
Commento all’art. 94 della Costituzione
di Franco Frattini, Presidente del Consiglio di Stato
Art. 94 – Il Governo deve avere la fiducia delle due Camere.
Ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia mediante mozione motivata e votata per appello nominale.
Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia.
Il voto contrario di una o d’entrambe le Camere su una proposta del Governo non importa obbligo di dimissioni.
La mozione di sfiducia deve essere firmata da almeno un decimo dei componenti della Camera e non può essere messa in discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione.
Abstract – L’art. 94, elemento fondante della forma di governo parlamentare, si pone in diretta correlazione con l’articolazione bicamerale del Parlamento, il sistema elettorale e gli effetti indotti sulla omogeneità delle maggioranze parlamentari dalle quali il Governo trae la fiducia, come ha messo in luce anche la Corte costituzionale.
La forma di governo parlamentare è il frutto dell’intenso confronto in Assemblea Costituente, culminato con l’approvazione dell’ordine del giorno Perassi che si pronunciò per l’adozione del sistema parlamentare “da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo”. I successivi svolgimenti della forma di governo parlamentare nella storia repubblicana sono complessivamente volti a trovare un bilanciamento tra le esigenze proprie della stabilità di governo e quelle di affermazione del ruolo centrale del Parlamento in una democrazia rappresentativa.
Al di là degli strumenti, le mozioni di fiducia e sfiducia al Governo, indicati dalla Costituzione, nella prassi si sono affermate forme differenziate caratterizzanti il rapporto fiduciario, a partire dalla questione di fiducia, spesso utilizzata in ragione dei suoi effetti sulle procedure parlamentari. L’esperienza ha conosciuto in prevalenza crisi extraparlamentari, indipendenti dall’esito di votazioni sulla fiducia.
La forma di governo parlamentare, investendo una dimensione essenzialmente politica, si intreccia con molteplici elementi che connotano il quadro costituzionale e il sistema politico: il ruolo dei partiti politici (art. 49 Cost.); il sistema elettorale, i regolamenti parlamentari, gli obblighi sovranazionali ed europei (v. artt. 11, 81, 97, 117, 119 Cost.); l’introduzione, nelle Regioni ordinarie, della elezione diretta del Presidente (art. 122, quinto comma, Cost.). Resta essenziale il ruolo di riequilibrio – anche per la forma di governo parlamentare -svolto dal Presidente della Repubblica.
Sommario: 1. La forma di governo parlamentare; 2. I soggetti del rapporto fiduciario; 3. L’oggetto della fiducia; 4. Il procedimento fiduciario; 5. La mozione di sfiducia al Governo; 6. La questione di fiducia; 7. La mozione di sfiducia individuale; 8. Le crisi extraparlamentari; 9. Il rimpasto; 10. Le conseguenze della mancanza della fiducia; 11. La forma di governo in divenire.
- La forma di governo parlamentare. L’art. 94 pone l’elemento fondante della forma di governo parlamentare: il rapporto fiduciario tra Governo e Parlamento. Fin dal primo comma (“il Governo deve avere la fiducia delle due Camere”) è palese la connessione con l’articolazione del Parlamento in due rami distinti (artt. 55 ss.). Resta implicito, ma non meno rilevante nella prassi applicativa, il ruolo rivestito dai due sistemi elettorali per l’elezione della Camera e del Senato, i cui tratti distintivi possono ingenerare effetti indotti sulla formazione e sulla omogeneità delle maggioranze parlamentari dalle quali il Governo deve ottenere la fiducia. Indipendentemente dal sistema elettorale, la stessa Costituzione indica alcuni elementi di differenziazione tra i due rami: distingue il numero degli eletti in ciascun ramo (dalla XIX legislatura, 400 deputati e 200 senatori, v. legge cost. n. 1/2020); con riguardo al Senato, precisa che le elezioni debbono avere luogo a base regionale (art. 57, primo comma) oltre a stabilire un numero minimo di senatori elettivi per ciascuna Regione (art. 57, terzo comma). Con la legge cost. n. 1/2021, l’elettorato attivo per il Senato (finora fissato a 25 anni) è stato equiparato a quello della Camera, con un effetto di attenuazione della diversità degli esiti elettorali, ferma restando la evenienza, a oggi rimasta solo teorica, dello scioglimento di una sola Camera ex art. 88, primo comma, Cost.
Il rilievo costituzionale della omogeneità nella composizione politica delle due Camere è stato confermato dalla Corte costituzionale (sent. n. 1/2014), che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle disposizioni del sistema elettorale del Senato (come modificato dalla legge 21 dicembre 2005, n. 270) relative all’attribuzione del premio di maggioranza su scala regionale. La Corte ha rilevato (anche) l’effetto, derivante dall’applicazione della legge elettorale, che la maggioranza in seno all’assemblea del Senato sia il risultato casuale di una somma di premi regionali. Ne conseguirebbe, sempre secondo la Corte, che possa esserne rovesciato il risultato ottenuto dalle liste o coalizioni di liste su base nazionale e favorita la formazione di maggioranze parlamentari non coincidenti nei due rami del Parlamento, pur in presenza di una distribuzione del voto nell’insieme sostanzialmente omogenea. Ciò “rischia di compromettere sia il funzionamento della forma di governo parlamentare delineata dalla Costituzione repubblicana, nella quale il Governo deve avere la fiducia delle due Camere (art. 94, primo comma, Cost.), sia l’esercizio della funzione legislativa, che l’art. 70 Cost. attribuisce collettivamente alla Camera ed al Senato”.
Il tema è poi riecheggiato ancora nella successiva sentenza della Corte costituzionale n. 35/2017 (sul sistema elettorale di Camera e Senato, come modificato dalla legge n. 52/2015), in cui è annotato che “non è nemmeno lamentata dal rimettente la lesione delle due disposizioni costituzionali che dovrebbero necessariamente venire in considerazione (cioè gli artt. 94, primo comma, e 70 Cost.) laddove si intenda sostenere che due leggi elettorali «diverse» compromettano, sia il funzionamento della forma di governo parlamentare delineata dalla Costituzione repubblicana, nella quale il Governo deve avere la fiducia delle due Camere, sia l’esercizio della funzione legislativa, attribuita collettivamente a tali due Camere”.
La forma di governo parlamentare è il frutto dell’intenso confronto in Assemblea Costituente, nella quale prevalsero i timori per una eccessiva concentrazione dei poteri, quale si sarebbe determinata ad esempio con la soluzione di ispirazione presidenziale caldeggiata da Calamandrei (Seconda sottocommissione, seduta del 6 settembre 1946). Insieme, erano diffusi i timori legati all’esperienza del regime fascista e le incertezze per il risultato delle elezioni poi tenutesi il 18 aprile 1948. Di qui l’esito della forma di governo parlamentare, le cui ragioni accennate riecheggiano anche nella scelta per il bicameralismo[1] e in quella, implicita nel testo costituzionale, consistente nell’opzione per un sistema elettorale proporzionale.
La sintesi dell’Assemblea Costituente sulla forma di governo è abitualmente ricondotta all’adozione, il 5 settembre 1946, da parte della Seconda Sottocommissione della Commissione dei 75, dell’ordine del giorno Perassi che, escludendo il tipo di governo presidenziale e quello direttoriale, non rispondenti alle condizioni della società italiana, si pronunciò per l’adozione del sistema parlamentare “da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo”. Due quindi le esigenze da soddisfare: la prima, di metodo, esprime la consapevolezza che la Costituzione deve tenere conto dei dati di contesto (le condizioni della società italiana) e non può ridursi a una semplice opera di ingegneria costituzionale; la seconda, di contenuto, manifesta l’aspirazione a una sintesi tra rappresentanza parlamentare e stabilità di governo.
Quest’ultima, tuttavia, ha poi trovato presidi complessivamente blandi rispetto a talune prospettazioni avanzate nella stessa Assemblea Costituente (ad es. quorum elevati per la presentazione della mozione di sfiducia, maggioranza assoluta per le deliberazioni fiduciarie, sfiducia costruttiva, riserva del voto fiduciario alle Camere riunite in Assemblea nazionale). Possono essere ricondotti alla funzione stabilizzatrice, nell’art. 94 Cost., la necessità per il Governo di ottenere la fiducia parlamentare, l’obbligo di motivazione della mozione di fiducia e di quella di sfiducia, il quorum minimo di un decimo di ciascuna Camera per la presentazione della mozione di sfiducia, l’assenza di un obbligo di dimissioni in capo al Governo in caso di voto contrario di una o entrambe le Camere su una sua proposta. Probabilmente segue la stessa logica lo stesso art. 72, terzo comma, Cost., che consente al Governo di determinare la rimessione in Assemblea dei progetti di legge assegnati a Commissioni in sede deliberante.
I successivi svolgimenti della forma di governo parlamentare nella storia repubblicana sono complessivamente volti a trovare un bilanciamento tra le esigenze proprie della stabilità di governo e quelle di affermazione del ruolo centrale del Parlamento in una democrazia rappresentativa[2].
- I soggetti del rapporto fiduciario. Fin dal suo esordio, l’art.94 Cost. individua un rapporto biunivoco tra due soggetti, Governo e Parlamento. La fiducia non configura esclusivamente un atto deliberativo ma costituisce una relazione che inizia con il suo conferimento, deliberato da entrambe le Camere, e si svolge nel corso del tempo attraverso le molteplici forme prevalentemente disciplinate, oltre che dalla Costituzione, dai regolamenti parlamentari. Il carattere biunivoco del rapporto fiduciario comporta, quale effetto conseguente, un obbligo (politico) tanto per il Governo quanto per il Parlamento; “Ottenendo la fiducia, il governo si vincola ad attuare un programma. Dando la fiducia, le Camere si vincolano alle decisioni legislative conformi a quel programma”[3]. Più complessa è la definizione puntuale del vincolo e la sua qualificazione giuridica. Ci si trova infatti dinanzi a una fattispecie in cui la dimensione del politico tende a prevalere.
Il Governo, quale soggetto del rapporto fiduciario, è normalmente inteso nel suo complesso, nella composizione collettiva indicata dall’art. 92, corollario della “necessaria valutazione globale sulla composizione e sul programma politico del Governo al momento della sua presentazione alle Camere (art. 94)” (Corte cost. n. 7/1996), cui corrisponde, in negativo, il divieto, previsto dal terzo comma dell’art. 94, dell’obbligo di dimissioni (dell’intero Governo) in caso di voto contrario di una o entrambe le Camere su una sua proposta (sulla mozione di sfiducia individuale v. ultra).
Con il voto fiduciario ciascuna Camera individua e cristallizza la maggioranza che sostiene il Governo, ovverosia le forze politiche che si impegnano a realizzare un determinato indirizzo politico. A tal fine è essenziale che la composizione politica delle due Camere sia omogenea e che il sistema elettorale contribuisca in tale direzione. Anche in questo caso, costituisce una condizione preliminare, che conferma la priorità del politico, la coesione dei partiti e dei gruppi parlamentari, al loro interno e nei rapporti tra le componenti delle coalizioni della maggioranza governativa, per fare sì che sia assicurata la stabilità del rapporto fiduciario nel corso del tempo. La realizzazione dell’indirizzo politico costituisce quindi un obiettivo generale, indicato – volta a volta con maggiore o minore nitidezza – al momento del voto di fiducia.
Il voto contrario alla fiducia chiesta dal Governo consente di individuare, insieme al voto di astensione (quest’ultimo con sfumature diverse), le forze politiche di opposizione.
Sebbene la Costituzione non espliciti se e quali siano gli effetti prodotti dalla distinzione tra maggioranza e opposizione (tra chi vota in favore della fiducia e chi vota contro), i diversi quorum rinforzati previsti per le deliberazioni o quelli ridotti per gli atti di iniziativa o di impulso implicano il riconoscimento delle prerogative proprie delle minoranze parlamentari[4] e, insieme, presuppongono per tale riconoscimento un impianto proporzionale del sistema elettorale.
Sono poi i regolamenti parlamentari ad avere dato maggiore e specifico rilievo alle prerogative delle opposizioni, in specie dopo l’entrata in vigore di leggi elettorali di ispirazione maggioritaria.
Le modalità con cui viene formandosi la compagine governativa hanno indotto a qualificare in vario modo l’Esecutivo (es. governi-ponte; governi balneari; governi di minoranza, questi ultimi sorretti da una maggioranza parlamentare resa possibile da talune astensioni; governi a geometria variabile, governi tecnici). Tuttavia, le varie qualificazioni colgono il senso politico che caratterizza volta a volta la formazione del Governo, che può giungere a intaccare la stabilità e coerenza dell’indirizzo politico e quindi dell’Esecutivo, ma non paiono intaccare il nucleo delle disposizioni costituzionali. Queste, infatti, non condizionano la formazione del Governo a quorum o durate particolari. Così va inteso lo stesso ricorso alla formula “Governo del Presidente della Repubblica”, che non può alterare il procedimento di formazione del Governo e la conseguente fase fiduciaria di cui il Parlamento è l’esclusivo titolare. Rimane fermo che, quale che sia la formula politica, dovrebbe essere evitato (per riecheggiare le parole della Corte costituzionale, nella sentenza n. 7/1996 riferita alla mozione di sfiducia individuale) il rischio di una preminenza dell’organo parlamentare tale da amplificarne il ruolo e da esporre l’esecutivo ai mutevoli e contingenti orientamenti di maggioranze parlamentari, anche occasionali. Per converso, il procedimento di formazione del Governo e il successivo procedimento fiduciario (artt. 92, 93 e 94) sono chiaramente scolpiti nella Carta costituzionale, sì da non consentire alla legge elettorale, anche se di chiara impronta maggioritaria (es. legge n. 270/2005, con il riferimento all’art. 1 ai gruppi o partiti politici che si candidano a governare), di determinare lo scioglimento anticipato in modo pressoché automatico, nel caso di crisi della maggioranza formatasi all’esito delle elezioni. In questo, non consente adattamenti di sorta il principio costituzionale della centralità del Parlamento e della sua autonomia, di cui l’art. 67 sul libero mandato parlamentare è manifestazione primaria[5].
E’ dibattuta la questione se il voto di fiducia impegni il Parlamento nella sua interezza o la sola maggioranza che ha votato in favore del Governo. Il problema è in realtà mal posto[6]. Non v’è deliberazione parlamentare che non sia espressione dell’intera Camera e i cui effetti non si producano tanto su coloro che votano a favore quanto su coloro che votano contro o si astengono. La differenziazione opera invece sugli effetti propri della votazione fiduciaria, sul piano organizzativo e funzionale di ciascuna Camera (secondo la summa divisio tra maggioranza e opposizione), ogni volta in cui sarà interessato nei singoli procedimenti il nesso fiduciario con il Governo; si pensi alla composizione delle Commissioni, in cui il rapporto numerico tra i componenti deve rispecchiare il rapporto tra maggioranza e opposizione (alla seconda appartengono tutti i parlamentari che non hanno votato a favore, astenuti compresi).
E’ stata sollevata talora la questione relativa al voto di fiducia espresso dai senatori a vita (privi quindi di investitura politica elettiva), nel caso in cui la maggioranza numerica potesse formarsi solo grazie al loro voto favorevole. La questione può essere senz’altro rilevante sul piano politico ma non su quello costituzionale: la Costituzione non esplicita – né pare possibile dedurle per implicito – regole speciali che distinguano o limitino i poteri dei senatori a vita[7].
- L’oggetto della fiducia. La fiducia è una “necessaria valutazione globale sulla composizione e sul programma politico del Governo al momento della sua presentazione alle Camere” (Corte cost. n. 7/1996). L’oggetto che le è proprio, oltre alla composizione del Governo, è un programma, presentato alle Camere dal Presidente del Consiglio (art. 5, comma 1, lettera b), della legge n. 400/1988), dopo essere stato in precedenza sottoposto alla deliberazione del Consiglio dei ministri, cui spettano (art. 2, comma 3, lettera a), della legge n. 400/1988) le dichiarazioni relative all’indirizzo politico, agli impegni programmatici ed alle questioni su cui il Governo chiede la fiducia del Parlamento. Il programma, in base al quale si incardina il rapporto fiduciario tra Governo e Parlamento, costituisce in fatto l’esito finale di un processo che prende avvio con la presentazione dei programmi elettorali (v. art. 14-bis del d.p.r. n. 361/1957) ed eventualmente continua, in vista della formazione del Governo, con accordi volta a volta contrassegnati da diverse denominazioni (accordi di coalizione o, di recente, contratti di governo che contrassegnano i punti di accordo tra forze politiche di orientamento diverso). Si tratta di prassi che condizionano in profondità la formazione del programma di governo, fermo restando che l’indirizzo politico si crea attorno al programma presentato alle Camere e approvato con mozione motivata che (in linea teorica) ben potrebbe contenere integrazioni o precisazioni del programma stesso. La distinzione è in fondo non essenziale, se solo si considera che dalla fase di nomina del Governo alla fiducia parlamentare e, oltre, per tutta la permanenza in carica del Governo, è determinante il concorso delle forze politiche (partiti e movimenti politici e, ai fini della fiducia, la loro proiezione parlamentare costituita dai gruppi).
Non va enfatizzato il rilievo dei contenuti del programma. E’ stato osservato[8] che il programma si compone di due parti: quella di rilevazione delle necessità del paese e quella con cui sono precisate le misure concrete e la linea politica in relazione al contesto. Sarebbe quest’ultimo la parte qualificante del programma in cui si sostanzia l’indirizzo politico. Tuttavia si tratterebbe di un nucleo sempre più esiguo, in relazione a una molteplicità di fattori, in primis la spoliticizzazione di molte questioni in una società condizionata dalla mutazione tecnologica e da processi economici e sociali di portata globale e la costituzionalizzazione delle grandi questioni di fondo, non più riservate alla sola maggioranza di governo. Né sono estranee dinamiche che condizionano ulteriormente le politiche, con lo spostamento dei centri decisionali in sedi sovranazionali (l’Unione Europea) o il loro parziale decentramento (autonomie territoriali). Ne deriva una certa relativizzazione del programma, rispetto al quale assume prioritario rilievo l’accordo tra le forze politiche che vi aderiscono. Anche questo processo può essere causa di instabilità del Governo, secondo schemi che non possono essere ricompresi nel solo modello costituzionale dell’art. 94.
Al di là dei vincoli politici, si stenta ad assegnare al programma di Governo un effetto giuridico rilevante. E’ indubbio che le declinazioni del programma possono specificarne i contenuti, come pure adeguamenti o modificazioni, senza che – permanendo l’accordo politico – debba essere rinnovato il voto fiduciario. L’intrinseca politicità del voto fiduciario sul programma stenta in definitiva a essere conchiusa in un rigido schema di vincoli giuridici,
Ne offre conferma l’esperienza politico-istituzionale, che mostra come – per una serie di fattori e dinamiche interne dei partiti e dei loro rapporti – un Governo possa conoscere la crisi sebbene (o, per paradosso, perché) realizzi il programma per il quale ha ottenuto la fiducia. Per converso, la crisi non si profila, in taluni casi, nonostante il Governo non attui il programma assentito dal Parlamento con il voto di fiducia. Quale che sia la valutazione di simili fenomeni, si deve escludere che la soluzione possa provenire dalla imposizione di regole giuridiche incentrate sul rapporto fiduciario[9].
- Il procedimento fiduciario. Gli atti cui l’art. 94 riconduce la fiducia parlamentare al Governo sono la mozione di fiducia e la mozione di sfiducia. Entrambe debbono essere motivate e votate per appello nominale (primo comma). Inoltre, la mozione di sfiducia soggiace a due ulteriori limiti: deve essere sottoscritta da almeno un decimo dei componenti di una Camera e non può essere messa in discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione.
La mozione di fiducia distingue la forma di governo parlamentare da quella regionale, per la quale, a partire dalla legge cost. n. 1/1999, l’elezione diretta del Presidente della Giunta quale regola derogabile solo da espressa previsione statutaria (art. 122, quinto comma) esclude il voto di investitura fiduciaria da parte del Consiglio (v. Corte cost. n. 12/2006).
Lo strumento, le modalità di votazione e i tempi della procedura fiduciaria sono tratteggiati dalle disposizioni costituzionali (art. 94, secondo e terzo comma).
Lo strumento (la mozione) non trova corrispondenza nell’istituto di carattere generale così denominato dai regolamenti parlamentari, che la configurano quale atto di indirizzo con cui è introdotto il dibattito in Assemblea per essere poi sottoposto a eventuali emendamenti e alle conseguenti votazioni[10]. Le mozioni di fiducia sono infatti presentate al termine del dibattito, introdotto dalle comunicazioni del Presidente del Consiglio, e vengono sottoscritte dai rappresentanti dei gruppi che decidono di sostenere il Governo. Non è prescritto, diversamente dalla mozione di sfiducia, un numero minimo di sottoscrizioni e normalmente la sottoscrizione è a cura dei presidenti dei gruppi parlamentari.
Ulteriore requisito è costituito dall’obbligo di motivazione, attraverso cui debbono essere esplicitate le coordinate della relazione fiduciaria tra Camere e Governo, attraverso cui si determina l’indirizzo politico e che sintetizzano l’assenso al programma, alla formula politica e alla composizione governativa. La votazione fiduciaria da parte di due Camere distinte rende possibile, oltre a esiti diversi, l’approvazione di mozioni con motivazioni diverse[11]. Si tratta di un’eventualità da scongiurare, in considerazione del carattere necessariamente unitario dell’indirizzo politico. Per questa ragione (e in certe circostanze anche per non dovere affrontare subito snodi politicamente sensibili[12]) nella prassi è utilizzata una motivazione laconica con cui la Camera o il Senato, “udite le comunicazioni del Governo, le approva e passa all’ordine del giorno”. La formula sintetica, che risale all’epoca statutaria, non è andata esente da critiche, trattandosi di una motivazione ob relationem, con rinvio alle dichiarazioni rese dal Presidente del Consiglio, priva di un autonomo contenuto di indirizzo. L’esperienza dei Governi Spadolini (1981-1982), con l’approvazione di una mozione ampiamente motivata, contenente il programma politico della maggioranza, non ha avuto seguito[13]. Va considerato che l’indirizzo politico non può non avere una sua intima coerenza e unità, che potrebbero essere messe a rischio da motivazioni frastagliate o addirittura distinte tra i due rami. Per questo motivo i regolamenti parlamentari[14] vietano la votazione per parti separate, che potrebbe condurre a esiti diversi con riferimento a singole porzioni del programma, e la presentazione di ordini del giorno, che rischierebbero di plasmare e rettificare i contenuti dell’indirizzo politico fissato dalla mozione.
L’art. 94 si sofferma sia sui tempi che sulle modalità del voto sulla mozione di fiducia. Il Governo si deve infatti presentare alle Camere entro dieci giorni dalla sua formazione, fatta coincidere da alcuni con la data del giuramento, da altri con la data della nomina[15]. La questione del carattere perentorio del termine pare destinata ad assumere rilievo prevalentemente scolastico e non può essere disgiunta dalla considerazione delle eventuali sanzioni per il caso di inosservanza di tale termine. La presentazione del Governo ha luogo il medesimo giorno, secondo l’intesa intervenuta tra i Presidenti dei due rami; risalgono al 16 ottobre 1980 i pareri corrispondenti delle Giunte per il Regolamento di Camera e Senato secondo cui le dichiarazioni programmatiche del Governo sono rese oralmente alla Camera chiamata per prima, in base al criterio dell’alternanza, a discutere e a esprimersi sulla fiducia; nell’altra Camera il Presidente del Consiglio deposita l’identico testo delle dichiarazioni pronunziate nell’altra. E’ palese l’intento di economia procedurale sotteso, al fine di evitare duplicazioni inessenziali.
Il voto deve avere luogo per appello nominale, la forma più solenne attraverso la quale ciascun parlamentare, transitando sotto il banco della Presidenza, deve dichiarare il proprio voto. La solenne forma rende manifesto il voto di ciascuno dinanzi all’opinione pubblica, ai rispettivi gruppi e partiti politici e alle stesse valutazioni del Capo dello Stato che ha nominato il Governo. E’ tale dichiarazione, all’esito del voto finale, che determina l’assegnazione di ciascun parlamentare alla maggioranza o all’opposizione.
Non è previsto un quorum rinforzato: per l’approvazione della mozione di fiducia è sufficiente la maggioranza semplice, nonostante l’art. 87 del progetto di Costituzione prescrivesse la maggioranza assoluta. La distinzione non è così rilevante, dal momento che, per un momento così cruciale per la vita istituzionale, prende parte alla votazione la quasi totalità dei parlamentari, con la conseguenza che la fiducia è normalmente sostenuta da un numero che supera la maggioranza assoluta sia alla Camera sia al Senato. Si tratta di una regolarità che ha conosciuto eccezioni in ragione dell’elevato numero di astensioni registrato, in tempi diversi, ad esempio in occasione del Governo Andreotti III (governo della “non sfiducia”) o del Governo Dini (governo “delle astensioni”), con la conseguenza di diverse forme di partecipazione al voto in ragione del diverso computo degli astenuti alla Camera rispetto al Senato[16].
Nella storia repubblicana sono cinque i casi in cui una Camera non ha concesso la fiducia iniziale al Governo[17].
- La mozione di sfiducia al Governo. Con la mozione di sfiducia viene meno, per volontà della Camera che l’approva, il rapporto di fiducia tra Parlamento e Governo. La mozione di sfiducia condivide con quella di fiducia l’obbligo di motivazione, volta qui a esplicitare le ragioni del dissenso dal Governo, e il voto per appello nominale. Proprio perché volta a provocare un voto sul Governo, la mozione di sfiducia, diversamente da quanto si è visto per la mozione di fiducia, corrisponde al modello di mozione delineato dai regolamenti parlamentari quale strumento che introduce il dibattito e conduce al voto. Anche per essa non è consentita la votazione per parti separate né la presentazione di ordini del giorno[18]. Essa è strumento di “risoluzione politica del conflitto” tra Governo e Parlamento (Corte cost., sent. n. 7/1996), che chiama in causa, sulla base di un giudizio esclusivamente politico[19], la responsabilità del Governo (su cui v. art. 95, primo e secondo comma, Cost.), in particolare del Presidente del Consiglio e dell’insieme dell’Esecutivo (per la mozione di sfiducia individuale a singoli Ministri, il cui riconoscimento porta a escludere una simmetria perfetta tra mozione di fiducia e mozione di sfiducia, v. ultra). E’ evidente che, come la mozione di fiducia è atto necessario e preventivo, con cui il Parlamento valuta la composizione e il programma dell’Esecutivo, al momento della sua presentazione alle Camere, la mozione di sfiducia è eventuale, successiva alla formazione del Governo e riferita ai comportamenti posti in essere dal Governo. La connotazione politica della mozione di sfiducia fa sì che essa sfugga a specifiche tassonomie circa i contenuti e la motivazione, che può senz’altro investire l’attuazione del programma esposto nella fase costitutiva come pure riguardare ulteriori profili propri dello svolgimento del rapporto fiduciario. Il contenuto aperto della mozione fa sì che essa possa, almeno in astratto, presentare anche un contenuto in positivo, prospettando soluzioni per la crisi che si verrebbe ad aprire con l’eventuale approvazione della mozione.
Per la mozione sfiducia, diversamente da quella di fiducia, la Costituzione stabilisce un tenue sbarramento all’ammissione, consistente nel quorum minimo di sottoscrizioni: un decimo dei componenti di una Camera, peraltro più elevato rispetto a quello richiesto per la presentazione di mozioni ordinarie[20]. Tale sbarramento è diretto a evitare presentazioni mosse da finalità meramente dilatorie o ostruzionistiche rispetto all’ordinario svolgimento dei lavori parlamentari secondo il programma e il calendario approvati (il quorum, al Senato, si intende raggiunto anche qualora siano stati sottoscritti più documenti identici[21]). Una finalità simile è sottesa al termine dilatorio minimo di tre giorni tra la presentazione e la discussione, con relativa votazione, della mozione sfiducia, sì da evitare esiti occasionali o inattesi, a promuovere un confronto sostanziale sulle ragioni della sfiducia, a consentire alla maggioranza di adottare una linea condivisa[22].
La previsione espressa in Costituzione di un termine dilatorio non consente di trarre conclusioni automatiche circa la sussistenza di un obbligo di immediata discussione della mozione di sfiducia, trascorsi tre giorni, con l’effetto di alterazione sulla programmazione dei lavori. Se, per un verso, va evitato che un atto solenne come la mozione di sfiducia si presti a finalità ostruzionistiche, dall’altro non si vede come la discussione di un atto risolutivo per la permanenza in carica del Governo possa essere rinviata sine die[23].
Anche in questo caso, come per la mozione di fiducia, la votazione per appello nominale sulla mozione di sfiducia è diretta a rendere massimamente evidente dinanzi all’opinione pubblica l’assunzione di responsabilità dei deputati o senatori che intendono aprire una crisi di Governo e di quelli che vi si oppongono.
La conseguenza dell’approvazione della mozione di sfiducia è data dall’obbligo di dimissioni del Governo. L’obbligo non è espressamente previsto ma discende (come ha ricordato anche la sentenza della Corte costituzionale n. 7/1996) sia dal principio indicato in positivo dal primo comma dell’art. 94 (il Governo deve avere la fiducia delle Camere) sia, con argomento desumibile al contrario, dal quarto comma dell’art. 94, secondo cui il voto contrario di una o d’entrambe le Camere su una proposta del Governo non importa obbligo di dimissioni. Ne consegue inoltre che, con l’approvazione della mozione di sfiducia, non si produce un effetto di caducazione automatica degli effetti della nomina ma necessitano le conseguenti dimissioni del Governo[24].
Nella storia repubblicana non è mai stata approvata alcuna mozione di sfiducia; anzi, la sua presentazione da parte di gruppi di opposizione comporta normalmente l’effetto di ricompattare le forze di maggioranza. Anche per questo motivo, la votazione delle mozioni di sfiducia al Governo non è frequente.
- La questione di fiducia. Sebbene non espressamente prevista dal testo costituzionale, la questione di fiducia costituisce istituto di ampia applicazione e impatto nei rapporti tra Governo e Parlamento, il cui rilievo sull’attività parlamentare complessiva è assai rilevante[25]. Ci si riferisce alla disciplina sostanziale e procedurale dell’istituto della questione di fiducia mentre non può, evidentemente, essere messa in discussione, indipendentemente dalla disciplina regolatoria positiva, la facoltà per il Governo di rendere preventivamente palesi le conseguenze di un certo esito di un voto.
L’esito ultimo di un eventuale voto contrario alla questione di fiducia può variare in corrispondenza con il sistema elettorale di riferimento: al venir meno del rapporto fiduciario da parte di una maggioranza espressa chiaramente e direttamente dal corpo elettorale (sistema maggioritario e bipolare) è maggiormente probabile che alla reiezione della questione di fiducia facciano seguito sia le dimissioni del Governo sia lo scioglimento delle Camere. Diversamente, in un sistema elettorale di ispirazione proporzionale, gli spazi della negoziazione tra le forze politiche è maggiore, rispetto alla soluzione dissolutoria, anche dopo le dimissioni del Governo. Peraltro va considerato che, in ogni caso, il funzionamento effettivo del sistema politico difficilmente può essere inquadrato in rigidi schemi, secondo una tabella di corrispondenza tra il venir meno del rapporto fiduciario tra Governo e Parlamento e le conseguenze successive.
La questione di fiducia origina nella prassi statutaria e non ha trovato una espressa disciplina in Costituzione. Tuttavia essa deriva dal primo comma dell’art. 94 e alla necessaria permanenza, successiva al conferimento iniziale, del rapporto fiduciario tra Parlamento e Governo nel corso dell’intero mandato di entrambi.
Diversamente dalle mozioni fiduciarie, la questione di fiducia è posta su iniziativa del Governo. L’oggetto è abitualmente costituito da progetti di legge o loro parti ma può riguardare (salvi i limiti espressamente posti dai regolamenti parlamentari) anche atti di indirizzo e controllo.
La legge n. 400/1988 ha disciplinato la fase endogovernativa, assegnando al Consiglio dei ministri il potere di esprimere l’assenso alla iniziativa del Presidente del Consiglio dei Ministri di porre la questione di fiducia dinanzi alle Camere (art. 2, comma 2) e riservando al Presidente del Consiglio, a nome del Governo, di porre la questione di fiducia, direttamente o a mezzo di un Ministro espressamente delegato (art. 5, comma 1, lettera a). E’ tuttavia difficile configurare un vizio del procedimento che interdica al Governo di porre la questione di fiducia qualora, per ragioni di urgenza, non sia stata osservata la sequenza di legge[26].
Proprio in ragione della disciplina parlamentare della questione di fiducia, le finalità dell’istituto sono essenzialmente due: una, rivolta alla stessa maggioranza che sostiene il Governo, consiste nel ricompattamento delle forze politiche, nel caso in cui si tema una loro dispersione rispetto all’indirizzo unitario (tanto più qualora sia prevista la votazione a scrutinio segreto); la seconda, rivolta all’opposizione, si sostanzia nell’effetto antiostruzionistico di chiusura della discussione.
Connotati propri della questione di fiducia sono infatti la priorità, l’inemendabilità, l’indivisibilità e la votazione per appello nominale.
Nel silenzio della Costituzione, tali connotati sono stati trasposti nella disciplina regolamentare di Camera e Senato, la prima con l’art. 116 del proprio regolamento del 1971, il secondo per implicito dal 1988 e, poi, più nettamente dal 2017 (art. 161 Reg. Sen.)[27].
A ben vedere, l’applicazione del voto di fiducia è piuttosto il frutto di una elaborazione in via interpretativa delle disposizioni regolamentari (oltre che di quelle costituzionali). Alla Camera, il divieto di modifica dell’ordine degli interventi e delle votazioni stabilito dal Regolamento, a seguito della posizione del voto di fiducia (art. 116, comma 1) e, nel caso di questione di fiducia sul mantenimento di un articolo (o su un atto di indirizzo), la priorità del voto sull’articolo dopo che tutti gli emendamenti presentati siano stati illustrati (comma 2) sono stati declinati nei termini del riconoscimento dell’autonomia e specialità dell’iter cui dà vita la questione di fiducia e del carattere politico della discussione sugli emendamenti, con la conseguenza che ciascun deputato non può parlare più di una volta[28].
Con l’approvazione dell’articolo su cui è stata posta la questione di fiducia, tutti gli emendamenti si intendono respinti. Se il progetto di legge consiste in un solo articolo, il Governo può porre la questione di fiducia sull’articolo medesimo, salva la votazione finale del progetto (fino al 1988, con la modifica regolamentare sul voto segreto, non sono mancati casi in cui l’esito del voto fiduciario è stato contraddetto dal successivo voto segreto).
Per ragioni analoghe a quelle già viste, il regolamento della Camera prevede che sulla questione di fiducia si voti per appello nominale non prima di ventiquattro ore, salvo diverso accordo fra i Gruppi.
Il Regolamento della Camera esplicita poi gli ambiti sui quali la questione di fiducia non può essere posta: proposte di inchieste parlamentari, modificazioni del Regolamento e relative interpretazioni o richiami, autorizzazioni a procedere e verifica delle elezioni, nomine, fatti personali, sanzioni disciplinari e in generale su quanto attenga alle condizioni di funzionamento interno della Camera e su tutti quegli argomenti per i quali il Regolamento prescrive votazioni per alzata di mano o per scrutinio segreto[29]. Nella prassi, il testo su cui è posta la fiducia non può emergere ex abrupto ma deve essere stato esaminato preventivamente dalla Commissione competente per materia: in altri termini, va garantita (almeno formalmente) l’osservanza dell’art. 72, primo comma, Cost. che prescrive, per la procedura legislativa ordinaria, il preventivo esame in Commissione[30].
Dal 2017, al Senato[31] è espressamente prevista la priorità dell’oggetto su cui è stata posta la questione di fiducia e il carattere preclusivo del suo accoglimento rispetto alle restanti iniziative. Tuttavia, l’alterazione dello svolgimento ordinario del procedimento legislativo è temperata dall’onere per il Governo di sottoporre alla Presidenza i testi sui quali intende porre la questione di fiducia, ai fini dell’esame di ammissibilità e della verifica sulla copertura finanziaria. In talune circostanze, il Governo può precisare il contenuto della disposizione su cui ha posto la questione di fiducia, per motivi di copertura finanziaria o per esigenze di coordinamento formale.
Nel complesso ne risulta che i due regolamenti parlamentari continuano a differenziare le regole del procedimento sulla questione di fiducia, a dispetto del carattere unitario del rapporto fiduciario nei termini visti all’art. 94, primo comma. I diversi limiti di oggetto, compreso il divieto alla Camera del voto di fiducia sull’intero testo[32]; il termine dilatorio per il voto previsto solo alla Camera; la possibilità di votazione degli ordini del giorno, interdetta al Senato; la valutazione di ammissibilità dell’emendamento su cui il Governo abbia posto la questione di fiducia; costituiscono tratti non secondari che contrassegnano il nostro sistema bicamerale.
Il ricorso alla questione di fiducia da parte del Governo ha conosciuto un’amplificazione, sottoposta a forti critiche secondo cui ne risulta alterata la stessa forma di Governo parlamentare. Si tratta della prassi della presentazione di maxi-emendamenti da parte del Governo, su cui viene posta la questione di fiducia, spesso in riferimento a disegni di legge di conversione di decreti-legge. Il maxiemendamento convoglia spesso in un unico articolo centinaia di commi, con l’effetto di precludere la votazione (nel caso di articolo unico) di tutti gli emendamenti presentati. In tal modo, testi legislativi assai complessi (si pensi alle leggi di bilancio) sono votati “a scatola chiusa”, privi di una discussione effettiva sui contenuti, tanto da rendere problematica la compatibilità con l’obbligo costituzionale della votazione dei progetti di legge articolo per articolo[33].
Da ultimo, il ricorso al maxiemendamento ha indotto, a seguito dell’approvazione della legge di bilancio per il 2019, trentasette senatori a sollevare conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato in ragione delle modalità seguite dal Senato della Repubblica nell’approvazione e al fine di ristabilire il corretto esercizio delle competenze costituzionalmente garantite[34].
L’ordinanza n. 17/2019 della Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso dopo avere svolto un’analisi del contesto specifico di approvazione della legge di bilancio per il 2019[35] e, tuttavia, dopo avere riconosciuto la legittimazione in astratto di singoli senatori a presentare il ricorso stesso a tutela del potere di partecipare al procedimento legislativo che la Costituzione riconosce loro quali rappresentanti della Nazione (art. 67 Cost.), espresso tramite la presentazione di progetti di legge e di proposte emendative (art. 71 Cost.) e tramite la partecipazione all’esame dei progetti di legge sia in Commissione sia in aula (art. 72 Cost.).
L’ordinanza del 2019 (poi doppiata dalla analoga ordinanza n. 60/2020 su un simile ricorso per conflitto di attribuzione presentato da alcuni deputati con riguardo alla successiva legge di bilancio) ha dunque richiesto alla Corte l’onere di definire una esile ma decisiva linea di demarcazione tra le prerogative governative, l’incidenza dei fattori esterni (il negoziato con le istituzioni europee) e le garanzie deliberative delle Camere.[36]. La Corte ha infatti riconosciuto che il bilancio dello Stato contiene decisioni che “costituiscono il nucleo storico delle funzioni affidate alla rappresentanza politica sin dall’istituzione dei primi parlamenti e che occorre massimamente preservare”.
- La mozione di sfiducia individuale. Non si può cogliere l’effettiva declinazione del rapporto fiduciario se non si considerano alcuni svolgimenti che, oggetto di ampio dibattito e spesso di critiche, ne hanno determinato le caratteristiche effettive.
Viene in primo luogo in rilievo la mozione di sfiducia individuale a singoli Ministri. Essa, sebbene non esplicitata in Costituzione, è istituto affermatosi nella prassi parlamentare e consolidatosi a partire dal 1984 al Senato (parere della Giunta per il regolamento del 19 marzo 1984) e poi codificato nel regolamento della Camera nel 1986: la stessa disciplina prevista per la mozione di sfiducia al Governo viene applicata alle mozioni con cui sono chieste le dimissioni di singoli Ministri, quindi con gli stessi vincoli contenutistici e procedurali (in particolare: il voto per appello nominale), rispetto a cui spetta al Presidente della Camera o del Senato vigilare in sede di ammissione delle mozioni, distinte dalle semplici mozioni di censura.
Oggetto da tempo di discussioni in dottrina, la mozione di sfiducia individuale può essere letta quale manifestazione minore e, come tale, compresa nel rapporto fiduciario enunciato dall’art. 94 e quale conseguenza della responsabilità propria di ciascun Ministro, oltre che del Governo collegialmente (v. art. 95 Cost.). In alternativa, essa potrebbe essere considerata quale forma implicitamente esclusa dalla Costituzione, che legherebbe inestricabilmente la fiducia a un programma e a una determinata composizione, sottoposti inizialmente dal Presidente del Consiglio al voto fiduciario delle Camere[37]. In definitiva, la sfiducia individuale rischierebbe di favorire la frammentazione delle politiche ministeriali e di promuovere un governo “per ministeri” in contrapposizione all’indirizzo politico unitario di cui è titolare il Presidente del Consiglio (art. 95, primo comma, Cost.). E d’altro canto, si deve per lo meno dubitare della possibilità di revoca dei Ministri da parte del Presidente del Consiglio.
La questione della sfiducia individuale è stata per certi versi sciolta dalla Corte costituzionale (sent. n. 7/1996) che l’ha ammessa, respingendo il conflitto di attribuzione sollevato dal Ministro della giustizia a seguito dell’approvazione della mozione di sfiducia nei suoi confronti da parte del Senato[38].
- Le crisi extraparlamentari. La prassi dei rapporti tra Governo e Parlamento ha offerto rilievo significativo a forme non espressamente previste dalla Costituzione, nelle quali il Governo cessa dalle proprie funzioni per dimissioni volontarie e non sulla base di un voto con cui il Parlamento ha sancito l’estinzione del rapporto fiduciario. E’ anzi la regola: gran parte delle crisi di governo risultano riconducibili a crisi extraparlamentari, causate dalle dimissioni del governo e, spesso, neppure precedute da un dibattito parlamentare[39]. Le ragioni delle dimissioni non si prestano a una rigida tassonomia e possono in generale essere riassunte in modifiche dei rapporti tra le forze politiche, siano essi dovuti a esiti di voti parlamentari sostanzialmente (anche se non formalmente) di sfiducia, rapporti interni al Governo e alla coalizione che lo compone, connotazioni specifiche del voto di fiducia (ad es. la fiducia al Governo Zoli nel 1957 con il voto decisivo e non gradito del MSI). Spesso criticate, quale manifestazione del ruolo preponderante dei partiti politici nelle istituzioni, le crisi extraparlamentari sarebbero espressione di un principio dispositivo, secondo cui il Governo è destinatario e insieme soggetto della fiducia, di cui dispone secondo le valutazioni complessive da lui stesso svolte, in cui rientrerebbero anche le dimissioni.
Un correttivo alle crisi extraparlamentari è costituito in alcuni casi dalla parlamentarizzazione della crisi ovverosia dall’esigenza di riportare nelle aule parlamentari, tramite le comunicazioni del Governo, il dibattito fino ad allora esterno sulle crisi politica. Si tratta di un correttivo talora promosso spontaneamente dal Governo stesso e talora, invece, indotto dal Presidente della Repubblica, nevralgico punto di equilibrio tra i poteri, sia prima delle dimissioni sia dopo le stesse, con il rinvio del Governo alle Camere. Il dibattito parlamentare successivo non si conclude necessariamente con un voto, spettando infine al Presidente del Consiglio trarre le conclusioni dagli esiti emersi.
- Il rimpasto. Peraltro, tra le modulazioni che conosce il rapporto tra Governo e Parlamento, al di fuori della disciplina costituzionale espressa, può essere ricompreso anche il c.d. “rimpasto”, ovverosia la sostituzione di uno o più ministri, per le cause più diverse, senza che a essa faccia seguito il rinnovo della fiducia al Governo o la crisi (diverso, evidentemente, il caso di sostituzione del Presidente del Consiglio). Non sempre al rimpasto fa seguito un dibattito parlamentare. Per quanto sia difficile, anche in questo caso, stabilire quando ricorra il caso concreto, l’alterazione della composizione politica conseguente al rimpasto dovrebbe richiedere il rinnovo con voto espresso della fiducia al Governo. Dal 1988, il rimpasto è stato disciplinato dalla legge, che ne ha riconosciuto il rilievo e, implicitamente, ha escluso che esso comporti la necessità di un nuovo voto fiduciario[40].
- Le conseguenze della mancanza della fiducia. In mancanza della fiducia tra Governo e Parlamento – sia nel caso in cui il Governo sia stato nominato e si debba ancora presentare alle Camere sia nei casi in cui sia stata approvata una mozione di sfiducia o sia stata respinta una mozione di fiducia o abbia avuto esito negativo il voto su cui il Governo abbia posto la questione di fiducia – occorre considerare quali siano i poteri legittimamente esercitabili dal Governo. E’ opinione diffusa che il Governo sia legittimato a esercitare i poteri relativi all’ordinaria amministrazione (per il disbrigo degli affari correnti nel caso di governo dimissionario) e quelli indifferibili e urgenti. Le opinioni tendono a divergere circa l’individuazione delle tipologie di atti e sulle conseguenze dell’eventuale esercizio di poteri ultra vires[41].
Sono palesemente diverse le condizioni in cui si trova il Governo in attesa di fiducia rispetto a quello sfiduciato, atteso che per il primo si può per lo meno presumere la fiducia e ritenere che solo la sfiducia, quale condizione risolutiva, sia in grado di privarlo di poteri che, altrimenti, spetta al Governo decidere se e come esercitare, secondo una valutazione di natura politica. Spetterebbe, altrimenti, al Presidente della Repubblica, in casi estremi, assicurare un adeguato equilibrio tra i poteri[42]. Diverso il caso del Governo sfiduciato, la cui attività è delimitata, nella prassi da tempo prevalsa, da una direttiva del Presidente del Consiglio dimissionario che circoscrive l’attività consentita agli atti dovuti o urgenti, specificamente indicati volta a volta[43].
Non è discusso che al venir meno della sfiducia debba conseguire l’obbligo di dimissioni, non espresso ma implicato dall’art. 94, terzo comma[44]. E’ dibattuto invece quali siano gli strumenti costituzionali nel caso in cui il Governo non ottemperi al dovere di dimettersi.[45]
- La forma di governo in divenire. L’art. 94 investe, necessariamente, una dimensione essenzialmente politica e si intreccia con molteplici disposizioni costituzionali al cui commento si rinvia. Tali aspetti, che si pongono sullo sfondo delle coordinate giuridiche proprie dell’articolo in commento, vanno considerati per una più profonda comprensione delle dinamiche attuative[46].
In breve e non esaustiva rassegna, vale la pena richiamare i profili maggiormente significativi.
Innanzitutto va considerato il ruolo dei partiti politici, centrale per la forma di governo, se non altro perché la stessa Costituzione (art. 49) ne ha riconosciuto la funzione essenziale di libere associazioni di cittadini mossi dall’obiettivo di concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. Tale politica non può che realizzarsi nelle istituzioni, a partire da Governo e Parlamento e, all’interno di quest’ultimo, nei gruppi parlamentari che dei partiti sono la proiezione. Il sistema politico, la forma partito e il mutamento che essa ha subito negli ultimi anni tendono a plasmare la stessa forma di governo.
In secondo luogo, i partiti – e con essi i movimenti politici – influenzano il sistema elettorale (e in certa misura ne sono influenzati). Questo, a sua volta, può favorire (non certo determinare!) la formazione di maggioranze stabili e coese oppure di una rappresentanza parlamentare frastagliata. Può rafforzare o meno i tratti di investitura personale e leadership del Presidente del Consiglio.
In terzo luogo, il rapporto fiduciario ha caratteri di durata che si dipanano nel tempo nelle Camere e nella disciplina dell’attività parlamentare data dai rispettivi regolamenti (v. art. 64 Cost.). I poteri del Governo in Parlamento, il riconoscimento del ruolo delle opposizioni parlamentari, l’organizzazione dei tempi e delle priorità, la disciplina dei gruppi sono solo alcuni dei temi disciplinati dai regolamenti, con cui è data la misura della nostra forma di governo parlamentare e del grado di razionalizzazione risalente all’ordine del giorno Perassi. Una misura che ancor più entra in gioco nel momento in cui i regolamenti sono sottoposti a rilevanti modifiche, richieste dalla riduzione del numero dei parlamentari di cui alla legge costituzionale n. 1/2020.
In quarto luogo, le dinamiche della forma di governo sono state sempre più condizionate dagli obblighi sovranazionali ed europei (v. artt. 11, 81, 97, 117, 119 Cost.) che – al di là di ogni modifica formale del testo costituzionale – hanno impresso uno scarto determinante rispetto alla distribuzione dei poteri (si pensi alla produzione legislativa, agli equilibri di bilancio, in genere alle scelte di politica nazionale) e ai rapporti tra Governo e Parlamento. Lo scarto tende a modificare le stesse funzioni parlamentari, proiettate in misura sempre maggiore sull’attività di controllo e indirizzo.
In quinto luogo, non può essere sottovalutato il superamento (dal 1999 con disposizione di rango costituzionale), nelle Regioni ordinarie, del modello nazionale di forma di governo in favore della elezione diretta dei Presidenti delle Giunte (art. 122, quinto comma, Cost.).
Da ultimo (ma solo in ordine di esposizione), a fronte di spinte così forti rispetto al quadro politico-istituzionale conosciuto dai nostri costituenti, si rivela sempre più essenziale il ruolo di riequilibrio costante che il sistema assegna al Presidente della Repubblica, che con il tempo si è manifestato come la espressione e lo strumento più rilevante per individuare un equo bilanciamento nella incerta razionalizzazione della nostra forma di governo.
Note
[1] Cfr. per una sintesi G. Di Cosimo, Sviluppi del governo parlamentare, in Rivista AIC, n. 2/2020, pp. 50 ss.
[2] Per un inquadramento complessivo della relazione fiduciaria, v. G. Rivosecchi, voce Fiducia parlamentare, in Dig. Disc. Pubbl., III, Aggiornamento, Torino, Utet, 2008.
[3] A. Manzella, Il Parlamento, Il Mulino, Bologna, 2003, p. 302, che precisa ulteriormente che l’atto della fiducia non si esaurisce in un provvedimento puntuale ma è il procedimento in cui si iscrivono e al quale si richiamano tutti gli altri procedimenti e subprocedimenti di svolgimento del programma: il procedimento dei procedimenti.
[4] Per le deliberazioni con quorum rinforzati v. art. 64, primo comma, sull’approvazione dei regolamenti parlamentari a maggioranza assoluta; art. 73, secondo comma, sull’approvazione a maggioranza assoluta sulla dichiarazione di urgenza di una legge; art. 79, primo comma, sull’approvazione a maggioranza dei due terzi dei componenti, in ogni articolo e nel voto finale, delle leggi di amnistia e indulto; art. 81, commi secondo e sesto, sull’approvazione a maggioranza assoluta sul ricorso all’indebitamento e sulla legge di attuazione dell’equilibrio di bilancio; art. 90, secondo comma, sulla deliberazione a maggioranza assoluta sulla messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica; art. 116, terzo comma, per l’approvazione a maggioranza assoluta della legge sull’autonomia differenziata delle Regioni ordinarie; art. 138, primo e terzo comma, per l’approvazione, rispettivamente, a maggioranza assoluta o a maggioranza dei due terzi dei componenti, delle leggi di revisione costituzionale e costituzionali; per gli atti di impulso delle minoranze, v. art. 62, terzo comma, sulla convocazione in via straordinaria di ciascuna Camera su iniziativa di un terzo dei componenti; art. 72, terzo comma, sulla rimessione all’Assemblea, su iniziativa di un decimo dei componenti di una Camera o un quinto dei componenti della Commissione, dei progetti di legge già assegnati alle Commissioni in sede legislativa; art. 138, secondo comma, sulla richiesta da parte di un quinto dei componenti di una Camera d referendum su una legge di revisione costituzionale o altra legge costituzionale).
[5] R. Bin – G. Pitruzzella, Diritto costituzionale, Giappichelli, Torino, 2021, p. 200, con riferimento ai c.d. “ribaltoni”, annotano che “poiché le norme costituzionali sulla forma di governo sono compatibili sia con il parlamentarismo maggioritario e la formazione a livello elettorale della coalizione, sia con il parlamentarismo compromissorio e la formazione elettorale della coalizione, mentre l’art. 67 Cost. opera come garanzia dell’autonomia del parlamentare, non si può affermare che simili episodi siano costituzionalmente inammissibili”.
[6] V. L. Gianniti, N. Lupo, Corso di diritto parlamentare, Il Mulino, Bologna, 2018, p. 243. In argomento, cfr. M. Carducci, Art. 94 Cost., in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, Utet, Torino, 2008, p. 1817.
[7] Cfr. G.M. Salerno, I senatori a vita, la “doppia maggioranza” e il ruolo del Presidente della Repubblica, in www.federalismi.it, 7 marzo 2007, p. 1, che annota: “l’art. 67 Cost., allorché qualifica tutti i membri del Parlamento come rappresentanti della Nazione, non può non riguardare anche i senatori a vita”.
[8] A. Manzella, op. cit., p. 363.
[9] V. M. Villone, op. cit., pp. 251-252.
[10] Alla Camera, peraltro, in Commissione la stessa disciplina è riferita alle risoluzioni, cfr. art. 117, comma 2, Reg. Cam.
[11] Cfr. Galizia, Studi sui rapporti fra Parlamento e Governo, Milano, Giuffrè, 1972, pp. 435 ss.
[12] V. L. Gianniti – N. Lupo, op. cit. p. 242.
[13] Cfr. A. Manzella, op. cit., pp. 305-306.
[14] Art. 115, comma 2, Reg. Cam. e art. 161, comma 3, Reg. Sen.
[15] Per la prima tesi, cfr. M. Galizia, Fiducia parlamentare, in Enc. Dir., vol. XVII, pp. 388-427; per la seconda tesi, cfr. L. Elia, Appunti sulla formazione del Governo, in Giur. cost., 1957, pp. 1170 – 1208, L. Paladin, Diritto costituzionale, Padova, Cedam, 1998, p. 394.
[16] Fino alla riforma del Regolamento del Senato del 2017, infatti, l’art. 64, terzo comma Cost. secondo cui le deliberazioni di ciascuna Camera sono adottate a maggioranza dei presenti, è stato diversamente declinato alla Camera e al Senato. L’art. 48 Reg. Cam. stabilisce infatti che sono considerati presenti, per il computo della maggioranza nelle votazioni, solo i deputati che esprimono voto favorevole o contrario (le astensioni sono calcolate solamente ai fini del numero legale). Invece, l’art. 107 Reg. Sen. prevedeva (in modo forse più aderente alla lettera della disposizione costituzionale) che le deliberazioni fossero adottate dalla maggioranza dei senatori partecipanti al voto, compresi gli astenuti. Ne conseguiva che, al Senato, il voto di astensione rendeva più difficile raggiungere la maggioranza, producendo effetti assimilabili al voto contrario. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 78/1984, ha legittimato, in base all’autonomia regolamentare di ciascuna Camera, entrambe le interpretazioni della disposizione costituzionale. Proprio nel voto di fiducia si è manifestata i diversi esiti prodotti dei criteri, ad esempio quando, l’11 agosto 1976, la mozione di fiducia al Governo Andreotti III, sostenuto dalla non sfiducia di alcune forze politiche, fu approvata sia alla Camera sia al Senato, ma in quest’ultimo un consistente numero di senatori appartenenti ai gruppi che si erano astenuti alla Camera uscirono dall’Aula onde evitare l’esito contrario del voto. Con la revisione regolamentare del 2017, il Regolamento del Senato ha adeguato la disciplina del computo degli astenuti a quanto previsto dal Regolamento della Camera.
[17] Governi De Gasperi VIII nel 1953, Fanfani I nel 1954, Andreotti I nel 1972, Andreotti V nel 1979, Fanfani VI nel 1987.
[18] Art. 115, commi 2 e 3, Reg. Cam.; art. 161, commi 2 e 3, Reg. Sen.
[19] Cfr. G.U. Rescigno, Responsabilità politica e responsabilità giuridica, in Riv. It. Sc. Giur., 2012, p. 345, secondo cui nella approvazione della mozione di sfiducia non si rinviene nulla che riproduca lo schema basilare e irriducibile della responsabilità giuridica.
[20] Le mozioni ordinarie debbono essere presentate da almeno un presidente di gruppo o dieci deputati (art. 110 Reg. Cam.) oppure da almeno otto senatori (art. 157, comma 1, Reg. Sen.; il comma 3 fa scaturire tuttavia dalla presentazione di una mozione sottoscritta da almeno un quinto dei senatori l’obbligo di discussione entro il trentesimo giorno).
[21] Parere della Giunta per il Regolamento del Senato del 20 gennaio 1993.
[22] Secondo L. Gianniti – N. Lupo, cit., p. 244, il termine di tre giorni persegue anche finalità operative, volte a consentire una tempestiva chiamata a raccolta di tutti i componenti di una Camera e si attaglia sia al tempo necessario per raggiungere Roma all’epoca dell’Assemblea Costituente sia al tempo oggi per i parlamentari eletti all’estero. Si noti che, per lo svolgimento effettivo di tutte le votazioni, e non solo di quelle di carattere fiduciario, hanno assunto un rilievo non secondario le varie limitazioni agli spostamenti connesse alla pandemia da COVID 19 e, insieme, il dibattito sulle modalità di voto delle Camere (eventualmente anche a distanza).
[23] Per contemperare le opposte esigenze è decisiva, verosimilmente, la funzione di garanzia del Presidente del ramo presso cui pende una mozione di sfiducia. Per la tesi favorevole alla prevalenza della mozione di sfiducia sulla programmazione dei lavori, cfr. V. Lippolis, Le procedure parlamentari del rapporto fiduciario, in T. Martines, G. Silvestri, C. Decaro, V. Lippolis, R. Moretti., Diritto parlamentare, Milano, Giuffrè, 2011, pp. 231-265.
Silvestri, C. Decaro, V. Lippolis, R. Moretti, Diritto parlamentare, Torino, Giappichelli, 2011, pp. 231 – 265. In senso contrario, cfr. L. Gianniti – N. Lupo, cit. pp. 244 – 245. Il caso non è solo di scuola, se solo si pone mente al precedente dell’autunno 2010, quando la mozione di sfiducia nei confronti del Governo Berlusconi fu votata dalla Camera, il 14 dicembre 2010, oltre un mese dopo la sua presentazione.
[24] Il carattere solamente obbligatorio delle dimissioni è correlato alla necessaria esigenza di continuità dell’azione di governo. Si è discusso in dottrina circa i rimedi in caso di inosservanza dell’obbligo di dimissioni, cfr. C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, Cedam, 1975, pp. 571-572. La Corte costituzionale (sent. n. 7/1996), ha rilevato che “poiché la revoca della fiducia esaurisce i suoi effetti nell’ambito del rapporto Parlamento-Governo, ma non comporta la caducazione dell’atto di nomina, la presentazione delle dimissioni è il normale tramite per consentire al Presidente della Repubblica di procedere alla nomina del nuovo Governo, ovvero del nuovo ministro. Il Presidente della Repubblica, in tale fase, è chiamato, dunque, ad un ruolo attivo che, in mancanza di dimissioni, richiede l’esercizio di poteri che attengono alla garanzia costituzionale, in vista del ripristino del corretto funzionamento delle istituzioni”.
[25] Per una panoramica completa della questione di fiducia, v. M. Olivetti, La questione di fiducia nel sistema parlamentare italiano, Milano, Giuffrè, 1996.
[26] V. in argomento, M. Villone, op. cit., p. 30.
[27] Fino al 2017, l’art. 161 Reg. Sen. prevedeva, al comma 4, solo il divieto di porre la questione di fiducia sulle proposte di modifica del regolamento e, in generale, su quanto attenga alle condizioni di funzionamento interno del Senato.
[28] Si tratta del c.d. “lodo Iotti”, deciso dalla Presidente della Camera nel 1980, su cui v. in particolare L. Gianniti – N. Lupo, cit., p. 250 e richiami ivi citati. L’applicazione del lodo, nella prassi più recente, sarebbe diventata più sporadica.
[29] Ancora una volta, la disciplina regolamentare non preclude al Governo di indicare preventivamente – sebbene senza effetti di carattere procedurale – gli effetti conseguenti a determinati esiti delle votazioni, anche su ambiti preclusi alla questione di fiducia. Fu questo il caso della riforma della disciplina regolamentare sul voto segreto del 1988, il cui rilievo fu posto in evidenza dal Governo De Mita all’epoca in carica.
[30] Sulla riconducibilità del procedimento derivante dalla questione di fiducia ai procedimenti abbreviati ex art. 72, secondo comma, v. Corte cost. n. 391/1995.
[31] V. art. 161, commi 3-bis, 3-ter e 3-quater, Reg. Sen. In precedenza, la posizione della questione di fiducia poggia su una consuetudine, cui aveva dato parziale risalto il parere della Giunta per il regolamento del 19 marzo 1984.
[32] Alla Camera peraltro è ammessa la questione di fiducia su materie per le quali il voto segreto è attivabile su richiesta.
[33] Si veda in argomento il messaggio di rinvio del Presidente della Repubblica Ciampi (XIV leg., doc. I, n. 6, 16 dicembre 2004), oltre a una serie di esternazioni del Presidente Napolitano. Corte cost. n. 32/2014 ha rilevato, problematicamente, che la presentazione in aula da parte del Governo di un maxi-emendamento al disegno di legge di conversione non ha consentito alle Commissioni di svolgere in Senato l’esame in sede referente richiesto dal primo comma dell’art. 72 Cost. La questione di fiducia su maxiemendamenti configura una “problematica prassi” (Corte cost. n. 251/2014). In definitiva si tratta di valutare se (e fino a che punto) la specialità del procedimento per il voto di fiducia (rito abbreviato ex art. 72, secondo comma) consenta di comprimere le garanzie proprie del procedimento ordinario ex art. 72, primo comma. La questione, in uno con la definizione del rapporto di specialità all’interno della Carta costituzionale, investe l’estensione stessa della rappresentanza parlamentare e i limiti della razionalizzazione della forma di governo di cui all’ordine del giorno Perassi.
[34] In quel caso, il prolungamento della procedura negoziale tra il Governo e la Commissione Europea aveva fatto venir meno anche il limite posto a presidio delle prerogative parlamentari: la sostanziale corrispondenza tra il contenuto del maxiemendamento, su cui poi viene posta la questione di fiducia, e il testo fino a quel momento elaborato in sede parlamentare. V. N. Lupo, Il Parlamento italiano nel calendario comune di bilancio in Amministrazione in cammino, 25 settembre 2020, p. 7.; D. De Lungo, Tendenze e prospettive evolutive del maxiemendamento nell’esperienza della XV e della XVI legislatura, in Rivista AIC, 3, 2013, pp. 3 ss.
[35] Gli elementi da cui non risulta, ad avviso della Corte, un abuso del procedimento legislativo tale da determinare le violazioni manifeste delle prerogative costituzionali dei parlamentari sono, nel caso di specie: la lunga interlocuzione con le istituzioni dell’Unione europea (che aveva portato a una rideterminazione dei saldi complessivi della manovra), il (seppur parziale) recepimento nel nuovo testo del maxiemendamento dei lavori parlamentari svoltisi fino a quel momento, l’applicazione di norme previste dal regolamento del Senato e senza una integrale preclusione della discussione su testi confluiti almeno in parte nella versione finale.
[36] Cfr. C. Tucciarelli, Procedure finanziarie e integrazione europea: l’inesorabile trasformazione del Parlamento nell’inerzia dei regolamenti in V. Lippolis (a cura di), A cinquant’anni dai Regolamenti parlamentari del 1971: trasformazioni e prospettive – Il Filangieri Quaderno 2021, Jovene, Napoli, 2021, p. 177, secondo cui “Il prudente riconoscimento, da parte della Corte, della tutela costituzionale delle prerogative dei singoli parlamentari costituisce un monito implicito al rispetto di un nucleo inviolabile da tutelare, nella decisione parlamentare di bilancio”.
[37] Per la problematica armonizzazione tra mozione di sfiducia individuale e forma di governo, v. L. Paladin, Governo italiano, in Enc. Dir., vol. XIX, pp. 675-711. A. Manzella, op. cit., pp. 309 – 310 ritiene che la mozione di sfiducia individuale sia contraria a ogni possibile lettura delle linee della Costituzione, paventa i rischi del governo assembleare e pone in evidenza il carattere assorbente della responsabilità generale del Presidente del Consiglio.
[38] La Corte ha chiarito che la relazione tra Parlamento e Governo si snoda secondo uno schema nel quale là dove esiste indirizzo politico esiste responsabilità e dove esiste responsabilità non può non esistere rapporto fiduciario e ha messo in evidenza che la responsabilità collegiale e individuale sono correlate nel comune quadro della responsabilità politica (par. 8 considerato in diritto). Ha posto in evidenza che i regolamenti parlamentari e le prassi applicative, nel caso in esame, rappresentano l’inveramento storico di principi contenuti nello schema definito dagli artt. 92, 94 e 95 della Costituzione (par. 9). Sul tema della mozione sfiducia individuale v. N. Lupo, Le mozioni di sfiducia al singolo Ministro e la forma di governo parlamentare (alla
luce della vicenda Bonafede), in Studi parl. Pol. Cost., 1/2020, pp. 37 – 48.
[39] Cfr. in argomento S. Bartole, Governo italiano, in Dig. disc. pubbl., VIII, 1995; A. Ruggeri, La crisi di governo tra ridefinizione delle regole e rifondazione della politica, Milano, Giuffrè, 1990; per una recente sintesi, M. Cecili, Le declinazioni assunte dalle crisi governative nella storia costituzionale italiana, in www.costituzionalismo.it, 2/2018.
[40] Cfr. art. 5, comma 1, lettera a), della legge n. 400/1988, in base a cui il Presidente del Consiglio dei Ministri a nome del Governo comunica alle Camere (oltre alla composizione del Governo) ogni mutamento in essa intervenuto.
[41] Cfr. M. Villone, op. cit., p. 290.
[42] In argomento cfr. A.A. Romano, La formazione del Governo, Padova, Cedam, 1996.
[43] Vi rientrano normalmente i decreti-legge, i decreti legislativi in scadenza, provvedimenti normativi per cui sia stabilito un termine, attuazione di obblighi internazionali o europei., controllo sulle leggi regionali. Un ampio consenso politico può determinare deroghe alla tassatività dell’elencazione.
[44] Se al voto contrario su una proposta governativa non consegue l’obbligo di dimissioni (art. 94, quarto comma), allora, e al contrario, tale obbligo sussiste nel caso di esito negativo del voto fiduciario.
[45] In disparte l’ipotesi di reato e di applicazione dell’art. 96 Cost., si può ipotizzare la revoca da parte del Presidente della Repubblica. Cfr. in argomento C. Mortati, cit., p. 571.
[46] Per una sintesi delle molteplici e complesse questioni, v. F. Musella (a cura di), Il Governo in Italia. Profili costituzionali e dinamiche politiche, Bologna, Il Mulino, 2019.
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Franco Frattini è Presidente del Consiglio di Stato dal 29 gennaio 2022.
Ha conseguito la maturità classica presso il liceo Giulio Cesare di Roma nel 1975 e la laurea con lode presso l’Università “La Sapienza” di Roma, nel luglio del 1979. Nel 1981 diventa Procuratore dello Stato ed in seguito magistrato presso il Tribunale Amministrativo Regionale del Piemonte sino all’immissione nel ruolo del Consiglio di Stato come vincitore di concorso per un posto di Consigliere di Stato, con decorrenza 31 dicembre 1986.
Già Presidente titolare della Sezione Atti Normativi e Presidente titolare della Terza sezione è stato nominato Presidente Aggiunto del Consiglio di Stato con decreto del Presidente della Repubblica 22 aprile 2021 e Direttore dell’Ufficio studi e formazione della Giustizia Amministrativa. E’ stato Vice Segretario Generale e poi Segretario Generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministro per la Funzione Pubblica e gli Affari Regionali, Ministro per il Coordinamento dei Servizi di Informazione e Sicurezza e per il Segreto di Stato, Presidente del Comitato Parlamentare di Controllo sui Servizi di Informazione e Sicurezza e per il Segreto di Stato, Ministro per gli Affari Esteri, Vice Presidente della Commissione Europea, responsabile per la Giustizia, la Sicurezza, l’immigrazione e i Diritti Fondamentali. Già Presidente del Collegio di Garanzia dello Sport presso il C.O.N.I.. Insignito del Collare d’oro olimpico del Comitato Internazionale Olimpico. Già Presidente della Commissione Nazionale Scuole e Maestri di Sci presso la Federazione Italiana Sport Invernali. È autore di pubblicazioni giuridiche e già Presidente, ovvero componente, di commissioni governative e istituzionali con compiti di studio e consultivi.



