Sull’applicabilità del criterio di temperamento

Sull’applicabilità del criterio di temperamento di cui all’art. 99, comma 6, c.p. alla determinazione del termine di prescrizione del reato

di Silvia Rossaro, giudice penale presso il Tribunale di Vicenza

 

La Suprema Corte a Sezioni Unite è stata recentemente chiamata a pronunciarsi se il “criterio di temperamento” nella determinazione della pena da irrogare al recidivo di cui all’art. 99, comma 6, c.p. possa incidere o meno sul calcolo del termine di prescrizione del reato.

All’indomani della L. 5 dicembre 2005, n. 215, la disciplina ex art. 157 c.p. stabilisce che sul termine di prescrizione, calcolato sulla base del massimo di pena edittale, non incidono le circostanze, salvo che si tratti di circostanze per cui la legge stabilisce una pena di specie diversa o per quelle ad effetto speciale; in tali casi, si deve tenere conto dell’aumento massimo previsto per l’aggravante. La recidiva, pertanto, incide sul termine prescrizionale tutte le volte in cui comporta un aumento di pena superiore ad un terzo, vale dire in tutti i casi ad esclusione della recidiva semplice, ex art. 99, comma 1, c.p..

Quanto alla disciplina dell’interruzione, l’art. 161 c.p. prevede invece che il termine di prescrizione, che ricomincia a decorrere da capo in conseguenza ad eventuali atti interruttivi, non possa mai essere superiore di un quarto del tempo necessario a prescrivere; tale tetto viene, però, innalzato alla metà nei casi di recidiva aggravata e di due terzi nei casi di recidiva reiterata.

Come argomentato dalla Suprema Corte di Cassazione in materia di interruzione della prescrizione ex art. 161, comma 2, c.p. (cfr Cass., n. 31891/2015), con considerazioni che possono ritenersi estese anche all’art. 157, comma 2, c.p., l’aumento della durata massima del termine previsto dalla legge derivante dalla circostanza ad effetto speciale, quale è la recidiva se aggravata, pluriaggravata o reiterata, risponde ad una ratio di prevenzione, legata proprio al maggiore allarme sociale che desta il recidivo.

La recidiva è una circostanza del reato indubbiamente di natura soggettiva, perché inerisce alla persona del colpevole, ma, nel rinnovato impianto normativo di quella causa di estinzione del reato che è la prescrizione (istituto dalle solide radici oggettive), essa è stata legittimamente intesa come espressione di un maggiore disvalore del fatto di reato in senso oggettivo, tanto da giustificare un regime globalmente più severo nel computo del decorso dei termini prescrizionali.

Simili conclusioni necessitano di essere rapportate ad un istituto, quale quello delineato dal sesto comma dell’art. 99 c.p., che diverge in modo significativo dal bilanciamento delle circostanze. Non solo poiché l’art. 99, comma 6, c.p. non rappresenta l’esito di una valutazione discrezionale compiuta dal giudice per parametrare il trattamento sanzionatorio alle peculiarità dell’episodio contestato, ma un limite legale fondato sull’esito dei precedenti giudizi; ma, altresì, poiché esso non esclude del tutto gli effetti della recidiva sul carico sanzionatorio, come accade in ipotesi di subvalenza della circostanza, ma ne attenua semplicemente l’estensione.

Si è, difatti, posto il problema se l’art. 99, comma 6, c.p., seppure non esplicitamente richiamato dall’art. 157, comma 2, e dall’art. 161, comma 2, c.p., possa costituire un limite nel calcolo del termine di prescrizione, così come lo è nella quantificazione della pena.

Sul tema, si è sempre più consolidato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui per determinare la durata del termine di prescrizione, nel caso in cui sia stata contestata e ritenuta la recidiva qualificata, bisogna fare riferimento all’aumento di pena previsto dai commi 2, 3 o 4 dell’art. 99 c.p., con il temperamento derivante dall’applicazione del limite fissato dal comma sesto dello stesso articolo: limite che sarebbe idoneo ad influire non solo sulla quantificazione della sanzione, ma anche sul calcolo del termine di prescrizione (Cass., nn. 51049/2015, 24078/2018, 16492/2019, 27106/2021, 45252/21).

La disciplina della prescrizione, in tale prospettiva, non sembrerebbe immune alla valutazione anche “funzionale” della recidiva, probabilmente più in linea con i principi costituzionali, in quanto scevra di automatismi ed attenta al fondamento giustificativo degli effetti diretti e indiretti di tale istituto.

In particolare, si deduce che la contrazione del termine di prescrizione in caso di condanne pregresse lievi sarebbe giustificata dalla oggettiva minore pericolosità di chi è stato condannato per fatti di gravità contenuta. Secondo tale impostazione, quindi, l’aumento in concreto di pena derivante dal temperamento degli effetti della recidiva incide anche sulla determinazione del termine di prescrizione, che deve essere esteso solo per un tempo corrispondente all’aumento temperato e non all’aumento tipico (che varia dalla metà ai due terzi).

Si sono distinte, nello specifico, due linee interpretative: la prima secondo cui, in ragione delle suddette considerazioni, il temperamento dell’art. 99, comma 6, c.p. opererebbe sia sull’aumento ex art. 152, comma 2, c.p. sia su quello ex art. 161, comma 2, c.p.; la seconda, in virtù della quale il sesto comma opererebbe solo sull’aumento ex art. 152, comma 2, c.p. che richiama le circostanze ad effetto speciale come la recidiva qualificata, ma non anche sull’interruzione della prescrizione ai sensi dell’art. 161, comma 2, c.p., poiché quest’ultimo richiama l’art. 99, commi 2 e 4, c.p. e non anche specificamente il sesto comma (così Cass., n. 44099/2019).

È stato, inoltre, registrato un ulteriore (ma isolato) orientamento, secondo il quale la recidiva perderebbe la sua qualifica di circostanza di effetto speciale quando l’aumento di pena generato, per effetto del limite previsto l’art. 99, comma 6, c.p., sia in concreto inferiore ad un terzo. Tale tesi si fonda sull’assunto secondo cui sono circostanze aggravanti ad effetto speciale solo quelle che determinano un aumento “effettivo” superiore ad un terzo (cfr Cass., n. 28054/2020). La conseguenza applicativa di tale interpretazione comporterebbe che, in caso di recidiva qualificata con aumento in concreto inferiore ad un terzo per effetto del temperamento di cui al sesto comma dell’art. 99 c.p., non si farebbe luogo agli aumenti di pena di cui agli artt. 157, comma 2, e 161, comma 2, c.p., perdendo la recidiva la connotazione di aggravante ad effetto speciale.

La Suprema Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi a Sezioni Unite, ha dato discontinuità a tali orientamenti.

Con riguardo alle norme che regolano la prescrizione, è stato evidenziato che le stesse non sono in alcun modo correlate a quelle che governano (e limitano) la discrezionalità del giudice nella determinazione della pena in concreto; basti pensare al divieto previsto dall’articolo 157, comma 3, c.p. di calcolare il termine di prescrizione facendo riferimento ai temperamenti di pena correlati al bilanciamento tra circostanze eterogenee.

Tale indifferenza del termine di prescrizione rispetto alla quantificazione concreta della pena si spiega con la differente proiezione finalistica delle discipline: nello specifico la prescrizione è finalizzata a stabilire, in via generale astratta, quale sia il tempo durante il quale lo Stato conserva l’interesse a perseguire la condotta penalmente rilevante, mentre le regole che pertengono allo statuto della sanzione sono volte al diverso scopo di adeguare la pena alla gravità concreta della condotta.

È stato, altresì, sottolineato che la natura sostanziale delle norme sulla prescrizione è stata riconosciuta dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la quale ha precisato che a tale inquadramento consegue la necessità di rispetto dei requisiti di prevedibilità, determinatezza e irretroattività sottesi al principio di legalità dei reati e delle pene (Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, 5 dicembre 2017, n. 58).

Se, infatti, il tempo di prescrizione “compone” la norma penale, strutturandola e definendo, di fatto, la gravità della violazione, la relativa disciplina, come tutte le norme di diritto penale sostanziale, deve essere:

a) generale, ovvero contenere previsioni omogenee per tutti i consociati; b) astratta, ovvero essere strutturata in modo indipendente da accertamenti giudiziari relativi a casi individuali; c) prevedibile dal destinatario.

Dunque, ai fini della determinazione del termine di prescrizione, non dovrebbe essere assegnata alcuna rilevanza la quantificazione concreta della pena inflitta, né nel procedimento in cui viene riconosciuta la circostanza, né negli ulteriori processi che segnano il percorso criminale del recidivo.

La sentenza, e più ancora la specifica pena inflitta all’esito dell’accertamento giudiziale, costituisce “la legge del caso concreto” e non può concorrere a definire le norme penali, che devono essere necessariamente generali ovvero indipendenti da mediazioni processuali, ancor più se ontologicamente individuali.

Non vale quindi a contraddire l’affermazione di cui sopra la circostanza secondo cui l’articolo 99, comma 6, c.p. è una regola “generale ed astratta”, in quanto tale norma disciplina la quantificazione della pena e pertiene quindi allo statuto della sanzione (individuale e concreto).

Diversamente opinando, e ritenendo cioè che la determinazione del tempo della prescrizione sia correlata all’aumento per come previsto dall’art. 99, comma 6, c.p., si destrutturerebbe la disciplina della prescrizione (istituto, ripetesi, generale ed astratto), producendo un effetto di individualizzazione del termine. In questo modo la prescrizione diventerebbe “a geometria variabile”, poiché definita in relazione alla specifica biografia del recidivo, con conseguente dispersione del requisito della “generalità”.

È stato, inoltre, osservato che la giurisprudenza di legittimità è costante nel ritenere che, ove la recidiva qualificata sia bilanciata in equivalenza o in subvalenza, e dunque non abbia alcun effetto concreto la determinazione della pena, la stessa incida comunque sul termine di prescrizione, provocandone l’estensione, il che conferma che la disciplina codicistica è orientata nel senso di assegnare alla recidiva un effetto estensivo sul termine a condizione che la stessa sussista ed a prescindere dall’effetto concreto che genera sulla pena. Ne deriva che la recidiva qualificata non possa degradare a circostanza aggravante ad effetto comune, qualora in concreto l’aumento di pena sia inferiore ad un terzo per effetto del sesto comma dell’art. 99 c.p..

Così argomentando, può affermarsi che la quantificazione in concreto della sanzione deve essere effettuata nel rispetto dei parametri delle regole previste dal codice, tra le quali si annovera il limite indicato nell’art. 99, comma 6, c.p., mentre altro è la determinazione del termine di prescrizione, che non può dipendere da alcuna forma di temperamento processuale e deve essere generale, astratto e prevedibile.

Per l’effetto, la Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite giunge a ritenere che, quando l’articolo 157, comma 2, c.p. fa riferimento all’aumento massimo di pena previsto per l’aggravante, non debba essere considerato il limite previsto dall’art. 99, comma 6, c.p., ma solamente l’aumento tipico previsto dei commi 2, 3 e 4 dell’art. 99 c.p.

In primo luogo, come argomentato, per la necessità del rispetto del principio di legalità, che richiede che le norme di diritto sostanziale siano generali ed indifferenti agli strumenti processuali relativi al calcolo concreto della pena.

In secondo luogo, perché l’aumento massimo previsto in astratto per il termine di prescrizione relativo ai reati aggravati dalla recidiva qualificata non può che essere quello tipico e generale, indicato dai commi 2, 3 e 4 dell’art. 99 c.p., e non certo quello “specifico ed individuale”, correlato alla quantificazione delle sanzioni già inflitte al recidivo all’esito dei precedenti giudizi (trattandosi di un elemento ontologicamente inidoneo a strutturare un istituto cardine della norma penale sostanziale, quale è il tempo della prescrizione).

In terzo luogo, per l’assenza di ogni riferimento al limite previsto dall’art. 99, comma 6, c.p., nell’art. 161, comma 2, c.p., che correla il secondo effetto estensivo solo al riconoscimento della recidiva prevista dai commi 2 e 4 dell’art. 99 c.p. Invero, la scelta di non richiamare, in tale disposizione, il sesto comma dell’art. 99 c.p. non può dirsi il frutto di un difetto di coordinamento, ma piuttosto l’espressione di una consapevole scelta diretta ad escludere che il calcolo del termine di prescrizione possa essere condizionato da uno dei criteri mutevoli legati alle peculiarità soggettive del caso concreto ovvero alle particolarità della biografia criminale dell’autore del reato.

A ciò si aggiunge il decisivo rilievo secondo cui l’istituto della prescrizione ha una ratio diversa da quella che forma lo statuto codicistico della sanzione: la correlazione tra le due discipline è giustificata semplicemente dal fatto che il tempo di prescrizione dipende dalla gravità di reato, espressa in modo simbolico, ma efficace, dall’entità della sanzione. Entità che rileva, tuttavia, nella sua dimensione astratta, non certo in quella concreta determinata dalla mediazione valutativa dei giudici che hanno quantificato le sanzioni inflitte al recidivo con le precedenti condanne.

Gli argomenti esposti si contrappongono all’orientamento secondo cui si identifica l’aumento massimo previsto in quello temperato dall’applicazione del limite previsto dall’art. 99, comma 6, c.p. sia ai sensi dell’articolo 157, comma 2, c.p. sia ai sensi dell’articolo 161, comma 2, c.p., in quanto l’individualizzazione del termine di prescrizione è contrario ai principi di cui sopra e non può in alcun modo essere giustificato dall’ossequio al generale principio del favor rei.

Se si ritenesse di assegnare rilevanza alla quantificazione della sanzione inflitta per le condotte che tracciano il percorso antisociale del recidivo, si soggettivizzerebbe la disciplina della prescrizione, che invece deve essere oggettiva, generale ed astratta, ovvero indipendente da ogni temperamento processuale.

Condividendo tali premesse, deve ritenersi che la natura generale delle norme penali, identificate in astratto dalla triade “condotta-sanzione-prescrizione” sia ostativa alla legittimazione di un termine di prescrizione flessibile, dipendente dalla specifica biografia criminale dell’accusato per come emergente dai pregressi accertamenti processuali.

In conclusione, alle luce delle considerazioni illustrate, le Sezioni Unite della Suprema Corte, con la sentenza in commento, giungono ad annunciare il principio di diritto secondo cui il limite all’aumento della pena correlato al riconoscimento della recidiva qualificata previsto dall’art. 99, comma 6, c.p. non incide sulla qualificazione della recidiva prevista nei commi 2, 3 e 4 dell’art. 99 c.p. come circostanza ad effetto speciale e neppure influisce sulla determinazione del termine di prescrizione quanto agli artt. 157, comma 2, e 161, comma 2, c.p. (Sez. Un., 29 luglio 2022, n. 30046).