Quesito n. 3: Separazione delle funzioni dei magistrati

di Rocco Gustavo Maruotti, Sostituto Procuratore presso la Procura di Rieti

 

La situazione attuale

Attualmente la possibilità per un magistrato di cambiare funzioni, passando da quella requirente a quella giudicante e viceversa, è disciplinata dall’art. 13 del D.Lgs. n. 160/2006, che pone importanti limitazioni, in quanto è previsto che “il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, non è consentito all’interno dello stesso distretto, né all’interno di altri distretti della stessa regione in cui il magistrato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni” inoltre “il passaggio può essere richiesto per non più di quattro volte nell’arco dell’intera carriera, dopo aver svolto almeno cinque anni di servizio continuativo nella funzione esercitata ed è disposto a seguito di procedura concorsuale, previa partecipazione ad un corso di qualificazione professionale, e subordinatamente ad un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni, espresso dal Consiglio superiore della magistratura previo parere del consiglio giudiziario”.

Questo sistema, estremamente complesso, frutto della riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006, ha prodotto l’effetto di disincentivare fortemente il passaggio da una funzione all’altra, opzione che oggi viene esercitata, per non più di una volta nel corso di tutta la carriera, nei primi anni del percorso professionale e da un numero estremamente ridotto di magistrati: 24 nel 2019, 25 nel 2020, 31 nel 2021 su più di 9000 magistrati in servizio.

L’obiettivo perseguito dai proponenti

Con il lungo quesito referendario (è composto da 1068 parole e 7314 caratteri) si mira all’abrogazione non solo dell’art. 13 del D.Lgs. n. 160/2006, ma di ben 11 norme, contenute in 5 diversi testi normativi (un regio decreto, una legge e tre decreti legislativi), per realizzare, con un “taglia e cuci”, l’effetto di eliminare del tutto la possibilità per i magistrati di cambiare funzioni. Obiettivo a cui già si cercò di pervenire con il referendum del 21 maggio 2000, che però non raggiunse il quorum, e con la proposta di legge costituzionale n. 14 del 2017, che però non venne approvata.

I proponenti del referendum ritentano perciò la via referendaria nella convinzione che l’obiettivo della separazione delle funzioni si imporrebbe in quanto “ci sono magistrati che lavorano anni per costruire castelli accusatori in qualità di PM e poi, d’un tratto, diventano giudici” e questo non garantirebbe ai cittadini “un giudice che sia veramente terzo e imparziale”, per cui solo la separazione delle funzioni metterebbe “fine alle “porte girevoli” e ai conflitti di interesse che spesso hanno dato luogo a vere e proprie persecuzioni contro cittadini innocenti”.

L’effetto che produrrebbe l’approvazione del referendum

In caso di vittoria dei , il magistrato, una volta scelta all’inizio della carriera la funzione giudicante o requirente, non potrà più cambiare e dovrà mantenere quel ruolo per tutta la durata della sua vita professionale.

Considerazioni critiche

Le leggi che si vorrebbero abrogare già prevedono vincoli rigidissimi al passaggio da una funzione all’altra, che di fatto hanno già prodotto, come si è visto, una sostanziale separazione delle funzioni: dal 2006 ad oggi il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti e viceversa ha riguardato in media lo 0,5% dei magistrati in servizio, i quali, nel 99% dei casi, hanno effettuato un solo cambio e quasi sempre nei primi anni di esercizio delle funzioni. Inoltre la riforma dell’ordinamento giudiziario, c.d. “riforma Cartabia”, il cui testo, già licenziato dalla Camera dei Deputati, è attualmente all’esame della Commissione Giustizia del Senato, dove, con ogni probabilità, verrà definitivamente approvata all’indomani della proclamazione degli esiti dei referendum, prevede la riduzione dei cambi di funzioni da quattro a uno, da effettuarsi entro i primi dieci anni di servizio. Si potrebbe dire, perciò, che il referendum è inutile. In realtà è anche dannoso, perché la frattura totale e definitiva dell’unico ordine giudiziario, così come voluto e realizzato dai Padri costituenti, produrrà una rottura della “comune cultura della giurisdizione”, che è garanzia per i cittadini, e, insieme alla gerarchizzazione già in atto negli uffici di Procura, porrà inevitabilmente le premesse per un futuro controllo politico del PM. Con il risultato che indagini e processi come quelli sulle stragi di Stato o sui depistaggi posti in essere da apparati dello Stato (si pensi, ad esempio, al c.d. “processo Cucchi”), non ci sarebbero mai stati se avessimo avuto un modello giurisdizionale diverso da quello attuale. La separazione delle funzioni tra Giudici e PM rappresenta, infatti, il presupposto della separazione delle carriere che, è bene ricordarlo, era uno degli obiettivi indicati nel “Piano di Rinascita democratica” della loggia segreta P2 di Licio Gelli, e che, come dimostrano le esperienze di altri Paesi, è la premessa per l’assoggettamento del PM al potere politico (come avviene in tutti gli Stati in cui magistratura giudicante e requirente non appartengono, come in Italia, ad un unico ordine giudiziario) e quindi per un controllo del potere esecutivo (in particolare delle forze politiche che sostengono il Governo) sull’esercizio dell’azione penale. La separazione delle funzioni tra Giudici e PM rischia perciò di produrre un effetto solo compatibile con la Costituzione, ma certamente non conforme al suo spirito, così come espresso, tra gli altri, nell’art. 104 Cost. che delinea tutta la Magistratura, nella sua unitarietà, come un “ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. Inoltre, il quesito referendario mira, di fatto, a porre il primo tassello per la realizzazione di un obiettivo che è contrario ai principi affermati in ambito europeo, dove si invitano gli Stati membri a rafforzare l’indipendenza e l’effettiva autonomia del PM, in quanto “corollario indispensabile” dell’indipendenza di tutto il potere giudiziario, nel presupposto che “i pubblici ministeri contribuiscono ad assicurare che lo stato di diritto sia garantito e concorrono ad un’amministrazione della giustizia equa, imparziale ed efficiente” (così si legge nel Parere del Consiglio Consultivo dei Procuratori Europei n. 9 del 2014). In effetti, la vera garanzia per qualsiasi cittadino, sia esso indagato, imputato o persona offesa di un reato, è quella di poter contare su un PM che ragiona come un giudice, aperto al dubbio sull’innocenza dell’indagato, che valuta le prove con lo stesso atteggiamento di terzietà del giudice e che quindi cerca la verità, insieme a tutti gli altri protagonisti del processo. Non rappresenterebbe, invece, un elemento di garanzia un PM trasformato in un “avvocato dell’accusa”, che vive una condanna come una vittoria e un’assoluzione come una sconfitta, non più tenuto ad agire come parte imparziale nelle indagini e primo garante dei diritti dell’imputato, ma come un “accusatore puro” interessato, anche per ragioni di carriera, solo a vincere il processo. Con la separazione delle funzioni ci avvieremmo non verso un PM che si presenta al giudice “con il cappello in mano” (come auspicato dai sostenitori del referendum), ma verso un PM “super poliziotto”, indifferente alle ragioni della giurisdizione, pienamente immedesimato solo nelle sue ragioni di difesa sociale, attento solo al risultato, disposto ad incastrare l’imputato che ritiene colpevole con qualsiasi mezzo. Inoltre, nell’immediatezza, la separazione delle funzioni dei magistrati, invece di eliminare l’inesistente appiattimento dei giudici sulle tesi dei pubblici ministeri (“fattoide” smentito dal tasso di assoluzioni che si attesta, per i motivi più vari, intorno al 40% e che quindi, oltre ad essere oggettivamente falso, è anche ingeneroso nei confronti dei Giudici italiani, che vengono così accusati di tradire quella stessa Costituzione su cui hanno giurato e che, come recita l’art. 111 Cost., li vuole “terzi e imparziali”), produrrebbe, come unico effetto, quello di impedire a tutti quei giovani magistrati che, al momento della scelta iniziale, non hanno potuto, per ragioni di graduatoria o di tipologia di sedi disponibili, scegliere la funzione per la quale si sentivano più inclini, di cambiare funzione e rendere il migliore servizio possibile, invece di rimanere ingessati per sempre in una funzione che, se avessero potuto, non avrebbero scelto, così privando le Procure di potenziali ottimi pubblici ministeri, che invece rimarranno costretti per sempre a svolgere funzioni giudicanti, e viceversa. Inoltre, evocare una necessaria “inimicizia” tra giudice e PM come garanzia di un processo giusto non è uno slogan degno di un Paese giuridicamente avanzato come l’Italia. Il processo è giusto se tutte le parti agiscono professionalmente per la ricerca della verità. E questo è un obbligo per il Giudice, come per il PM, che per legge (art. 358 c.p.p.) “svolge anche accertamenti su fatti e circostanze a favore dell’indagato”. Soltanto un PM che continuerà a condivide con il Giudice la “comune cultura della prova” potrà anche continuare ad assolvere all’onere del corretto esercizio dell’azione penale come gli è imposto dall’art. 112 Cost.

La strada maestra perciò è quella di continuare a tenere uniti Giudici e PM sotto quella “comune cultura della giurisdizione” che non costituisce un privilegio di casta dei magistrati ma una garanzia per i cittadini.

 

Rocco Gustavo Maruotti, Sostituto Procuratore presso la Procura di Rieti

 

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