Una lettera incompiuta, una speranza sempre viva

L’editoriale della direttrice Monica Mastrandrea sull’anniversario della strage di via D’Amelio

 

Alle cinque del mattino del 19 luglio 1992 Paolo Borsellino scriveva. Dodici ore prima che un’autobomba lo uccidesse insieme ai cinque agenti della sua scorta in via D’Amelio, sotto casa della madre, si metteva al tavolo per rispondere a una lettera ricevuta da una studentessa di Padova e, con lei, ai giovani che non aveva potuto incontrare. Scriveva con lucidità e intensità, come se sapesse che quello sarebbe stato il suo ultimo atto di parola pubblica. E in quelle righe, in quella lettera rimasta incompiuta a causa della tragica fine cui sarebbe andato incontro di lì a poche ore, Paolo Borsellino ha lasciato un segno profondo, intimo e potente.

Per ricordare oggi, a 33 anni di distanza, la strage di via D’Amelio, vogliamo partire proprio da quell’ultima lettera, scritta all’alba, da un uomo provato eppure sempre determinato, che continuava a trovare tempo e spazio per dialogare con i ragazzi, per spiegare il senso del proprio impegno, per trasmettere un’eredità viva.

Nel rispondere alla domanda sul come e perché fosse diventato magistrato, Paolo Borsellino comincia proprio parlando della sua scelta iniziale: non quella del magistrato antimafia, ma del civilista. Del giovane appassionato di diritto che voleva dedicarsi alla ricerca giuridica e che, entrato in magistratura, si occupò per oltre quindici anni di cause ereditarie, diritti reali, controversie tra privati. Un uomo colto, riservato, tenace, che credeva nello studio e nella giustizia come strumento di civiltà.

Ma poi, come scrive lui stesso, ci fu un momento di svolta: la morte del capitano Emanuele Basile nel maggio 1980, l’incontro con Giovanni Falcone, il richiamo etico di una scelta: «Avevo scelto di rimanere in Sicilia ed a questa scelta dovevo dare un senso». Da quel giorno non ha più lasciato il lavoro sulle indagini di mafia, affrontandolo con lo stesso rigore, con lo stesso amore per la giustizia e per la sua terra.

In quella lettera, rispondendo alla semplice domanda di una studentessa, c’è già tutto: l’origine della sua vocazione, il passaggio da un lavoro individuale a una missione collettiva, l’urgenza di dare un significato all’impegno. E c’è soprattutto una frase, carica di fiducia e commozione, che oggi vogliamo leggere con forza, quasi come un testamento morale:

«E sono ottimista perché vedo che verso di essa [ndr: la mafia] i giovani, siciliani e no, hanno oggi una attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quarant’anni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanto io e la mia generazione ne abbiamo avuta».

Questa speranza, espressa a poche ore dalla morte, è un appello che continua a parlare anche oggi, rivolgendosi a ciascuno di noi. Perché non si tratta di ottimismo ingenuo, ma di una fiducia lucida, conquistata con la vita e la fatica, che continua a interrogare le coscienze. All’alba del 19 luglio 1992 Paolo Borsellino non scriveva ai posteri, ma ai cittadini di ogni giorno. Non si rivolgeva solo ai magistrati, ma ai giovani, agli insegnanti, alle persone. A chiunque volesse ascoltare.

Come La Magistratura, vogliamo raccogliere questo lascito e farlo vivere, continuando a interrogarci sulle responsabilità, sulle scelte, sulla forza del diritto come strumento di trasformazione. Non solo ricordando la figura del magistrato esemplare e impegnato, ma restituendo la voce dell’uomo: stanco, a tratti disilluso, ma mai vinto, nemmeno dopo la sua tragica morte. E, fino all’ultimo, capace di rivolgersi con fiducia ai giovani.

Perché la giustizia, prima che esercizio della funzione, è servizio, è dialogo. E ogni parola lasciata da Paolo Borsellino continua ad affermare che non c’è memoria vera senza responsabilità viva.