Profili amministrativi e giustificazione della norma nel paradigma della giustizia riparativa

di Riccardo Turrini Vita, Vice capo Dipartimento della giustizia minorile e di comunità

Intervento all’incontro-dibattito “Un’idea diversa della pena” organizzato dall’Anm sezione Autonoma Magistrati a riposo, Roma 26 ottobre 2023

 

1. L’officio di relatore all’odierno convegno è caduto sulla mia persona per l’amabile considerazione che la presidente Summaria ha inteso confermarmi in ragione di un’antica cordialità che oso credere di potere chiamare amicizia: alla gratitudine per la stima confermatami debbo unire quella per aver favorito questo incontro.

L’incarico che ricopro da alcuni mesi, le deleghe ricevute dal Capo del Dipartimento Antonio Sangermano, gli obiettivi versati nel decreto di nomina del Ministro possono forse accreditare una mia competenza nella disciplina che oggi occupa la nostra attenzione.

Certamente, dopo la prima riunione della Conferenza nazionale ad hoc che si è celebrata ieri, non posso mancare di dare alcuni tratti dell’azione amministrativa che la “disciplina organica della giustizia riparativa” introduce e che in qualche misura saranno curati dal Dipartimento, unitamente al Gabinetto del Ministro.

Non tratterò della mediazione penale. La giustizia riparativa e il suo incontro con il procedimento penale nelle sue varie fasi eccedono le mie competenze e sarebbe presuntuoso dirne davanti a così preparati uditori.

Meno inadeguato contributo credo di potere offrire muovendo dall’esperienza maturata per sei anni quale direttore generale della formazione dell’Amministrazione penitenziaria[1].

Aggiungo che la mia personale formazione, ha inclinato alla comparazione degli ordinamenti e insieme alla riflessione sulla giustificazione della norma.

Ebbi allora diverse occasioni di istituire e seguire seminari di formazione o di aggiornamento nella materia per il personale tecnico (pedagogico e di servizio sociale) non solo minorile, ma soprattutto minorile, rispecchiando in ciò il luogo storico di sperimentazione italiana delle azioni di giustizia riparativa.

In quel quadro, svolsi alcune riflessioni comunicate al seminario ad hoc “Riparare” tenuto a Castiglione delle Stiviere nel 2017, e poi riprese in Temi di esecuzione penale, che usciva come supporto informativo della Scuola superiore: precedono di alcuni anni la costruzione del sistema ed al suo incoativo inserimento nel diritto italiano, ma muovevano dalle esperienze che allora si compivano.

2. Prima di venire alla mia riflessione sul rapporto fra ordinamento giuridico continentale e giustizia riparativa, dirò brevemente dell’azione amministrativa delineata dalla legge.

L’organo operativo del servizio è individuato dal decreto legislativo 150, nei Centri per la giustizia riparativa, oggi presenti in limitate porzioni d’Italia, e che appaiono spesso collegati alla forte personalità di alcuni pionieri.

Come è giusto, sono strutture degli enti locali, dei Comuni in particolare, sia con appartenenza organica sia su base convenzionale.

La valutazione della loro idoneità (dopo una ricognizione delle strutture già esistenti in concreto, art. 92) è rimessa ad un organo che è sì diretto dal Ministero (art. 63) ma che non è un organo dell’Amministrazione: lo presiede un delegato del Ministro, lo integrano delegati delle Regioni o Provincie Autonome, delle Provincie e Città metropolitane, dei Comuni sedi di uffici giudiziari ed anche di altri Comuni quando in essi siano attive le c.d. “esperienze di riparazione”.

Si tratta della Conferenza locale istituita in ogni distretto di corti d’appello[2].

Quale procedimento dovranno seguire le Conferenze locali? Esso è innanzitutto costituito dalla rilevazione dall’idoneità a offrire un servizio conforme ai “livelli essenziali delle prestazioni”.

Questi sono elaborati dalla Conferenza nazionale prevista dall’art. 61 (istituita con DM 4 ottobre 2023) che li propone poi alla Conferenza unificata Stato Regioni presso la Presidenza del Consiglio dei ministri.

A tali esiti è condizionata l’erogazione dei fondi previsti in bilancio e attribuiti al Dipartimento: allo stato essi sono ovviamente inattingibili.

La Conferenza nazionale è stata dopo non facile percorso composta da delegati delle Regioni e delle Provincie, da altrettanti delegati dell’ANCI e da sei esperti della materia, indicati in parte dal Ministro della giustizia e in parte dal Ministro dell’università.

Anche qui del sostegno amministrativo necessario la legge nulla dice. In via di lettura sistematica si può ritenere che esso competa al Gabinetto perché tale ufficio organizza le riunioni degli organi presieduti dal Ministro. Si tratta dunque di una trascuratezza meno grave di quella analoga avute per le Conferenze locali, anche se ciò mortifica il monitoraggio dei servizi erogati (art. 61 co. 1) che deve poi essere trasmesso alla Conferenza unificata il cui parere precede il decreto interministeriale giustizia economia per l’allocazione di fondi agli enti locali ove vengono svolte le prestazioni congrue con i “requisiti” sopra accennati.

3. Bruciato l’incenso dovuto al plesso amministrativo, mi porto alla analisi storica che più mi pare stimolante per le odierne assise.

Delle esperienze di giustizia riparativa si dice che “sono di origine nord americana”, che vollero essere “una terza via”, che vogliono “coinvolgere il reo, la vittima, la comunità nell’affrontare la situazione critica”, ed ancora che “il primo elemento di armonia è il legame interpersonale e sociale”; di più, che “la giustizia riparativa implica un salto di paradigma rispetto alla tradizione del diritto positivo, con relativa spersonalizzazione”.

Traggo queste espressioni dai contributi raccolti nella monografia che citavo ma si tratta dell’opinione comune fra i cultori, ripresa anche nel discorso di insediamento della Conferenza tenuta dal Ministro Nordio.

La figura della giustizia riparativa ha sollecitato una riflessione fra i cultori del diritto penale che riguarda la natura stessa del diritto penale che la possa assumere in se, o che si debba presupporre per dare luogo a tale prassi.

La sua introduzione nell’ordinamento giuridico mi ha invece indotto a riflettere sulla giustificazione della norma come viene rappresentata nella statualità dell’età moderna.

3.1.       E’ troppo noto quali riparazioni conosca l’ordinamento giuridico continentale alcune per diretto ristoro, altre per sostituzione (danno biologico, danno morale etc..).

Molto più blande sono le forme di riparazione in forma specifica, talora impossibili, talora inefficaci (come accade nel caso della lesione dell’onore e della buona fama seguente alla diffusione di notizie false o alle accuse infondate mosse dal pubblico ministero).

La dottrina dominante fra i dottori del diritto penale e penitenziario è restia oggi ad ammettere il valore intrinsecamente riparativo della retribuzione del male commesso (come reato) verso l’altro e la società; ovvero, con parola che infatti suona arcaica, il valore della espiazione.

Questa posizione dei contemporanei è una cesura con il pensiero classico, che si perfeziona nella scolastica, ma che ancora è presente. Ad esempio, in Emanuele Kant.

Credo che la sua causa maggiore, almeno nell’ordine intellettuale, stia nel meccanicismo che sostanzia le teorie dello Stato che dal Seicento ed attraverso il secolo dei Lumi, più hanno avuto diffusione. Su di esse e sulla loro incidenza sulla teoria generale del diritto mi pare necessario trattenermi.

Ho detto che più hanno avuto diffusione, perché in altri pensatori quali, ad esempio, i nostri Vico e Muratori ben diversa era la considerazione della persona umana e delle sue relazioni.

Osservando i primi secoli dell’età moderna, l’applicazione del metodo delle scienze naturali (il metodo galileiano, per così dire) alla relazione fra gli uomini molto presto ricondusse l’osservazione della vita sociale soprattutto alle relazioni uniformi fra una causa fisica ed un effetto visibile. Tale posizione gnoseologica, pur consapevole dei propri limiti all’inizio (Cartesio) si diffuse certamente per l’effetto persuasivo delle visibili migliorie tecniche che seguirono alle conoscenze scientifiche, meccaniche e chimiche.

Per citare Ernest Cassirer “Dice Galileo: “Il mio talento è di proporre una novissima scienza che tratta di un antichissimo argomento. Forse non è in natura cosa più antica del moto, intorno al quale i libri scritti dai filosofi non sono né pochi né piccoli; tuttavia, ho discoperto con l’esperimento alcune proprietà di esso degne di venir conosciute, e che fin qui non sono state né osservate né dimostrate.”. Machiavelli potrebbe a buon diritto parlare del suo Principe negli stessi termini. Esattamente come la dinamica di Galileo divenne il fondamento della nostra moderna scienza della natura, così Machiavelli aprì una via alla scienza politica[3].

Non potremmo negare che la cultura europea abbia percepito l’inumanità di tali conclusioni sia sul piano antropologico sia su quello sociale e politico già nell’immediatezza della loro violenta applicazione. Alludo alla Rivoluzione francese e alle guerre europee che seguirono, senza dimenticare quella sorta di esperimento preparatorio che fu la guerra cd dei sette anni[4].

Un elegante esempio di tale percezione sono le “Osservazioni” scritte da Louis de Bonald[5] a proposito delle “Considerazioni sui principali eventi della Rivoluzione francese” di Madame de Stael, celeberrima prole del celebre Neker.

Egli così scrive nelle sue conclusioni: “Non ho conoscenza, lo confesso, di ciò che chiamano gli eccessi della rivoluzione. Tutti i crimini da questa consumati non ne sono state che le conseguenze naturali e prevedibili da ogni persona assennata, per orribili che fossero. È naturale cacciare o uccidere quelli che sono stati spogliati, come l’odiarli e calunniarli dopo averli proscritti. È naturale che il potere, gettato al popolo come un dono, è stato afferrato dai più audaci, e che, ebbri della imprevista fortuna, degli uomini, innalzati da un’esistenza oscura ai fasti del potere, non abbiano avuto alcuna moderazione nel suo esercizio. È naturale che, dopo aver distrutto la monarchia, non si voleva più il re, e dopo aver oltraggiato il re, si sia avuta paura di lasciar vivere chi era stato oltraggiato. Erano senza dubbio eccessi sotto il profilo morale; ma non erano eccessi per una rivoluzione; ne erano conseguenze accidentali, come le convulsioni ed il delirio lo sono di alcune malattie, ma non degli eccessi. Queste conseguenze erano, lo ripeto, inevitabili, perché sono naturali, come i frutti naturalmente si sviluppano dall’albero”.

Altre considerazioni, se vogliamo meno tragiche e più elegiache, si trovano nelle pagine di Novalis in “Christenheit oder Europa”[6].

Già dal tardo Seicento, però, l’eccezionale successo dell’ipotesi che aveva ricostruita la civitas secondo l’artificio del contratto sociale trionfò nel ricondurre ogni rapporto interpersonale ad una relazione contrattuale, e affidare così sempre e tendenzialmente solo al Principe, cioè allo Stato il compito di giudice e la riserva dell’uso della forza.

Come apparve già all’Hobbes[7], e come è evidente, esso era un artificio euristico con il vistoso limite delle astoricità e delle innaturalità che subito appaiono al lettore.

In effetti, “Lo stesso principio vale per gli oggetti politici: Hobbes descrive la transizione dallo stato naturale a quello sociale, ma non si cura dell’origine empirica dello stato. Il punto in questione non è la storia, bensì la validità dell’ordine sociale e politico. La sola cosa che importa non è il fondamento storico, bensì il fondamento legale dello stato; ed è appunto al problema riguardante questa base legale che viene data risposta con la teoria del contratto sociale”[8].

Si era così tagliata una porzione della vita sociale per farne il solo astratto canone di lettura e valutazione, con un segnato carattere estrinseco rispetto all’atto stesso e alle persone che lo compiono o lo subiscono.

Questo argomentare (che ho ancora sentito condividere con lucidità pochi anni addietro) si mosse di astrazione in astrazione, di riduzione in riduzione, di semplificazione in semplificazione, e per stare alla nostra materia condusse a considerare il reato non come fatto gravemente lesivo della comunione di vita fra gli uomini (al quale lo riconducono come violazione dell’ordine naturale il pensiero classico e la scolastica) ma come una mera giustapposizione di un comportamento definito dalla legge reato e della privazione di un bene della vita, applicata al suo autore dallo Stato.

Vi giungono prima gli Stati ove la teologia riformata aveva separato il giudizio individuale dal bene oggettivo, rimettendolo al decreto di predestinazione. Gli altri Stati seguirono anche se con qualche resistenza di pensiero.

Ma anche nei primi trent’anni del Novecento, l’autore della “Teoria pura del diritto (di nuovo “puro” sta per astratto, per matematizzato) non si fa problema di affermare che la formula normativa “se A, allora B” permette allo Stato di vietare e ordinare lo stesso comportamento senza che ciò turbi l’ordinamento giuridico[9].

A tale successione di teorie del diritto e delle pene affianchiamo con la mente il processo storico europeo, con l’organizzazione degli stati nazionali, e vediamo così che all’accentramento dei poteri (soprattutto legislativi) nella persona del Sovrano, segue con l’adozione della forma repubblicana, una ulteriore astrazione (popolo sovrano, volontà generale, rappresentanza senza vincolo di mandato).

Poco dopo, lo Stato sarà considerato da Hegel ipostasi dello spirito assoluto, in cui resta assorbita ogni individualità e differenza: “Nel concepire lo Stato, non si deve pensare a stati particolari, né a particolari istituzioni, ma si deve contemplare l’idea, Dio come realtà sulla terra”[10].

Coerente, allora, la negazione della presenza della vittima o della parte offesa nella pretesa punitiva e ancora di più nell’esecuzione penale. Gli assetti immanenti a questa teoria si vedono principalmente negli Stati del continente europeo.

Le Costituzioni formali, che pure non si spingono alla divinizzazione dello Stato, non hanno però la forza concettuale di fermare l’assorbimento nella volontà generale dell’intera vita. Esse alzano argini ma non possono purificare gli intenti.

Le numerose guarentigie indicate ad esempio nella nostra Costituzione sono certo validi accorgimenti, ma già i compiti di mutamento sociale che la Repubblica si è assegnata costituiscono la giustificazione remota per costituire in capo e sul capo dei singoli uomini obblighi e doveri indefiniti.

Il conflitto filosofico intorno al significato del celebrato articolo 2 che la scuola giusnaturalista del tempo vide come un proprio trionfo credo possa esemplificare le mie ragioni.

E se consideriamo l’agitazione che percorre il nostro popolo, viene alla mente quel che un dialogo minore di Platone, “il Menesseno”, dice proprio sulle costituzioni[11].

In fondo, una Carta scritta votata da un’assemblea è un atto di volontà: l’ordinamento la precede, la segue? Meno storicamente, la giustizia è prima abito intellettivo o abito volitivo[12]?.

4. Ho cercato dunque di porgere qualche schiarimento sulle ragioni, remote della questione: a parer mio, fino a che non si rinnovi il rapporto fra fatto e diritto, la giustizia riparativa potrà male trovare il suo luogo nello Stato.

Fuori dal continente europeo, come è stato rilevato, proprio l’assenza almeno in antico di una netta distinzione fra diritto pubblico e diritto privato, e la stessa prassi di negoziazione dell’azione penale nel procedimento statunitense, hanno lasciato la disponibilità di spazi concettuali e pratici per sperimentare la giustizia riparativa. Certamente, influì molto la tradizione anglo americana di non attribuire una generale personalità allo Stato, importante segnale se si considerano le teorie appena ricordate.

Lo “stato di eccezione” se posso usare tale formula per connotare il diritto minorile, ha permesso di porre la questione e di fare sperimentazione anche in Italia.

La necessità che il male che causa il reato alle persone “uti singuli” ma anche “uti cives” sia preso in considerazione è certamente nutrita dalla popolazione, seppure essa appaia talora mossa da sentimenti di vendetta.

La difficile risposta attraverso la via giurisdizionale a tale bisogno è oggetto di discussione quotidiana.

Entro quella discussione, credo che la riconsiderazione delle premesse seicentesche della giustificazione della norma vada posta come esigenza intellettuale necessaria per realizzare e diffondere la giustizia riparativa.

 

Note

[1] A tale incarico è unito ope legis quello di direttore della Scuola superiore dell’esecuzione penale. Seppure incardinata nell’Amministrazione penitenziaria, la Direzione generale della formazione cura la formazione del personale dei ruoli della giustizia minorile e di comunità.

[2] Secondo un consueto costume, non sono previste remunerazioni da parte del Ministero e non è neppure stabilito quale organo debba curare la segreteria dei lavori: su tale legiferazione è più elegante astenersi dal giudizio.

[3] E. Cassirer, Il Mito dello Stato, Milano, 2010, p. 146.

[4]  A. V. Migliorini, Diplomazia e cultura nel Settecento, Pisa, 1984.

[5] L. de Bonald, Observations sur l’ouvrage de M.me la Baronne de Stael, in La costituzione come esistenza, a cura di T. Klitecshe de la Grange, Roma, 1985.

[6] Novalis, La Cristianità ossia l’Europa, Milano, 1991.

[7] Thomas Hobbes, Elementorum philosophiae, Sectio III, De Cive, capp. XII-XIII: “XII. If now to this naturall proclivity of men, to hurt each other, which they derive from their Passions, but chiefly from a vain esteeme of themselves: You adde, the right of all to all, wherewith one by right invades, the other by right resists, and whence arise perpetuall jealousies and suspicions on all hands, and how hard a thing it is to provide against an enemy invading us, with an intention to oppresse, and ruine, though he come with a small Number, and no great Provision; it cannot be deny’d but that the naturall state of men, before they entr’d into Society, was a meer War, and that not simply, but a War of all men, against all men; for what is WAR, but that same time in which the will of contesting by force, is fully declar’d either by Words, or Deeds? The time remaining, is termed PEACE. XIII. But it is easily judg’d how disagreeable a thing to the preservation either of Man−kind, or of each single Man, a perpetuall War is: But it is perpetuall in its own nature, because in regard of the equality of those that strive, it cannot be ended by Victory; for in this state the Conquerour is subject to so much danger, as it were to be accounted a Miracle, if any, even the most strong should close up his life with many years, and old age. They of America are Examples hereof, even in this present Age: Other Nations have been in former Ages, which now indeed are become Civill, and Flourishing, but were then few, fierce, short−lived, poor, nasty, and destroy’d of all that Pleasure, and Beauty of life, which Peace and Society are wont to bring with them. Whosoever therefore holds, that it had been best to have continued in that state in which all things were lawfull for all men, he contradicts himself; for every man, by naturall necessity desires that which is good for him: nor is there any that esteemes a war of all against all, which necessarily adheres to such a State, to be good for him. And so it happens that through feare of each other we think it fit to rid our selves of this condition, and to get some fellowes; that if there needs must be war, it may not yet be against all men, nor without some helps”.

[8] E. Cassirer, Il Mito dello Stato, cit, p. 188. Tale affermazione va forse un poco limitata quanto al carattere astorico perché l’esperienza dei conflitti tribali o anche europei al di là delle amity lines cui fa cenno Hobbes nel capitolo XIII del De cive col riferimento alle Americhe, era un fatto concreto e recente (cfr. n. 5).

[9] Devo questo rilievo al compianto professor Francesco d’Agostino, ma non ho saputo ritrovare il luogo ove egli fa questa nota.

[10] F. W. Hegel, Filosofia del diritto, §258.

[11] Platone, Menesseno, 237 C:”E’ infatti la costituzione dello Stato che forma gli uomini, buoni se essa è buona, malvagia in caso contrario”, in Platone, Tutti gli scritti, Rusconi, Milano, 1992, p. 1044.

[12] Danilo Castellano, Il concetto di persona umana negli atti dell’Assemblea costituente e l’impossibile fondazione del politico, in “Diritto e società”, Padova, 1994.

 

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Il dibattito è disponibile al link Un’idea diversa della pena. La giustizia secondo De André nelle parole di uno scrittore e nei suoni della chitarra (26.10.2023) (radioradicale.it)