
Separazione delle carriere dei magistrati e doppio Csm
Memoria scritta per l’incontro del 5 marzo 2025 della Giunta esecutiva centrale dell’Anm con il Governo su DDL n. 1353 (Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare)
di Rocco Gustavo Maruotti, segretario generale Anm
Sul tema più generale della separazione delle carriere vorrei anticipare con chiarezza la nostra ferma contrarietà ad una riforma che per risolvere un problema oggettivamente inesistente, interviene sul testo costituzionale rompendo gli equilibri costituzionali sapientemente costruiti da giuristi come Piero Calamandrei. Manifesto perciò subito il nostro dissenso, non su una parte o su singoli articoli del DDL 1353, ma sull’intero provvedimento approvato in prima lettura dalla Camera dei Deputati il 16 gennaio c.a., che non risolve, né affronta, alcuno dei problemi reali della giustizia e della sua amministrazione, che non si risolvono con una riforma costituzionale, ma dando attuazione all’art. 110 della Costituzione, in base al quale spettano al Ministro della Giustizia “l’organizzazione ed il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”. Alla luce del quale non possiamo, perciò, che leggere come una sorta di autocritica l’affermazione che abbiamo sentito più volte ripetere dal Ministro secondo cui: “La Giustizia non funziona!”. Ed in questo senso anticipo che dedicherò una parte del mio intervento per illustrare le nostre 8 proposte per una vera riforma della giustizia che serva, quella sì, a migliorare l’efficienza del sistema e del servizio che come magistrati, nonostante tutto, ci sforziamo di rendere ai cittadini.
Nel poco tempo che mi è concesso cercherò di affrontare e confutare, per dimostrarne l’infondatezza, soltanto alcuni degli argomenti posti a sostegno della necessità di introdurre la separazione delle carriere dei magistrati, per poi dedicare alcune brevi considerazioni al tema del doppio CSM.
Le critiche dell’Anm sulla proposta di separazione delle carriere dei magistrati
Nel muovere le nostre critiche al disegno di legge costituzionale mi limiterò a confutare soltanto i presupposti e gli scopi di questo intervento normativo così come emergono chiaramente dalla Relazione illustrativa nella quale si legge: il “presente intervento di riforma costituzionale trae origine:
- dal riconoscimento dei princìpi del giusto processo nel novellato articolo 111 della Costituzione,
- dall’evoluzione del sistema processuale penale italiano verso il modello accusatorio
- e da obiettivi di miglioramento della qualità della giurisdizione”.
Ed all’analisi di questi tre punti mi atterrò in modo rigoroso, a dimostrazione che la nostra non è una critica aprioristica, ma è una critica che attiene al merito della riforma.
Prima, però, è necessario sgomberare il campo dall’equivoco secondo il quale questa riforma serva, in primo luogo, ad impedire il passaggio dalla funzione giudicante a quella requirente e viceversa, perché i numeri ci dicono che questa riforma, non solo non servirà ad accorciare di un solo giorno la durata dei processi, ma non servirà neppure a realizzare la tanto agognata, da questa maggioranza parlamentare e da una parte dell’avvocatura, “separazione delle carriere dei magistrati”, per il semplice motivo che, a seguito degli interventi legislativi degli ultimi venti anni, la separazione si è già di fatto realizzata. Negli ultimi 5 anni (2020/2024) su un organico di circa 9300 magistrati si sono registrati, in media, 28 passaggi da una funzione all’altra, che corrispondono ad una percentuale dello 0,3% e di questi la stragrande maggioranza sono magistrati giovanissimi che, avendo dovuto scegliere in prima nomina, per ragioni di graduatoria, una funzione diversa da quella per la quale si sentivano maggiormente portati, appena hanno potuto hanno cambiato funzione (che oggi però non svolgono nella stesso tribunale, ma per legge sono costretti a svolgere in una Regione diversa da quella in cui svolgevano la funzione precedente, senza alcun rischio perciò di confusione dei ruoli).
È allora diventa chiaro il motivo per il quale lo stesso Ministro NORDIO, di fronte a questa obiezione, ha affermato più volte che “la vera riforma riguarda il CSM” con l’obiettivo di rompere il vincolo che ci sarebbe tra i magistrati elettori e i magistrati eletti al CSM, cosa che in verità esiste in tutti i CSM d’Europa perché ovunque, compreso nel tanto invocato sistema portoghese, gli organi di autogoverno dei magistrati hanno un sistema elettorale di tipo elettivo e non mediante “estrazione a sorte” come si vorrebbe fare in Italia (solo in Grecia i consiglieri togati del CSM sono estratti a sorte, sistema che lì però affonda le sue radici nell’antico modello della “demarchia” ateniese (v. Nadia URBINATI, La democrazia del sorteggio, Einaudi, 2020) nella quale il sorteggio era utilizzato per costringere tutti i cittadini ad occuparsi della cosa pubblica, al punto che coloro che si sottraevano al sorteggio erano considerati egoisti e chiamati ἰδιώτης).
Ciò posto, veniamo ai tre scopi che la Relazione illustrativa del DDL pone a fondamento di questa riforma.
1. Il presente intervento di riforma costituzionale trae origine dal riconoscimento dei princìpi del giusto processo nel novellato articolo 111 della Costituzione.
Che l’art. 111 della Costituzione, che prevede la parità delle parti davanti a un giudice terzo ed imparziale, imponga, per realizzare questo obiettivo, anche la separazione delle carriere di giudicanti e requirenti è semplicemente una suggestione.
Perché, semmai, sono i meccanismi di concreto funzionamento del processo che incidono sulla parità tra accusa e difesa, non certo l’unicità della carriera tra giudici e P.M., i cui ruoli e figure professionali sono e restano diversi: un giudice resta giudice, anche se è entrato in magistratura attraverso lo stesso concorso sostenuto dal P.M. Ragionando diversamente, del resto, si dovrebbero rescindere anche i rapporti fra giudici di primo grado, giudici d’appello e di Cassazione, tutti diventati magistrati attraverso identico meccanismo concorsuale: non si vede, infatti, come i sospetti derivanti dalla “colleganza” fra Pm e Giudici non debbano estendersi anche ai Giudici dei diversi gradi del processo.
L’art. 111 della Costituzione, dunque, nulla ha a che fare con la separazione delle carriere: la parità tra le parti è quella endoprocessuale, garantita dalle regole del processo e, semmai, da una pari preparazione professionale.
Inoltre tra P.M. e difensore, anche se si separassero le carriere dei magistrati, non potrà mai esserci parità in quanto incarnano due ruoli completamente diversi: il difensore è un privato professionista vincolato dal solo mandato a difendere, che lo obbliga a ricercare l’esito più conveniente per il proprio assistito (che lo retribuisce per questo) a prescindere dal dato sostanziale della sua colpevolezza o innocenza. Il P.M., invece, condivide con il giudice l’obbligo di ricerca della verità storica dei fatti e le sue indagini devono obbedire al criterio della completezza ed oggettività, con previsione di rigorosi requisiti di forma stabiliti a pena di invalidità; il pubblico ministero non è votato – “comunque e sempre” – alla formulazione di richieste di condanna, ma si determina a richieste assolutorie ogni qualvolta reputi che il quadro probatorio sia carente.
Quindi, le differenze ontologiche tra PM e avvocato difensore non scomparirebbero con un’eventuale separazione delle carriere, anzi la loro permanenza è un fatto assolutamente positivo per i cittadini e per la collettività, come anche riconosciuto dalla Corte Costituzionale da ultimo nella sentenza n. 34/2020, nella quale si legge che il processo penale è caratterizzato “da una asimmetria «strutturale» tra i due antagonisti principali. Le differenze che connotano le rispettive posizioni, «correlate alle diverse condizioni di operatività e ai differenti interessi dei quali, anche alla luce dei precetti costituzionali, le parti stesse sono portatrici … impediscono di ritenere che il principio di parità debba (e possa) indefettibilmente tradursi, nella cornice di ogni singolo segmento dell’iter processuale, in un’assoluta simmetria di poteri e facoltà”.
A questo si aggiunga che il fatto che la tesi secondo cui la contiguità tra giudici e p.m., derivante dall’appartenenza alla medesima carriera, condizionerebbe i primi determinandone l’“appiattimento” sulle tesi dei p.m. e la predisposizione a prestare maggior attenzione alle richieste dell’accusa, rispetto a quelle della difesa, è smentita dai fatti.
La tesi dell’“appiattimento” del giudice sulle tesi del PM è in realtà frutto di un indimostrato ed offensivo sospetto sull’effettiva onestà intellettuale del giudice, tanto più ove si considerino le alte statistiche di ordinanze di rigetto delle richieste di misure cautelari (20%) e di sentenze di assoluzione (47%) e, sul piano “qualitativo”, alle numerose ordinanze con cui i GIP, a fronte della richiesta di archiviazione del PM, dispongono l’imputazione coatta, ovvero alle sentenze di assoluzione che non danno accoglimento a richieste di condanna, anche in processi che hanno riguardo ad imputati eccellenti (Salvini), ovvero, al contrario, alle sentenze di condanna che non accolgono richieste di assoluzione formulate dal PM (Del Mastro). Ma vorremmo fare presente (ed ex colleghi come Alfredo Mantovano e Carlo Nordio sicuramente lo sanno) che questa è la fisiologia del processo penale. Il problema è che di queste cose la politica se ne occupa solo quando riguardano imputati eccellenti e non anche quando riguardano, tutti i giorni, i cittadini comuni!
Allora abbiamo detto più volte, un po’ provocatoriamente, che se il 47% di assoluzioni è un dato insoddisfacente, ci dicessero quale deve essere la percentuale di assoluzioni che possa far dire che non vi è alcun appiattimento del giudice sul PM, non so il 60 o il 70% potrebbe bastare?! O forse sarebbe meglio chiedere quali processi si vorrebbero vedere concludersi con una sentenza di assoluzione?! È ovvio che la mia è una provocazione, ma non ci resta che questo se a fronte di una sentenza sgradita si invocano indagini disciplinai nei confronti dei giudici, o, ancora peggio, si indaga sulle loro vite private e sui loro orientamenti culturali, fino a qualificarli oppositori politici nei confronti della maggioranza di turno.
2. Il presente intervento di riforma costituzionale trae origine dall’evoluzione del sistema processuale penale italiano verso il modello accusatorio
Sotto questo profilo va ribadito chiaramente che la separazione delle carriere non è di per sé imposta dall’adozione di un sistema di tipo accusatorio, la cui caratteristica essenziale è la regola del contraddittorio come metodo per l’acquisizione della prova davanti al giudice, regola scritta nell’art. 111 della nostra Costituzione dal 1999 e che perciò per 25 anni ha convissuto con l’obbligatorietà dell’azione penale e con l’unicità della carriera dei magistrati, a dimostrazione che quest’ultima è pienamente compatibile con il processo di tipo accusatorio. E se la riforma in senso accusatorio del processo penale italiano operata nel 1989 non ha avuto successo non è dipeso dal fatto che non è stata accompagnata dalla separazione delle carriere dei magistrati ma dal fatto che il nostro è un sistema molto più garantista di quello americano, e richiede tempi molto più lunghi per pervenire ad una sentenza irrevocabile.
I sostenitori della riforma ribattono dicendo che in tutti gli ordinamenti ispirati al modello accusatorio vi è anche la separazione delle carriere. In realtà non è affatto così. Mentre è vero che in quei sistemi in cui c’è la separazione delle carriere vi è anche un qualche forma di assoggettamento del pm al potere politico e quindi di un controllo del potere esecutivo sull’esercizio dell’azione penale.
Ma vediamo nel dettaglio i principali modelli che vengono evocati nel corso di questa discussione.
In FRANCIA, dove vi è un unico CSM, il passaggio da una funzione all’altra è sempre possibile, purché non avvenga nello stesso ufficio giudiziario.
In GERMANIA non vi è uno sbarramento al cambio di funzioni che, anzi, avviene regolarmente.
In SPAGNA dove invece vi è una rigida separazione delle carriere il PM non gode dell’indipendenza e dell’inamovibilità che la Costituzione spagnola riconosce soltanto ai giudici.
In PORTOGALLO, dove anche vi è una netta separazione delle carriere, il PM è inserito in una struttura fortemente gerarchica con a capo il Procuratore Generale nominato dal Presidente della Repubblica su proposta del Governo e questo ha prodotto una magistratura requirente fortemente burocratizzata e prevalentemente attenta ai risultati statistici al pari delle forze dell’ordine (v. “Un’esperienza di separazione delle carriere: l’ordinamento portoghese” di Eduardo Maia Costa su QG). E questo non è secondo noi il modello che assicura al meglio i diritti di tutti i cittadini.
Infine gli USA, dove le carriere giudiziarie non sono affatto separate, anzi l’esercizio delle funzioni requirenti rappresenta spesso il migliore trampolino di lancio per una successiva nomina a Giudice (quasi tutti i componenti della Corte Suprema USA prima di diventare giudici sono stati prosecutor), che è considerata la Patria del sistema accusatorio, ma che è anche il Paese in cui se l’imputato decide di parlare ha l’obbligo di dire la verità e con il più alto numero percentuale di detenuti al mondo (nel 2018 su 100.000 abitanti erano 655, in Italia nello stesso anno erano 98), non a caso è anche il Paese in cui il Prosecutor (scelto dal Governo o eletto dal popolo e che quindi risponde ad una autorità politica o è soggetto al consenso elettorale) è dotato di un enorme potere che spesso schiaccia quello della difesa, al punto che si potrebbe quasi dire che il sistema americano è quello accusatorio per eccellenza ma nel senso che “comanda l’accusa” e in cui il PM è unicamente proiettato ad ottenere una sentenza di condanna, mentre l’imputato e la sua difesa ne subiscono l’iniziativa.
Da questo quadro comparatistico emerge chiaramente che gli unici sistemi in cui vi è una rigida separazione delle carriere sono la SPAGNA e il PORTOGALLO che sono però anche gli stessi sistemi che sono accomunati dal fatto che il pm è soggetto, in maniera più o meno stringente, alle direttive del governo. E questo è un fatto fisiologico, perché, nonostante tutte le rassicurazioni che provengono dal Governo, si porrà ineluttabilmente il problema di chi controllerà questo potente corpo autoreferenziale di PM. E si badi bene che in Italia la sottomissione del PM al Ministro della Giustizia non è un fatto né nuovo né inedito, perché l’abbiamo già sperimentata in epoca Fascista fino al 1945, allor quando, ristabilita la democrazia, il PM fu sottratto alla direzione del Ministro della Giustizia.
La verità è che la vera garanzia per qualsiasi cittadino, sia esso indagato, imputato o persona offesa di un reato, è quella di poter contare su un PM che ragiona come un giudice, aperto al dubbio sull’innocenza dell’indagato, che valuta le prove con lo stesso atteggiamento di terzietà del giudice e che quindi cerca la verità, insieme a tutti gli altri protagonisti del processo. Non rappresenterebbe, invece, un elemento di garanzia un PM trasformato in un “avvocato dell’accusa”, che vive una condanna come una vittoria e un’assoluzione come una sconfitta, non più tenuto ad agire come parte imparziale nelle indagini e primo garante dei diritti dell’imputato, ma come un “accusatore puro” interessato, anche per ragioni di carriera, solo a vincere il processo. Con la separazione delle carriere ci avvieremmo non verso un PM che si presenta al giudice “con il cappello in mano” (come auspicato dai sostenitori della riforma), ma verso un PM “super poliziotto”, indifferente alle ragioni della giurisdizione, pienamente immedesimato solo nelle sue ragioni di difesa sociale, attento solo al risultato, disposto ad incastrare l’imputato che ritiene colpevole con qualsiasi mezzo.
E questa non è una prospettiva degna della nostra millenaria cultura giuridica!
3. Il presente intervento di riforma costituzionale trae origine da obiettivi di miglioramento della qualità della giurisdizione
Davvero non comprendiamo come questa riforma possa contribuire a migliorare la qualità della giurisdizione. Anzi, per usare le parole della Senatrice Giulia BONGIORNO, “solo un ignorante può pensare che questa riforma incide sui tempi e sull’efficienza della giustizia” e quindi sulla qualità complessiva della giurisdizione.
Se il Governo volesse davvero dare attuazione all’art. 110 Cost. che affida al Ministro della Giustizia “l’organizzazione ed il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia” e così migliorare la qualità della giurisdizione e rendere il sistema giudiziario più efficiente a vantaggio di tutti i cittadini, secondo noi dovrebbe provare a dare attuazione a queste semplici 8 proposte che vi illustro brevemente e che vi consegno.
Noi proponiamo di:
- Aumentare l’organico della magistratura, assumendo almeno 1000 nuovi magistrati all’anno per i prossimi 5 anni, per avvicinarsi alla media europea e migliorare così l’efficienza del sistema giudiziario.
- Rivedere le piante organiche degli uffici giudiziari in base agli effettivi carichi di lavoro, chiudere gli uffici con meno di 10 P.M. e 30 giudici e destinare maggiori risorse (umane ed economiche) agli uffici con maggiori sofferenze in modo da migliorare l’efficienza e la qualità del servizio.
- Realizzare un piano straordinario di assunzioni del personale amministrativo per ridurre le scoperture di organico e stabilizzare il personale precario dell’Ufficio per il Processo.
- Dotare i magistrati di applicativi informatici adeguati per garantire maggiore efficienza e sicurezza, migliorare le funzionalità di APP, ripensare le tempistiche per il suo utilizzo e potenziare l’assistenza tecnica, investire in hardware e software moderni e migliorare le reti informatiche per ridurre i disservizi e le interruzioni del servizio.
- Intervenire con urgenza sulla situazione carceraria mediante una misura immediata per diminuire il sovraffollamento, investimenti adeguati per risanare le strutture carcerarie, aumento del personale civile di custodia e un serio ampliamento delle misure alternative, in modo da garantire condizioni dignitose e l’effettiva funzione rieducativa della pena.
- Intraprendere iniziative urgenti sull’edilizia giudiziaria e sulle condizioni di lavoro del personale della Giustizia, fondate su una visione strategica e non emergenziale.
- Ottimizzare la giustizia penale e civile attraverso la creazione di luoghi di confronto con il Governo, il Parlamento, le Istituzioni, gli Ordini professionali e la società civile al fine di:
- prevedere l’immediata depenalizzazione dei fatti adeguatamente sanzionabili attraverso interventi di natura non penale;
- introdurre meccanismi processuali finalizzati ad assicurare la deflazione e l’accelerazione dei procedimenti, soprattutto davanti al giudice monocratico e nei giudizi di impugnazione;
- riconsiderare completamente, a due anni di distanza dall’entrata in vigore della legge Cartabia, la sua efficacia sul processo civile eliminando tutti quegli aspetti che hanno determinato, in primo e secondo grado, un appesantimento del rito.
- Promuovere una maggiore interscambiabilità tra le funzioni per garantire una maggiore flessibilità nel passaggio tra le funzioni requirenti e giudicanti, nella piena consapevolezza che l’esperienza in diverse funzioni, raccomandata anche in sede europea, rappresenta per un magistrato una straordinaria opportunità di arricchimento sul piano della comune cultura della prova, che è la caratteristica distintiva del sistema accusatorio.
Le critiche dell’Anm sulla proposta di istituire un doppio CSM
Come emerge dalla Relazione di accompagnamento al testo del DDL, “i due Consigli sono esattamente sovrapponibili tra loro – per caratteristiche, funzioni e garanzie –”. Assisteremmo, perciò, ad una duplicazione che non sarebbe priva di riflessi problematici su più fronti:
- la totale sovrapponibilità delle competenze potrebbe condurre ciascun CSM ad elaborare regole diverse e, in alcuni casi, anche contrastanti tra loro, nelle materie concernenti l’amministrazione della giustizia; e lo stesso potrebbe accadere con riferimento ai pareri che i due CSM dovranno esprimere sui progetti di legge, che potrebbero essere tra loro contrastanti;
- il doppio CSM produrrà una inutile duplicazione di costi e di strutture di supporto formate da magistrati, come Segreteria generale e Ufficio Studi, con conseguente aumento di magistrati fuori ruolo;
- lo sdoppiamento del CSM dovrebbe implicare anche lo sdoppiamento dei Consigli Giudiziari con conseguente duplicazione delle risorse materiali e umane da investire per il loro funzionamento;
- non è escluso che due organi simili e totalmente sovrapponibili potrebbero entrare in conflitto tra loro, senza che sia possibile comprendere oggi quali potrebbero essere le modalità di risoluzione di quei conflitti;
- ma soprattutto il doppio CSM renderà le due distinte categorie di giudici e PM autoreferenziali e ne accentuerà le tensioni corporative.
Vorrei concludere ricordando:
- che questa riforma prevede l’introduzione, per la prima volta, in Costituzione del termine “carriera” riferito ai magistrati, i quali non hanno una carriera ma si distinguono tra loro solo per “diversità di funzioni” come dice l’art. 107 co. 3 Cost.; e faccio presente che oggi il termine “carriera” è presente in Cost. solo all’art. 98 co. 3 con riferimento ai militari in servizio attivo;
- che tra tutti gli affidatari che ho avuto nel periodo del tirocinio quelli da cui ho imparato di più sono stati quelli che in precedenza avevano svolto sia le funzioni giudicanti sia quelle requirenti, e quindi da giudici conoscevano anche il complesso mondo delle indagini preliminari e da PM avevano ben presente quale fosse il livello probatorio necessario per sostenere adeguatamente l’accusa in giudizio;
- che Paolo BORSELLINO era contrario alla separazione delle carriere come disse in occasione di un discorso tenuto a Marsala nel 1987 allorquando criticò la “separazione delle carriere, vista come uno strumento per mortificare i magistrati del PM, prefigurandone il distacco dall’ordine giudiziario”;
- che nella Raccomandazione sul “Ruolo del PM nell’ordinamento penale” adottata nell’anno 2000 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa si legge che “gli Stati membri devono prendere provvedimenti concreti al fine di consentire ad una stessa persona di svolgere successivamente le funzioni di PM e quelle di giudice o viceversa”;
- che a dire chiaramente che questa riforma comporterà inevitabilmente l’assoggettamento del PM al potere Esecutivo è stato, tra gli altri, Marcello PERA in suo recente scritto su Il Foglio del 3 febbraio dal titolo “La separazione delle carriere da sola non basta” in cui si legge: “Non è un caso che, là dove c’è la separazione, il PM è, in un modo o in un altro, collegato al potere politico. Chi altri potrebbe dargli le direttive di politica anticriminale, di priorità, di opportunità, di rilevanza, di urgenza?”;
- che il fatto che alla Camera sia stato respinto, con i voti della maggioranza, l’ordine del giorno che impegnava il Governo a non sottoporre in futuro il PM al potere esecutivo e a non modificare l’art. 109 Cost., è un segnale che non ci fa ben sperare per il futuro.
Noi pensiamo perciò che piuttosto che separare le carriere bisognerebbe andare nella direzione opposta a quella indicata da questa riforma e favorire lo scambio di esperienze, tenendo uniti Giudici e PM sotto quella “comune cultura delle regole e non del risultato” che non costituisce un privilegio di casta dei magistrati ma una garanzia per tutti i cittadini.
La verità è che non si vuole accettare il fatto che il giudice piuttosto che portato ad appiattirsi sulle tesi del PM è fallibile e che l’infallibilità del giudice dell’ultimo grado di giudizio è solo una convenzione che ci siamo dati. Come ha scritto in una sentenza il giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti Robert JACKSON: “Noi non abbiamo l’ultima parola perché siamo infallibili, ma siamo infallibili perché abbiamo l’ultima parola”.
La verità è che la questione del ruolo centrale del PM nel sistema della giustizia penale non si risolve con gli slogan di “riforme epocali risolutive” o peggio ancora di “riforme finali”, che hanno tanto il sapore della vendetta, ma con la paziente ricerca di difficili equilibri e nel rispetto della coerenza di un sistema che è stato costruito in modo sapiente da giuristi più grandi di noi, un sistema che non si può pensare di cancellare con un tratto di penna, sull’onda emotiva di una polemica contro i magistrati.
Vorrei davvero concludere questo mio intervento con tre citazioni, ispirate, rispettivamente, alle parole di un magistrato, di un avvocato penalista e di un filosofo.
Il magistrato è Edmondo BRUTI LIBERATI il quale chiude il suo ultimo libro, dedicato alla figura del PM, scrivendo: “Piuttosto che avventurarsi sulle separazioni occorre muoversi con decisione nella costruzione di una comune cultura fra tutti gli esponenti delle professioni giuridiche. Questo è il vero cantiere aperto su cui devono misurarsi le diverse istituzioni della magistratura e dell’avvocatura e le rispettive associazioni”.
L’avvocato è il Prof. Avv. Franco COPPI che in una recente intervista ha dichiarato:
“Io non ho mai perso un processo perché il giudice apparteneva alla stessa categoria del PM, semmai l’ho perso perché ho sbagliato qualcosa io o perché ha sbagliato il giudice. Invece attendo ancora di conoscere un elenco dei vantaggi che dovrebbero derivare dalla separazione delle carriere; l’ho chiesto da tempo ma non ho ancora ricevuto risposta”.
Il filosofo è MONTESQUIEU, il più evocato in questi tempi in cui giustamente si cita spesso il principio della separazione dei poteri, il quale nelle “Lettere persiane” (1721) scriveva:
“È vero che (…) a volte è necessario cambiare certe leggi. Ma il caso è raro e quando arriva, bisogna toccarlo solo con una mano tremante”.