
Commento all’art. 134 della Costituzione
di Luigi Salvato, procuratore generale della Corte di Cassazione
Art. 134 – La Corte costituzionale giudica:
– sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni;
– sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli tra lo Stato e le Regioni, e tra le Regioni;
– sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica, a norma della Costituzione.
Abstract: lo scritto, identificate le ragioni dell’istituzione della Corte costituzionale quali emerse nel corso dei lavori dell’Assemblea costituente e le incertezze alla base del rinvio contenuto nell’art. 137 Cost., si sofferma sull’oggetto del controllo di costituzionalità stabilito dall’art. 134 Cost., come definito dalla giurisprudenza costituzionale, e sulla rilevanza del suo svolgimento all’interno di un dialogo tra la Corte, i giudici ed il legislatore. E’, quindi, approfondita la competenza avente ad oggetto i conflitti di attribuzione, attraverso l’esame della giurisprudenza costituzionale focalizzato sui conflitti interorganici, con specifico riguardo a quelli dei quali sono parte il CSM e gli organi del potere giudiziario, alla finalità del conflitto ed alle ragioni della problematicità di taluni di essi. Sono, infine, sinteticamente accennati i tratti della competenza stabilita dal terzo alinea dell’art. 134 Cost. sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica, a norma della Costituzione.
Parole chiave: Corte costituzionale; competenza della Corte costituzionale; controllo di costituzionalità; conflitti di attribuzione; potere giudiziario.
Sommario: 1. Premessa. 2. Il controllo di costituzionalità: gli atti soggetti al sindacato della Corte. 2.1. Norme dell’Unione europea e della CEDU. 2.2. Il controllo di costituzionalità nel dialogo tra Corte, giudici e legislatore. 3. I conflitti di attribuzione: premessa. 3.1. I conflitti di attribuzione tra potere giudiziario ed altri poteri dello Stato. 4. La competenza sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica, a norma della Costituzione.
- Premessa.
La Costituzione è stata frutto di un lavoro «sempre collegiale» e di una discussione non riservata «solo ai tecnici, come suole avvenire normalmente nella discussione dei Codici» e, quindi, la conoscenza dei lavori preparatori è «indispensabile»[1], specie con riguardo all’art. 134, che fissa i compiti del supremo organo di garanzia della Carta, istituto all’epoca innovativo, benché il controllo di costituzionalità delle leggi si fosse consolidato da oltre un secolo negli Stati Uniti d’America, mediante un sindacato diffuso affidato ai giudici comuni. Tale controllo, agli albori, non fu visto con favore nell’Europa continentale, scontrandosi la sua allocazione al di fuori della sede parlamentare con la tradizione di questa area geopolitica, caratterizzata dalla supremazia dei Parlamenti e dalla diffidenza nei confronti dell’attribuzione ai giudici comuni, di estrazione burocratica, del potere, connotato politicamente, di controllo delle leggi. L’immane tragedia della Seconda guerra mondiale dimostrò che occorre garantire i diritti e le libertà fondamentali anche dalle contingenti maggioranze parlamentari attraverso efficaci meccanismi di controllo, per non ridurli a mera proclamazione; fu così che maturò il convincimento che il principio della superiorità della legge fondamentale ne presuppone la rigidità e che questi esigono adeguati strumenti di controllo.
Fu questa l’idea che si impose, non senza resistenze[2], attuata con saggezza e lungimiranza, prestando attenzione alle esperienze a noi più vicine, sviluppate con tratti di originalità. La Corte è, infatti, connotata da elementi del modello cd. politico ed accentrato (consistenti nella devoluzione del controllo ad un apposito organo, composto da membri privi di investitura popolare, ma, almeno in parte, politica che, tuttavia, non sono rappresentativi e godono di guarentigie di indipendenza e stabilità) e di quello giurisdizionale, quanto alla modalità di accesso e di espletamento del sindacato, concludendosi il processo con una pronuncia che, se di annullamento della norma, ha efficacia erga omnes, carattere che solo apparentemente avvicina il potere della Corte a quello del legislatore, in quanto è priva di quello di iniziativa (tale non è quello di autoremissione) e rende decisioni tendenzialmente vincolate, frutto di un controllo riferito ai parametri costituzionali.
- Il controllo di costituzionalità: gli atti soggetti al sindacato della Corte.
Le accennate resistenze furono alla base del rinvio, contenuto nell’art. 137 Cost., ad una successiva legge costituzionale delle condizioni, delle forme e dei termini di proponibilità dei giudizi di legittimità costituzionale e ad una legge ordinaria delle disposizioni di dettaglio per il funzionamento della Corte, che impone di riservare al commento di quest’ultimo la disciplina del processo costituzionale e di soffermarsi solo sulle competenze della Corte quali stabilite dall’art. 134, con riguardo ad alcuni aspetti di più immediato interesse per gli appartenenti all’ordine giudiziario.
L’identificazione della prima, sotto il profilo formale, è agevole. Ammesso fin dalla prima sentenza della Corte (n. 1 del 1956) il controllo sugli atti normativi anteriori all’entrata in vigore della Costituzione, al primo elenco (le leggi) sono riconducibili: le leggi dello Stato (deliberate dalle Camere nell’esercizio della “funzione legislativa”, secondo la procedura prevista dalla Costituzione e dai regolamenti parlamentari), delle Regioni e delle province autonome (approvate secondo il procedimento fissato dalla Costituzione, dallo Statuto e dal regolamento); le leggi di revisione costituzionale nei confronti dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale[3]; le leggi atipiche alle quali la Costituzione attribuisce un’efficacia superiore a quella ordinaria; «le disposizioni contenute negli Statuti regionali approvati secondo il procedimento di cui all’art. 123 Cost.»[4]; la legge che ha contenuto concreto e particolare (c.d. legge-provvedimento)[5]; il decreto del Presidente della Repubblica che recepisce il risultato del referendum popolare.
Il controllo ha, altresì, ad oggetto i decreti-legge ed i decreti legislativi delegati (fonti previste soltanto per lo Stato). Molte delle questioni poste dai primi possono dirsi risolte. Se il decreto-legge non viene convertito, perde efficacia fin dall’inizio. La questione sollevata su una norma dello stesso è, quindi, inammissibile, non costituendo il potere delle Camere di regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dello stesso idoneo equipollente della conversione[6] e, se sollevata in via principale, deve essere riproposta[7], mentre nel giudizio incidentale la clausola di salvezza dà ragione della restituzione degli atti, per un nuovo esame della rilevanza. La questione, nel caso di conversione, si trasferisce sulla norma della legge di conversione, quando non ne risulti inciso il contenuto precettivo. La Corte si era poi dimostrata rispettosa delle scelte del legislatore sulla esistenza dei presupposti di necessità ed urgenza, anche perché aveva riconosciuto efficacia sanante alla legge di conversione[8]. La frequente mancata conversione aveva contribuito, anche per l’inammissibilità della questione avente ad oggetto norme decadute, alla prassi della reiterazione dei decreti decaduti, dichiarata incompatibile con l’art. 77 Cost. nel 1996 (sentenza n. 360). La Corte, negata l’efficacia sanante della legge di conversione quanto ai presupposti del decreto, ha rivendicato il potere di sindacarne la «evidente mancanza» con la sentenza n. 171 del 2007, precisando in seguito il contenuto del controllo. Tra gli indici di tale evidente mancanza vi sono l’eterogeneità o estraneità della norma censurata rispetto al contenuto ed alla materia del decreto e la manifesta irragionevolezza della valutazione sulla sua sussistenza, incontrando la legge di conversione il vincolo dell’omogeneità, pena l’illegittimità della norma[9].
Nella delegazione legislativa, altro caso di esercizio della potestà normativa da parte del Governo, è centrale il ruolo del Parlamento, mediante l’approvazione della legge-delega (con la normale procedura, esclusa quella c.d. decentrata, potendo tuttavia essere contenuta nella legge di conversione di un decreto-legge), con cui è conferito l’esercizio della funzione legislativa, per un tempo limitato ed oggetti definiti, nell’osservanza dei principi e criteri direttivi. Soggetti al sindacato di costituzionalità sono sia la legge-delega, sia il decreto delegato. La prima, in relazione ai parametri che direttamente la contemplano (quanto alla procedura di formazione, alla specificazione dei principi, dei criteri direttivi e dell’oggetto, alla fissazione del limite temporale[10]) ed a tutti quelli pertinentemente evocabili. Il secondo, anche dal punto di vista della conformità alla legge di delegazione (recante norme interposte), occorrendo dunque identificare contenuto della delega e principi e criteri direttivi alla luce del complessivo contesto normativo e delle finalità che la ispira e leggere le disposizioni del decreto, finché sia possibile, nel significato compatibile con gli stessi, spettando comunque al legislatore delegato margini di discrezionalità nell’attuazione della delega, nel rispetto della ratio della stessa. Non configura un vizio di legittimità costituzionale l’omessa o parziale attuazione della delega.
Profili di incertezza connota la categoria degli atti aventi forza di legge. Focalizzando l’attenzione su alcune tipologie, va ricordato che i regolamenti parlamentari costituiscono fonti primarie dell’ordinamento, ma non rientrano tra le fonti-atto indicate nell’art. 134, primo alinea, Cost.[11]; in relazione agli stessi, il rispetto dei diritti fondamentali è garantito nella sede del conflitto fra i poteri dello Stato[12].
I regolamenti del potere esecutivo hanno fonte nella legge (spettando l’individuazione di quelle primarie alle sole fonti di livello costituzionale[13]) e sono soggetti al controllo dei giudici comuni [14] sempre che sussistano i relativi «caratteri formali e di contenuto»[15]. La chiarezza della regola è complicata: dalla mancanza di una rigorosa figura ‘formale’ di regolamento, dai casi in cui opera in modo non dissimile dal decreto-delegato e dal profilarsi di «atti nuovi, previsti per la prima volta dalla Costituzione, nella prospettiva di un accentuato pluralismo delle fonti del diritto»[16]; dall’espansione della potestà regolamentare e dall’esigenza di protezione non sempre adeguatamente soddisfatta dal giudice comune[17]; dal protagonismo del potere regolamentare[18] e dalla moltiplicazione dei regolamenti di delegificazione. In tale difficoltà di identificazione, la sindacabilità da parte della Corte è affidata a criteri d’ordine formale[19], anche con riguardo ai regolamenti di delegificazione, ovvero alla sostanza dell’attività normativa, oppure valorizzando l’istituto del rinvio[20] o, ancora, valutando se il regolamento rilevi «al fine di ricavare il significato normativo della disposizione legislativa impugnata»[21], essendo state elaborate differenti «strategie di aggiramento» dei limiti dell’art. 134 Cost. Le ordinanze emesse in situazioni di urgenza e di necessità non possono essere equiparate ad atti legislativi o aventi forza di legge[22].
2.1. Norme dell’Unione europea e della CEDU.
La definizione del rapporto tra fonti interne ed esterne, avendo valenza costituzionale ed internazionale, spetta alla Corte. All’esito di un dialogo tra questa e la Corte di giustizia, avviato negli anni sessanta, concluso nei suoi principi fondamentali dalla sentenza n. 170 del 1984, identificata nell’art. 11 Cost. la base giuridica dell’adesione alla CE, la Corte costituzionale ha configurato i due ordinamenti come «distinti ed al tempo stesso coordinati». Per essa, spetta quindi al giudice comune il controllo di compatibilità “comunitaria” ed il potere di “non applicare” la disposizione interna in contrasto con la norma esterna avente effetto diretto, con le sentenze della Corte di giustizia, con un principio generale del diritto eurounitario, nel caso di non completa o insufficiente applicazione della norma dell’Unione, sicchè la questione di legittimità costituzionale sollevata per denunciarlo è inammissibile[23]. Il potere di “non applicazione” incontra il limite dell’intangibilità, da parte della norma dell’UE, dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale (cc.dd. controlimiti), la cui violazione determina l’illegittimità della legge di ratifica, in parte qua, accertamento riservato alla Corte costituzionale. Sono sottratti al controllo della Corte i regolamenti comunitari, sindacabili soltanto se in contrasto con i principi supremi del nostro ordinamento (controlimiti). Il dialogo tra le Corti è stato rafforzato dal 2008 (ordinanza n. 103), grazie al rinvio pregiudiziale in un giudizio principale e, successivamente, in giudizi incidentali[24]. Resta sul campo la questione, riaperta dalle sentenze della Corte di giustizia 22 giugno 2010, C-189/10, Melki e Abdeli, e 11 settembre 2014, C-112/13, A.B ed altri, della doppia pregiudizialità, cui sono sottesi importanti interrogativi[25]. L’an ed il quomodo dell’attivazione dei controlimiti, esemplarmente declinati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 238 del 2014 (sui crimini nazisti), ha infine costituito oggetto della c.d. saga Taricco[26] che lascia, infine, presagire ulteriori sviluppi nel rapporto tra le Corti.
Una diversa regola governa il rapporto tra norme interne e CEDU. Le cc.dd. sentenze gemelle del 2007 (n. 348 e n. 349) hanno, infatti, enunciato il principio, in seguito ribadito[27], secondo cui le norme convenzionali «non si collocano a livello costituzionale», avendo l’art. 117, primo comma, Cost., stabilito l’obbligo del legislatore ordinario di rispettarle. Dunque, la disposizione nazionale con esse in contrasto lo «viola» e, appunto per questo, è costituzionalmente illegittima. Corollari del principio sono che il giudice comune deve anzitutto a verificare la possibilità di eliminare l’antinomia mediante l’interpretazione conforme, valorizzando il margine di apprezzamento spettante al giudice nazionale; se ciò non sia possibile, deve promuovere incidente di costituzionalità, essendo privo del potere di “non applicarla”.
2.2. Il controllo di costituzionalità nel dialogo tra Corte, giudici e legislatore.
Con riguardo alla competenza in esame, va ricordato che la Costituzione costituisce fattore ordinante di un sistema che alimenta e dal quale è alimentata. L’ordinamento costituzionale ha, infatti, più dimensioni; «non è solo il risultato di atti comunicativi linguistici, ma anche di atti, fatti e rapporti sociali in senso ampio», essendo il testo della Costituzione collocato al suo interno «in una “relazione sistemica” sia con i valori di cui si fanno portatori i soggetti che compongono la base materiale dell’ordinamento sia con i testi normativi materialmente (anche se non formalmente) costituzionali»[28]. Per questo, la Carta costituisce un testo con «virtualità multiple» ed è viva e vitale; il sistema di giustizia costituzionale è presidio della tutela dei valori nella stessa fissati, ma anche fattore del loro sviluppo, attraverso un dibattito corale, del quale la decisione della Corte costituisce una parte essenziale, ma è pur sempre frazione di un confronto più ampio. In questo è centrale il dialogo con il giudice comune, anche per la modalità di accesso alla Corte (benché non sia sopito il dibattito sull’opportunità dell’accesso diretto), che le consente di alimentarsi delle interpretazioni e dei nuovi valori emergenti nella giurisprudenza comune. L’approdo è pacifico, ma non definitivo quanto alle modalità del dialogo. Basta ricordare le problematiche concernenti i presupposti del giudizio (in particolare, le nozioni di giudice, di giudizio, di rilevanza) ed il contenuto dell’interpretazione adeguatrice, risolta configurandola quale requisito di ammissibilità della questione, salvo che risultasse «impossibile» (sentenza n. 356 del 1996), ma di recente rimeditata, sostituendo al criterio della «impossibilità» quelli della «improbabilità», ovvero la «difficoltà» dell’interpretazione correttiva[29]. Intenso è stato il dialogo con la Corte di cassazione, anche grazie alla teorica del ‘diritto vivente’ (essendone la formazione ascritta alla stessa), attraverso un confronto segnato da contrasti anche forti (definiti impressivamente come “guerra tra le Corti”), arricchitosi di nuovi contenuti con riguardo all’interpretazione dell’art. 111, ultimo comma, Cost. (sentenza n. 6 del 2018). Al fondo, tra le esigenze sottese a dette questioni, da bilanciare, vanno ricordate quella di ampliare l’accesso alla Corte, soprattutto quando vengono in rilievo diritti fondamentali, ma anche di evitare che il giudice comune si ponga quale generale controllore e contraltare del Parlamento.
Con riguardo alle Corti sovranazionali, finalità del dialogo è garantire la più ampia apertura alle fonti esterne, scongiurando tuttavia il rischio della lesione dei principi supremi del nostro ordinamento, assicurando la tutela dei valori costituzionali complessivamente considerati.
Relativamente al dialogo con il legislatore, con riguardo ai limiti stabiliti dall’art. 28 della legge n. 87 del 1953 e, nella materia penale, dall’art. 25, secondo comma, Cost., l’esigenza è evitare il rischio di un’insanabile lesione dei diritti fondamentali, fronteggiata: riconducendo il valore espresso dalle regole del processo costituzionale tra quelli oggetto del bilanciamento da parte della Corte, in vista di un suo esito ragionevole, ed arricchendo la tipologia delle decisioni (tra l’altro, graduando nel tempo gli effetti della dichiarazione di illegittimità ed introducendo il meccanismo del rinvio della decisione, per consentire «al Parlamento ogni opportuna riflessione e iniziativa»); elaborando la categoria delle norme penali di favore sottoponibili al sindacato della Corte ed ammettendo il controllo quando la scelta legislativa trasmodi in manifesta irragionevolezza o arbitrio. La nuova frontiera è quella di stabilire se sussistano, e quali siano, confini non valicabili, pena l’alterazione del principio supremo della separazione dei poteri (garanzia di effettività e sicurezza delle istituzioni e dei cittadini) e la contrazione oltre misura degli spazi della mediazione parlamentare.
Le recenti modifiche delle Norme integrative (aventi ad oggetto l’intervento nel giudizio costituzionale e l’introduzione della figura dell’amicus curiae) hanno rafforzato la coralità del dialogo anche mediante un nuovo modo della comunicazione, che fa tuttavia emergere l’esigenza di scongiurare che la Corte possa essere trascinata in circuiti mediatici ed assumere un’anomala responsabilità politica.
- I conflitti di attribuzione: premessa.
La seconda competenza fu stabilita recependo sostanzialmente la formulazione contenuta nel progetto. Non furono infatti accolte le proposte di escluderla, conservandola alle Sezioni Unite della Corte di cassazione, e neanche quella di estenderla alle «usurpazioni di potere degli organi costituzionali dello Stato», mentre l’inciso che concerne i conflitti «tra i poteri dello Stato» fu ritenuta opportuna, in considerazione della proposta, pure avanzata, di affidare alla Corte costituzionale anche i conflitti di giurisdizione [30]. L’art. 134 Cost. prevede due tipologie di conflitti di attribuzione: tra poteri dello Stato (conflitti interorganici); tra Stato e Regioni o tra Regioni (conflitti intersoggettivi). La previsione ha canonizzato come giuridici una serie di rapporti fra i titolari delle funzioni costituzionali, valorizzando il pluralismo istituzionale, ma sottoponendo a tensione il principio dell’unità dell’organizzazione, affidato all’applicazione del diritto piuttosto che alla volontà di una autorità politica superiore. Specificazione e disciplina dei conflitti furono rinviati (con l’art. 137 Cost.) ad una successiva legge costituzionale, in quanto l’istituto era «in buona parte estraneo alla nostra tradizione giuridica»[31]. Occorre dunque rinviare al commento di quest’ultima norma per detti profili ed è altresì opportuno focalizzare l’attenzione sui conflitti interorganici, in particolare, su quelli in cui è coinvolto l’ordine giudiziario.
3.1. I conflitti di attribuzione tra potere giudiziario ed altri poteri dello Stato.
Il conflitto interorganico deve riguardare (art. 37 della legge n. 87 del 1953) «la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali» ed insorgere tra gli «organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà dei poteri cui appartengono». Per la prima previsione, il conflitto è ammissibile se investe attribuzioni previste da una fonte superiore alla legge, che tuttavia può ulteriormente disciplinarle. La seconda, ferma la riferibilità dei poteri allo Stato-persona[32], è giustificata da attribuzioni esercitate da un complesso di organi, che ha condotto a riconoscere la legittimazione anche a quelli facenti parte di un potere “diffuso”, quando abilitati a pronunciare provvedimenti o tenere comportamenti che impegnano l’intero “potere”, se definitivi, carattere riscontrabile per il potere giudiziario. Ed è stata proprio la magistratura a segnare una «imponente presenza» nei conflitti, per molteplici ragioni; in sintesi, per l’assenza di canali alternativi di mediazione politica e per le tensioni tra giustizia e politica, che hanno visto contrapposto il potere giudiziario soprattutto alle Camere, con riferimento alle prerogative istituzionali (insindacabilità, immunità, autodichia, segreto di stato, reati ministeriali), caratterizzati «dalla delicatezza dei temi trattati e dal livello dei soggetti coinvolti»[33].
Il conflitto ha quale scopo primo difendere la libertà e l’indipendenza del giudice nel concreto processo in corso e, quindi, la «indipendenza funzionale», essendo invece utilizzabile soprattutto dal CSM per difendere i tratti essenziali dell’indipendenza istituzionale[34]. Volgendo l’attenzione a quest’ultimo profilo, la questione della legittimazione del CSM al conflitto è originata dalla sua dibattuta configurazione. La Corte, partita da estrema cautela nell’affrontare questo controverso tema[35], ferma la negazione di «organo costituzionale»[36], lo ha ritenuto «organo di sicuro rilievo costituzionale»[37], ovvero «di rilevanza costituzionale»[38]. Quest’ultima è insita proprio nelle decisioni che hanno ritenuto il CSM legittimato a sollevare conflitto di attribuzione, in quanto organo direttamente investito delle funzioni previste dall’art. 105, Cost., il solo competente a esercitarle in via definitiva, in posizione di indipendenza da altri poteri, e quindi ad agire al fine della tutela della sfera di attribuzioni esclusivamente ad esso spettanti[39]. In contrario, non rilevano le decisioni che hanno dichiarato inammissibili conflitti, ma in quanto proposti nei confronti del “potere legislativo”, al di fuori dei casi nei quali ciò è ammesso[40]. Le deliberazioni consiliari concernenti i magistrati consistono invece in provvedimenti di carattere sostanzialmente amministrativo e, in quanto tali, sono impugnabili dinanzi al giudice amministrativo[41]. Peraltro, il rango del CSM neppure permette di limitare l’oggetto del relativo sindacato «ai vizi propri dei decreti, presidenziali o ministeriali, emanati in conformità alle deliberazioni consiliari»[42], ovvero di escludere la «sottoponibilità degli atti del C.s.m. alla giurisdizione estesa al merito che il giudice amministrativo esercita in sede di ottemperanza», con conseguente inesistenza, in relazione agli stessi, dei presupposti del conflitto[43]. La posizione di indipendenza del magistrato non è dunque tutelabile, in sede di conflitto, in relazione agli atti del CSM incidenti sul suo status professionale[44]. Relativamente alla c.d. amministrazione della giurisdizione, il magistrato che presiede un ufficio non è «titolare di una competenza propria in ordine alla procedura di formazione delle tabelle», ambito in cui non pone in essere atti espressione ultima del potere cui appartiene[45].
Tra le attribuzioni costituzionali del CSM ex art. 105 Cost vi è la giurisdizione disciplinare, esercitata dalla Sezione disciplinare, legittimata a sollevare conflitto, in quanto «competente a “dichiarare definitivamente la volontà” del potere cui appartiene» (il CSM), con decisioni insuscettibili di revisione o avocazione da parte del plenum e che costituiscono piena e definitiva espressione della potestà disciplinare attribuita dalla Costituzione[46].
La legittimazione del singolo giudice a sollevare conflitto è stata affermata sottolineando che la perifrasi del richiamato art. 37 non è riferibile ai soli organi «comunemente detti “supremi”» e richiede di verificare se l’organo sia competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartiene[47]. Tanto accade proprio nel caso degli organi giurisdizionali, i quali esplicano le funzioni in situazione di piena indipendenza, costituzionalmente garantita, quindi sono legittimati al conflitto, «prescindendo dalla proponibilità di gravami predisposti a tutela di interessi diversi»[48]. Nondimeno, occorre che il giudice «sia attualmente investito del processo»[49] e non è legittimato ad impugnare nel giudizio per conflitto una legge, ovvero un atto avente forza di legge, la cui legittimità è censurabile, di regola, con l’incidente di costituzionalità[50], ammesso anche sulle disposizioni che definiscono capacità ed attribuzioni funzionali del giudice[51].
Il pubblico ministero non è legittimato con riguardo alla funzione giurisdizionale in senso proprio[52], ma lo è quando agisce a difesa dell’integrità di competenze inerenti all’esercizio obbligatorio dell’azione penale (art. 112 Cost.)[53] – non è invece base giuridica idonea al conflitto l’art. 101 Cost.[54], ma può esserlo l’art. 109 Cost.[55] –, cui si connette la titolarità delle indagini ad esso finalizzate[56], non surrogabile da altri organi[57]. Il Procuratore della Repubblica assume determinazioni definitive per l’iniziativa penale, non incidendo su detto carattere i poteri di sorveglianza ed avocazione del Procuratore Generale della Corte di appello[58]. Si tratta, tuttavia, di «un potere “parzialmente diffuso”», spettando la legittimazione al capo dell’ufficio[59]. Con riguardo al profilo oggettivo, la Corte ha escluso l’ammissibilità di un conflitto sollevato dal p.m. in riferimento ad una disposizione legislativa, richiamando la propria giurisprudenza su tale questione[60]. In seguito, ha rimeditato, comunque limitato, il principio, valorizzando che il p.m. è privo della «sicura potestà di attivare effettivamente, promuovendolo d’ufficio, il giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale»[61].
Numerosi sono i conflitti di attribuzione in relazione alla prerogativa dell’art. 68, primo comma, Cost. (come modificato dalla legge cost. n. 3 del 1993), relativo ai parlamentari, e dell’art. 122, quarto comma, Cost., concernente i consiglieri regionali, distinguendosi i giudizi per il tipo di atto che dà origine al conflitto. Nel primo caso, la valutazione dell’insindacabilità spetta a ciascuna Camera e l’atto che dà origine al conflitto è la delibera di insindacabilità, avendo la Corte riferito la prerogativa (anche quella del terzo comma dell’art. 68 Cost.) alla sola Camera, non al singolo parlamentare[62]. E’ dunque stabilita una duplice «modalità di intervento delle Camere: da un lato, si prevede l’obbligo del giudice di investire pregiudizialmente la Camera di appartenenza del parlamentare della decisione di cui all’art. 68, comma 1, Cost., quando il deputato o senatore nei cui confronti si procede proponga la relativa eccezione, con la conseguente sospensione del giudizio ordinario in attesa della successiva, vincolante decisione parlamentare; d’altro lato, le Camere possono essere investite della questione dell’applicabilità delle prerogative parlamentari direttamente dal parlamentare che è sottoposto a procedimento giurisdizionale e che si limiterà a chiedere la sospensione del processo»; «in entrambi i casi il giudice non può fare altro che prendere atto dell’iniziativa del parlamentare, non essendogli “riconosciuta neppure la possibilità di dichiarare l’eccezione […] manifestamente infondata»[63]. Nel secondo caso, il conflitto è invece determinato da un atto giurisdizionale avverso il quale la Regione insatura il conflitto. Un’ulteriore diversità si riscontra quanto alla rappresentanza processuale: nel primo caso, il magistrato è parte del conflitto e può intervenire nel giudizio; nel secondo, parte resistente è il Presidente del Consiglio dei ministri, come in tutti i conflitti originati da atti giurisdizionali, diversi da quelli in materia di insindacabilità. All’anomalia ha posto rimedio la Corte, introducendo nell’art. 27 delle Norme integrative un secondo comma, in virtù del quale il ricorso deve «essere notificato altresì all’Organo che ha emanato l’atto, quando si tratti di autorità diverse da quelle di Governo e da quelle dipendenti dal Governo».
Relativamente al merito del conflitto in materia di insindacabilità, la giurisprudenza costituzionale, a partire dalle sentenze n. 10 e n. 11 del 2000, ha precisato che alla Corte spetta «accertare se, in concreto, l’espressione dell’opinione in questione possa o meno ricondursi all’esercizio delle funzioni parlamentari» ed ha introdotto il concetto di «nesso funzionale», che esige la contemporanea ricorrenza di «due presupposti: il legame temporale tra l’attività parlamentare e quella esterna […], nonché la sostanziale corrispondenza di significato – ancorché non testuale – tra le opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni parlamentari e gli atti divulgativi»[64]. La Corte, di recente, ha tuttavia precisato che non è «da escludere, in astratto», che «l’insindacabilità possa coprire anche dichiarazioni rese extra moenia», se comunque si ritenga «sussistente un evidente e qualificato nesso con l’esercizio della funzione parlamentare»[65].
Oggetto del conflitto, come si è detto, possono essere i regolamenti parlamentari. Questione complessa è altresì quella concernente l’identificazione e la perimetrazione degli «atti politici» in relazione ai quali non può essere sollevato conflitto di attribuzioni[66].
Il conflitto di attribuzione non può costituire strumento di censura del modo di esercizio della funzione giudiziaria; al riguardo, anche alla luce delle tensioni sottese alla questione dei limiti del potere interpretativo, è sufficiente ricordare l’ordinanza n. 334 del 2008 che, con chiarezza, ha affermato che «il conflitto di attribuzione “non può essere trasformato in un atipico mezzo di gravame avverso le pronunce dei giudici”», ferma la possibilità che un conflitto sia determinato da una decisione giudiziaria[67]. Particolare è, altresì, il caso del contrasto tra le giurisdizioni che, di regola, non assume il carattere di conflitto, poiché i rispettivi ambiti di competenza sono determinati dal legislatore ordinario[68]. Nondimeno tale carattere neppure può essere escluso, nel caso in cui le funzioni degli organi appartenenti ai diversi ordini sono fissate direttamente da norme costituzionali, come accade, ad esempio, con riguardo al ricorso per cassazione per «motivi inerenti alla giurisdizione» (art. 111, u.c., Cost.), la cui identificazione, involgendo l’interpretazione di una norma costituzionale e la delimitazione delle attribuzioni di organi appartenenti ad uno stesso potere (giurisdizionale), ma articolati dalla Carta in ordini diversi e distinti, spetta alla Corte costituzionale, che potrebbe essere chiamata a pronunciarsi su un conflitto avente ad oggetto detta delimitazione[69].
Ragioni di sintesi consentono, infine, soltanto di richiamare l’attenzione sui complessi temi: del conflitto che ha visto coinvolto il Presidente della Repubblica, deciso con una sentenza con cui la Corte, ha evidenziato la dottrina, ha ricostruito ed interpretato la forma di governo per come è venuta evolvendosi e delimitato le attribuzioni del potere giudiziario[70]; del segreto di Stato, oggetto delle decisioni relative al «caso Abu Omar»[71] ; dei reati ministeriali, in relazione ai quali vanno ricordate le decisioni della Corte ha stabilito sulla competenza a qualificare il reato come ministeriale e sull’obbligo di informazione alla Camera della notizia di reato commesso, in ipotesi, da un ministro[72].
- La competenza sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica, a norma della Costituzione.
La terza competenza della Corte prevista dall’art. 134 Cost. è quella di giudicare i reati di attentato alla Costituzione e alto tradimento compiuti dal Capo dello Stato, dopo che questi è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, ridefinita dalla legge costituzionale n. 1 del 1989, eliminando quella originariamente estesa ai reati ministeriali. L’eccezionalità della competenza suggerisce di limitarsi a ricordare che, in passato, in due occasioni si è stati sul punto di celebrare un giudizio di accusa, la cui prosecuzione è stata resa inutile dalle dimissioni del Capo dello Stato (nel 1978 e nel 1992) e che la stessa sussiste esclusivamente per i reati funzionali specificamente contemplati dalla norma[73].
La procedura del giudizio di accusa è particolarmente complessa, in quanto è stabilita da una molteplicità di fonti[74]; è avviata con la c.d. «messa in stato di accusa» da parte del Parlamento in seduta comune – deliberata all’esito della relazione redatta da un Comitato, composto dai membri delle Giunte per le immunità di cui all’art. 68 Cost., cui spetta svolgere le indagini – e, qualora sia disposta, il Parlamento nomina uno o più commissari, per sostenere l’accusa.
La Corte giudica in composizione integrata, poiché del Collegio fanno parte, oltre i giudici ordinari, «16 membri tratti a sorte da un elenco di cittadini aventi i requisiti per l’eleggibilità a senatore che il Parlamento compila ogni nove anni mediante elezione con le stesse modalità stabilite per la nomina dei giudici ordinari» (art. 135, ultimo comma, Cost.)[75].
Note
[1] V. E. Orlando, Prefazione, in V. Falzone, F. Palermo, F. Cosentino, La costituzione della Repubblica italiana, illustrata con i lavori preparatori, Roma, 1948; per i lavori preparatori v. https://www.nascitacostituzione.it/costituzione.htm.
[2] G. Conso, Così è nata la Corte costituzionale, in Dalla Costituente alla Costituzione, Atti del convegno in occasione del cinquantenario della Costituzione italiana, Roma 18-20 dicembre 1997, Roma, 1998, 261.
[3] Sentenza n. 1146 del 1988; sulla problematicità della questione con riguardo ai vizi sostanziali, E. Malfatti, S. Panizza, R. Romboli, Giustizia costituzionale, Torino, 2016, 94; G. Zagrebelsy, Giustizia costituzionale, cit., 77.
[4] M. D’Amico-F. Biondi, Commentario breve alla costituzione, a cura di R. Bin e S. Bartole, art. 134 1° alinea, Padova, 2008.
[5] Sentenze n. 289 del 2010, n. 270 del 2010, n. 241 e n. 244 del 2008.
[6] Ordinanza n. 204 del 2010, richiamando le sentenze n. 84 del 1996 e n. 244 del 1997.
[7] Corte cost. n. 204 del 2010.
[8] Sentenze n. 243 del 1987 e n. 108 del 1986.
[9] Per decisioni della Corte, R. Nevola (a cura di), La decretazione d’urgenza nella giurisprudenza costituzionale, Quaderno del Servizio studi della Corte costituzionale, Roma, 2017.
[10] Per la giurisprudenza costituzionale, si rinvia a R. Nevola, D. Diaco, La delega della funzione legislativa nella giurisprudenza costituzionale, Quaderno del Servizio Studi della Corte costituzionale, STU 309, Roma, 2018.
[11] Sentenza n. 120 del 2014, richiamando la sentenza n. 154 del 1985 e le ordinanze n. 444 e n. 445 del 1993.
[12] Sentenza n. 120 del 2014; per l’applicazione del principio v. sentenza n. 262 del 2017.
[13] Sentenze n. 198 del 2021 e n. 361 del 2010.
[14] Così dalla sentenza n. 30 del 1957.
[15] Per tutte, ordinanze n. 50 del 1960; n. 501 del 1987 e n. 344 del 1988; sentenze n. 504 e n. 1104 del 1988.
[16] G. Zagrebelsky, Processo costituzionale, voce, in Enc. Dir., XXXVI, Roma, 1987 ,528-532.
[17] F. Biondi, Oggetto e parametro, in Le zone d’ombra della giustizia costituzionale. I giudizi sulle leggi, R. Balduzzi, P. Costanzo (a cura di), Torino, 2007, 66; A. Melani, Riflessioni sul controllo “indiretto” di costituzionalità dei regolamenti, www.forumcostituzionale.it, 24 ottobre 2011.
[18] M. Massa, Le zone d’ombra della giustizia costituzionale: i regolamenti dell’esecutivo, in www.astridonline.it.
[19] Decisioni n. 193 e n. 104 del 2017, n. 130 e n. 254 del 2016.
[20] Sentenza n. 344 del 2010.
[21] L. Carlassarre, Il diritto vivente di origine regolamentare all’esame della Corte, in AA.VV., Giudizio a quo e promovimento del processo costituzionale, Milano, 1990, 86.
[22] Così a partire dalla sentenza n. 8 del 1956; sentenze n. 4 del 1977 e n. 201 del 1987.
[23] Tra le tante, Corte cost. n. 284 del 2007, n. 125 del 2009, n. 227 del 2010.
[24] Corte cost., n. 207 del 2013, n. 24 del 2017, n. 117 del 2019, n. 182 del 2020.
[25] Anche a seguito delle modifiche del diritto dell’UE, A. Barbera, La Carta dei diritti: per un dialogo fra la Corte italiana e la Corte di giustizia, relazione tenuta all’incontro tra i Tribunali e le Corti costituzionali di Italia, Francia, Portogallo e Spagna, in www.rivistaaic.it, 2017.
[26] Ex plurimis, R. Mastroianni, Da Taricco a Bolognesi, passando per la ceramica Sant’Agostino: il difficile cammino verso una nuova sistemazione del rapporto tra Carte e Corti, in www.osservatoriosullefonti.it, 2018.
[27] Tra le altre, sentenze. 68 del 2017; n. 25 e n. 311 del 2019.
[28] A. Barbera, Costituzione della Repubblica italiana, voce, in Enc. dir., Annali, VII, Roma, 2015, 268.
[29] A partire dalle sentenze n. 219 del 2016 e n. 42 del 2017.
[30] V. Falzone, F. Palermo, F. Cosentino, op. cit., 242-243.
[31] S. Grassi, Conflitti costituzionali, voce, in Dig. discipl. pubbl., Torino, 1989, 367.
[32] E. Malfatti, S. Panizza, R. Romboli, op. cit., 236, con l’eccezione del comitato promotore del referendum abrogativo.
[33] Per tutti, F. Fabrizzi, La Corte costituzionale giudice dell’equilibrio tra i poteri. Dinamiche istituzionali e conflitti di attribuzione nella più recente giurisprudenza, Collana Studi di federalismi.it, Torino, 2019, 129.
[34] N. Zanon, F. Biondi, Il sistema costituzionale della Magistratura, Bologna, 2019, 182.
[35] Sentenza n. 44 del 1968.
[36] Sentenze n. 148 del 1983, n. 44 del 1968.
[37] Sentenze n. 148 del 1983, n. 189 del 1992 e n. 435 del 1995.
[38] Sentenza n. 419 del 1995.
[39] Sentenze n. 184 del 1992; n. 379 del 1992; n. 214, n. 215, n. 419 e n. 435 del 1995.
[40] Ordinanza n. 480 del 1995.
[41] Sentenze n. 44 del 1968, n. 44; n. 168 del 1963.
[42] Sentenza n. 189 del 1992.
[43] Sentenze n. 419 e n. 435 del 1995.
[44] Ordinanza n. 309 del 2001.
[45] Ordinanza n. 90 del 1996.
[46] Sentenza n. 270 del 2002.
[47] Ordinanza n. 228 del 1975 (sul conflitto sollevato dal Tribunale di Torino nei confronti della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, sorto a seguito del diniego di quest’ultima di trasmettere atti in suo possesso).
[48] Ordinanze n. 228, n. 229 del 1975 e sentenza n. 231 del 1975, concernenti i conflitti sollevati dal Tribunale di Torino e dal Tribunale di Milano nei confronti della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, sorto a seguito del diniego di quest’ultima di trasmettere atti in suo possesso.
[49] Ordinanza n. 144 del 2000.
[50] E. Malfatti, S. Panizza, R. Romboli,, op. cit., 241.
[51] Ordinanza n. 258 del 2016.
[52] Ordinanza n. 16 del 1979.
[53] Sentenza n. 462 del 1993.
[54] Sentenza n. 420 del 1995.
[55] Sentenza n. 229 del 2018.
[56] Sentenza n. 1 del 2013, anche per ulteriori richiami.
[57] Sentenza n. 463 del 1993; analogamente, sentenza n. 420 del 1995, n. 110 e n. 410 del 1998, n. 57 del 2000, sentenza n. 345 del 2001, n. 26 del 2008.
[58] Sentenza n. 463 del 1993.
[59] Sentenza n. 1 del 2013; in tal senso già la sentenza n. 464 del 1994; in seguito, ordinanze n. 16 e n. 17 del 2013 e la sentenza n. 229 del 2018.
[60] Ordinanze n. 16 e n. 17 del 2013, concernenti il «caso ILVA».
[61] Sentenza n. 229 del 2018.
[62] Ordinanza n. 129 del 2020, anche per ulteriori richiami.
[63] P. Passaglia, T. Giovannetti, I conflitti ex artt. 68, comma 1, e 122, comma 4, Cost. Profili processuali, Quaderno del Servizio studi della Corte costituzionale, Roma, 2008, 4, ivi ampi riferimenti di giurisprudenza.
[64] Sentenza n. 81 del 2011, anche per ulteriori richiami.
[65] Sentenza n. 133 del 2018.
[66] Cfr, la sentenza n. 52 del 2016, sulla quale F. Fabrizzi, op.cit., 174.
[67] Sentenza n. 52 del 2016.
[68] Sentenza n. 385 del 1996.
[69] In conseguenza dell’interpretazione dell’art. 111, u.c., Cost. offerta dalla Corte costituzionale (sentenza n. 6 del 2018), per il caso che le Sezioni unite civili., investite di un ricorso avverso una sentenza del giudice speciale, dovessero accogliere una nozione più ampia dei motivi inerenti alla giurisdizione, eventualmente ritenuta dal giudice speciale lesiva della sfera di attribuzioni costituzionalmente riservata allo stesso.
[70] Sentenza n. 1 del 2013; in dottrina, per tutti, G. Scaccia, Il ruolo del Presidente della Repubblica dopo la sentenza della Corte costituzionale, in L. Violini (a cura di), Il ruolo del Capo dello Stato nella giurisprudenza costituzionale, Atti del seminario annuale dell’associazione “Gruppo di Pisa”, Napoli, 2015, 42.
[71] Sentenze n. 106 del 2009, n. 40 del 2012, n. 24 del 2014, n. 217 del 2016, n. 183 del 2017.
[72] Sentenze n. 87 e n. 88 del 2012.
[73] Sulla responsabilità penale per atti extrafunzionali, A. Ruggeri, A Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino, 2014, 344.
[74] Artt. 89, 90, 134, terza parte, 135, ultimo comma, Cost.; leggi costituzionali n. 1 del 1953 e n. 1 del 1989, leggi ordinarie n. 20 del 1962 e n. 219 del 1989, nonché n. 87 del 1953, Norme integrative per i giudizi di accusa davanti alla Corte costituzionale, Regolamento parlamentare per i giudizi di accusa.
[75] A. Ruggeri, A Spadaro, op. cit., 359.
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Luigi Salvato è procuratore generale della Corte di Cassazione dal 23 giugno 2022.
In magistratura dal 1980, Salvato è stato giudice nei tribunali di Lagonegro, Santa Maria Capua Vetere e Napoli e componente dell’Ufficio Studi del Csm, prima di approdare in Cassazione nel 2002. Alla Suprema Corte ha cominciato come magistrato addetto al Massimario, poi è stato consigliere e ancora dopo sostituto procuratore generale, prima di ricoprire gli incarichi direttivi di avvocato generale dal 2018 e di Pg aggiunto dal 2020. Autore di numerosi saggi, relatore in convegni scientifici ed in numerosi corsi organizzati dal CSM e dalla SSM, è stato anche assistente di studio di tre giudici costituzionali.