
Reati dove le fake news costituiscono la “condotta incriminata”
L’Art. 656 c.p. (pubblicazione di notizie false)
La norma che viene subito in evidenza, quando si parla del fenomeno delle “fake news” è sicuramente la contravvenzione di cui all’art. 656 c.p. che è quanto più di simile, con tutti i limiti che si vedrà di qui a poco, ad una “norma generale” in materia di repressione penale delle “fake news” (intendendo il termine “generale” in senso “atecnico” come norma che consenta di sanzionare il maggior numero di tipologie di “fake news”); l’art. 656 c.p. punisce infatti la pubblicazione o la diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico. Nello specifico la norma sanziona la condotta di: “Chiunque pubblica o diffonde notizie false, esagerate o tendenziose, per le quali possa essere turbato l’ordine pubblico…”.
In ordine alla “compatibilità” del disposto dell’art. 656 c.p. con il principio costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero, di cui al già citato art. 21 Cost., deve evidenziarsi che la Consulta ha avuto più volte modo di pronunciarsi sulla piena legittimità costituzionale del predetto articolo del codice penale, dichiarando, in ben tre sentenze, non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate su di esso. In particolare, fondamentale è la sentenza nr. 19 del 16 marzo 1962, sulla quale si tornerà successivamente in quanto fornisce una interpretazione “costituzionalmente orientata” del concetto di “notizia falsa, esagerata o tendenziosa”, locuzione che integra sia la fattispecie dell’art. 656 c.p. sia altre norme (es. l’art. 265 c.p.), sentenza a cui ne sono seguite altre due: la nr. 199 del 19.12.1972 e la nr. 210 del 3.8.1976 che hanno riconfermato quanto già stabilito sulla legittimità dell’art. 656 c.p.
Riguardo al disposto dell’art. 656 c.p. si tratta, come si evince dal disposto normativo, di una norma “sussidiaria” giusto l’inciso “se il fatto non costituisce un più grave reato” che, pertanto, trova applicazione (con conseguente assorbimento della condotta illecita) laddove non ricorrano ipotesi più gravi come quelle previste ad es. dagli artt. 265 c.p. (disfattismo politico), 267 c.p. (disfattismo economico) e 501 c.p. (rialzo o ribasso fraudolento di prezzi sul pubblico mercati).
La circostanza che si tratti come detto della norma che maggiormente consente la repressione del fenomeno delle “fake news” si ricava anche dal fatto che, proprio partendo da tale norma vi sono state iniziative parlamentari tese a prevedere una norma che punisse la pubblicazione via internet di notizie false in modo ancora più ampio rispetto al dettato dell’art. 656 c.p. ed infatti nel corso della 17° legislatura era stato presentato un disegno di legge (il nr. 2688) che prevedeva tra gli altri un nuovo reato l’art. 656bis c.p. che avrebbe dovuto punire “…Chiunque pubblica o diffonde, attraverso piattaforme informatiche destinate alla pubblicazione o diffusione di informazione presso il pubblico, con mezzi prevalentemente elettronici o comunque telematici, notizie false, esagerate o tendenziose che riguardino dati o fatti manifestamente infondati o falsi…”.
Venendo all’esame del contenuto della norma, in primo luogo, dalla sua lettura si evince che la condotta sanzionata consiste nella pubblicazione e/o diffusione di “notizie false, esagerate o tendenziose” e questo a differenza della fattispecie sanzionata dall’art. 265 c.p. nella quale oltre alla pubblicazione di “notizie” false (esagerate o tendenziose) viene punita la diffusione o comunicazione di “voci”. Atteso che sia la “voce” che la “notizia” hanno quale loro contenuto la comunicazione di una “informazione”, ovvero di uno o più dati o elementi tra loro logicamente correlati che consentano di avere conoscenza più o meno esatto di un fatto, di una situazione e/o di un modo di essere (vedi Enciclopedia on line Treccani) la giurisprudenza ha chiarito in cosa consista la differenza tra essi. Infatti la Cassazione ha evidenziato che mentre la “voce” è caratterizzata “dalla vaghezza e dalla incontrollabilità” (dell’informazione in essa contenuta e diffusa), la “notizia”, rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 656 c.p., è invece un’informazione “”non del tutto svincolata da oggettivi punti di riferimento che consentano la identificazione degli elementi essenziali di un fatto e ne rendano possibile il controllo”” (Cassazione penale, Sez. VI, sentenza n. 3967 del 17 marzo 1977).
Dunque mentre “in tempo di pace” (art. 656 c.p.) viene sanzionata esclusivamente la diffusione di “notizie” false (sempre che siano idonee a turbare l’ordine pubblico), invece “in tempo di guerra” (art. 265 c.p.) la sanzione penale colpisce anche la diffusione di mere “voci” false (che siano idonee a “destare pubblico allarme o deprimere lo spirito pubblico o altrimenti menomare la resistenza della nazione di fronte al nemico”). Tale differenza sanzionatoria se da un lato sembrerebbe trovare una sua ragione d’essere nel “maggior pericolo” che può derivare dalla circolazione di informazioni false (sotto forma sia di voci che di notizie) in tempo di guerra, tuttavia a ben vedere tale differenza non trova una reale spiegazione logica, atteso che in tempo di pace la circolazione di “voci” ovvero di informazioni che per loro natura vaga non consentano un controllo è più pericolosa rispetto alla “notizia”, la quale essendo ancorata a dati reali può essere più facilmente smentita e quindi il pericolo per l’ordine pubblico attenuato e/o del tutto eliso.
Dal confronto tra le norme testé citate emerge, comunque, chiaramente che il fenomeno della diffusione di false notizie (o false voci) viene considerato dal legislatore molto più grave quando le condotte vengano poste in essere “in tempo di guerra” rispetto ad analoghe condotte poste in essere in “tempo di pace” e questo sia rispetto al trattamento sanzionatorio (l’art. 265 c.p. è un delitto che prevede un minimo edittale di anni 5 ed una ipotesi aggravata di cui al comma 3 che prevede addirittura l’ergastolo, mentre l’art. 656 c.p. è una mera contravvenzione) sia rispetto, come si è visto innanzi, alla “ampiezza” della condotta incriminata (che nel caso dell’art. 265 c.p., come detto, comprende le “voci”).
Venendo all’esame della “formula” utilizzata dall’art. 656 c.p. per descrivere la condotta incriminata, essa fa riferimento alla pubblicazione o diffusione di “notizie false, esagerate o tendenziose”. Deve premettersi che la medesima formula ovvero il riferimento a notizie “false, esagerate e tendenziose” è stata utilizzata anche nelle fattispecie di cui agli art. 265, 269 (ora abrogata) e 501 c.p., cosicché si può ipotizzare che essa sia lo “standard” del concetto di “falsificazione” della notizia che il legislatore ha inteso adottare per attribuirgli rilievo penale. In realtà la formulazione della condotta, con il riferimento a notizie “false, esagerate e tendenziose” presenta alcune problematiche interpretative di non poco conto che tuttavia sono state “risolte” dalla Corte costituzionale nelle sentenze innanzi citate.
Infatti ad un primo superficiale esame della fattispecie prevista dall’art. 656 c.p., la formulazione della norma sembrerebbe supportare la tesi che i tre aggettivi “false, esagerate e tendenziose” siano riferiti a tre distinte ipotesi incriminatrici, tra loro dunque “alternative”, ipotesi questa avallata, peraltro, anche da certa giurisprudenza di merito (vedi Sentenza C. cost. nr. 199 del 1972 in relazione all’eccezione sollevata dal Pretore di Firenze). La conseguenza di tale interpretazione (che come si vedrà va rigettata perché non compatibile col dettato costituzionale) è che se le notizie “esagerate e tendenziose” sono “alternative” ovvero sono “altro” rispetto alle notizie “false”, allora una notizia esagerata o tendenziosa potrà essere anche “vera” ed integrare la fattispecie incriminatrice. In tal senso nella citata sentenza nr. 199 del 1972 della Corte costituzionale il pretore di Firenze nella sua ordinanza remissiva della questione di costituzionalità aveva ricordato come “”….secondo l’interpretazione della norma in esame, comunemente accolta in dottrina ed in giurisprudenza, devesi qualificare come tendenziosa anche una notizia che, pur vera, sia presentata e commentata in modo non obiettivo, onde propagandare – attraverso un’interpretazione di parte – determinate correnti di idee o l’affermazione di determinati principi o interessi.””. Tale interpretazione come si è già accennato non può trovare accoglimento perché sarebbe palesemente in contrasto con l’art. 21 della Costituzione in quanto in materia di diritto alla libera manifestazione del pensiero non si può “censurare” un’affermazione veritiera come idonea a turbare l’ordine pubblico (in una democrazia, fatta salva la tutela del segreto di Stato dire la “verità” non può mai essere considerato capace di turbare l’ordine pubblico).
Unì’interpretazione “costituzionalmente orientata” non può che essere quella più “restrittiva” che vede le notizie “esagerate e tendenziose” in rapporto di “species” a “genus” rispetto alle notizie “false” (siano esse totalmente o solo parzialmente false”) e che esclude di conseguenza dal “cono” dell’incriminazione le notizie “vere” seppur presentate in modo “tendenzioso”
Tale interpretazione trova piena adesione nella sentenza nr. 19 del 1962 della Corte Costituzionale la quale nel rigettare l’eccezione di incostituzionalità dell’art. 656 c.p. ritiene che: “”l’espressione “notizie false, esagerate o tendenziose” impiegata nell’art. 656 del Cod. pen. è una forma di endiadi, con la quale il legislatore si è proposto di abbracciare ogni specie di notizie che, in qualche modo, rappresentino la realtà in modo alterato””.
Sempre la Consulta, nella citata sentenza, specifica che la fattispecie legale dell’art. 656 c.p.: “”non comprende, dunque – contrariamente a quanto una certa parte della giurisprudenza ritiene – il caso di chi divulga interpretazioni, valutazioni, commenti, ideologicamente qualificati, e persino tendenziosi, relativi a cose vere; ma semplicemente il caso di chi divulga notizie, falsandole attraverso la maniera di riferirle, e cioè notizie che, in un modo o nell’altro, non rappresentano il vero.
Dunque, per essere compatibile col dettato normativo di cui all’art. 21 Cost. non basta che una notizia sia qualificabile come esagerata o tendenziosa ma andrà accertato da parte del Giudice di merito se essa abbia comunque veicolato un messaggio che abbia “falsato” la realtà dei fatti.
Ulteriore elemento costitutivo della fattispecie è che la notizia falsa, esagerata o tendenziosa debba essere pubblicata o diffusa intendendosi con ciò che la notizia debba essere veicolata attraverso l’utilizzazione di qualunque mezzo audio-visivo o telematico potenzialmente idoneo a raggiungere un numero indeterminato di persone, cosicché debba escludersi dal novero delle condotte incriminate quelle modalità di comunicazione (per es. il passa-parola) che non siano di per sé idonee a raggiungere (ovviamente “in potenza”) la totalità dei consociati. Per quanto riguarda l’utilizzo dei due termini “pubblicare” e “diffondere” va evidenziato che secondo la dottrina e la giurisprudenza il termine “pubblicazione” di regola viene riferito tipicamente alla diffusione a mezzo della “stampa” mentre la condotta di “diffusione” ha un significato più “ampio” e tende a ricomprendere qualunque mezzo sia idoneo a costituire un “canale di informazione” ovvero qualunque mezzo sia idoneo a veicolare una notizia ad una platea potenzialmente indeterminata di soggetti.
Ultimo, ma non meno importante, elemento della fattispecie è che la diffusione di una notizia falsa, esagerata o tendenziosa debba essere potenzialmente idonea a “turbare l’ordine pubblico” ovvero “il complesso dei beni giuridici fondamentali e degli interessi pubblici primari sui quali si regge l’ordinata e civile convivenza nella comunità nazionale, nonché alla sicurezza delle istituzioni, dei cittadini e dei loro beni”. Come si vede dalla formulazione della norma si tratta di un “reato di pericolo” per la sussistenza del quale, come ha sottolineato anche la giurisprudenza di legittimità, a “…nulla rileva, ai fini della sua esclusione, il fatto che non si sia verificato alcun turbamento dell’ordine pubblico, essendo sufficiente che vi fosse un’astratta possibilità che un tale turbamento in effetti si verificasse” (Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 9475 del 7 novembre 1996).
Per quanto attiene al concetto di turbamento sempre la giurisprudenza ha chiarito che il esso è riferito a sensazioni di apprensione, eccitazione sfiducia che possano colpire l’opinione pubblica a seguito della diffusione della falsa notizia (Cassazione penale, Sez. 6, Sentenza n. 1569 del 05/11/1974)
In relazione all’attuale “configurazione” del fenomeno delle “fake news”, poi, merita attenzione una pronuncia della Cassazione secondo la quale non incorrerebbe nella contravvenzione di cui all’art. 656 c.p. colui che: “”…convinto di affermare il vero o comunque ignaro di narrare il falso, rifacendosi a fatti realmente accaduti, ne dia una interpretazione soggettiva, che trovi nei fatti stessi un fondamento di possibile verità e sia legittimata da opinioni nello stesso senso diffuse…”” (Cassazione penale, Sez. 6, Sentenza n. 1546 del 09/04/1974). Questa sentenza risulta particolarmente rilevante in relazione al fenomeno dei c.d. “Retweet” (o dei “Repost”) ovvero la ri-pubblicazione di “contenuti” già messi on-line da altri soggetti, talora accompagnandoli con brevi messaggi di commento. Deve premettersi che come si evidenzia dalla data della sua pronuncia, il 1974, la sentenza è stata redatta quando il World Wide Web era solo una idea “in nuce” a conoscenza di pochissimi soggetti (che tra l’altro non potevano prevederne l’uso e l’impatto che esso avrebbe avuto), infatti le origini di Internet vanno fatte risalire al progetto “ARPANET”, ovvero una rete di computer ad uso militare (si cercava un mezzo di comunicazione che potesse reggere ad un attacco nucleare massiccio che avesse annullato i normali mezzi di comunicazione) sviluppato a partire dal 1969 negli USA da ARPA (Advanced Research Projects Agency) e soltanto nel 1993 il Cern di Ginevra lanciava, per la prima volta nella storia, la versione liberamente accessibile dal pubblico di internet del World Wide Web.
Questa sentenza pone un problema nella parte in cui si sostiene che la diffusione di una falsa notizia sia scriminata quando “…sia legittimata da opinioni nello stesso senso diffuse…”, perché questa interpretazione non tiene conto che le “fake news”, nell’era di internet, spesso si basano proprio sulla condivisione massiccia e reiterata di messaggi falsi e per tale motivo se si ritiene che si possa diffondere false notizie, esenti da responsabilità, soltanto per il fatto che “molti altri” abbiano “condiviso” la medesima notizia falsa, si rischia di legittimare le “fake news”, perché più esse vengono diffuse più i soggetti che a loro volta le ri-diffondono potranno invocare a loro discolpa la tesi per cui erano in buona fede in quanto tanti altri avevano condiviso e diffuso la medesima falsa notizia. La tesi della Cassazione, infatti, poteva avere una ragione d’essere in un sistema in cui la diffusione delle notizie poteva avvenire in relazione un numero potenzialmente limitato (e controllato) di mezzi di comunicazione, atteso che i giornali, le riviste (scientifiche e non) le radio e le televisioni per quanto numerosi sono sempre in numero ridotto e soprattutto sono mezzi soggetti ad un controllo al vertice delle notizie, a differenza di internet in cui ogni soggetto su un social (considerando peraltro che può operare su più social) diventa “fonte” di una notizia attraverso il collegamento in network con altri soggetti che condividono le medesime idee. Un limite intrinseco alla diffusione di false notizie, tuttavia, sembra poter essere individuato nella stessa sentenza, laddove si afferma che non basta che la falsa notizia trovi “legittimazione” in altre opinioni nello “stesso senso” ma sia necessario che essa: “…trovi nei fatti stessi un fondamento di possibile verità …” e, dunque, quando le affermazioni false (esempio che “il cancro si cura senza alcun trattamento medico ma soltanto risolvendo un conflitto interiore” o ancora “il cancro si cura col bicarbonato”) per quanto possano essere “supportate” persino da opinioni di medici o scienziati se risultano “palesemente” false non possono di per sé mandare esente da pena chi le diffonde. A tal proposito deve evidenziarsi che le ipotesi fatte non sono di mera scuola ma vi sono stati effettivamente medici che hanno sostenuto (e sostengono ancora) tali tesi assurde e pericolose e vi sono stati casi in cui il loro operato ha portato alla morte di persone che potevano essere curate con le terapie tradizionali ma hanno fatto affidamento su simili assurdità scientifiche (per la cura col “bicarbonato per endovena” e per i suoi esiti infausti si veda per esempio la sentenza nr. 1432 del 2012 della Cassazione Sez. IV penale). Ovviamente a fronte della diffusione di notizie come quelle a cui si è fatto riferimento del cancro che si cura col bicarbonato ovvero come se fosse un semplice “problema psicologico” che comunque trovano fondamento in controverse teorie mediche sarà compito del Giudice verificare se chi le ha diffuse versi quantomeno in colpa (trattandosi di reato contravvenzionale esso è punito anche a titolo meramente colposo) oppure si versi in una situazione per cui le fonti possano avere determinato nel soggetto un ragionevole affidamento sull’apparente “verità” della notizia.
di Stefano Latorre, Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Sondrio
Tratto da Spunti di riflessione di diritto penale , parte III. Leggi la I e la II parte su https://lamagistratura.it/categoria/penale-e-sorveglianza/
In foto: Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del Buon Governo, 1338-1339, affresco. Siena, Palazzo Pubblico, Sala della Pace