi che solo per contingenza o distrazione o momentanea “non maturità” del legislatore sono bianchi ed ove può accadere ed è accaduto che la prassi di successo sedimenti e venga recepita normativamente.
Sebbene vi siano noti esempi di buone prassi anche riguardo alla cognizione (si considerino i vari protocolli locali sulla gestione della udienza, qualche anno or sono assai di moda, oggi forse un po’ meno) o alle impugnazioni (il noto protocollo Cassazione/Procura generale/CNF), il processo esecutivo è il regno elettivo di queste prassi. La ragione sta nello stesso suo essere “esecuzione”, e perciò attività processuale intrisa di materialità ed a contatto con una puntiforme realtà socioeconomica che le norme non sono in grado di prevedere, inquadrare ed ingabbiare per intero, o per lo meno a ritmo adeguato alla mutevolezza empirica: si pensi soprattutto alla fase di ricerca dei beni da pignorare, ed alla trasformazione di questi beni in denaro con finalità satisfattiva, ed anche alla custodia e gestione utile dei beni pignorati nella fase interinale.
In queste larghe aree si sono inseriti dapprima esperimenti (Tribunale di Monza, Tribunale di Bologna) e poi prassi sempre più dettagliate ed in larga misura lodevoli. E le prassi sono state, appunto, anche culle di norme più o meno azzeccate: si pensi soltanto alla delega ai notai o ad altri professionisti, prima timida prassi praeter legem, poi legge.
- Che poi l’esecuzione forzata resti una farraginosa e raffinata vicenda garantistica e non un efficace e ragionevolmente brutale strumento di primaria tutela del credito (insomma non proprio l’arresto per debiti o la vendita del debitore come schiavo sia pure in versione up to date) è altra storia e dipende dalla legge, o meglio dalla impostazione generale del sistema. E nessuna buona prassi può risultare in proposito decisiva.
Ci vorrebbe una inversione di tendenza: dall’estensione dei titoli stragiudiziali all’iperpotenziamento del titolo giudiziale. Il tutto all’insegna di una elementare considerazione economicistica: non possiamo sprecare una cognizione già così garantista e dispendiosa, né il suo risultato – la sentenza – che già otteniamo con enorme impiego di tempo e di energie.
Ecco dunque alcune delle mie personali cure da cavallo:
- Appello procedibile – una volta e se negata l’inibitoria – solo se il soccombente di primo grado esegue integralmente la condanna.
- Cessione allo Stato – con un minimo sconto (ben più indulgente di quello che praticherebbe una banca) o con la contropartita del credito fiscale – del credito recato dal giudicato: il creditore va a casa con i soldi (e senza la spiacevole sensazione che il giudicato sia meramente cartaceo), e con il debitore se la vede l’Erario attraverso una esecuzione esattoriale opportunamente potenziata.
- Esecuzione in forma specifica affidata con amplissima discrezionalità allo stesso giudice che ha emanato la sentenza impugnata (ed oggi anche all’Ufficio del processo) come accade per l’attuazione del provvedimento cautelare.
Ma queste appunto sono altre storie.
di Antonio Briguglio, Ordinario di diritto processuale civile nella Università di Roma Tor Vergata
In foto: Claude Monet, Palazzo Dario, Venezia (1908); olio su tela, 92,3×73,6 cm, museo nazionale del Galles