
Una storia lunga 150 anni
Nel 2024 è ricorso il 150° anniversario della promulgazione della legge istitutiva degli Ordini forensi, la legge n.1938 del 1874, un traguardo – come ha detto il presidente del C.N.F., avv. Francesco Greco, alla celebrazione della ricorrenza tenutasi a Roma lo scorso 6 dicembre – di straordinario valore storico e simbolico per l’intera comunità forense, che è un momento di riflessione sul passato, ma rappresenta anche un’occasione per proiettare lo sguardo sul futuro della professione di avvocato.
Nel corso di questi 150 anni, l’Avvocatura ha svolto un ruolo decisivo non solo come baluardo del sistema di tutela giurisdizionale, ma anche come protagonista della storia civile del paese.
Non tutti sanno che Giuseppe Mazzini, prima di inseguire i suoi ideali e darsi all’impegno politico, esercitò la professione di avvocato, come avvocato dei poveri, impegnandosi nella difesa dei non abbienti. E così, erano avvocati Aurelio Saffi e Carlo Armellini che, insieme a Mazzini, furono i triunviri della Repubblica romana e che contribuirono ad elaborare la Carta costituzionale del 1849. Ancora, avvocato fu Francesco Crispi, uomo simbolo della sinistra storica che diede impulso, in maniera decisiva, convincendo Giuseppe Garibaldi, alla spedizione dei Mille. Erano avvocati anche Carlo Cattaneo, Francesco Carrara e Giuseppe Zanardelli, che, quale Ministro di Grazia e Giustizia nel governo Depretis, elaborò il codice penale del 1889. E, poi, Pasquale Stanislao Mancini, accademico e padre del diritto internazionale, che lottò per l’abolizione della pena di morte.
Loro, con tanti altri, tutti avvocati, furono protagonisti del Risorgimento e parteciparono, in modo determinante, alla creazione dello Stato unitario.
Gli avvocati, nei decenni successivi, si distinsero in gesta eroiche nella grande guerra, così come nella seconda guerra mondiale e, più di ogni altra professione liberale, si impegnarono nella lotta al fascismo, nella liberazione e nel passaggio allo Stato repubblicano.
Scrisse, all’indomani della caduta del fascismo, in un editoriale sul Corriere della Sera, Piero Calamandrei: “Gli avvocati sapevano in anticipo che, se avessero parlato in difesa della libertà, all’uscita dall’aula, avrebbero trovato i bastonatori comandati. Eppure parlarono, come dettava loro la coscienza”.
E avvocati sono stati alcuni Presidenti della Repubblica: Enrico De Nicola, Giovanni Leone, Sandro Pertini e lo stesso Sergio Mattarella.
L’Avvocatura ha, poi, dato impulso, in maniera decisiva, alla leggi a favore delle donne e per la parità di genere -per il vero, ancora non del tutto raggiunta- e lo ha fatto, soprattutto, con le sue donne, con le donne avvocato.
Tutti conoscono la storia della prima avvocata, Lidia Poet, la quale si laureò nel 1881 con una tesi sulla emancipazione femminile e sul diritto di voto delle donne e che riusci ad ottenere l’iscrizione all’Albo degli Avvocati di Torino solo nel 1920, dopo una battaglia giudiziaria e grazie alla legge Sacchi del 1919, che aboliva l’autorizzazione maritale per l’accesso delle donne ai pubblici uffici. Ed ancora, si distinsero per il loro impegno civile e, quindi, non solo nelle aule di giustizia, Lina Furlan, la prima donna Avvocato ad occuparsi della materia penale; Angiola Sbaiz, la prima Presidente di un Consiglio dell’Ordine, quello di Bologna, che diresse dal 1978 al 1990; Tina Lagostena Bassi, la quale si impegnò, tra gli anni ’70 e ’90, nei processi per stupro a difesa delle donne – tutti la ricordano come patrono di parte civile nelle vicende del massacro del Circeo e degli stupri di Nettuno -, contribuì a contrastare la cultura di colpevolizzazione della donne all’epoca ancora ricorrente in questo tipo di processi e, successivamente, come parlamentare, diede impulso decisivo alla legge n.66/96 che fornì una nuova e più idonea collocazione alle fattispecie criminose contrarie alla libertà sessuale, inserendole tra i delitti contro la libertà individuale, in luogo di quelli contro la morale pubblica e il buon costume.
Gli avvocati, per il proprio impegno a favore della legalità, hanno pagato un importante tributo pure nella lotta contro la mafia. Tra i tanti avvocati vittime della mafia, tra i più noti, vi è Piersanti Mattarella. Ma devono essere ricordati anche altri, meno conosciuti, come Serafino Famà, che fu ucciso per aver sconsigliato una donna di rendere falsa testimonianza nel processo a carico di un mafioso, ed Enzo Fragalà, definito dai mafiosi, in un’intercettazione telefonica, “cornuto e sbirro“, aggredito all’uscita del suo studio e finito a bastonate perchè indirizzava i suoi clienti a collaborare con la Giustizia.
Per non parlare degli avvocati che hanno dato la vita per la lotta al terrorismo: tra questi, Fulvio Croce, Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Torino, che fu ucciso nel 1977 perchè incaricato dalla Corte di Assise, quale difensore d’ufficio, nel processo ai vertici delle brigate rosse che, non riconoscendo l’autorità dello Stato, avevano rifiutato la difesa fiduciaria, e i giuslavoristi, Massimo D’Antona e Marco Biagi, anch’essi assassinati, tra il 1999 e il 2002, dalle Nuove brigate rosse.
E come non rivolgere il pensiero a tutti quegli avvocati che, ogni giorno, vengono minacciati solo per il fatto di compiere il loro dovere. Secondo le statistiche elaborate dal C.N.F., tra il 2021 e il 2023, oltre 300 avvocati sono stati oggetto di minacce, intimidazioni o aggressioni in Italia, ciò a causa di un preoccupante processo, purtroppo molto diffuso nell’opinione pubblica, di identificazione dell’avvocato con il proprio cliente, secondo cui l’avvocato che difende una persona che si è macchiata di gravi delitti è esso stesso colpevole, da censurare e da esporre al pubblico ludibrio. L’ultimo episodio, in ordine di tempo, è quello che ha interessato l’avv. Giovanni Caruso, difensore di Filippo Turetta, autore dell’omicidio di Giulia Cecchetin, che, all’indomani della sentenza di condanna pronunciata dalla Corte d’Assise di Venezia, si è visto recapitare presso il proprio studio una busta contenente tre proiettili.
Trattasi di una deriva che affonda le sue radici in un dilagante populismo giudiziario che deve essere con forza contrastato, perché un paese incapace di comprendere il ruolo dell’Avvocatura è un paese che mette in dubbio i principi fondanti di una democrazia liberale.
Ebbene, oggi come allora, come 150 anni fa, gli avvocati sono servitori dello Stato e garanti dello Stato di diritto.
Ed essi vogliono continuare a svolgere questo ruolo, senza abdicarvi, nonostante la categoria stia attraversando uno dei periodi più difficili della propria storia e, nel contempo, è chiamata a confrontarsi con nuove sfide ed incognite su proprio futuro.
Ci si riferisce, innanzitutto, all’inclusione di genere che, anche all’interno dell’Avvocatura -bisogna riconoscere – non è ancora definitivamente compiuta.
Secondo l’ultimo Rapporto Censis sulla condizione degli avvocati italiani, pubblicato nel maggio del 2024, a livello nazionale, il dato numerico riporta un 47% di avvocate a fronte di un 53% di avvocati. E, però, la parità non si risolve solo nei numeri. È necessario il raggiungimento di una parità effettiva che tenga conto anche del reddito e, su questo, purtroppo, il percorso è ancora molto lungo, tanto che, in base al citato Rapporto Censis, il reddito medio delle avvocate è inferiore di oltre la metà rispetto a quello dei colleghi uomini.
Questo gender gap che, nel lungo periodo, è anche di tipo pensionistico, è ben presente all’Avvocatura istituzionale, tanto che rientra nell’agenda del tavolo di lavoro recentemente costituito presso il C.N.F. per la riforma dell’ordinamento forense. Si tratta di introdurre chiari e concreti meccanismi di salvaguardia che possano garantire alle avvocate dei compensi adeguati in base alla quantità e alla qualità del lavoro svolto e che superino ogni distinzione di genere, attraverso la regolamentazione ed il riconoscimento della giusta dignità, una volta per tutte, al rapporto di monocommittenza e, soprattutto, la promozione di sistemi effettivi di welfare attivo per le avvocate, con uno sforzo che vada ben oltre le misure, pur apprezzabili, attualmente previste dalla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense.
V’è, poi, da fare i conti con il preoccupante calo di attrattività della professione forense da parte dei giovani.
Negli ultimi anni, il numero degli iscritti alle facoltà di giurisprudenza sta lentamente, ma progressivamente, diminuendo, così come il numero dei praticanti e, di conseguenza, dei nuovi avvocati.
Le ragioni di tale decrescita vanno individuate nelle spese troppo elevate connesse all’avvio dell’attività professionale e nella saturazione del mercato dovuta al numero eccessivo degli iscritti raggiunto negli ultimi decenni, fattori che hanno comportato esasperata competitività, tariffe in calo e difficoltà nell’acquisizione di nuovi clienti.
Tale realtà, se, da un lato, è da taluni positivamente apprezzata in quanto permetterà una riduzione della concorrenza, l’apertura di nuovi spazi di operatività e una graduale riespansione dei redditi, dall’altro lato, pone un serio problema di tenuta, nel medio e lungo periodo, del nostro sistema previdenziale.
A queste difficoltà, vanno aggiunti gli effetti deleteri, per la classe forense, indotti dalla riforma Cartabia, la quale, nelle intenzioni del legislatore e secondo i dettami dell’Europa, doveva realizzare la riduzione della durata dei tempi dei processi, risultato questo che, a due anni dall’entrata in vigore delle nuove norme, può dirsi in parte raggiunto, ma attraverso una consistente e preoccupante riduzione del numero delle nuove cause, specie nel settore civile.
L’introduzione di nuove regole processuali non sempre chiare e poco coerenti con il sistema, i continui aggiustamenti attraverso i correttivi e gli eccessivi formalismi, molto spesso, fanno sì che gli avvocati, per promuovere e coltivare diligentemente un contenzioso, siano chiamati ad affrontare una vera e propria corsa ad ostacoli; ma, soprattutto, vi è stato un aumento smisurato dei costi – ci si riferisce, ad esempio, a quelli della mediazione obbligatoria, non adeguatamente compensati dai benefici fiscali, pure promessi – che disincentiva coloro i quali si rivolgono ad un avvocato ad intraprendere nuovi contenziosi.
In altri termini, è concreto il rischio di una giustizia sempre più lontana dai cittadini ed appannaggio solo dei ceti più abbienti, di fatto, una giustizia denegata.
E, infine, vi è il tema dell’intelligenza artificiale con cui, ormai, non possiamo più fare a meno di confrontarci.
Innanzitutto, come è stato affermato da autorevoli studiosi della materia, l’A.I. è già negli studi legali. Infatti, se si lavora in “Windows”, il sistema operativo di Microsoft, e si utilizza il programma di scrittura “Word”, ci si trova di fronte a un sistema di A.I., denominato “Copilot”, che permette di redigere atti giudiziari mediante l’utilizzo di documenti già presenti nella memoria del pc o nel cloud personale.
Sicchè, è chiaro che l’A.I. è, ormai, a portata di tasto e sarebbe irrealistico impedirne o vietarne l’uso, ma, come tutte le nuove tecnologie, se, ove sapientemente governata, apre nuove prospettive e possibilità – dalla gestione più efficiente delle attività quotidiane, alla automatizzazione di processi ripetitivi, sino alla ricerca e all’analisi di dati legali complessi – allo stesso tempo, comporterà che chi, tra gli Avvocati, non saprà adattarsi ai nuovi scenari, al machine learning e ai suoi algoritmi, già in un futuro molto prossimo, rischierà, inevitabilmente, di restare fuori dal mercato.
Comunque sia, gli avvocati sono abituati ad affrontare le difficoltà, lo hanno sempre fatto nella loro storia e continueranno a farlo – come è riportato a conclusione del breve filmato proiettato dal C.N.F. nel corso della richiamata celebrazione di 150 degli Ordini Forensi – con l’impegno e la passione di sempre, perché essi, da 150, sono al fianco dei cittadini, a sostegno dei più deboli, per la tutela dei diritti, al servizio del Paese.