
Editoriale del n. 1/2024 de La Magistratura
di Giorgia Fattinnanzi, membro Cpo-Csm, responsabile contrasto alla violenza di genere Cgil nazionale e componente Osservatorio nazionale Antiviolenza Dpo
All’interno della campagna #leparolecontano, l’Enciclopedia Italia ha selezionato il termine “femminicidio” come parola dell’anno 2023. Dal Vocabolario Treccani leggiamo: “femminicìdio s.m. [comp. del s.f. femmina e -cidio]. – Uccisione diretta o provocata, eliminazione fisica di una donna in quanto tale, espressione di una cultura plurisecolare maschilista e patriarcale che, penetrata nel senso comune anche attraverso la lingua, ha impresso sulla concezione della donna il marchio di una presunta, e sempre infondata, inferiorità e subordinazione rispetto all’uomo”. Ovvero indica l’omicidio di donne avvenuto solo perché erano donne, per mano di un uomo, che sia un ex, un marito, un compagno, un uomo che le voleva e non accettava il loro rifiuto ad appartenergli. Il primo elemento da sottolineare riguarda il fatto che la violenza sulle donne nulla ha a che fare con l’amore o l’attrazione. Che si declini come violenza fisica, psicologica, sessuale, economica o molestie sul posto di lavoro, essa trae la sua origine da un unico fattore: l’asimmetria di potere tra vittima e carnefice.
Altro elemento da sottolineare è che, nonostante le leggi in continuo aggiornamento, il numero di femminicidi è rimasto sostanzialmente invariato negli ultimi 20 anni, mentre aumentano gli stupri e diminuisce l’età degli stupratori e delle vittime. Le cronache ci consegnano, ogni 25 novembre, sempre le stesse statistiche: una donna uccisa circa ogni 3 giorni. E rimanendo al tema della narrazione collettiva che i media ne fanno, notiamo che delle vittime sappiamo tutto, come del carnefice e del loro rapporto: come si sono conosciuti, l’evoluzione della loro relazione, quell’ultimo, fatale, incontro. In altre parole, gli organi d’informazione li affrontano come un fatto di cronaca, ovvero come un fatto privato. Ma così non è. La violenza contro le donne non si consuma nel rapporto tra vittima e carnefice, è un problema strutturale e collettivo che affonda le sue radici nella cultura del nostro Paese e di cui il femminicidio rappresenta solo la punta di un iceberg ancora sommerso e da indagare. Per analizzarlo, partiamo dal vedere l’evoluzione dell’impianto normativo italiano su questa materia.
Guardando alla storia delle conquiste sui diritti delle donne nel nostro Paese, è bene ricordare che solo nel 1963 una sentenza della Corte di cassazione abolisce lo ius corrigendi, ovvero il diritto dell’uomo a picchiare moglie e figli con il fine di correggerne i comportamenti da lui giudicati non accettabili. Fino al 1975 si parla di patria potestà, per poi passare alla potestà genitoriale (quindi sempre con una accezione proprietaria della progenie) che viene sostituita solo nel 2013 dalla responsabilità genitoriale. Fino al 1981 è legale il matrimonio riparatore, che estingueva il reato di stupro. Nello stesso anno viene abolito il delitto d’onore, ovvero l’attenuante giuridica al femminicidio dove la lesione dell’onore del marito era anche una risposta data malamente in pubblico, un abbigliamento della donna giudicato inadeguato, fino ad arrivare al tradimento. Il delitto d’onore si estendeva anche alla sorella del pater familias e alle figlie femmine. Fino al 1996 lo stupro era un reato contro la morale, spesso messo a tacere con il matrimonio riparatore. Ovvero, fino a quarant’anni fa, l’ordinamento giuridico del nostro Paese sanciva per legge l’appartenenza del corpo e della vita della donna a quella di uomo qualsiasi che, solo per il desiderio che l’oggetto del suo “desiderio” gli appartenesse, aveva tutto il diritto di farne ciò che desiderava. Se, per esempio, una donna si fosse opposta al matrimonio, all’uomo sarebbe bastato stuprarla e lei sarebbe stata costretta a sposare il suo carnefice, altrimenti nessuno l’avrebbe più voluta. Quarant’anni, dal punto di vista della trasformazione culturale, equivale a dire ieri.
Tanto è stato fatto dal punto di vista legislativo da allora, anche grazie alla spinta internazionale e delle forze sociali del Paese. La legge più importante e ambiziosa è la “Convenzione sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”, più nota come la Convenzione di Istanbul, approvata dal Consiglio d’Europa l’11 maggio 2011 e ratificata in Italia a giugno 2013. Si tratta del primo strumento internazionale giuridicamente vincolante che ascrive il fenomeno della violenza contro le donne come crimine contro l’umanità. Definisce, inoltre, cos’è la violenza, spostando il focus sulla vittima e la sua percezione dei fatti. In altre parole, è l’effetto che un comportamento produce sulla vittima a definire il reato. Per questo, trova giuridicamente equiparazione la violenza fisica a quella psicologica. La Convenzione di Istanbul, inoltre, indica le quattro assi su cui costruire la strategia per il contrasto alla violenza maschile sulle donne. La prima è la Prevenzione primaria – la messa in sicurezza delle donne – e secondaria – ovvero una formazione culturale basata sulla destrutturazione degli stereotipi dalle scuole fino agli operatori che, a vario titolo, entrano in contatto con le vittime di violenza ed eventuali minori. La seconda è la Protezione, poi c’è la Punizione e, infine, la Promozione che racchiude tutte quelle azioni e campagne per sensibilizzare la popolazione. Nel 2019, inoltre, in Italia vien e approvato il cosiddetto Codice Rosso che completa il quadro normativo introducendo una serie di novità. La prima è il reato per la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (porn revenge); il reato di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso; il reato di costrizione o induzione al matrimonio; la violazione dei provvedimenti di allontanamento. Aumenta inoltre le pene per il reato di stalking, la violenza domestica e lo stupro. Sul piano delle molestie e violenze sui luoghi di lavoro, sempre nel 2019 viene firmata la Convenzione Ilo 190, ratificata il Italia nel 2021, che, oltre a definire i comportamenti molesti come comportamenti “non desiderati” dalla vittima, estende l’ambito di applicazione a tutti i rapporti generati dall’attività lavorativa, riportando alle aziende la responsabilità anche delle molestie subite da clienti e utenti. Infine, a novembre 2023 è stata approvata una nuova legge che prevede il rafforzamento di tutte quelle procedure di messa in sicurezza delle donne vittime di violenza, presentata a firma dei ministri Roccella (Pari Opportunità), Nordio (Giustizia) e Piantedosi (Interno). In particolare, contiene importanti modifiche dell’ordinamento vigente, oltre a più che rilevanti novità che hanno come motore lo sforzo di rendere più stringenti le norme penali per la messa in sicurezza e la protezione delle donne vittime di violenza. In particolare, l’accesso alla sospensione o allo sconto di pena da parte degli autori del reato non potrà più essere concesso per il solo fatto che l’uomo ha intrapreso un percorso di recupero terapeutico. Rimane però inattuata su questo punto la Convenzione di Istanbul che indica per i Centri per autori di violenza (Cuav) l’adozione di un metodo certificato, che necessariamente deve avvenire attraverso un controllo pubblico e terzo. Mentre oggi, nel migliore dei casi, ci troviamo di fronte ad autocertificazioni. Inoltre, ogni sforzo di mettere la donna in sicurezza e di allontanarla dal suo carnefice rischia di tramontare se, attraverso il “contatto partner” adottato dai Cuav, si utilizza la vittima come “termometro” per misurare la violenza dell’uomo. In questo modo si consolida il preconcetto che la violenza sia un fatto privato, che vive e nasce all’interno di quel rapporto.
Proprio in quest’ottica, particolare rilevanza assume nella nuova legge l’idea di considerare recidivo un comportamento violento anche se attuato su una donna diversa da quella per cui sono state emesse misure di tutela, perché questo rafforza l’idea che la violenza riguardi il comportamento deviato di un uomo senza che alcuna corresponsabilità di tale comportamento possa essere attribuita alla vittima. Altra norma importante è l’introduzione dell’arresto in flagranza differito, entro le 48 ore dalla segnalazione, anche in relazione alla difficoltà della vittima di reagire immediatamente per paura di una escalation dei comportamenti del violento. L’ammonimento del Questore è strumento pochissimo utilizzato e conosciuto che dovrebbe sanzionare un comportamento prima che questo diventi penalmente rilevante. Il suo rafforzamento e la sua estensione sono un fatto positivo proprio perché così si permette di sanzionare comportamenti sulla base dei cosiddetti “reati spia”. Un alone di dubbio rimane invece sul fatto che, se l’uomo commette ulteriori atti sanzionabili, si proceda con la denuncia d’ufficio. Pur capendo la necessità di intervenire il prima possibile in questi casi, agire senza il consenso della vittima può essere controproducente a livello processuale e pericoloso per la sua sicurezza. Sappiamo per esperienza che la donna, se non è pronta a tale passo, negherà tutto o sarà restia a intraprendere percorsi di protezione. Ciò è tanto più vero se la segnalazione arriva da persone terze informate sui fatti.
In tal caso è dunque fondamentale favorire il più possibile la presa in carico da parte dei centri antiviolenza per rafforzare la consapevolezza della vittima e la sua protezione. Ad oggi esistono sul tema dei Cav due criticità: un numero ancora basso di centri ed ancor più basso di Case rifugio e una scarsa propensione delle donne a rivolgervisi.
Secondo i dati Istat presentati a fine novembre ’23, l’anno scorso i centri erano 385, ossia 0,13 centri ogni 10 mila donne, con un incremento rispetto al 2017 (primo anno in cui Istat ha iniziato a raccogliere i dati) del 37 per cento. A livello territoriale, la regione che ha più centri è il Molise (0,27 ogni 10 mila donne), quella che ne ha di meno è la Basilicata (0,07). In media le regioni del Sud hanno 0,18 centri antiviolenza ogni 10 mila donne, le regioni del Centro 0,13, Sicilia e Sardegna 0,12, mentre le regioni del Nord 0,10. Dal punto di vista dell’accesso ai centri, l’Istat rileva che nel 2022 oltre 26 mila donne vi si sono rivolte ed hanno preso parte ad un percorso di uscita dalla violenza. Prima di andare in un Cav, il 32 per cento delle donne – con risposta multipla – si è rivolto alle forze dell’ordine e il 28 per cento al pronto soccorso o all’ospedale, il 44 per cento a parenti e amici, il 16 per cento ai servizi sociali e il 13 per cento a un avvocato. Nel 41 per cento dei casi la durata della violenza andava avanti da oltre cinque anni, nel 34 per cento tra uno e 5 anni, nel 14 per cento dei casi tra sei mesi e un anno, nel 7 per cento tra uno e sei mesi. Solo nel 4 per cento dei casi le donne si sono rivolte ai centri dopo un singolo episodio di violenza. Nel 53 per cento dei casi è stato il partner ad aver fatto violenza, nel 25 per cento un ex partner, nell’11 per cento un altro familiare o un parente e per il restante 11 per cento un amico, conoscente o collega.
Tornando alla nuova legge, viene inoltre portato il minimo della distanza nei divieti di avvicinamento a 500 metri e si prevede l’informazione alla vittima di tutti i provvedimenti de libertate inerenti all’autore del reato. Sarebbe un buon provvedimento anche l’obbligo per le procure di individuare magistrati al fine della specializzazione su reati così particolari, perché – come evidenziato dalla Commissione d’inchiesta sul femminicidio del Senato – solo il 30% delle procure italiane nel 2020 aveva personale specializzato. Purtroppo però, vista la scarsità degli organici nelle procure, il timore che questo provvedimento rimanga largamente inattuato o attuato con scarsa efficacia è giustificato. È necessario, infatti, sottolineare l’enorme differenza che passa tra personale dedicato e personale specializzato. Stessa perplessità riguarda la pur giusta risposta, entro 30 giorni, rispetto all’emanazione degli ordini di protezione. Infatti, la maggiore criticità della legge è che si muove in regime di invariabilità finanziaria. Si rischia, quindi, che molte delle misure non abbiano i fondi necessari per essere attuate, a partire dalla scarsità del personale nelle questure e nei tribunali, fino ai braccialetti elettronici, il cui utilizzo è condizionato “alla relativa fattibilità tecnica”. A parità di organici, non si capisce come sia possibile ridurre i tempi di valutazione del magistrato o degli uffici di pubblica sicurezza. Lascia profondamente dubbiosi la proposta che, qualora l’indagato si rifiuti di indossare dispositivi di tracciamento, l’alternativa sia il carcere. Da tempo le associazioni denunciano l’abuso della custodia cautelare, soprattutto vista la situazione in cui versano le carceri italiane. Pur capendo che, se c’è un caso in cui è utile si tratta proprio di questo, se non si ridurrà tale misura per altri reati, rischiamo anche qui l’inefficacia della norma. Non sfugge la funzione deterrente dell’alternativa sul diniego, ma il timore è che questa opzione possa ingenerare un deterrente nel giudice che deve emanare l’ordine di allontanamento. Certo è, comunque, che la firma in Questura rappresenta un’alternativa troppo debole.
Sono giustissime tutte le integrazioni che mettono in evidenza la presenza dei minori che assistono ai comportamenti violenti come fatto di per sé rilevante, ma se guardiamo agli effetti della violenza assistita non possiamo farlo senza ragionare di una presa in carico di donne e minori come vittime. Troppo spesso, invece, si assiste a prese in carico parziali che analizzano i minori solo per trovare appigli che confermino teorie a-scientifiche e madri come controparti da vittimizzare ulteriormente, prescindendo totalmente dal piano penale. Pur accogliendo con favore l’estensione degli ordini di protezione a livello di procedimento civile, sfugge come ciò potrebbe portare una corretta applicazione senza un piano di formazione straordinaria dei giudici civili e minorili, consulenti tecnici d’ufficio e assistenti sociali. Un problema evidenziato anche dal Report del Grevio (Group of Experts on action against Violence against Women and Domestic Violence), gruppo di esperte incaricate dal Consiglio d’Europa di vigilare e valutare, attraverso rapporti periodici forniti dagli Stati, le misure adottate dai Paesi ai fini dell’applicazione della Convenzione di Istanbul. Nell’ultimo rapporto, infatti, si legge: “A seguito dell’emanazione della Legge n. 54/2006, i tribunali civili italiani sono vincolati dal principio dell’affidamento condiviso come soluzione predefinita nei casi di separazione o divorzio. I dati dell’ISTAT mostrano che nella pratica l’affidamento condiviso si applica in circa il 90% di tali casi. Le leggi in vigore non prevedono un obbligo esplicito per gli enti istituzionali di garantire che, nel definire i diritti di affidamento e di visita, si tenga conto degli episodi di violenza rientranti nel campo di applicazione della Convenzione, come richiesto invece dall’Articolo 31, paragrafo 1, della Convenzione.
Ciononostante, vari articoli del Codice Civile consentono di mettere al primo posto il miglior interesse del bambino, al di là del principio dell’affidamento condiviso (…) Tuttavia, il Grevio osserva che, di fatto, queste disposizioni vengono raramente utilizzate per proteggere i bambini testimoni di violenze nei confronti delle proprie madri, anche nei casi in cui la violenza ha portato alla condanna e/o altre misure, compresi ordini di protezione, nei confronti degli autori di violenza. Il Grevio esprime particolare preoccupazione sulle informazioni fornite dalle Ong secondo cui il meccanismo in vigore, piuttosto che permettere la protezione delle vittime e dei loro bambini, “si ritorce contro” le madri che tentano di proteggere i loro bambini denunciando la violenza e le espone ad una vittimizzazione secondaria”. Le esperte puntano dunque il dito contro la “vittimizzazione secondaria” o “violenza istituzionale” – termini adottati in primis dalla Commissione sul femminicidio – che costituiscono un vero e proprio deterrente alla denuncia contro le violenze subite, soprattutto se in presenza di minori.
“Queste informazioni sono corroborate dai rapporti istituzionali e dalle ricerche che mostrano gli effetti negativi sulle vittime ed i loro bambini dell’assenza di canali di comunicazione efficaci tra giurisdizioni civili e penali e/o dell’assenza di un’adeguata comprensione del fenomeno della violenza contro le donne e delle conseguenze sui bambini: i magistrati di diritto civile tendono ad affidarsi alle conclusioni dei consulenti tecnici d’ufficio (CTU) e/o dei servizi sociali, che spesso assimilano gli episodi di violenza a situazioni di conflitto e dissociano le considerazioni relative al rapporto tra la vittima e l’autore di violenza da quelle riguardanti il rapporto tra il genitore violento e il bambino. Inoltre, le denunce delle vittime di abuso da parte del partner sono spesso rigettate sulla base di motivazioni dubbie come “la sindrome da alienazione parentale” e si incolpano le madri per la riluttanza dei figli ad incontrare il padre violento. I test di personalità, che non sono predisposti per le situazioni di violenza, fanno sì che molte vittime vengano ritenute incapaci di fare da genitore. Il Grevio sottolinea l’elevato rischio comportato dall’utilizzo della nozione di alienazione parentale e dei relativi concetti in maniera tale da consentire che la violenza nei confronti delle donne e dei loro bambini non vengano identificate e/o siano messe in discussione, poiché ignorano la natura di genere della violenza e gli aspetti essenziali del benessere dei bambini”. Tale problema è solo in parte risolto grazie alla riforma Cartabia che prevede l’obbligo di acquisire nei procedimenti civili e minorili degli atti dei procedimenti penali. Ma rimane ancora aperto il tema della formazione degli operatori che, a vario titolo, entrano in contatto con le donne vittime di violenza ed eventuali minori. L’allarme arrivava anche dal Rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria approvata a giugno 2021 dalla Commissione d’inchiesta sul femminicidio dove si denunciava: “Complessivamente, l’analisi ha evidenziato una sostanziale “invisibilità” della violenza di genere e domestica nei tribunali civili, nei quali la situazione appare più critica e arretrata rispetto a quella emersa nelle Procure. Elementi positivi si affiancano a elementi negativi, ma sono questi ultimi, nel complesso, a pesare di più. La rilevazione si riferisce al triennio 2016-2018. Il tasso di risposta, molto alto, è stato pari al 99% (130 tribunali su 131)”.
La rilevazione ha evidenziato complessivamente uno stato in cui gli aspetti critici sono senz’altro prevalenti, fatte salve pochissime eccezioni. Preoccupa il fatto che non sia possibile rilevare quali e quante siano le cause in cui emergono situazioni familiari nelle quali si agisce la violenza, così come la mancanza di qualsiasi garanzia che nelle nomine del CTU sia assicurata sempre la professionalità e la specializzazione necessarie, come pure appare critica la tipologia delle indagini delegate da alcuni giudici. In tale contesto si prospetta il rischio che l’attività ed il ruolo del CTU sconfinino, anche solo in parte, nell’area delle competenze riservate al Giudice”. La Commissione sottolinea anche “che non mancano però segnali incoraggianti” da parte di alcuni Tribunali ordinari che hanno adottato “scelte positive, che andrebbero però incoraggiate e messe a regime, così da compiere un salto di qualità e migliorare la risposta giudiziaria alla violenza domestica e di genere”. Viene, quindi, sottolineata la necessità di mettere a regime le buone pratiche, per evitare che siano legate alla sola sensibilità del singolo magistrato, ed estenderle. “È necessario supportare i Tribunali che stanno attuando degli sforzi virtuosi, incoraggiandoli a proseguire in tal senso, e – soprattutto – è auspicabile che le buone prassi adottate ed i modelli organizzativi positivamente sperimentati diventino patrimonio comune sia attraverso interventi efficaci ed operativi anche del Consiglio Superiore della Magistratura, sia attraverso azioni positive che assicurino una effettiva formazione e specializzazione dei magistrati”. Per rendere più chiara la normativa ed armonizzare leggi e norme, la nuova Commissione d’inchiesta sul femminicidio sta proprio in queste settimane cominciando a lavorare ad un Testo Unico che racchiuda tutte le direttive civili sui temi della violenza e delle molestie.
Abbiamo quindi un impianto normativo solido. Ma, come dicevamo all’inizio, il numero dei femminicidi rimane invariato. E l’aumento, invece, degli stupri tra i giovani e i giovanissimi ci mette di fronte ad uno scenario preoccupante, un’ipoteca anche sul futuro. Perché questo avviene? Cosa non funziona? In primis, c’è il tema che questa battaglia non si può vincere solo sul piano penale. Proprio perché non si tratta di un fatto episodico ma strutturale, non può essere affrontato solo con l’inasprimento delle pene.
In accordo con la Convenzione di Istanbul, è necessario un approccio sistemico al tema della violenza sulle donne, partendo in primis dalle radici culturali che sono alla base di un fenomeno emergenziale, ma di natura strutturale. Un approccio solo repressivo non tiene conto dell’altrettanto fondamentale fattore culturale. Questo vulnus incide su due fronti: quello della percezione della violenza della vittima e quello della risposta delle istituzioni alle donne che a loro chiedono aiuto. Secondo la Commissione femminicidio, il 63% delle vittime di femminicidio nel 2019 non aveva detto nulla della sua situazione a nessuno, neanche ad un familiare, un collega o un amico. Se guardiamo alle molestie sul lavoro, il bassissimo numero di denunce non dimostra la residualità del fenomeno, ma la bassa percezione delle vittime e la loro paura di denunciare, soprattutto se l’asimmetria del potere è particolarmente elevata, come se a metterle in atto sono i capi. Stranamente, il Paese europeo con il più alto numero di denunce per molestie è la Germania. Questo particolare dato si deve a due fattori: l’alto livello di percezione delle vittime di fronte a comportamenti non desiderati e la fiducia nella risposta del sistema. Questo dimostra che la scarsità delle denunce nasconde solo tantissimo sommerso. In quest’ottica, il tema della formazione rappresenta un tema centrale e non più rinviabile. Dall’adozione della Convenzione di Istanbul, l’Italia si è dotata di strumenti che ne rendessero l’applicazione più efficace. Il più importante è il piano triennale antiviolenza, messo a punto dall’Osservatorio e dal Comitato tecnico-scientifico, che rappresenta la cornice normativa in cui tutte le azioni delle amministrazioni fanno parte. In quella sede si sta lavorando per definire un Libro bianco che contenga le linee guida per la formazione straordinaria sul tema della violenza di genere, che parta dalle scuole e arrivi a formare anche tutti gli operatori che, a vario titolo, entrano in contatto con le donne vittime di violenza ed eventuali minori coinvolti. Quindi una formazione specifica per gli operatori giudiziari, le forze dell’ordine, gli operatori del servizio sanitario e dei servizi sociali territoriali. Sul piano della formazione non si può prescindere dall’educazione emotiva e sessuale e la lotta agli stereotipi nelle scuole e nelle università, a partire dalle scuole dell’infanzia. Questa è l’unica strada che ci permetterà di immaginare un futuro diverso. Non possiamo però immaginare la trattazione di tali temi solo con un’ora aggiuntiva ai programmi scolastici, altrimenti si rischia, come nel caso dell’educazione civica, sia la prima materia messa da parte per finire il programma scolastico. Solo un approccio sistemico può mettere davvero in sicurezza le donne ed estirpare le discriminazioni che le rendono più deboli nel lavoro e in famiglia.
Consulta il numero 1/2024 de La Magistratura.