Un’idea diversa della pena

di Aldo Cavallo, già magistrato

Intervento all’incontro-dibattito “Un’idea diversa della pena” organizzato dall’Anm sezione Autonoma Magistrati a riposo, Roma 26 ottobre 2023

 

Inizio subito il mio intervento con una confessione: per prepararmi a quest’incontro e vincere il timore che sempre mi assale quando decido di parlare in pubblico, punitore di me stesso (non pronuncio questa espressione in greco, per non infrangere il solenne impegno assunto in tal senso con mia moglie)  ho tirato giù dagli scaffali della mia libreria, alla ricerca della mitica tranquillante “coperta di Linus”, gli articoli e i libri, invero non pochi, che trattano di giustizia riparativa, argomento questo che rappresenta un pò un possibile “sottotitolo” di questo convegno sulla pena, sull’idea “diversa” della pena.

Articoli e libri, però, che abbandono subito, qui sul tavolo, non volendo risultare a chi mi ascolta, troppo noioso, dichiarandomi comunque disponibile a fornire, a chi me lo chiedesse, una più che esauriente bibliografia sull’argomento.

Preferisco piuttosto in questa sede parlarvi un pò della genesi di questo convegno, anche se così facendo, finirò, inevitabilmente, con il parlare un pò anche di me stesso, così aumentando i sospetti di mia moglie di essere affetto da una sia pur lieve forma di autismo, di patologica autoreferenzialità.

Confesso allora, che all’origine di questo convegno, c’è la lettura di una breve e “stuzzicante” recensione – apparsa sull’inserto domenicale del Corriere della sera” del 5 marzo 2023 – del libro “Alla stazione successiva. La giustizia ascoltando De André”.

Si parlava infatti, in questo articolo, di un libro – che ho poi scoperto essere assai corposo (367 pagine, compreso l’indice) che affrontava, [a parere del recensore, Helmut Failoni], in una chiave insolita, non accademica, proprio questo tema, quello della giustizia.

Un tema, certamente non estraneo ai miei “interessi” anche attuali di felice pensionato.

Ma, lo ribadisco, per quanti tra di voi non hanno ancora letto il libro: il tema della giustizia viene affrontato da Raffaele Caruso, in una chiave prospettica certamente insolita e originale: ovvero l’analisi, direi l’esegesi accurata e profonda dei testi del grande cantautore genovese intrecciandola, in modo assai felice, al racconto autobiografico:

–  delle proprie esperienze giovanili di figlio di genitori meridionali trapiantati in una metropoli del nord, appunto Genova, vertice del triangolo industriale;

– del percorso di crescita che lo ha portato, da bocciato ed afono aspirante concorrente dello “Zecchino d’oro”, a diventare un giovane e brillante avvocato e criminologo, tra i fondatori dell’ARS, Avvocati in rete per il sociale e subito arruolato, avvocato da appena un anno, nel team di legali del Genoa Social Forum (un nome che per lui deve aver rappresento uno scherzo del destino, essendo lui, a differenza di Faber, un tifoso doriano!) nonché difensore, dal 2018, di due comitati delle vittime del ponte Morandi.

Un brillante percorso professionale, dunque, senz’altro favorito, ritengo, dalla militanza in Azione Cattolica (citazione per me obbligatoria, volendo compiacere la mia ex collega ed amica fraterna Antonella Mazzei, valorosa e generosa presidente di AC della sua parrocchia), ma anche, evidentemente, da un ambiente familiare, sano e coeso; dalla frequentazione del Liceo Colombo di Genova (altra citazione per me obbligatoria avendo insegnato in quella scuola don Giovanni Cereti, il teologo fondatore della Fraternità degli Anawim, a cui appartengono, oltre a me, alcune care amiche presenti in sala).

Chi ha letto la locandina di quest’evento, però, può comprensibilmente pensare che questo mio interesse alla giustizia, specie quella riparativa, nasca dalla circostanza che ho avuto l’onore e l’onere di fare il giudice per molto tempo, ma chi mi conosce un pò meglio può anche pensare, non senza fondamento, che esso nasca dal fatto che anche io, nel mio piccolo, mi considero, presuntuosamente (ecco riaffora l’autoreferenzialità) un cantautore, certamente non della grandezza di Fabrizio De André, un cantautore con la “c” minuscola, … di brani oltretutto demenziali, leggeri!

Per dirla tutta, però, il mio interesse per l’articolo del Corriere nasceva anche dal fatto che, detto addio alla toga, sono diventato, orgogliosamente, uno “studente ospite” della prestigiosa Pontificia Università Gregoriana, e in questa veste ho avuto la fortuna di seguire, tra gli altri, i corsi del professor Francesco Occhetta, che oltre a insegnare ad alunni di tutti i continenti la dottrina sociale della Chiesa, hanno affrontato anche il tema rilevantissimo della giustizia.

Ma non è tanto di giustizia riparativa – termine che non pronuncio in inglese per non scandalizzarvi con la mia pessima pronuncia – che intendo parlarvi, c’è chi lo farà  molto meglio di me, limitandomi ad osservare che questa modalità di giustizia, del tutto comprensibilmente, risulta oggetto di studio in una università pontificia ove si consideri che la prima esperienza di giustizia riparativa, il così detto esperimento di Kitchener, è quella quella nata, agli inizi degli anni ’70, in una cittadina dell’Ontario, in un contesto caratterizzato dalla presenza di una  numerosa comunità cristiana riformata, quella dei Mennoniti, dove due educatori proposero al giudice che aveva condannato due ragazzini responsabili di aver danneggiato diverse abitazioni lungo la via centrale del paese, un programma di probation diverso dal solito, che prevedeva un serio programma di incontri tra i due giovani e le famiglie dei danneggiati e un chiaro impegno risarcitorio da garantire attraverso il lavoro.

Ma allora, vi chiederete, cosa ti proponi con il tuo intervento? Se non intendi parlarci, tecnicamente, di una idea di giustizia diversa, divenuta legge dello stato per iniziativa della professoressa Cartabbia; se non intendi parlarci della complessa ricerca di soluzioni alternative al tradizionale percorso giudiziario nel trattamento delle condotte irregolari ma che rispondano all’esigenza di sanare l’offesa attraverso azioni utili alla vittima, che diventa così coprotagonista  del percorso giudiziario, di cosa vuoi parlare? Che cosa ti ha spinto di proporre l’organizzazione di questo convegno?

E’ molto semplice: voglio farvi conoscere il bel libro di Raffaele Caruso; voglio destare in voi curiosità e interesse  intorno al tema della giustizia, di una idea diversa di giustizia, e non già perché sono un agente della casa editrice San Paolo o perché l’autore mi ha promesso un ricco compenso!

Lo faccio per una ragione banalissima, se volete, perché è un bel libro, che mi ha fatto conoscere canzoni che non conoscevo, lo ammetto, (e per questo consiglio anche io di leggerlo, avendo con se uno smartphone,  intervallando  la lettura che ci introduce nel mondo di un grande artista, che ha sempre camminato “in direzione ostinata e contraria”, con l’ascolto delle sue canzoni, perché  lo sappiamo gli artisti sono soggetti che vedono e sentono sfumature e sottigliezze che agli altri di norma sfuggono.

Lo faccio perché Raffaele, ed io con lui, crede in quel che scrive, della necessità di un cambiamento di paradigma, perché da laico, sono convinto, come scriveva don Tonino Bello – è questa è l’unica mia citazione – che “siamo tutti chiamati ad evangelizzare il mondo”.

Specie in un tempo come questo, di conflitti, di violenze inaudite, di guerre, dove domina la logica della vendetta, del buttare via la chiave, del fine pena mai, del totale disinteresse per le condizioni degli ultimi, degli scartati!

Da ultimo vi devo una correzione: la scelta di Raffo di parlare di giustizia attraverso l’analisi dei testi di alcune canzoni, in realtà non è poi così insolita ed eccentrica come ho detto, giacché, come chiarisce bene monsignor Stagliano nella sua bella prefazione al libro, “questo di Caruso  è un tentativo pop teologico ben riuscito. Si legge tutto di un fiato”.

 

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Il dibattito è disponibile al link Un’idea diversa della pena. La giustizia secondo De André nelle parole di uno scrittore e nei suoni della chitarra (26.10.2023) (radioradicale.it)