Quesito n. 1: Abrogazione della legge Severino

di Mario Palazzi, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma

La situazione attuale

Il decreto legislativo di cui si chiede l’abrogazione e che porta la firma dell’ex ministro proponente, è solo una parte del “pacchetto” normativo che il nostro Paese, a partire dalla legge n. 190 del 2012, recante “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella Pubblica Amministrazione”, ha introdotto per dare attuazione alle Convenzioni internazionali in materia, con particolare riguardo alla Convenzione ONU di Merida del 2003 (ratificata con legge n. 116 del 2009) e alla Convenzione penale sulla corruzione del 1999 (legge n. 110 del 2012).

La disciplina, in estrema sintesi, prevede incandidabilità, ineleggibilità e decadenza automatica per i parlamentari, per i rappresentanti di governo, in caso di condanna con sentenza definitiva per reati non colposi a pena superiore a due anni

Per gli amministratori regionali, per i sindaci o altri amministratori locali è prevista l’incandidabilità, l’ineleggibilità e la decadenza automatica per coloro che hanno riportato condanna definitiva per reati gravi (come quelli di competenza delle DDA ovvero contro l pubblica amministrazione) o per reati meno gravi quando si tratta di “delitti commessi con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o a un pubblico servizio”. Nei casi di sentenza di condanna non definitiva per i reati che prevedono l’incandidabilità, scatta la sospensione e la decadenza di diritto solo per gli amministratori locali nei casi di condanna per delitti di mafia, contro la Pubblica Amministrazione o comunque con “abuso dei doveri” ovvero nei casi di condanna, confermata in appello, ad una pena non  inferiore  a  due  anni  di reclusione per un delitto non colposo.

L’obiettivo perseguito dai proponenti

La campagna elettorale è caratterizzata da una informazione improntata ad evidenziare solo un aspetto della legge – quello relativo alla applicazione della disciplina nei casi di sentenze di condanna provvisorie – assumendo, invero apoditticamente senza alcun riferimento concreto a statistiche, che “nella stragrande maggioranza dei casi in cui la legge è stata applicata contro sindaci e amministratori locali, il pubblico ufficiale è stato sospeso, costretto alle dimissioni, o comunque danneggiato, e poi è stato assolto perché risultato innocente” (così dal sito dei promotori).

Vengono completamente obliterati gli effetti dell’abrogazione per quanto attiene alle sentenze di condanna definitive.

Si tenta di superare possibili obiezioni sostenendo che con l’abrogazione si restituirebbe ai giudici la facoltà di decidere, di volta in volta, se, in caso di condanna, occorra applicare o meno anche l’interdizione dai pubblici uffici.

Considerazioni critiche

Le norme sull’incandidabilità non hanno natura penale né sanzionatoria, esse fanno discendere effetti amministrativi dal presupposto di una condanna.

Le ragioni solo da rinvenire nella situazione di indegnità morale del soggetto, da esigere, al fine dei valori dell’imparzialità, buon andamento dell’amministrazione e del prestigio delle cariche elettive: null’altro che l’attuazione del principio costituzionale (art. 54) secondo cui “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”.

La disciplina in questione è stata più volte sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale. Con la sentenza n. 132 del 15 maggio 2001, il giudice delle leggi ha precisato che le fattispecie di “incandidabilità”, e quindi di ineleggibilità, previste dell’art. 15 l. 55/1990 si pongono su piano diverso, quanto a ratio giustificativa, rispetto a quello delle pene, principali ed accessorie. Esse non rappresentano – afferma la Corte – un aspetto del trattamento sanzionatorio penale derivante dalla commissione del reato, e nemmeno una autonoma sanzione collegata al reato medesimo, ma piuttosto l’espressione del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche, stabilito nell’esercizio della sua discrezionalità dal legislatore, al quale l’art. 51 Cost., comma 1, demanda appunto il potere di fissare “i requisiti” in base ai quali i cittadini possono accedere alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza.

Anche la C.E.D.U, con la recente sentenza del 17 giugno 2021, ha ritenuto che l’interdizione dalla candidatura o la rimozione dall’ufficio non costituissero sanzioni o effetti della condanna penale, così escludendo la sussistenza di profili di illegittimità della normativa alla stregua dell’art. 7 della Convenzione.

È una disciplina di civiltà giuridica, peraltro prevista anche in altri paesi europei, che preserva l’onorabilità del munus pubblico.

L’effetto che produrrebbe l’approvazione del referendum

L’argomento speso dai promotori, quello cioè di affidare al giudice penale la valutazione se infliggere o meno la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici non solo è erroneo perché la disciplina in commento non è una sanzione, ma non tiene conto del diverso regime di applicazione della pena accessoria prevista dall’art. 28 c.p. (condanna a pena non inferiore a tre anni)

Ai sensi della disciplina vigente l’unica causa di estinzione anticipata dell’incandidabilità è rappresentata dalla sentenza di riabilitazione. Non assumono quindi rilievo né la sospensione condizionale della condanna né l’indulto né l’estinzione del reato e dei suoi effetti penali trascorsi cinque anni da una sentenza di patteggiamento.

In pratica, se venisse abrogata la legge in commento, un condannato anche per delitti di mafia, per corruzione o per altri gravi delitti, ovvero che abbia patteggiato reati commessi proprio nell’esercizio delle proprie funzioni, a pene financo sospese, potrebbe reinserirsi nel circuito politico e riassumere cariche pubbliche.

Quella stessa persona, se volesse invece partecipare ad un concorso pubblico, non lo potrebbe fare, essendo ostativa la condanna subita.

In sintesi, il condannato può diventare Sindaco, ma non potrà mai diventare dipendente di quel Comune.

 Mario Palazzi, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma

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