
Claudio Cottatellucci, già giudice del Tribunale per i minorenni di Roma, oggi presiede
l’Associazione dei magistrati per i minorenni e la famiglia. In quest’intervista a La Magistratura invita a riportare la discussione sulla difesa dei diritti dei bambini e fuori da uno schema manicheo.
Partiamo dal clima che ha accompagnato la discussione sulla vicenda della famiglia di Palmoli. Perché questo clamore secondo lei?
Io credo che agiscano più fattori che si sommano tra di loro e si rinforzano a vicenda. C’è
sicuramente una diffusa e alimentata paura di un’ingerenza eccessiva dal punto di vista dello Stato. Tanto che non spaventa il fatto che dei bambini possano finire in ospedale per un’intossicazione che gli avrebbe potuto anche provocare dei danni irreversibili ma spaventa, piuttosto, il fatto che un Tribunale li allontani da casa peraltro insieme alla mamma. Allora, banalmente può essere entrato in gioco un meccanismo di immedesimazione. Dopodiché, se si guarda sul piano obiettivo, le poche ma peraltro precise statistiche su questo punto indicano come l’Italia sia, nel panorama europeo, credo al penultimo posto come incidenza di provvedimenti di messa in protezione dei bambini, che vuol dire allontanamento dal nucleo familiare. Il numero percentuale, che vale la pena ricordare, è 3,5 per mille, quando per esempio la Francia ha più di 10 per mille. Quindi è tre volte tanto, la Germania è ancora di più.
In questi giorni la domanda più ricorrente è fino a che punto le scelte dei genitori possono essere limitate da un giudice.
Ecco, questo è un piano, direi, meno emotivo e un po’ più ideologico. Voglio ricordare che ci
abbiamo messo non so quanto tempo per passare dalla potestà alla responsabilità, il che non è una differenza di semantica evidentemente ma una differenza culturale. Però qui non è detto che questo passaggio rappresenti una maturazione culturale condivisa e soprattutto irreversibile, sebbene siano trascorsi cinquant’anni dalla riforma del diritto di famiglia. E dunque la famiglia come territorio sovrano è ancora rivendicata in maniera molto forte e istintiva, luogo di esercizio di un potere genitoriale esonerato da ogni principio di responsabilità. Probabilmente come tutto ciò è il riflesso dello smarrimento sociale e dell’incertezza caratteristiche dei nostri tempi. Per cui il fatto che lo Stato intervenga è percepito come un’azione inammissibile. Senza tenere in nessun conto invece diritti fondamentali dei bambini che sono compromessi, perché qui l’altra questione è che più si riafferma la sovranità del territorio familiare e più spariscono i bambini come soggetti di diritti autonomi. Noi non facciamo altro che dire che i bambini non sono il derivato dei genitori, non hanno i diritti per procura, sono soggetti autonomi. Peraltro il Tribunale in questo caso non ha valutato a motivo del suo intervento l’educazione parentale, che è consentita a certe condizioni, ma ha sottolineato la mancanza di vita relazionale con i coetanei, citando anche molta letteratura scientifica su questo tema.
Facciamo un passo indietro e ricordiamo quali sono i criteri in base ai quali il giudice dei minori può intervenire?
Qui in ballo ci sono due diritti costituzionali che evidentemente non erano garantiti, non c’è un giudizio sullo stile di vita. E sono il diritto alla salute e il diritto alla vita di relazione. Se questi diritti risultano compromessi si interviene e solo nella misura in cui l’intervento valga a ripristinare la tutela di questi diritti. Voglio anche ricordare che è la stessa Corte europea dei Diritti dell’Uomo che disegna limiti precisi alla categoria dell’ingerenza, e richiede che sia regolata dai criteri di necessità e proporzionalità. Domandiamoci: dopo 13 mesi in cui non cambiava nulla era necessario l’intervento del giudice? Direi proprio di sì e ricordo che 13 mesi nella vita di tre bambini – due di sei anni e la più grande di otto – costituiscono una porzione della loro vita significativa, un tempo molto lungo per la loro crescita fisica e psichica. E poi si è trattato
di un intervento proporzionato, e ora si potranno probabilmente fare, vivendo nella casa famiglia, quegli approfondimenti neuropsichiatrici che non sono stati fatti.
Che effetto le hanno fatto le dichiarazioni di esponenti politici e di governo sulla vicenda?
Vorrei sottolineare che le parole hanno un peso, e se pronunciate da rappresentanti del governo, da soggetti che hanno una responsabilità pubblica, hanno un peso enorme. Non vale la premessa di parlare da cittadino comune, spogliandosi di un ruolo istituzionale che comunque si porta, e poi dire che questo “è un sequestro di Stato”. Qui c’è proprio una semantica che stravolge tutto. Perché la parola “sequestro” evoca una dimensione penale, quella “sottrazione” indica un’azione abusiva, basti ricordare i casi di sottrazioni internazionali dei figli in cui un genitore si attiva contro l’altro. Qui non abbiamo un conflitto tra genitori, c’è uno Stato che non sottrae nessuno, ma cerca di mettere in protezione, ma la parola protezione si fa molto fatica anche solo a usarla. Naturalmente chi ha incarichi pubblici dovrebbe prestare particolare attenzione a non innescare processi mentali di questo tipo. E avere fiducia nel funzionamento della giurisdizione. Perché l’altro tratto culturale delle reazioni che ci sono state finora, oltre a quello della paura, è un fortissimo rifiuto della complessità. Dobbiamo invece ricordare che siamo davanti a situazioni molto complesse. La contrapposizione, la polarizzazione è una comoda via d’uscita rispetto a una ricerca di soluzioni complesse.
Lei ha avuto occasione di parlare con la presidente del Tribunale dei minorenni di l’Aquila dopo gli insulti e le minacce sui social?
Sì abbiamo avuto uno scambio di messaggi. Sicuramente è provata ma serena, il provvedimento che è stato adottato è motivato e puntuale.
Nonostante questo il ministero ha avanzato una richiesta di atti, ci sono i presupposti per inviare gli ispettori?
Allora, guardi, io non capisco proprio se le ispezioni si possano fare anche in assenza di
presupposti. Perché a me sembra che veramente in questa vicenda non ci sia un solo profilo che possa far dubitare della correttezza del procedimento, non c’è stata la minima violazione di nessuna garanzia procedimentale insomma. I genitori sono sempre stati assistiti da un difensore che ha usato tutti gli strumenti processuali a disposizione; è stato nominato il curatore speciale; sono stati sentiti i minori prima dell’adozione del provvedimento provvisorio, tant’è vero che nessuno lamenta, a partire dallo stesso difensore, una violazione delle regole processuali; e allora che cos’altro c’è da verificare? La bontà della decisione, sì, ma questa è materia della giurisdizione, il merito della
decisione spetta esclusivamente alla giurisdizione, e se fossero state compiute valutazioni che poi si dimostrano infondate, i rimedi sono tutti dentro la giurisdizione stessa.



