La messa alla prova alla luce della riforma Cartabia

Il presente lavoro ha ad oggetto l’istituto della messa alla prova, interessato dalla riforma c.d. Cartabia, in fase di approvazione in sede parlamentare, analizzandone presupposti e potenzialità, con particolare attenzione ai problemi interpretativi affrontati dalla giurisprudenza di merito e di legittimità e ai profili su cui la novella è destinata ad incidere. 

1. Introduzione

Il sistema sanzionatorio penale è improntato al principio della finalità rieducativa, sancito dal comma terzo dell’art. 27 Cost.

Il sistema sanzionatorio tradizionale, il cui baricentro era incentrato sulla pena, in chiave prettamente retributiva, ha assistito negli ultimi anni ad una rivoluzione copernicana, che ha valorizzato strumenti di definizione alternativa del procedimento penale.

Tra questi assumono particolare importanza gli istituti della messa alla prova, introdotta con la riforma del 2014, attuata con legge 28 aprile, n. 67, e della causa di estinzione del reato per condotte riparatorie, di cui al nuovo art. 162 ter c.p., che il legislatore ha introdotto con legge 14 giugno 2017, n. 103. Tali interventi normativi, unitamente a quelli coevi e precedenti, tra cui il decreto legislativo 16 marzo 2015, n. 28, sono accomunati da una finalità deflattiva, frutto della consapevolezza da parte del legislatore nazionale, compulsato dalle Istituzioni europee, della fragilità della giustizia penale, la cui tenuta è minacciata dalla scarsità delle risorse a fronte della mole di procedimenti pendenti.

Delle medesime esigenze di intervento in chiave deflattiva e decongestionante si sta facendo carico, mentre si scrive, il Parlamento, impegnato nell’approvazione del DDL AC 2435 / S 2353, che ha potenziato, da un lato, alcuni degli strumenti summenzionati.

Viene così adottata una concezione innovativa del procedimento penale, non più incentrato sull’irrogazione di una pena, in chiave retributiva e general preventiva (nell’accezione negativa), bensì caratterizzato da una maggiore sensibilità rispetto all’adozione di percorsi alternativi, volti a perseguire l’obiettivo costituzionalmente previsto della rieducazione del reo attraverso strumenti del tutto avulsi dal circuito carcerario. L’obiettivo della rieducazione, su base volontaria, viene perseguito in ottica special preventiva, di risocializzazione del reo, nonché sposando l’accezione positiva della general-prevenzione: il reinserimento del reo nel tessuto sociale attraverso lo svolgimento di prestazioni accessorie di volontariato, riparative e rieducative mira infatti al recupero dei valori condivisi della società civile, prevenendo la commissione di nuovi reati non attraverso la minaccia della pena ma mediante la riaffermazione di tali valori.

Nelle pagine che seguono si procederà dunque all’esame della sospensione del procedimento con messa alla prova, caratterizzata dalla valorizzazione da parte del legislatore delle prestazioni accessorie poste a carico dell’indagato o dell’imputato e direttamente interessata dalla riforma c.d. Cartabia.

2. La messa alla prova: requisiti e legittimazione

La sospensione del procedimento con messa alla prova è stata introdotta, come anticipato in sede introduttiva, con la riforma del 2014, recependo nel procedimento ordinario uno strumento alternativo già noto nel processo minorile (art. 29 DPR 22 settembre 1988 n. 448). La finalità della novella è indubbiamente deflattiva, consentendo di pervenire all’estinzione del reato e quindi alla definizione del procedimento nella fase delle indagini preliminari e comunque prima dell’apertura del dibattimento.

La possibilità di accedere alla messa alla prova è allo stato limitata ai soli procedimenti per reati puniti con pena pecuniaria ovvero con pena detentiva non superiore ai quattro anni, sola o congiunta con quella pecuniaria; tale limite è destinato tuttavia ad essere innalzato a sei anni in relazione a fattispecie “che si prestino a percorsi risocializzanti o riparatori, da parte dell’autore, compatibili con l’istituto”, come previsto tra i criteri di delega di cui alla lettera a) dell’art. 22 della su citata Riforma.

Resta ferma la deroga al limite edittale prevista per i reati elencati all’art. 550, comma secondo, c.p.p., per i quali è prevista la citazione diretta a giudizio e che superano i quattro anni di pena detentiva nel massimo, come, ad esempio, nel caso dei delitti di resistenza a pubblico ufficiale, furto aggravato o ricettazione.

L’iniziativa è rimessa all’indagato o imputato, a seconda della fase processuale, che potrà farne richiesta fino al momento della discussione, in caso di udienza preliminare, ovvero prima della dichiarazione di apertura del dibattimento. La richiesta può essere altresì presentata a seguito di decreto di giudizio immediato, nel termine di quindici giorni dalla notifica, ovvero in sede di opposizione a decreto penale di condanna.

Ai sensi dell’art. 464 ter c.p.p., è altresì prevista la possibilità di richiedere l’accesso alla messa alla prova nel corso delle indagini preliminari, indirizzando la richiesta al GIP, che la inoltra al Pubblico Ministero per esprimere il proprio consenso, in forma scritta e sinteticamente motivata, previa definizione dell’imputazione.

La delega al Governo in corso di approvazione prevede, tra i criteri direttivi, l’estensione dell’iniziativa al Pubblico Ministero, che potrà dunque proporre la sospensione del procedimento con messa alla prova, fermo restando il necessario consenso dell’indagato o imputato.

L’istituto è infatti incentrato sull’adesione volontaria di quest’ultimo soggetto processuale, il cui mancato consenso, anche solo parziale, è causa di nullità, di ordine generale a regime intermedio, dell’ordinanza di ammissione alla messa alla prova e di tutti i provvedimenti conseguenti (Cass., Sez. 4, Sentenza n. 27249 del 15/09/2020 Cc.  (dep. 01/10/2020) Rv. 279554 – 01); è quantomeno necessaria la procura speciale in favore del difensore dell’imputato perché possa essere espresso un valido consenso, anche solo in relazione alle modalità di svolgimento della messa alla prova (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 16711 del 16/02/2018 Cc.  (dep. 16/04/2018) Rv. 272556 – 01).

Diverso il peso riconosciuto al consenso del Pubblico Ministero e della persona offesa; con particolare riferimento alla parte pubblica è infatti previsto che nel corso delle indagini preliminari, prima dell’esercizio dell’azione penale, il dissenso motivato espresso ai sensi del su richiamato art. 464 ter c.p.p. produca effetti vincolanti in relazione al rigetto della richiesta di ammissione alla messa alla prova avanzata dall’indagato. La Corte di Cassazione (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 4171 del 21/10/2015 Cc.  (dep. 02/02/2016) Rv. 265696 – 01) ha infatti evidenziato che in questa fase il Pubblico Ministero è chiamato ad esprimere un “parere che è non solo obbligatorio, ma anche vincolante. Si tratta tuttavia di una vincolatività relativa, nel senso che non pregiudica la decisione del giudice sul merito della richiesta, ma determina soltanto lo svolgimento del successivo percorso procedimentale”. Difatti, l’ultimo comma della disposizione predetta consente di riproporre la richiesta prima dell’apertura del dibattimento, a seguito dunque dell’esercizio dell’azione penale, fase in cui il giudice penale ha facoltà di superare il dissenso del Pubblico Ministero, ammettendo l’imputato alla messa alla prova, ove ritenga la richiesta fondata.

Con riferimento invece alla persona offesa, l’art. 464 quater c.p.p. prevede che quest’ultima sia sentita, ove compaia e previo avviso, all’udienza in camera di consiglio fissata per l’ammissione della messa alla prova, riconoscendo legittimazione alla stessa ad impugnare l’ordinanza ammissiva allorché non sia stato dato tempestivo avviso dell’udienza o non sia stata sentita, pur essendo comparsa. Del pari, è riconosciuta, ai sensi del comma settimo dell’art. 464 quater c.p.p., legittimazione ad impugnare al Pubblico Ministero ma non già in capo al Procuratore generale presso la Corte d’Appello, di cui la norma non fa menzione (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 18317 del 09/04/2021 Ud.  (dep. 11/05/2021) Rv. 281272 – 01)

3. Il percorso di messa alla prova

La messa alla prova, ammessa con ordinanza dal giudice procedente, consiste, ai sensi dell’art. 168 bis c.p. nella prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, nel risarcimento del danno per l’effetto cagionato; è altresì previsto l’affidamento dell’imputato al servizio sociale per lo svolgimento di un programma che può consistere in attività di volontariato di rilievo sociale, l’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, o ancora prescrizioni in ordine alla dimora, alla libertà di movimento e alla frequentazione da parte dell’imputato di determinati locali.

Ai sensi del comma terzo dell’art. 168 bis c.p. è inoltre previsto che la sospensione del procedimento con messa alla prova è subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità, non retribuito, per una durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, per non più di otto ore giornaliere, in favore dello Stato, di enti pubblici locali, aziende sanitarie o dedite ad assistenza sociale o volontariato. Le modalità di svolgimento di tali prestazioni, assegnate tenendo conto della professionalità e delle attitudini dell’imputato, non devono tuttavia pregiudicarne le esigenze di lavoro, studio, famiglia o salute.

Le concrete modalità e la durata del percorso di messa alla prova sono stabilite con ordinanza emessa dal giudice, suscettibile di modifica, sentiti l’imputato e il Pubblico Ministero; è altresì possibile la proroga del periodo di messa alla prova, su richiesta dell’imputato, per solo una volta e solo in presenza di gravi motivi. Il giudice può altresì autorizzare, con il consenso della vittima (che in questo caso assume efficacia vincolante) che il risarcimento del danno avvenga in forma rateale, così da venire incontro ad eventuali difficoltà economiche dell’imputato.

La predisposizione del programma di messa alla prova sul quale il giudice è chiamato a pronunciarsi, sentite le parti, convocate all’apposita udienza o comunque in fase predibattimentale, è curato dall’UEPE, che procede ad appositi colloqui conoscitivi e preliminari e predispone una bozza di programma, condivisa dall’imputato o indagato, la cui esecuzione avviene sotto il controllo del medesimo ufficio, che redige apposita relazione.

La materia, sul piano operativo, è disciplinata dal Regolamento 8 giugno 2015, n. 88, con riferimento allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, laddove le ulteriori prestazioni accessorie, ivi comprese le attività di volontariato, sono concordate tra l’imputato e il funzionario dell’UEPE che prende in carico la messa alla prova.

Sul piano applicativo, la necessità che l’imputato o indagato esprima il proprio consenso, quantomeno a mezzo di procuratore speciale, in ordine alle singole prestazioni e alle modalità di esecuzione del programma di messa alla prova, rende meno agevole per il giudice procedere ad interventi volti ad adeguare e modificare il programma, specie a fronte delle tempistiche richieste per l’elaborazione dello stesso: le convenzioni stipulate tra i Tribunali e i corrispondenti uffici competenti richiedono infatti fino a sei mesi di tempo per l’elaborazione del programma, che solitamente avviene solo dopo l’udienza di prima comparizione. Deve inoltre evidenziarsi che spesso l’imputato non partecipa alle udienze e, ove il difensore non sia munito di procura speciale, risulta difficoltoso, con necessità di ulteriori rinvii, concordare eventuali modifiche o integrazioni al programma di messa alla prova.

4. Conclusioni

Nonostante tali difficoltà pratiche, la messa alla prova ha dimostrato un’apprezzabile efficacia deflattiva, che necessita tuttavia di una struttura organizzativa, tanto nella fase di elaborazione, quanto nella fase esecutiva, dotata di risorse adeguate, che non determini un eccessivo allungamento dei tempi processuali e che consentano un effettivo dialogo tra l’UEPE e il magistrato, che consenta una valutazione in concreto il più possibile corrispondente alla funzione rieducativa, prima che deflattiva, dell’istituto.

Non sono invero mancate critiche, legate alla natura confessoria che la richiesta di messa alla prova rischia di assumere, con effetti negativi sulla posizione dell’imputato nel caso in cui l’ordinanza di sospensione con messa alla prova venga revocata, per “grave o reiterata” violazione delle prescrizioni o del programma di trattamento, ivi compreso l’obbligo di prestazione di lavori di pubblica utilità, o di commissione di nuovi delitti non colposi o comunque di reati della stessa specie, quand’anche contravvenzionali o colposi. Difatti, in tali ipotesi, l’imputato si troverebbe nella condizione di essere processato a seguito della richiesta di adesione ad un percorso rieducativo, che presuppone, sul piano logico ed empirico, che abbia commesso un fatto che lo richieda. Si tratta tuttavia di una conseguenza fisiologica, che accomuna l’istituto ad ogni altro strumento alternativo o deflattivo soggetto ad una valutazione discrezionale del giudice, tra cui possono menzionarsi la richiesta di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., la richiesta di applicazione dell’art. 131 bis c.p. in sede predibattimentale o ancora le condotte riparatorie ex art. 162 ter c.p.

Al netto di tali osservazioni, dunque, e ferme restando le esigenze di celerità ed efficienza che l’istituto, come lo stesso processo penale, necessita, possono dunque apprezzarsi i risultati positivi che ha registrato, tali per cui il legislatore della riforma lo ha ritenuto sufficiente, accantonando l’analogo e controverso strumento dell’archiviazione meritata, previsto nell’originario testo licenziato dalla c.d. Commissione Lattanzi.

Quest’ultimo avrebbe consentito, secondo quanto previsto dall’art. 3 bis del Progetto Lattanzi, al Pubblico Ministero ovvero allo stesso indagato, di chiedere l’archiviazione del procedimento, subordinandola “all’adempimento di una o più prestazioni a favore della vittima o della collettività, individuate tra quelle previste dalla legge, quando si procede per i reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria”. Si trattava dunque di un istituto analogo a quello in esame, tanto in relazione al suo oggetto, quanto con riferimento ai presupposti di legge e all’effetto di estinzione del reato, previsto all’esito dell’adempimento delle prestazioni da parte dell’indagato.

Difatti, i primi commentatori hanno evidenziato che i due istituti avrebbero finito per sovrapporsi, distinguendosi principalmente per via della legittimazione ad attivarli che, nel caso dell’archiviazione meritata, sarebbe spettata al Pubblico Ministero. Tuttavia, come anticipato, la versione definitiva del DDL, al vaglio del Senato dal 4 agosto 2021, ha previsto un’estensione della legittimazione a proporre la messa alla prova al Pubblico Ministero, assorbendo nel previgente istituto quello dell’archiviazione meritata.

Dott. Angelo Salerno

Giudice del Tribunale di Bari