
In questi giorni è tornata al centro del dibattito pubblico la questione della (non) appellabilità delle sentenze di proscioglimento da parte del pubblico ministero a seguito dell’annuncio da parte dell’onorevole Enrico Costa di una proposta di legge che mira a introdurre penalizzazioni nella valutazione di professionalità per quei magistrati che propongano impugnazioni contro sentenze di assoluzione poi confermate nei successivi gradi di giudizio.
Il meccanismo, solo apparentemente tecnico, produce, in concreto, effetti profondamente distorsivi: non si limita, infatti, a una razionalizzazione del sistema delle impugnazioni, ma introduce un principio pericoloso, secondo il quale la legittimità di una scelta processuale, ampiamente garantita dai principi costituzionali di riferimento, verrebbe giudicata a posteriori sulla base dell’esito. Un simile approccio contraddice l’essenza stessa della funzione giurisdizionale, che deve potersi esercitare secondo diritto e coscienza, non sotto la minaccia di un giudizio disciplinare o valutativo fondato sul risultato.
I precedenti
Non è la prima volta che simili proposte emergono nel dibattito politico. E non è la prima volta che il tentativo di precludere l’impugnazione delle sentenze assolutorie da parte del pubblico ministero viene prospettato come misura di ragionevolezza, salvo poi rivelarsi, nella sostanza, una evidente violazione del sistema delle garanzie costituzionali.
Già nel 2007 la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 26, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (“Modifiche al codice di procedura penale in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento”: la cosiddetta “legge Pecorella”), nella parte in cui escludeva che il pubblico ministero potesse proporre appello contro le sentenze di proscioglimento e, dunque, sia di quelle di assoluzione che di quelle di non doversi procedere, con l’effetto, da un lato, di identificare l’impugnazione quale parte integrante del giusto processo e principio di parità delle armi tra accusa e difesa e, dall’altro, che la stessa non possa essere sacrificata in nome di presunte esigenze deflattive ed anzi sempre più spesso delegittimanti.
Il dibattito
Il disegno sotteso alla proposta normativa di cui si legge in questi giorni va, però, oltre il merito tecnico della questione. È l’idea stessa di giurisdizione a essere messa in discussione. Si ha la netta impressione che dietro questa proposta si celi una più ampia insofferenza nei confronti dell’autonomia della magistratura e, più in generale, di un potere giudiziario indipendente. In questo senso, l’idea di sanzionare la legittima attività processuale sulla base dell’esito dell’impugnazione non rappresenta una mera riforma della giustizia, ma una oggettiva messa in discussione dei principi costituzionali su cui si fonda lo stato di diritto e l’equilibrio dei poteri.
In una democrazia costituzionale, l’esercizio della funzione giurisdizionale non è una concessione, né una tolleranza: è un presidio, un argine, un luogo in cui si concretizzano la tutela dei diritti e il controllo della legalità, anche nei confronti dei poteri pubblici. Intervenire su questo terreno con logiche di dissuasione e di penalizzazione professionale significa orientare il sistema verso una giustizia condizionata, che abdica al suo ruolo di garanzia per paura della conseguenza o della reazione politica.
Il giorno dopo l’approvazione in Senato della riforma costituzionale Nordio che nulla ha a che vedere con l’efficientamento del servizio giustizia, ma che ha il solo fine di delegittimare il ruolo costituzionalmente riconosciuto alla magistratura e svilire l’esercizio della giurisdizione, va allora ribadito con forza e chiarezza che indipendenza e autonomia della magistratura non sono privilegi di casta, non sono garanzie per la magistratura, ma forme irrinunciabili di tutela per tutte le persone. Una democrazia autentica non potrà mai temere il controllo giurisdizionale: lo considera, anzi, una condizione essenziale di equilibrio, di legalità, di effettività di tutela dei diritti.
I rischi nel limitare l’azione del pm
Limitare l’azione del pubblico ministero o, peggio, condizionarla con minacce di penalizzazione, significa depotenziare la giurisdizione e trasformarla in un terreno a rischio, in cui la scelta di impugnare diventa un azzardo personale. Si crea così un clima che mortifica la libertà di valutazione del magistrato e introduce un filtro politico e sociale là dove dovrebbe prevalere la tecnica e il diritto. Colpire il singolo magistrato per le sue scelte processuali, quando siano esercitate nel rispetto della legge, significa minare la libertà di giudizio e instillare un clima di condizionamento. È la pericolosa anticamera di una giustizia che non agisce se non per convenienza e che rinuncia al proprio compito di verifica e garanzia nel timore (forse da alcuni auspicato) di subire conseguenze. D’altra parte, questa volontà anticipatoria, ex lege, di limitare l’attività giurisdizionale e, in particolare quella requirente, come può non riportare alle conseguenze che deriverebbero dalla separazione delle carriere tra pubblico ministero e giudice sul piano dei valori costituzionali in gioco?
Una democrazia solida difende i suoi equilibri costituzionali anche quando sono scomodi. L’esercizio della funzione giurisdizionale non può essere letto come un ostacolo alla vita politica: è il cuore del patto tra cittadini e Stato.
È in questo contesto che la magistratura è chiamata ad intervenire e a spiegare, a far comprendere alle persone che difendere la giurisdizione significa difendere la possibilità, per ciascuno, di far valere i propri diritti davanti a un giudice libero da pressioni e condizionamenti.
Se si perde questa consapevolezza, si rischia di smarrire anche l’idea stessa di giustizia come bene comune. E con essa, un pezzo importante della nostra democrazia costituzionale.