
Il docufilm presentato al Festival del Cinema di Roma
Sei storie personali e professionali, sei percorsi diversi ma accomunati da passione e consapevolezza del proprio ruolo. È il filo narrativo di “Dike, Vita da magistrato”, docufilm realizzato con la collaborazione dell’Associazione nazionale magistrati, scritto e prodotto da Filippo Cellini e presentato al Festival del cinema di Roma. “Raccontare la vita di un magistrato significa innanzitutto cercare di spiegare come funzioni il mondo della giustizia, un mondo complesso, difficile, dentro il quale ci si può anche perdere. La luce di questo percorso è rappresentata dalle persone che lo compongono: i magistrati. Donne e uomini che, nei loro limiti e nella loro varia umanità, ci guidano verso un mondo possibilmente più giusto”, spiega Cellini. “Ho cercato di raccontare la magistratura in chiave umana. Ringrazio Ince Media per avermi dato questa opportunità e la Festa del cinema di Roma per aver ospitato il nostro film”, dice la regista Caterina Crescini.

Le telecamere seguono spezzoni di giornate del lavoro di sei magistrati. Che raccontano i loro compiti, le sfide quotidiane, le difficoltà e i passaggi che li hanno portati fin dove sono.
A completare lo sguardo d’insieme sul mondo della giustizia intervengono nel documentario due docenti di diritto, Giorgio Spangher, professore emerito alla Sapienza di Roma e Antonio Briguglio che insegna all’università di Tor Vergata.
La vita da magistrato inizia con il concorso. “Anni di studio”, raccontano gli intervistati. E scherzano: “Un atto di fede”. Ma anche “Una prova psicologica com’è anche giusto che sia”. Poi la scelta, che può portare a ruoli e funzioni diverse.
“La più grande sfida di un giovane magistrato è non perdere l’entusiasmo, le cose più importanti di questo mestiere si imparano nei primi dieci anni di carriera”, racconta Chiara Cutolo, una dei sei protagonisti, giudice delle esecuzioni del Tribunale di Bari, settore in cui, come lei stessa spiega, il valore della conciliazione è molto importante. Nella forma e nella sostanza.
A raccontare le sue giornate è poi Daniela Paliaga, presidente della sezione lavoro del Tribunale di Torino. Ammette che all’inizio “non c’è stata nessuna vocazione”, ma poi è arrivata la passione. “Il ruolo del magistrato è un ruolo delicato. Si è costretti a prendersi delle responsabilità e a decidere”, spiega Paliaga che ha condiviso aspetti positivi e negativi della professione con il marito, anche lui magistrato. Unico rimpianto, il poco tempo dedicato figli. “Mi sono persa tanto, ma spero di rifarmi con i nipoti”, racconta.
Non ha ancora una famiglia ma spera di costruirla a breve Ermindo Mammucci, sostituto procuratore a Rovigo. Pugliese di origine, ha lasciato la sua terra di cui sente la mancanza, con la consapevolezza che “si fanno i sacrifici nella vita”. Il suo racconto – oltre i ricordi personali – è dedicato tutto alla figura del pubblico ministero la cui attività principale è quella delle indagini, momento essenziale per il funzionamento dell’attività giurisdizionale. “Senza gli strumenti di lavoro, i decreti di perquisizione, le intercettazioni, le ispezioni, muore la figura del pm e se muore la figura del pm non si può fare giustizia”, spiega.
Le telecamere si spostano poi all’aula bunker di Lamezia, costruita per il maxi processo Rinascita pochi anni fa, ma anche per “dare un segnale fortissimo al territorio”. A ripercorrere la sua esperienza a Catanzaro è Chiara Esposito, giudice per le indagini preliminari, che ha iniziato la sua carriera proprio in un procedimento con moltissimi imputati. Racconta di essersi sentita spesso “sopraffatta, prigioniera delle responsabilità” ma poi “ho trovato il mio equilibrio”. Ricorda quanto sia fondamentale “conoscere la ‘ndrangheta e avere la capacità di andare oltre le carte, perché dietro le carte ci sono delle persone”. La passione non le manca: “Mi sento fortunata per aver realizzato il mio sogno”.
“Un giudice che conosce solo il diritto non è un buon giudice”: una massima di tutti i tempi che riprende Vincenzo Capozza, classe 1956, presidente della Corte di assise di appello di Roma. Proprio alle peculiarità della Corte di assise è dedicato il suo racconto mentre le telecamere lo riprendono in un incontro con persone chiamate a svolgere la funzione di giudice popolare. “A volte – spiega Capozza – ci chiudiamo nei tecnicismi, mentre questo è anche un modo di avvicinare i cittadini alla giustizia”.
L’ultimo protagonista è Marco Puglia, giudice di sorveglianza del Tribunale di Napoli. Il documentario lo segue in una giornata tra carcere, colloqui con i detenuti e momenti di vita quotidiana. “Il sovraffollamento carcerario è una piaga del nostro Paese”, sottolinea Puglia. “La funzione rieducativa della pena non deve essere lettera morta – sono le sue parole – è un cammino difficilissimo”.
La chiusura è con un gruppo di detenuti del carcere di Arienzo, in provincia di Caserta, con cui il magistrato di sorveglianza – con un passato da attore – ha lavorato per mettere in scena il Macbeth di Shakespeare. “Un momento di confronto tra esseri umani che hanno insieme il desiderio di creare qualcosa di bello”.
Applausi e commozione, al termine della prima all’Auditorium di Roma. Una prima partecipata. Tanti i giovani, e i meno giovani al Teatro studio Borgna.