L’art. 3 della Costituzione

Commento all’art. 3 della Costituzione italiana

di Gaetano Silvestri, Presidente emerito della Corte Costituzionale

 

Art. 3 – Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

 

Sommario: 1. Un principio universale – 2. La svolta del secondo dopoguerra del Novecento. L’art. 3 della Costituzione italiana – 3. I sette parametri del primo comma e il controllo di ragionevolezza – 4. Dover essere normativo generale e dover essere costituzionale. Lo spazio europeo – 5. Eguaglianza e non discriminazione – 6. Eguaglianza e cittadinanza. Conclusioni

 

  1. Un principio universale

Il principio di eguaglianza ha percorso, come ideale o come male da esorcizzare, l’intera storia sociale, politica e culturale, dell’Occidente. Caricato dei più vari significati e declinato in plurime accezioni e infinite sfumature, esso ha svolto una costante funzione di controcanto a tutte le dottrine e le prassi politiche ispirate all’opposto principio di gerarchia.[1] Giustamente è stato rilevato che «il fantasma dell’eguaglianza […] ha sempre rotto i sogni dei potenti».[2] Presente già nel pensiero greco e praticato, pur con vistosi limiti, nell’Atene antica,[3] il principio di eguaglianza ricompare in forme giuridiche definite in seguito alle Rivoluzioni americana e francese della seconda metà del XVIII secolo e da quell’epoca comincia ad esercitare, in forme diverse, la sua spinta propulsiva e innovativa nel pensiero e negli ordinamenti giuridici dei secoli successivi. Non bisogna infatti dimenticare l’insegnamento che, con il passare del tempo, l’eguaglianza «appare sempre più come un τέλος»[4]

Scomparsa la divisione delle classi per nascita, l’eguaglianza era tutt’altro che conquistata nella sua interezza. Era stato però compiuto un passo avanti fondamentale: la riferibilità potenziale di tutte le norme giuridiche a tutti gli esseri umani. È stato dimostrato come negli stessi ordinamenti americano e francese la proclamazione del principio di eguaglianza coesistesse con residui importanti del sistema schiavistico e che la distinzione in classi sul piano sociale era frutto dell’accoppiata inscindibile di libertà e proprietà, che aveva caratterizzato il pensiero di uno dei padri del liberalismo moderno, John Locke, seguito da tanti altri nei secoli successivi. Eppure  proprio questa storica e temporanea coesistenza mette in rilievo la natura perennemente espansiva dei princìpi costituzionali, che ampliano la loro sfera di influenza, anche a dispetto dei loro stessi ideatori; si potrebbe dire che, distaccandosi da coloro che per primi li hanno teorizzati, dalle classi sociali e dai movimenti politici che originariamente li avevano sostenuti, i princìpi manifestano una ”forza generativa” autonoma, che si concretizza nella realtà istituzionale ogni qual volta si presentano circostanze favorevoli – spesso in precedenza neppure immaginate – all’ampliamento della loro capacità conformativa. Il costituzionalismo, da limitazione del potere, quale era stato inizialmente concepito, si trasforma, arricchendosi, in legittimazione del potere stesso, svolgendo progressivamente anche una funzione prescrittiva.[5]

La comparsa della categoria del soggetto giuridico, evidente astrazione universalistica frutto della codificazione ottocentesca, consente di allargare l’orizzonte dall’eguaglianza formale, da essa simboleggiata, verso la costruzione dei diritti fondamentali, non più confinati nelle velleità giusnaturalistiche del pensiero filosofico, ma giuridicamente fondati su norme costituzionali, contro le quali si scatena una formidabile offensiva teorica e pratica da quanti temono l’abolizione dei vantaggi derivanti dalla divisione della società in classi e, di conseguenza, degli assetti gerarchici prodotti, anche indirettamente, dal censo.

L’ineffettività di molti tra i diritti fondamentali proclamati dalle costituzioni “borghesi” ha portato Karl Marx e una parte considerevole del pensiero marxista a svalutare la loro funzione liberatrice e a porre le premesse per la negazione, negli ordinamenti ispirati a quella dottrina, sia dei tradizionali princìpi dello Stato liberale, quale, ad esempio, la separazione dei poteri, sia del principio di eguaglianza formale, con gli esiti disastrosi che tutti conoscono. L’insegnamento della storia è stato invece che l’eguaglianza si conquista giorno per giorno, con lotte politiche, innovazioni legislative e integrazioni giurisprudenziali, in un moto continuo di cambiamento, di cui non si vede, né si può vedere, la fine.

  1. Lo svolta del secondo dopoguerra del Novecento. L’art. 3 della Costituzione italiana

Dopo la catastrofe della Seconda Guerra Mondiale e l’orrore della Shoha, la restaurazione delle democrazia e della libertà in Paesi come l’Italia, che avevano conosciuto l’oppressione della dittatura fascista, si accompagnò alla acquisita consapevolezza dell’insufficienza della pura affermazione dell’eguaglianza di tutti di fronte alla legge (che lasciava sopravvivere squilibri sociali, discriminazioni e ingiustizie) e venne in rilievo un valore trascurato dall’astrattezza delle categorie giuridiche ereditate da quello che Massimo Severo Giannini ha definito lo Stato “monoclasse”: la dignità. Mentre la Costituzione della Repubblica federale tedesca proclamava significativamente (dato il tempo e il luogo), nell’art. 1, che la dignità umana è «intangibile», l’art. 3, primo comma, della Costituzione italiana aggiungeva alla riaffermazione dell’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge la «pari dignità sociale»[6], che legava indissolubilmente all’aspetto formale dell’eguaglianza quello sostanziale, destinato ad essere meglio specificato nel secondo comma dello stesso articolo.

E difatti quest’ultima norma pone come compito della Repubblica la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che «limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.»

Per la prima volta nella storia del diritto, una norma giuridica, posta per di più nella Costituzione, “smaschera” la finzione dell’astratto eguagliamento dei cittadini e pone in nitida evidenza la scissione tra essere e dover essere oltre il confine che sino ad allora aveva circoscritto la normale deontologia normativa, ma trasformando quella scissione in programma di azione per tutte le forze politiche e le istituzioni dello Stato. La norma costituzionale non dice infatti: è compito della legge, ma : è compito della Repubblica, cioè dell’insieme delle istituzioni democratiche, dal Parlamento al Governo ai giudici. Questa impostazione ha consentito alla Corte costituzionale ed ai giudici comuni con essa collegati di “lavorare” sulle discipline giuridiche esistenti, applicando il principio di eguaglianza non solo come limite a leggi discriminatrici, ma anche come forza trasformativa di una miriade di leggi – e di atti esecutivi conseguenti – sia nelle ipotesi che il legislatore avesse fatto “troppo” (ipotesi tradizionale) sia che avesse fatto “troppo poco” (ipotesi dell’incostituzionalità per omissione).

Ma vediamo più analiticamente i punti fondamentali di questa autentica rivoluzione di civiltà giuridica.

  1. I sette parametri del primo comma e il controllo di ragionevolezza

Senza pretese di esaustività, la norma costituzionale elenca una serie (sette) di fondamenti addotti nella storia delle istituzioni come giustificazione dell’ineguaglianza: il sesso, la razza, la lingua, la religione, le opinioni politiche, le condizioni personali e sociali.

Sarebbe troppo lungo esaminare partitamente ciascuno di questi parametri.[7] In una trattazione generale può essere sufficiente mettere in rilievo l’effetto generale di queste esplicite menzioni contenute direttamente nel testo della Costituzione. La Corte costituzionale ha tradotto lo strict scrutiny della Corte suprema americana nella distinzione tra il comune controllo di non manifesta irragionevolezza delle differenziazioni legislative (e normative in generale) e il ben più penetrante controllo positivo di ragionevolezza, necessario quando la questione sollevata riguardi una legge che entra in uno dei campi prima citati (sentenza n. 249 del 2010), L’onere della prova (burden of proof) ricade su chi afferma la legittimità di una restrizione di un diritto fondamentale esplicitamente previsto nella Costituzione e, a fortiori, su chi trova motivi che giustificano una distinzione basata su uno dei sette parametri indicati dal primo comma dell’art. 3.

Un secondo profilo che sembra utile mettere in evidenza è il progressivo affinarsi degli strumenti volti a realizzare, in misura sempre maggiore, l’eguaglianza di genere. In questo campo si sono segnalate le c.d. azioni positive (nel gergo giuridico anglosassone affirmative actions), la cui legittimità si spiega ammettendo che vi possano essere deroghe parziali all’eguaglianza formale per realizzare forme, altrettanto parziali, di eguaglianza sostanziale. La storica discriminazione delle donne in vari campi della vita sociale e istituzionale (lavoro, accesso alle cariche pubbliche etc.) trova nelle azioni positive un rimedio “riequilibratore”, che comporta una limitata restrizione a carico di determinati soggetti. Un esempio recente è quello della “doppia preferenza di genere” nelle consultazioni elettorali di qualsiasi tipo, che ha trovato una favorevole accoglienza nella giurisprudenza costituzionale: un riequilibrio tra i sessi della rappresentanza (politica e amministrativa) giustifica una limitata compressione della libertà degli elettori, i quali, se scelgono di votare per due nominativi, devono sceglierli di genere diverso (cfr. sentenza n. 4 del 2010).

L’estendersi e il rafforzarsi del movimento in favore della parità dei generi hanno portato peraltro alla modifica dell’art. 51 Cost., effettuata dalla legge costituzionale n. 1 del 2003, mediante l’aggiunta all’ultimo comma del suddetto articolo del seguente periodo: «A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini.» In collegamento con l’art. 3, è stato così inserito nel testo costituzionale uno  strumento innovativo e trasformativo che ha eliminato ogni perplessità sulla possibilità di prevedere deroghe all’eguaglianza formale al fine di realizzare una più avanzata eguaglianza sostanziale.

Un’altra questione che merita di essere ricordata è quella del riferimento costituzionale alla “razza”, di cui qualcuno ha proposto la soppressione, una volta acclarata la totale mancanza di fondamento scientifico di questo concetto.

Pur apprezzandosi le motivazioni che stanno alla base della proposta, si deve osservare che l’intento dei Costituenti è stato quello di bandire, in modo assoluto[8], il razzismo, orientamento culturale e politico, che da una presunta (ed errata) oggettività naturalistica aveva tratto conseguenze negative sul piano della parità di trattamento delle persone. La scelta dei Costituenti sembra ancor oggi attuale. Il vecchio mostro (il razzismo) non è morto, ma sopravvive nelle viscere della società e riemerge periodicamente in varie forme. La xenofobia e il rifiuto del pluralismo culturale sono fenomeni che si legano alla riproposizione della razza come fattore di discriminazione. Il dettato costituzionale è integrato dalla legge n. 205 del 1993 (detta “legge Mancino”), che sanziona penalmente la discriminazione, l’odio e la violenza per motivi razziali, etnici, nazionali e religiosi.

Per tornare al controllo di ragionevolezza in generale, basti in questa sede la scultorea chiarificazione data dalla Corte costituzionale in una fondamentale sentenza (n. 89 del 1996), che ha definito sinteticamente la c.d. irragionevolezza “intrinseca” – cioè sganciata dal tertium comparationis, necessario in tutti giudizi che si richiamano all’art. 3 Cost. – come l’effetto della contraddittorietà «tra la regola introdotta e la “causa” normativa che la deve assistere». E aggiunge: «ove la disciplina positiva si discosti dalla funzione che essa è chiamata a svolgere nel sistema e ometta, quindi, di operare il doveroso bilanciamento dei valori che in concreto risultano coinvolti, sarà la stessa “ragione” della norma a venir meno, introducendo una selezione di regime giuridico priva di causa giustificativa e, dunque, fondata su scelte arbitrarie che ineluttabilmente perturbano il canone dell’eguaglianza.»

La Corte tende sempre più a porre al centro del suo giudizio il “caso” che ha dato origine alla questione, ritenendo che «ragionevole è la norma che risponde alle esigenze del caso valutate alla luce dei princìpi costituzionali, irragionevole è la norma che rompe questo rapporto di congruenza»[9]. Questo rapporto di congruenza obbedisce al criterio generale di coerenza ed equilibrio sotteso al principio di eguaglianza, quale delineato nell’art. 3. Da qui il perdurante legame tra tutte le pronunce di accoglimento per irragionevolezza (anche intrinseca) e la suddetta disposizione costituzionale. Attraverso la verifica della tenuta del bilanciamento, operato dal legislatore, tra contrastanti interessi, tutti costituzionalmente tutelati, la Corte penetra nelle pieghe dei rapporti sociali più minuti e persegue il fine di “rendere giustizia costituzionale”, laddove per giustizia si deve intendere la risposta alle aspettative di chi vede un proprio diritto costituzionale violato o, in comparazione con altri, immotivatamente sottoprotetto dalla legge ordinaria. Oltre che baluardo contro atti eversivi della Costituzione, il giudice delle leggi tutela l’eguaglianza “molecolare”, raddrizzando tanti piccoli (o apparentemente tali) torti subiti da cittadini singoli, gruppi sociali, minoranze etc., con un effetto complessivo dirompente.[10]

L’esito disastroso dei tentativi volontaristici (rectius velleitari) di realizzare forme di eguaglianza estreme (“di tutti in tutto”), ci induce oggi ad accontentarci di una «disuguaglianza ben temperata»[11]. Si tratta di un concetto parzialmente indefinito e molto mutevole, in quanto legato ad una combinazione specifica di fattori normativi, destinata a cambiare nel tempo, in relazione a mutate circostanze economiche, sociali e politiche. Non sarà quindi possibile fissare confini definitivi perché questi ultimi sono, a loro volta, conformati dalle spinte dei “casi”. Tutto ciò mette in primo piano la funzione dei giudici (costituzionale e comuni), che sono soggetti soltanto alla legge, che sarà per loro vincolante solo se conforme alla higher law, cioè alla Costituzione. Il giudizio costituzionale di eguaglianza risulta così il prodotto della combinazione tra regole del caso e princìpi costituzionali, in una visione sistemica, che deve guidare l’interprete.

  1. Dover essere normativo generale e dover essere costituzionale. Lo spazio europeo

Come ogni norma giuridica, il primo comma dell’art. 3 Cost. contiene un dover essere, da attuare nel concreto da tutti coloro – giudici, amministrazione, cittadini – che sono chiamati ad applicarla nei diversi campi e contesti. Il secondo comma invece implica un dover essere non solo normativo, ma storico-sociale, nel senso che la sua perenne spinta dinamica sul sistema ha il naturale effetto di trasformare la realtà sociale da come è a come deve essere.

La domanda cruciale – cui è difficile dare una risposta per tutti appagante – è: chi stabilisce i termini di questo dover essere scaturente dalla Costituzione e proiettato in un futuro non definito e non definibile a partire dalla norma scritta? L’esistenza stessa di questo problema mostra il legame tra attuazione del secondo comma dell’art. 3 e forma di Stato e di governo.

È frequente imbattersi in accuse ai giudici di volersi sostituire alla politica e di prevaricare in tal modo il ruolo costituzionale del Parlamento e del Governo (per limitarsi alle istituzioni centrali dello Stato). Non soltanto politici e giornalisti, ma oggi anche seri studiosi rispolverano la metafora di Lambert sul “governo dei giudici”. Non è chi non veda che l’uso pratico del concetto di eguaglianza sostanziale porta la giurisdizione a lambire i confini della legislazione o dell’amministrazione, a seconda dei casi che devono risolvere. La risposta a questo dilemma non è poi tanto difficile se si procede all’analisi scevri da pregiudizi e da tralatizie rigidità.

L’invenzione della categoria delle “norme programmatiche”, prive di efficacia giuridica attuale, nacque dal rifiuto – in primo luogo da parte degli alti gradi della giurisdizione – di concepire una contraddizione tra il normale dover essere normativo e il dover essere costituzionale. Compito del giudice sarebbe quello di cancellare il dover essere normativo, perché in contrasto con quello costituzionale, o di non riconoscere efficacia giuridica ad un dover essere non ancora presente nel diritto positivo scaturente dalla legislazione in vigore. L’entrata in funzione della Corte costituzionale ha spazzato via la forma più grossolana di questa resistenza del passato, ma non i suoi effetti più sottili, che paralizzavano, in molti casi, le possibilità di intervento della Corte costituzionale. Per superare la difficoltà, la Corte mise al mondo le c.d. sentenze manipolative (specie additive), che esaltavano le potenzialità del dover essere costituzionale, di cui il secondo comma dell’art. 3 era esempio precipuo. Lo scandalo fu enorme e ben presto un Maestro come Vezio Crisafulli, con il richiamo alle “rime obbligate”, tentò – suscitando larghi consensi e qualche critica – di conciliare la tradizionale impostazione dei rapporti tra i poteri dello Stato e l’assoluta novità dell’incostituzionalità per omissione. Era una finzione geniale e per lungo tempo si accettò la spiegazione delle norme implicite nel sistema, che minimizzava il ruolo creativo che i giudici in tal modo esercitavano nei confronti del sistema normativo. Con il passare del tempo, ci si accorse che le “rime obbligate” non erano più sufficienti – ma lo erano mai state? – a dare logica giustificazione a ciò che la Corte era costretta a fare per “rendere giustizia costituzionale”, senza rimanere chiusa in un pilatesco non-intervento.[12]

Da tempo si è appannata la distinzione tra applicazione e attuazione della Costituzione. Quest’ultima si è appalesata come dovere non soltanto per il legislatore, ma per tutte le istituzioni, a cominciare, naturalmente, dalla Corte costituzionale e dai giudici comuni che ad essa forniscono alimento. La norma capofila dell’attuazione costituzionale è proprio l’art. 3, in entrambi i suoi commi, giacché la stessa eguaglianza davanti ala legge – come abbiamo visto – è subito integrata, nello stesso primo comma, dal richiamo alla “pari dignità sociale”. La Corte costituzionale ha ben dipinto il forte legame tra i due commi dell’art. 3, affermando che «il comma 2 dello stesso art. 3 Cost., oltre a stabilire un autonomo principio di eguaglianza sostanziale e di parità delle opportunità fra tutti cittadini nella vita sociale, economica e politica, esprime un criterio interpretativo che si riflette anche sulla latitudine e sull’attuazione da dare al principio di eguaglianza formale.» (sentenza n. 163 del 1993).

Il ruolo della giurisdizione si è ancor più ampliato in seguito alla progressiva integrazione tra giurisprudenza costituzionale nazionale e giurisprudenza delle Corti europee (Corte di giustizia dell’UE e CEDU), che accelera il processo di formazione di una vera e propria “comunità di valori” europea, che va oltre i confini dell’UE e si manifesta concretamente in occasioni storiche di grande rilievo come il contrasto tra l’Unione e la Polonia sull’indipendenza della magistrature e il crudele conflitto bellico provocato dall’aggressione della Russia all’Ucraina, che ha visto scendere in campo, a fianco della Nazione aggredita, tutta l’UE. Si tratta di un cammino faticoso di affermazione della prevalenza dei valori della civiltà democratica sulle risorgenti tentazioni autoritarie e della signoria del diritto sulla forza.

La Carta di Nizza, entrata, dopo Lisbona, a far parte integrante dei Trattati, ha impresso alla trasformazione assiologica dell’Europa un impulso notevole, si è posta quasi come una “codificazione” di valori e princìpi che era affiorati nei decenni sia nella giurisprudenza di Strasburgo che in quella di Lussemburgo. Giustamente è stato detto che si tratta di «un catalogo dei diritti moderno, che da un lato completa il modello CEDU, e lo stessa sistema comunitario, assorbendo dal costituzionalismo statale il carattere fondamentale dei diritti sociali e culturali; dall’altro introduce contenuti che attualizzano lo stesso discorso statale sui diritti […]».[13]

Si intensifica in Europa la circolazione delle tutele, frutto della reciproca fertilizzazione tra le giurisprudenze nazionali, all’insegna del principio, da tempo affermato dalla Corte costituzionale italiana, della massima espansione dei diritti.

  1. Eguaglianza e non discriminazione

Il limite della concezione tradizionale dell’eguaglianza davanti alla legge è – come si accennava prima – la sua astrattezza. Il “soggetto” ha consentito di superare le disparità consacrate dall’ancien régime, da una società di classi e di ceti costituti in base alla nascita, con poche eccezioni. Ciò che aveva aiutato il superamento delle stratificazioni sociali del passato si rivelò tuttavia, ad un certo punto, un limite ad ulteriori avanzamenti, Si comprese che al soggetto astratto della codificazione doveva essere sostituito l’homme situè, la persona concreta, che vive e agisce nella società in una miriade di rapporti, all’interno dei quali si può annidare il germe dell’ineguaglianza. Il principio di eguaglianza sette-ottocentesco, che presupponeva un legislatore (e un giudice) neutrale rispetto alla realtà sociale, si evolve in principio di non-discriminazione, che implica sempre una precisa presa di posizione rispetto a idee, prassi e atti specifici e concreti.[14] Dal cielo delle astrazione alla terra dei rapporti concreti tra le persone, dalla norma generale alla prescrizione particolare, che può scaturire dalla decisione giudiziaria, frutto di un bilanciamento tra princìpi, che interviene in seconda battuta dopo quello effettuato dal legislatore, ma non per questo non aggiunge ulteriori determinazioni al volto che l’eguaglianza assume nelle situazioni particolari.

Il bilanciamento tra princìpi e interessi costituzionalmente protetti è il perno del giudizio di ragionevolezza, per sua natura empirico e non logico-razionale. Poiché non è concepibile l’eguaglianza di tutti in tutto, si deve parlare di «ragionevoli diseguaglianze»[15], la cui legittimità costituzionale deve essere vagliata integrando l’astratto con il concreto, l’eguaglianza generale con la non-discriminazione particolare. Legislatore ordinario, amministrazione e giudici sono chiamati, isolatamente e congiuntamente, a perseguire il fine ultimo della conciliazione tra princìpi apparentemente opposti, ma in realtà compatibili in una visione storicamente armonica (anche se provvisoria) del costituzionalismo contemporaneo.

  1. Eguaglianza e cittadinanza. Conclusioni

La dizione letterale dell’art. 3, primo comma, Cost. si riferisce ai «cittadini». Un’interpretazione meramente testualista potrebbe condurre alla conclusione che il principio di eguaglianza non valga per gli stranieri. Tuttavia, come è stato esattamente osservato, la generalizzazione del principio personalista induce a non restringere il campo solo a coloro che posseggono lo status di cittadinanza[16], con l’unica eccezione dei diritti politici, per i quali rimane la preclusione nei confronti degli stranieri, come emerge peraltro dalla giurisprudenza costituzionale. La stessa legge n. 40 del 1998 (Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) contiene una serie di prescrizioni antidiscriminatorie in favore dei non-cittadini incompatibili con una esclusione di questi ultimi dall’ombrello dell’eguaglianza. Per attenersi ad una posizione moderata – destinata probabilmente ad essere, con il tempo, completamente superata – si potrebbe dire che resta comunque aperta al legislatore ordinario la possibilità di estendere la titolarità e la fruizione anche di diritti politici agli stranieri, secondo valutazioni di opportunità che non incontrano alcun ostacolo di natura costituzionale.

Il cammino verso il perfezionamento dell’eguaglianza in tutti i rapporti – civili, economici, sociali e politici – non si è certamente fermato, né possiamo ritenere di essere giunti al punto di arrivo. La forza espansiva e generativa del principio di eguaglianza è ancora attiva e sempre lo sarà di fronte alle sfide della storia. Non possiamo non concordare con chi ha detto: «I progressi raggiunti […] devono servire ad alimentare i progressi successivi, non l’autocompiacimento, che spesso funge da pretesto per giustificare tutte le ipocrisie e le rinunce.»[17]

L’inesauribilità dei valori (e quindi dei princìpi costituzionali) è garanzia di futuro, in un perenne sforzo dinamico e innovativo segnalato dalla continua insoddisfazione verso le conquiste ottenute. Solo i regimi autoritari dicono di sé stessi di essere perfetti. Le democrazie pluraliste sono destinate ad un incessante travaglio, che le rende fragili, ma ne attesta la superiorità.

Note bibliografiche

[1] Opposto, ma componibile in vari modi, come vedremo in seguito.

[2] N. Bobbio, Eguaglianza e libertà, Einaudi, Torino 1996, p. 17

[3] Cfr. A: Schiavone, Eguaglianza. Una nuova visione sul filo della storia, Einaudi, Torino 2019, pp. 10 ss.

[4] N. Bobbio, op. cit., p. 40

[5] Cfr. P. Ridola, Esperienza, costituzioni, storia. Pagine di storia costituzionale, Jovene, Napoli, 2019, pp. 91 ss.

[6] Su questa formula, cfr. G. Ferrara, La pari dignità sociale (Appunti per una ricostruzione), in Sudi in onore di G. Chiarelli, II, Giuffrè, Milano 1974, pp. 1089 ss.

[7] Per una panoramica ragionata sulla giurisprudenza costituzionale distinta per parametri, cfr. M. Luciani, I princìpi di eguaglianza e di non discriminazione, una prospettiva di diritto comparato. Studio, Servizio Ricerca del Parlamento europeo, Ottobre 2020, pp. 37 ss.

[8] Cfr. L. Paladin, Eguaglianza (diritto costituzionale) in Enciclopedia del diritto, XIV, Giuffrè, Milano 1965, p. 540.

[9] G. Zagrebelsky, Uguaglianza e giustizia nella giurisprudenza costituzionale, in Corte costituzionale e principio di eguaglianza, CEDAM, Padova 2002, p. 66.

[10] M. Ainis, L’eguaglianza molecolare, in Scritti in onore di G. Silvestri, Giappichelli, Torino 2016, I, p. 28.

[11] J. Rawls, Giustizia come equità. Una riformulazione (2001), tr. it. Feltrinelli, Milano 2003, p. 147

[12] Mi sia consentito, sul punto, il rinvio a G. Silvestri, Del rendere giustizia costituzionale, in Questionegiustizia, 13 novembre 2020, p. 1 ss.

[13] A. D’Aloia, Eguaglianza. Paradigmi e adattamenti di un principio “sconfinato”, in Rivista AIC,  n. 4/2021, p. 75.

[14] «Poiché ogni situazione è contraddistinta da una sua specificità e richiede una risposta appropriata, la legislazione interviene non già con un unico principio generale, ma con una ricca varietà di regole e, se necessario, con le dovute eccezioni alla regola: Dopo tutto, una delle sfide più complesse della nostra epoca  è quella di eliminare le discriminazioni senza sacrificare la diversità. Preservare ad un tempo le identità e le differenze senza perpetuare discriminazioni e svantaggi a carico dei gruppi deboli è un’impresa paragonabile alla quadratura del cerchio. Ben si comprende, dunque, che il diritto intraprenda nuove strade e nuovi tentativi.»: M. Cartabia, Riflessioni in tema di eguaglianza e di non discriminazione, in Alle frontiere del diritto costituzionale. Scritti in onore di V. Onida, Giuffrè, Milano 2011, p. 417.

[15] Cfr. G. U. Rescigno, Il principio di eguaglianza nella Costituzione italiana, in Associazione italiana dei costituzionalisti, Annuario 1998. Principio di eguaglianza e principio di legalità nella pluralità degli ordinamenti giuridici, Atti del XIII Convegno Annuale. Trieste, 17-18 dicembre 1998, CEDAM, Padova 1999, pp. 97 ss.

[16] Cfr. P. Barile, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, il Mulino, Bologna 1984, p. 74.

[17] Th. Piketty, Una breve storia dell’uguaglianza (2021) tr. it. La nave di Teseo, Milano 2021, p. 248.

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Gaetano Silvestri, professore ordinario di diritto costituzionale dal 1980. Nel triennio 1988-1991 è stato componente del Comitato direttivo dell’Associazione italiana dei costituzionalisti. Dal 1990 al 1994 è stato componente del Consiglio superiore della magistratura. Dal 1998 al 2004 è stato rettore dell’Università di Messina. È stato altresì Vicepresidente della Conferenza dei rettori delle università italiane. Nel 2005 è stato eletto dal Parlamento giudice della Corte costituzionale. Nel 2013 è stato eletto Presidente della stessa Corte. È cessato dall’incarico il 28 giugno 2014. Nel 2016 è stato eletto Presidente della Scuola superiore della magistratura. Nel 2018 è stato eletto Presidente dell’Associazione italiana dei costituzionalisti. È autore di oltre centocinquanta pubblicazioni, su riviste specializzate ed in opere collettanee, riguardanti molteplici argomenti di diritto costituzionale ed è stato relatore in numerosi convegni scientifici in Italia e all’estero. E’ componente del Comitato scientifico della Rivista “La Magistratura”.