
La separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri incide sul cuore della democrazia italiana: l’indipendenza della magistratura. La Costituzione, nata dall’esperienza del fascismo, ha scelto un ordine giudiziario unitario per proteggere i cittadini da pressioni politiche. Calamandrei e Bobbio ricordano che una giustizia autonoma è presidio dei diritti fondamentali: questa riforma rischia di ridurre le garanzie di tutti e di indebolire lo Stato di diritto.
Un principio fondativo
La proposta di separare le carriere di giudici e pubblici ministeri viene spesso presentata come un intervento tecnico, quasi burocratico, necessario per “modernizzare” la giustizia. Ma dietro questa veste neutra si cela una questione cruciale: l’indipendenza della magistratura.
La nostra Costituzione, nata nel 1948 dalle ceneri della dittatura fascista, ha scelto con convinzione un modello unitario, per impedire che la politica potesse condizionare indagini e decisioni. L’articolo 101 stabilisce che i giudici «sono soggetti soltanto alla legge». Questa formula non è un dettaglio: è un argine contro ogni pressione esterna.
Il giurista Piero Calamandrei lo ricordava con forza in Elogio dei giudici scritto da un avvocato (1954): «La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare».
Calamandrei definiva la magistratura “la sentinella della libertà”, perché senza una giustizia autonoma la democrazia diventa un guscio vuoto. Anche Norberto Bobbio, in Il futuro della democrazia (1984), avvertiva: «La democrazia non è mai un fatto compiuto, ma un processo continuo di conquista e difesa dei diritti».
Perché la separazione indebolirebbe le garanzie
Separare le carriere significa creare due corpi distinti, con percorsi e gerarchie diverse: da un lato chi indaga (pubblici ministeri), dall’altro chi giudica (giudici). A prima vista può sembrare un modo per garantire maggiore imparzialità, ma in realtà espone a più forti pressioni del potere esecutivo.
Il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, in La virtù del dubbio (2007), ha spiegato che certe riforme «non guardano avanti, ma indietro», riproponendo un modello in cui la politica influiva direttamente sull’azione penale. L’esperienza internazionale mostra che, dove il pubblico ministero dipende dal governo le indagini su corruzione e criminalità organizzata diventano più fragili e selettive.
La lezione della storia
La storia italiana ed europea ammonisce sui rischi di un indebolimento dell’autonomia giudiziaria. Durante il ventennio fascista, la magistratura fu di fatto asservita al potere politico, con conseguenze devastanti per i diritti dei cittadini. I costituenti, consapevoli di quell’esperienza, disegnarono un sistema in cui giudici e pubblici ministeri appartenessero allo stesso ordine, con carriere comunicanti, proprio per impedire che un singolo potere potesse piegare la giustizia a fini di parte.
Non a caso, l’ex presidente della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick ha più volte ricordato che «l’unità della magistratura è la garanzia che il pubblico ministero non diventi il braccio del governo». Un monito attuale di fronte a proposte che rischiano di alterare questo equilibrio.
Un tema che ci riguarda da vicino
Pensiamo a situazioni concrete: una famiglia vittima di una truffa, un lavoratore licenziato senza giusta causa, una persona che denuncia violenze domestiche. Tutti desiderano lo stesso: che chi indaga e chi decide agisca in piena autonomia, senza temere pressioni politiche o ricatti di potere.
Se le carriere vengono separate, il pubblico ministero rischia di essere assoggettato a logiche gerarchiche rispondenti alla politica. Meno indipendenza significa meno protezione per tutti: un potere politico forte avrebbe più strumenti per condizionare indagini e processi.
Un dibattito che va oltre i singoli
Il tema è oggi fortemente sostenuto dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, la cui figura attira inevitabilmente l’attenzione mediatica. Le sue dichiarazioni, talvolta in contrasto con posizioni espresse in passato, finiscono spesso per spostare il dibattito sulla persona più che sul merito della proposta. È comprensibile che una riforma di tale portata abbia promotori di rilievo, ma il nodo essenziale rimane un altro: quali effetti avrebbe la separazione delle carriere sull’indipendenza della magistratura e, di conseguenza, sui diritti dei cittadini?
La storia italiana insegna quanto sia pericoloso affidare il funzionamento della giustizia al carisma o all’autorevolezza di singoli individui. Come ricordava il costituente Meuccio Ruini, «le istituzioni devono essere più forti degli uomini che le guidano». Un monito che invita a non confondere il giudizio sulla riforma con quello sui suoi sostenitori.
Come ribadisce il costituzionalista Michele Ainis, «la democrazia vive di regole, non di uomini forti». Il confronto deve dunque restare ancorato ai principi e alle conseguenze concrete della riforma, non alla personalità di chi la promuove.
Modernità significa rafforzare, non smantellare
Difendere l’attuale assetto non è conservatorismo sterile, ma autentico progresso civile. Come ricorda ancora Zagrebelsky, non ogni cambiamento porta avanti: «Certe riforme non guardano avanti, ma indietro».
La vera modernità non è smantellare ciò che funziona, ma consolidarlo. In un’epoca di crisi di fiducia nelle istituzioni, garantire l’autonomia della magistratura manda un messaggio potente: lo Stato è al servizio della legge, non delle convenienze di parte.
Un impegno che riguarda tutti
Difendere l’indipendenza della magistratura non spetta solo a giuristi o magistrati. Riguarda ciascuno di noi. Significa informarsi, discuterne nelle scuole e nei luoghi di lavoro, sostenere iniziative che rafforzino la cultura della legalità. La conoscenza è il primo argine contro chi vorrebbe ridurre la giustizia a un ingranaggio docile.
Difendere oggi la giustizia di domani
Giustizia indipendente significa cittadini più liberi. La separazione delle carriere non è una riforma neutra: può aprire la porta a pressioni politiche e ridurre le garanzie per chiunque chieda giustizia.
Come ammoniva Lelio Basso, «la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare». Proteggere questo pilastro della Costituzione significa proteggere noi stessi e il futuro dei nostri figli. La vera modernità sta nel dire no a un passo che indebolirebbe la democrazia e nel custodire quella sentinella della libertà che i costituenti ci hanno affidato.