Diario di bordo di un neomagistrato

Dal concorso in magistratura alla presa delle funzioni: l’articolo è il breve racconto dell’esperienza vissuta per diventare magistrato e dei primi passi mossi all’interno della Magistratura. 

Il mio viaggio verso la meta del concorso in magistratura è iniziato quando ero bambina. Credo fortemente che magistrati non si nasca, lo si diventa. Io, per esempio, non sono figlia d’arte: nessuno della mia famiglia mi ha indotta a scegliere giurisprudenza né, poi, a tentare il concorso in magistratura. Ricordo di aver deciso di intraprendere questa strada quando, come forse molti miei coetanei nati all’inizio degli anni Novanta, sono rimasta affascinata dalla figura quasi eroica del magistrato, raccontata attraverso le storie di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Quella figura, per me, era un simbolo, un baluardo di legalità, un mestiere attraverso cui aiutare gli altri, risolvere i loro problemi anche quotidiani, sconfiggere le ingiustizie. È sulla scorta di queste suggestioni che mi sono persuasa che da grande sarei voluta diventare anch’io un magistrato. Certo, all’epoca non ero minimamente consapevole di cosa mi attendesse. Ho compreso quanto impegnativo fosse, anche emotivamente, il cammino che avevo scelto soltanto dopo la laurea: secondo me, infatti, è allora che il giovane concorsista realizza quanti sacrifici sono richiesti per entrare in magistratura e quanto forte deve essere la motivazione che ti spinge ad inseguire quel sogno nel cassetto e ti aiuta a superare gli attimi di sconforto, quando le pagine da studiare sembrano infinite o arrivano le prime delusioni. Se ci penso, infatti, il momento più difficile – ma anche quello che mi ha più temprata – è stato il primo concorso cui ho preso parte: a luglio 2017, infatti, dopo tre faticosissimi giorni di prove scritte, ho deciso di non consegnare, non reputando la mia preparazione ancora all’altezza di quella che, secondo me, era indispensabile per ottenere l’idoneità. In quell’istante mi sono sentita amareggiata, tanto che più volte mi sono chiesta se ne valesse davvero la pena, di sacrificare tutto, il tempo e gli affetti. Mi sono risposta di sì quando non sono riuscita ad accettare una buona proposta di lavoro perché il solo pensiero di abbandonare il sogno, che avevo sempre avuto, di diventare magistrato, mi pesava terribilmente. È stato allora che mi sono rimboccata le maniche e ho ripreso a studiare per il concorso successivo, che poi si è rivelato essere l’occasione giusta.

Da quando sono entrata in magistratura non c’è stato un momento in cui io abbia rinnegato la scelta compiuta e i sacrifici fatti. I diciotto mesi di formazione iniziale sono stati, anzi, una meravigliosa conferma. Il mio concorso, peraltro, non è stato dei più fortunati perché il tirocinio ha coinciso con l’emergenza pandemica, che ci ha privati di tante opportunità, soprattutto della possibilità di assaporare la spensieratezza delle settimane a Scandicci, normalmente tappa imprescindibile nel viaggio del MOT verso la presa delle funzioni, perché consente la socializzazione con i colleghi provenienti da tutti i distretti di Corte d’appello e agevola la diffusione e la conoscenza delle diverse prassi giudiziarie. Nonostante ciò, questi mesi resteranno per me indelebili. Sono infatti stati caratterizzati dal prezioso e costante confronto con i magistrati affidatari, cui è seguita una profonda crescita, personale ancor prima che giuridica. Il percorso umano e professionale compiuto sin qui si è rivelato così intenso nel suo complesso che individuare il momento più importante vissuto è compito arduo. Forse la principale soddisfazione di questo primo periodo da magistrato è arrivata il giorno in cui un affidatario mi ha comunicato che un provvedimento alla cui redazione avevo collaborato sarebbe stato pubblicato su un’importante rivista. Ma è stato altrettanto emozionante venire omaggiata del premio della toga intitolato a Marina Attenni Scorza, istituito dalla Famiglia Scorza con il patrocinio dell’Istituto Mutualità Magistrati, ed averlo ricevuto direttamente dalle mani del Primo Presidente della Corte di Cassazione lo scorso 27 ottobre.

Del tirocinio ci sarebbero anche molti aneddoti da raccontare. Ad un episodio in particolare, però, ripenso sorridendo, perché testimonia l’importanza della formazione iniziale come strumento che consente al MOT di comprendere al meglio le proprie attitudini e capacità. Quando ho prestato giuramento, infatti, ero convinta di voler fare il giudice penale. Il primo giorno di tirocinio ho parlato di questa mia intenzione con l’affidatario che avrei affiancato in quei mesi, un bravissimo giudice civile, che di fronte alla mia affermazione è rimasto in silenzio, con lo sguardo di chi non era troppo convinto che quella sarebbe stata davvero la mia strada. L’anno successivo, il giorno della scelta delle sedi, ho deciso che sarei stata anch’io un giudice civile. Ho ripensato allora a quella conversazione e ho realizzato quanto siamo fortunati noi Magistrati: possiamo svolgere un lavoro con mille sfaccettature diverse, incredibilmente belle, e siamo liberi di sperimentarle tutte.

Mentre cerco di riordinare, mettendoli nero su bianco, questi pensieri, avverto un po’ di malinconia: il tirocinio volge al termine, la presa delle funzioni è vicina ed è tempo di stilare un bilancio di quello che è stata la mia esperienza in Magistratura sino a qui, degli insegnamenti e delle sensazioni che mi ha lasciato. Credo che il tutto si possa riassumere in una frase, che poi è anche il mio motto: “scegli il lavoro che ami e non lavorerai neanche un giorno”. È ciò che direi ad un giovane che si appresta ad affrontare il concorso, se mi chiedesse consiglio. Gli direi di intraprendere questa strada solo se coltiva un incondizionato amore per il diritto, se è mosso dal desiderio di fare il magistrato per garantire un buon servizio alla collettività e di essere magistrato anche fuori dalle aule giudiziarie, e non invece se, semplicemente, si sente affascinato dall’idea di conseguire un determinato status sociale. Credo infatti fermamente che, per migliorare e migliorarsi, la Magistratura abbia bisogno – oltre ad un’importante opera di potenziamento dell’organico degli uffici giudiziari – proprio di questo: di più magistrati, oltre ai tanti che già ci sono, entusiasti del proprio lavoro e disposti a svolgerlo con umiltà e spiccato senso del dovere e di responsabilità. Sono questi, a mio avviso, gli ingredienti indispensabili da cui partire per ricostruire la fiducia dei cittadini nel sistema giudiziario e per restituire dignità alla Magistratura, che altrimenti rischia di continuare ad essere vista dai non addetti ai lavori come una casta di privilegiati burocrati, totalmente disinteressati alle vicende umane sottese ai singoli fascicoli.