Ogni tre giorni in Italia viene uccisa una donna, nella maggior parte dei casi succede in ambito familiare e affettivo. Nonostante il quadro normativo italiano di contrasto alla violenza sulle donne sia tra i più importanti a livello europeo e internazionale, la cronaca e i report, costantemente aggiornati da istituzioni e associazioni, raccontano di un fenomeno radicato e trasversale che non riguarda le fasce più disagiate ma tutti. Una realtà che non si contrasta solo nelle aule di giustizia, ma nella società, dalla famiglia alla scuola, dai luoghi di lavoro alle istituzioni. A che punto è questo sforzo collettivo, cosa ci raccontano le statistiche e come vanno interpretate, quali sono i passi compiuti in tema di formazione di forze dell’ordine e giudici e quali le maggiori criticità rispetto a risorse e carenze di organico. L’esperienza di due magistrati, Elisabetta Canevini e Ciro Angelillis, impegnati su questo fronte rispettivamente a Milano e Bari, offre una serie di risposte a queste e altre domande.
COSA DICONO I REPORT: NUMERI SEMPRE TROPPO ALTI MA DENUNCE IN AUMENTO
Nei primi 11 mesi del 2024, nel periodo dal 1°gennaio al 18 novembre, sono 98 le donne uccise, 84 in ambito familiare e affettivo . Nello stesso periodo del 2023 erano state 89. Se fossero numeri si potrebbe parlare di un trend in lieve calo. Ma parliamo di persone e qualunque cifra resta spropositata.
Ci sono però altri dati che mettono in luce qualche cambiamento: innanzitutto un aumento considerevole delle denunce. Nei primi sei mesi del 2024, secondo il report Istat , le chiamate al 1522, il numero gratuito attivo 24 ore su 24 per le vittime di violenze, sono cresciute dell’83,5 % nel primo trimestre (17.880 in termini di valori assoluti) e del 57,4% (pari a 15.109 chiamate) nel secondo trimestre rispetto agli stessi periodi del 2023.
Altro numero interessante, se pur ancora non consolidato riguarda l’andamento dei reati spia e delle loro segnalazioni. Nel primo semestre del 2024 – secondo l’analisi pubblicata dal ministero dell’Interno – gli atti persecutori rispetto allo stesso periodo del 2023 sono diminuiti dell’8% ma le relative segnalazioni sono aumentate del 18%: lo stesso accade per le violenze sessuali, diminuite del 2% a fronte di segnalazioni aumentate del 5%. Per quanto riguarda il numero dei maltrattamenti contro familiari e conviventi si registra un incremento del 5%, con un sensibile aumento però anche in questo caso delle segnalazioni, in crescita del 23%.
Cifre che attestano come si sia in qualche modo infranto l’isolamento delle vittime, secondo Elisabetta Canevini, componente della giunta esecutiva dell’Anm e presidente della V sezione penale del Tribunale di Milano, che si occupa di violenza di genere.
Se le denunce sono in aumento, spiega la magistrata, “vuol dire che comunque si è creato un sistema di fiducia verso l’autorità giudiziaria e le istituzioni e c’è anche molta più competenza sia nelle forze dell’ordine, che nelle scuole, che nel sistema sanitario per riconoscere i fattori di rischio e per fare, di conseguenza, le segnalazioni”. Canevini ricorda infatti che spesso le denunce partono indipendentemente dalla persona offesa, soprattutto in materia di maltrattamenti, e “questo vuol dire che si sta andando nella direzione giusta”. Insomma “c’è più consapevolezza e più facilità di denuncia sui diversi fronti, teniamo presente che dagli accertamenti dell’Istat di un po’ di anni fa si faceva riferimento a un’emersione del 10% del fenomeno. Sicuramente adesso è aumentata ma sicuramente c’è ancora tantissimo sommerso che non viene intercettato dalle istituzioni ed è di questo di cui ci dobbiamo preoccupare”.
Invita a inquadrare le cifre anche oltre l’Italia Ciro Angelillis, alla guida un team specializzato sulla violenza di genere presso la Procura di Bari che sottolinea: “I numeri delle denunce che riguardano i reati di violenza di genere, di violenze endo-familiari e di violenze sessuali sono molto alti già da qualche anno. Nel circondario barese abbiamo registrato oltre 1000 denunce in un anno, ma il dato è in linea con quello nazionale, nel senso che il rapporto popolazione/numero di denunce è omogeno in tutto il paese, in alcune parti di Europa e del modo occidentale è persino superiore”.
Per il procuratore aggiunto di Bari è “difficile dare una lettura univoca di questi numeri, certamente sono il segnale che il fenomeno si sta rivelando difficile da contrastare ma anche che, rispetto al passato, rimane sempre meno sottotraccia per via dei progressi che le donne hanno fatto sotto il profilo della consapevolezza dei loro diritti”. D’altra parte il magistrato ricorda come siamo davanti ad “un fenomeno trasversale, nel senso che è certamente favorito dalle situazioni di degrado e anche di sola difficoltà economica, ma riguarda tutte le categorie sociali e tutte le fasce di età, anche quelle dei più giovani”.
A preoccupare ci sono infatti altri due elementi: le condotte sempre più violente che finiscono con esiti drammatici e l’abbassamento dell’età sia degli autori di reato che delle parti offese. In entrambi i casi, nel primo per la valutazione del rischio che richiede grandissime professionalità, nel secondo perché diventa ancora più difficile tutelare i soggetti coinvolti, la formazione e la specializzazione hanno un ruolo essenziale.
FORMAZIONE E SPECIALIZZAZIONE
“Bisogna sapere leggere le parole delle donne” sintetizza Elisabetta Canevini: “tutte le indicazioni anche sovranazionali e le delibere del Csm impongono che si lavori moltissimo su questo fronte, ci vogliono moltissime competenze, bisogna tutti lavorare sulla conoscenza delle competenze limitrofe rispetto alle proprie, sempre con la stessa finalità di tutela e prevenzione fino alla competenza del processo che deve essere molto specializzata” .
Nel contesto della formazione assume grande rilevanza anche il problema della valutazione del rischio. “Perché spesso le donne che raccontano la violenza subita raccontano episodi ripetuti negli anni e difficilmente riescono a esprimere il rischio che corrono” – spiega Canevini; “l’operatore tecnico sa quali spunti cogliere dalle parole della persona offesa, soprattutto ad esempio in materia di valutazione dei maltrattamenti in famiglia che è una fattispecie di reato che si reitera nel tempo e che ha un tempo medio di denuncia di 8 anni, perché per le donne quella è la normalità”.
Anche per questo è importante secondo Elisabetta Canevini sforzarsi sempre per dare un messaggio di fiducia. Fiducia nel fatto che chi ha il coraggio di chiedere aiuto e denunciare “si mette nelle mani di persone competenti perché è difficilissimo uscirne da soli”. E fiducia perché “il processo è un luogo sicuro”.
“Le indagini nell’ambito delle dinamiche endo-familiari non sono semplici e necessitano di capacità specifiche” – ricorda il procuratore Angelillis che elenca una serie di esempi utili a comprendere meglio il ruolo della formazione. “Si pensi, alla valutazione della credibilità e attendibilità della persona offesa. La vittima di violenza domestica che riferisce le vessazioni subite, presenta caratteristiche completamente diverse da quelle della vittima di un reato di truffa o di furto che si limita a riferire un fatto. Occorre, pertanto, che i magistrati si confrontino con altri saperi per imparare, ad esempio, che le interviste non devono essere esplicitamente o implicitamente giudicanti o che l’ambivalenza di sentimenti, la ritrattazione o il pentimento sono possibilità che non denotano automaticamente scarsa credibilità. Allo stesso modo, occorre imparare ad intervistare la vittima di violenza sessuale senza pregiudizi o condizionamenti in quanto non è possibile tipizzare la reazione delle donna vittima di violenza”.
LE LEGGI CI SONO MA NON BASTA
Dalla ratifica della Convenzione di Istanbul al Codice rosso agli interventi del Consiglio superiore della magistratura il quadro normativo in Italia è ampio e strutturato. Eppure il contrasto alla violenza sulle donne resta un’emergenza.
Ciro Angelillis riassume così: “il fenomeno della violenza ai danni delle donne è una patologia sociale prima ancora che un fenomeno criminale. Dunque l’azione della magistratura che, comunque, deve essere inflessibile ed immediata, non è sufficiente ma è indispensabile un’opera di educazione culturale di medio e lungo termine di cui deve farsi carico la società civile. In questa azione di contrasto al fenomeno della violenza di genere la magistratura è ‘al fronte’, ma la chiave è nelle ‘retrovie’ dove opera la società civile”.
Quanto alla produzione normativa sicuramente “intensa” il magistrato osserva come “oggi esiste un vero e proprio microcosmo normativo, c.d. del codice rosso, conseguente ad una politica giudiziaria molto aggressiva che amplia l’area di protezione e tutela della persona offesa, ma allo stesso tempo riduce quella di tutela dei diritti della difesa (si pensi all’arresto differito che consente alla polizia giudiziaria di arrestare senza il presupposto della flagranza). Inoltre, è stato introdotto un sistema di controllo sulle tempistiche con cui si svolgono le indagini e si definiscono i procedimenti di codice rosso che implica un costante flusso di informazioni dal pubblico ministero alla Procura generale di corte di appello e da questa alla Procura generale di corte di cassazione. Non può sottacersi”, conclude Angelillis, “che si tratta di adempimenti di tipo burocratico che finiscono per assorbire energie di uffici già in sofferenza per le carenze di organico”.