La Commissione, al fine di offrire al C.D.C. alcuni spunti di riflessione, procede ad una
disamina dei punti maggiormente significativi del disegno di legge esitato dal Consiglio dei Ministri in data 13 febbraio 2020.
Si reputa opportuno procedere per sintesi, attraverso la disamina degli articoli del testo
normativo.
Occorre, infatti, premettere che il disegno di legge governativo in esame si compone di 18
articoli, ripartiti in 4 Capi, e reca una delega al Governo per la modifica del codice di
procedura penale, del codice penale e della collegata legislazione speciale, nonché per la
revisione del regime sanzionatorio delle contravvenzioni.
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Lʹarticolo 1, al comma 1, stabilisce che, entro un anno dalla data di entrata in vigore della
legge di delega, il Governo deve adottare uno o più decreti legislativi di riforma, novellando
il codice di procedura penale, il codice penale e le leggi speciali e rivedendo il regime
sanzionatorio delle contravvenzioni, nel rispetto delle garanzie difensive e dei principi e
criteri direttivi previsti dagli articoli del disegno di legge in relazione alle diverse materie di
intervento.
Il comma 2 definisce, invece, la procedura per lʹattuazione della delega.
Il comma 3 delega il Governo ad adottare, nei termini e con la procedura di cui ai commi 1
e 2, uno o più decreti legislativi recanti le norme di attuazione delle disposizioni adottate ai
sensi del comma 1 e di coordinamento tra le stesse e le altre leggi dello Stato.
Il comma 4 contiene la delega per eventuali disposizioni integrative e correttive della
riforma.
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L’art. 2 è dedicato alle disposizioni per l’efficienza dei procedimenti penali ed in materia di
notificazioni.
L’articolato contiene espressa valorizzazione del ricorso agli strumenti informatici per il
deposito di atti, memorie e documenti, inserendo importanti modifiche al sistema delle
notificazioni, specie quelle nei confronti di imputato non detenuto. La normativa
emergenziale connessa alla pandemia Covid – 19, ad avviso della Commissione, ha
confermato la possibilità di adoperare lo strumento informatico senza lesione dei diritti di
difesa proprio nel settore su cui il Legislatore intenderebbe intervenire.
Nella costruzione del disegno di legge, centrale appare la lettera L): “prevedere che tutte le
notificazioni all’imputato non detenuto successive alla prima siano eseguite mediante consegna al difensore; estendere a tali casi la possibilità di eseguire le notificazioni con modalità telematiche, anche mediante soluzioni tecnologiche diverse dalla posta elettronica certificata che diano garanzia dell’avvenuta ricezione; al di fuori dei casi previsti dagli articoli 161 e 162 del codice di procedura penale, prevedere opportune deroghe alla notificazione degli atti mediante consegna di copia al difensore, a garanzia dell’effettiva conoscenza 10 dell’atto da parte dell’imputato, nel caso in cui questi sia assistito da un difensore d’ufficio e la prima notificazione non sia stata eseguita mediante consegna
dell’atto personalmente all’imputato o a persona che con lui conviva anche temporaneamente o al portiere o a chi ne fa le veci”.
Viene rimarcata la centralità del Difensore, inteso come soggetto giuridico destinatario di
comunicazioni e notificazioni, con annessi oneri di comunicazione e responsabilità
deontologiche e contrattuali. Si esalta il principio della conoscenza legale, fondata sulla base di notifiche regolari.
Tale impostazione appare alla Commissione oltremodo condivisibile, atteso che coordina il
sistema delle notificazioni con le esigenze di speditezza e celerità del procedimento, senza
sacrificare il diritto dell’indagato/imputato alla conoscenza degli atti. Al contempo, è un
riconoscimento della figura e della professionalità del difensore e, quindi, della centralità
del suo ruolo nel procedimento penale.
A tal fine appare fondamentale anche la disposizione della successiva lettera M): “prevedere che il primo atto notificato all’imputato contenga anche l’espresso avviso che le successive notificazioni saranno effettuate mediante consegna al difensore, anche con modalità telematiche, e che l’imputato abbia l’onere di indicare al difensore un recapito idoneo ove effettuare le comunicazioni e di comunicargli ogni mutamento dello stesso”.
La norma appare, tuttavia, lacunosa per quanto concerne la difesa d’ufficio, spesso riservata a soggetti privi di risorse economiche quando non a cittadini extracomunitari assolutamente inermi di fronte al sistema processuale. In merito alla criticità di simili situazioni è, al riguardo, sufficiente richiamare gli insegnamenti delle Sezioni Unite della Suprema Corte, con la sentenza n. 23948 del 28/11/2019, dep. il 17/8/2020. Occorrerebbe, pertanto, ad avviso della Commissione, prevedere un meccanismo in relazione al quale, al di fuori dei casi previsti dagli artt. 161 e 162 C. p. p., all’imputato difeso d’ufficio vada operata, quanto meno, una notifica con i medesimi contenuti (avvisi) previsti per l’imputato che sia difeso di fiducia (e di cui alla lettera m).
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Art. 3. Indagini preliminari e udienza preliminare
La lettera A) contiene una precisa indicazione per gli Uffici del Pubblico Ministero e sulle
regole di giudizio da seguire in merito alla presentazione della richiesta di archiviazione.
Si legge, infatti, “modificare la regola di giudizio per la presentazione della richiesta di archiviazione, ai sensi dell’art. 125 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, prevedendo che il pubblico ministero chieda l’archiviazione quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari risultano insufficienti o contraddittori o comunque non consentono una ragionevole previsione di accoglimento nella prospettazione accusatoria nel giudizio”.
Reputa la Commissione che, quella proposta, sia una condivisibile sfida all’Ufficio del Pubblico Ministero, chiamato a confrontarsi, ancora di più, con la necessità della completezza delle indagini, mediante la formulazione di un‘imputazione che sia capace di sostenersi in abbreviato, tralasciando l’idea di poter colmare eventuali lacune investigative nella successiva fase dibattimentale.
Il pieno inserimento nella giurisdizione che permea lo statuto costituzionale dell’Ufficio del
Pubblico Ministero nel sistema processuale rende quella proposta una sfida che i Pubblici
Ministeri Italiani, sempre più professionalmente attrezzati, non solo sono in grado di accettare ma di vincere.
Assolutamente condivisibile appare, poi, la disposizione di cui alla lettera B), volta ad
“escludere l’obbligo di notificazione della richiesta di archiviazione, di cui all’art. 408, comma 2, del codice di procedura penale, alla persona offesa che abbia rimesso la querela”.
Trattasi, difatti, per i reati procedibili a querela, di una notifica assolutamente inutile nei
confronti della persona offesa che ha già espressamente manifestato la propria volontà di
rinuncia all’azione penale.
Importante, poi, è la disposizione di cui alla lettera C), diretta a “modificare i termini di durata delle indagini preliminari, di cui all’art. 405 del codice di procedura penale, in relazione alla gravità dei reati, nelle seguenti misure:
1. sei mesi dalla data in cui il nome della persona alla quale il reato è attribuito è iscritto nel registro delle notizie di reato, per i reati puniti con la sola pena pecuniaria o con la pena detentiva non superiore nel massimo a tre anni, sola o congiunta alla pena pecuniaria;
2. un anno e sei mesi dalla data indicata al numero 1), quando si procede per taluno dei delitti indicati nell’art. 407, comma 2, del codice di procedura penale;
3. un anno dalla data indicata al numero 1) in tutti gli altri casi”
La disposizione comporta una diversità di gradazione della durata dei termini d’indagine
con riferimento alla gravità dei reati in contestazione. Il punto 3 estende ad un anno la
durata per i reati cd. intermedi, in relazione ai quali il Pubblico Ministero potrà operare,
nell’assoluta assenza di discovery, per un periodo doppio rispetto alla vigente disciplina.
Tale disposizione si lega alla successiva lettera D), volta a “prevedere che il pubblico ministero possa chiedere al giudice la proroga del termine di cui all’art. 405 del codice di procedura penale una sola volta, prima della scadenza di tale termine, per un tempo non superiore a sei mesi”.
La delega governativa ha come punto di riferimento la durata massima delle indagini
preliminari per i cd, reati minori, i cui termini non possono sforare i dodici mesi dalla data
di iscrizione del nominativo dell’indagato nel registro ex art. 335 c.p.p.
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Occorre operare alcune riflessioni sul disposto della successiva lettera E), così formulato:
“prevedere che il pubblico ministero, se, entro tre mesi dalla scadenza del termine di durata massima delle indagini preliminari o entro i diversi termini di sei e di dodici mesi dalla stessa scadenza nei casi, rispettivamente, di cui all’art. 407, comma 2, lettera b), e comma 2 lettera a), numeri 1), 3) e 4) del codice di procedura penale, non ha notificato l’avviso della conclusione delle indagini preliminari previsto dall’art. 415‐bis del codice di procedura penale o non ha richiesto l’archiviazione, notifichi senza ritardo alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa dal reato, la quale nella notizia di reato o successivamente alla sua presentazione abbia dichiarato di volerne essere informata, l’avviso del deposito della documentazione relativa alle indagini espletate presso la segreteria del pubblico ministero e della facoltà della persona sottoposta alle indagini e del suo difensore nonché della persona offesa dal reato di prenderne visione ed estrarne copia; prevedere che la notifica del predetto avviso possa essere ritardata, per un limitato periodo di tempo e con provvedimento motivato, nei procedimenti di cui all’art. 407, comma 2, lettera a), numeri 1), 3) e 4) del codice di procedura penale”.
Osserva la Commissione che, in tal modo, si impone una discovery obbligatoria prima
dell’esercizio dell’azione penale, senza tenere conto del fatto che i tempi per la definizione
del procedimento, specie di quelli complessi, non sono governati interamente dall’Ufficio
del Pubblico Ministero ma dipendono da variabili difficilmente inquadrabili in rigidi schemi
temporali: si pensi al tempo necessario alla Polizia Giudiziaria per redigere una completa,
esaustiva ed analitica comunicazione di notizia di reato.
Si pensi all’esigenza della P. G. di riepilogare le risultanze di svariati progressivi di
conversazioni/comunicazioni oggetto di intercettazione, spesso da leggere congiuntamente
al contenuto di dati dichiarativi e dei connessi elementi di conferma – tipica dei
procedimenti per i gravi delitti di cui all’art. 51 comma 3 bis C. p. p. –. Si pensi, ancora, alle complesse investigazioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione od a quelli propri del diritto penale dell’economia, che richiedono complessi accertamenti e l’esame di elevata mole di documenti, specie di natura tecnico‐ contabile. Gli esempi potrebbero proseguire.
Né, infine, ma non certo quale ultimo argomento, si può omettere di considerare il tempo
necessario all’ufficio del Giudice per le indagini preliminari per assumere le proprie
determinazioni in ipotesi di complesse richieste di misure cautelari.
Assolutamente da respingere appare, poi, la previsione di cui alla successiva lettera f):
“prevedere che la violazione delle prescrizioni di cui alla lettera e) da parte del pubblico ministero costituisca illecito disciplinare quando il fatto è dovuto a negligenza inescusabile”.
Lungi dall’individuare sanzioni processuali, il legislatore introduce il tema della
responsabilità disciplinare legato al parametro della negligenza inescusabile, lasciando
esposti i pubblici ministeri di fronte ad evenienze spesso difficilmente controllabili, quali
l’organizzazione degli uffici, la carenza di personale, le scoperture di organico ed imponendo all’incolpato in sede disciplinare l’ulteriore onere di dimostrare che l’omissione
o il ritardo derivino da fattori a lui non imputabili, con il conseguente effetto di affrettare
conclusioni di indagini con pregiudizio dei diritti sia dell’indagato che della persona offesa.
Palesi criticità presenta, ancora, la disposizione di cui alla lettera h), diretta a “prevedere che gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre; prevedere che nell’elaborazione dei criteri di priorità il procuratore della Repubblica curi in ogni caso l’interlocuzione con il procuratore generale presso la corte d’appello e con il presidente del tribunale e tenga conto della specifica realtà criminale e territoriale, delle risorse tecnologiche, umane
e finanziarie disponibili e delle indicazioni condivise nella conferenza distrettuale dei dirigenti degli uffici requirenti e giudicanti”.
L’obiezione che si intende muovere, sul piano tecnico, è quella di demandare ai Capi degli
Uffici non tanto scelte discrezionali che incidono sull’organizzazione del lavoro degli Uffici
ma scelte di politica criminale, che non possono che essere riservate esclusivamente alla
legge, nel rispetto del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale ed anche al fine di non
correre il rischio di opzioni disomogenee sul territorio nazionale.
Risponde, invece, ad una logica deflattiva o comunque di alleggerimento del contenzioso
pendente avanti ai Tribunali, la previsione di cui alla lettera i), diretta a modificare la regola
di giudizio dell’art. 425, comma 3, del codice di procedura penale al fine di escludere il rinvio a giudizio nei casi in cui gli elementi acquisiti risultano insufficienti o contraddittori o comunque non consentano una ragionevole previsione di accoglimento della prospettazione accusatoria nel giudizio”.
Lo scopo dichiarato della norma è quello di imporre un vaglio assolutamente più pregnante
del materiale probatorio offerto dalla Pubblica accusa, al fine di evitare imputazioni affidate
ad un incerto ed imprevedibile sviluppo dibattimentale. È utile, al riguardo, evidenziare
come la prevalente interpretazione giurisprudenziale dei poteri del G. U. P. di cui all’art. 425
C. p. p. impedisca di procedere a valutazioni di merito del materiale probatorio, essendogli
pressoché inibito il proscioglimento in tutti i casi in cui le fonti di prova si prestino a
soluzioni alternative e aperte o, comunque, ad essere diversamente rivalutate. L’intervento
preconizzato nel disegno di legge, consentendo di intervenire proprio sul versante sopra
indicato, permetterebbe di restituire all’udienza preliminare la centralità a fini deflattivi che
era prevista nell’ottica del c. d. nuovo codice di procedura penale.
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Non condivisibile appare, poi, il disposto di cui alla lettera L), volto a: prevedere che il giudice, su istanza dell’interessato, fino a che le parti non abbiano formulato le conclusioni nell’udienza preliminare o, se questa manchi, subito dopo il compimento per la prima volta delle formalità di accertamento della costituzione delle parti in giudizio, accerti la data di effettiva acquisizione della notizia di reato, ai fini della valutazione di inutilizzabilità degli atti di indagini compiuti dopo la scadenza del termine di durata massima delle indagini preliminari; prevedere a pena di inammissibilità l’onere, a carico dell’interessato, che chiede l’accertamento della data di effettiva acquisizione della notizia di reato, di indicare specificamente le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono la richiesta”.
Si introduce, in tal modo, un sindacato del Giudice sulla tempistica dell’iscrizione del
nominativo dell’indagato nel registro ex art. 335 c. p. p., a cui il Pubblico Ministro dovrà
provvedere immediatamente, ma solo dopo che si delinei un quadro indiziario tale da
consentire l’individuazione dell’indagato e non basato su meri sospetti, in un’ottica
interpretativa cristallizzata dalla giurisprudenza. Vale appena il caso ricordare che, secondo
l’indirizzo prevalente, “l’omessa annotazione della notitia criminis nel registro previsto dall’art. 335 c.p.p. (…) non determina l’inutilizzabilità degli atti di indagini compiuti sino al momento dell’effettiva iscrizione, poiché, in tal caso, il termine di durata massima delle indagini preliminari, previsto dall’art. 407 c.p.p., al cui scadere consegue l’inutilizzabilità degli atti di indagine successivi, decorre per l’indagato dalla data in cui il nome è effettivamente iscritto nel registro delle notizie, e non dalla presunta data nella quale il Pubblico Ministero avrebbe dovuto iscrivere. L’apprezzamento della tempestività dell’iscrizione, il cui obbligo nasce solo ove a carico di una persona emerga l’esistenza di specifici elementi indizianti e non meri sospetti, rientra nell’esclusiva valutazione discrezionale del pubblico ministero ed è sottratto, in ordine all’an e al quando, al sindacato del giudice, ferma restando la configurabilità di ipotesi di responsabilità disciplinari o addirittura penali nei confronti del Pubblico Ministero negligente” (cfr. Cass. pen., ss.uu., Sent. n. 16/2000, Tammaro). Non bisogna, infine, dimenticare infatti che già l’enunciato dell’art. 335 c.p.p. evoca l’incombente dell’iscrizione nel registro in termini di rigorosa doverosità, nel senso di riconnettere in capo al Pubblico Ministero uno specifico obbligo giuridico (Sent. n. 40583/2009, Lattanzi e Cass. pen., Sez. VI, sent. n. 2261/2009, Martino).
Non appare, quindi, casuale, che, in ottemperanza agli esposti principi, Cass., Sez. 6, n. 4844 del 14/11/2018‐30/1/2019, Rv. 275046 – 01, fra altre, ricorda che Il termine di durata delle indagini preliminari decorre dalla data in cui il pubblico ministero ha iscritto, nel registro delle notizie di reato, il nome della persona cui il reato è attribuito, senza che al giudice per le indagini preliminari sia consentito stabilire una diversa decorrenza, sicché gli eventuali ritardi indebiti nella iscrizione, tanto della notizia di reato che del nome della persona cui il reato è attribuito, pur se abnormi, sono privi di conseguenze agli effetti di quanto previsto dallʹart. 407, comma 3, cod. proc. pen., fermi restando gli eventuali profili di responsabilità disciplinare o penale del magistrato del pubblico ministero che abbia ritardato lʹiscrizione)
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L’art. 4 del disegno di legge è dedicato ai procedimenti speciali.
Non appare condivisibile il ricorso al cosiddetto patteggiamento iperallargato, con annesse
preclusioni di cui alle lettere a.1 e a.2:
1. Lettera a. 1: “aumentare a otto anni di reclusione, sola o congiunta a pena pecuniaria, il limite della pena applicabile su richiesta delle parti a norma dell’art. 444, comma 1, del codice di procedura penale”.
2. Lettera a. 2 “ampliare il novero delle preclusioni di cui all’art. 444, comma 1‐bis, del codice di procedura penale, al fine di escludere l’ammissibilità del rito, quando l’accordo ha ad oggetto l’applicazione di una pena superiore a cinque anni di reclusione, nei procedimenti per i delitti di cui ai seguenti articoli del codice penale: 422; 558‐bis; 572; 575; 578, secondo comma; 579, terzo comma; 580, secondo comma; 582 e 583‐ quinquies, nelle ipotesi in cui ricorre taluna delle aggravanti di cui agli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1., e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, 609‐quinquies; 612‐bis; 612‐ter”
È utile evidenziare che, nella prassi, il patteggiamento allargato di cui al novellato art. 444 C.p.p. ha sortito non rilevanti effetti deflattivi (posto che risultano numericamente esigui i
casi in cui l’imputato sia disposto all’applicazione di una pena concordata quando non sia
legata alla concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, o alla
prospettiva di poter godere dei benefici penitenziari).
Si segnala, inoltre, che il regime delle preclusioni di cui alla lettera a.2. si caratterizza per un’eterogeneità di disvalore penale delle fattispecie elencate che merita diversa ponderazione, anche sistematica.
La lettera b. si sofferma, invece, sul giudizio abbreviato c. d. condizionato.
È noto come, fra i procedimenti speciali, proprio il giudizio abbreviato abbia conseguito i
maggiori risultati in termini deflattivi.
La norma che si intende introdurre prevede un parametro di valutazione sicuramente
condivisibile nella segnalata ottica deflattiva ed acceleratoria dei tempi di definizione dei
procedimenti penali. Si inserisce, infatti, accanto al presupposto della compatibilità della
scelta con le finalità di economia processuale proprie del rito, un ulteriore raccordo legato
ai tempi di svolgimento del giudizio dibattimentale, del quale il giudice dovrà
necessariamente tener conto: “In materia di giudizio abbreviato, modificare le condizioni per l’accoglimento della richiesta di giudizio abbreviato subordinata a un’integrazione probatoria, ai sensi dell’articolo 438, comma 5, del codice di procedura penale, prevedendo l’ammissione del giudizio abbreviato se l’integrazione risulta necessaria ai fini della decisione e se il procedimento speciale produce un’economia processuale in rapporto ai tempi di svolgimento del giudizio dibattimentale”
Ne discende che l’allargamento della piattaforma probatoria richiesta deve ispirarsi a
ragioni di indefettibilità e non meramente ripetitive di elementi di prova già presenti in atti
(in ossequio, peraltro, alla corrente interpretazione giurisprudenziale in ordine alla
disposizione di cui all’art. 438, comma 5, c. p. p, che vuole la prova cui si subordina la
richiesta di rito non solo necessaria ai fini della decisione ma anche non sostitutiva e
realmente integrativa della re giudicanda), dovendo presentare un carattere di novità da
valutarsi in base alle risultanze probatorie offerte in valutazione al Giudice, che agevolmente potrebbe vagliare istanza di definizione con il rito allo stato degli atti ad
esempio nel caso di escussione di un testimone o per altre prove di facile acquisizione).
Condivisibili appaiono le disposizioni di cui alle lettere c.1 e c.2: Lettera c.1: “prevedere che, a seguito di notificazione del decreto di giudizio immediato, nel caso di rigetto da parte del giudice delle indagini preliminari della richiesta di giudizio abbreviato subordinata a un’integrazione probatoria, l’imputato possa proporre la richiesta di giudizio abbreviato di cui all’articolo 438, comma 1, del codice di procedura penale oppure la richiesta di applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale”.
Lettera c.2: “prevedere che, a seguito di notificazione del decreto di giudizio immediato, nel caso di dissenso del pubblico ministero o di rigetto da parte del giudice delle indagini preliminari della richiesta di applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale, l’imputato possa proporre la richiesta di giudizio abbreviato”.
Tali disposizioni ampliano la possibilità di accesso ai riti speciali, qualora, in caso di
emissione del decreto di giudizio immediato, vi sia il rigetto, da parte del giudice, della
richiesta di procedere a giudizio abbreviato condizionato o non vi sia il consenso del
pubblico ministero ad una richiesta di pena concordata. In tali ipotesi è fatta salva la
possibilità dell’imputato di accedere al giudizio abbreviato cd. “secco” (è utile, al riguardo,
rammentare, come già la giurisprudenza offra aperture nel senso indicato dal disegno di
legge; si pensi all’insegnamento di Cass., Sez. 1 , sentenza n. 21439 del 3/4/2019, dep.
16/5/2019, Rv. 275812 – 01, secondo cui, In tema di giudizio immediato, qualora lʹimputato abbia tempestivamente richiesto il rito abbreviato condizionato e lʹistanza sia stata respinta dal giudice per le indagini preliminari, non può considerarsi tardiva e, dunque, inammissibile, la proposizione della richiesta di rito abbreviato semplice formulata allʹudienza camerale di cui allʹart. 458, comma 2, cod. proc. pen., non ostandovi lʹart. 438, comma 5‐bis, cod, proc. pen., introdotto dalla legge 23 giugno 2017, n. 103, il quale – nel prevedere che, con la richiesta di rito abbreviato condizionato può essere proposta, subordinatamente al suo rigetto, quella di rito abbreviato semplice o di patteggiamento –
introduce una mera facoltà e non lʹobbligo di proposizione della richiesta subordinata
contestualmente a quella principale).
Sempre in un’ottica deflattiva, appare condivisibile la previsione contenuta nella lettera d.1.:
“prevedere chela richiesta di decreto penale di condanna possa essere formulata dal pubblico ministero entro il termine di un anno dall’iscrizione ai sensi dell’articolo 335 del codice di procedura penale”.
L’ampliamento del termine affinché il pubblico ministero invochi l’emissione del decreto
penale di condanna appare certamente ragionevole e si tratta di innovazione che
consentirebbe di superare orientamenti giurisprudenziali forse troppo formalistici.
Parimenti condivisibile è la previsione di cui alla lettera d.2 (“stabilire che, nei casi previsti
dall’articolo 460, comma 5, del codice di procedura penale, ai fini dell’estinzione del reato sia necessario il pagamento della pena pecuniaria”). L’art. 460, comma 5, c. p. p., nella sua attuale formulazione, condiziona l’effetto estintivo del reato, giudicato con decreto penale di
condanna, al decorso di un termine (anni cinque ovvero anni due, in caso, rispettivamente,
di delitto o contravvenzione) dalla esecutività del decreto penale, senza che il condannato
commetta “un delitto ovvero una contravvenzione della stessa indole”. La previsione in esame si preoccupa, quindi, di evitare che si realizzi l’estinzione del reato quando il destinatario non abbia provveduto al pagamento della pena pecuniaria irrogata con il decreto.
Sulla stessa linea, in una logica, da un lato, di premialità, dall’altro di effettività della
sanzione penale, è la condivisibile previsione di cui alla lettera d.3 che prevede di ʺassegnare un termine di dieci giorni, decorrenti dalla notificazione del decreto penale di condanna, entro il quale il condannato, rinunciando a proporre opposizione, possa pagare la pena pecuniaria in misura ridotta di un quinto”.
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L’art. 5 del disegno di legge si occupa della fase del Giudizio.
La lettera a) prevede l’obbligo di una calendarizzazione dell’attività d’udienza: “prevedere
che, quando non è possibile esaurire il dibattimento in una sola udienza, dopo la lettura dell’ordinanza con cui provvede all’ammissione delle prove il giudice comunichi alle parti il calendario delle udienze per l’istruzione dibattimentale e per lo svolgimento della discussione”.
La norma appare, in linea di massima condivisibile, in quanto consente al giudice ed alle
parti una programmazione dell’attività dibattimentale. Appare, però, necessario che essa
abbia un carattere fluido, in ragione delle possibili ed imprevedibili esigenze che possono
presentarsi nel corso del dibattimento e che costituiscono approdo cognitivo comune di ogni
operatore del diritto impegnato in un giudizio ordinario: è sufficiente pensare, ad esempio,
all’assenza del/i testimone/i (o ad altro evento che possa riguardare, ad esempio, l’ufficio o
il magistrato o un impedimento difensivo) per cogliere come ogni calendarizzazione delle
attività processuali possa essere minata.
In qualche modo contraddittoria rispetto alle finalità di cui alla lettera A), per contro, appare la reintroduzione della esposizione introduttiva delle parti sulle richieste di prova, di cui alla successiva lettera b) (“prevedere, dopo la dichiarazione di apertura del dibattimento, la relazione illustrativa delle parti sulla richiesta di prove”). Tale novella, ad avviso della Commissione, rappresenta un inutile appesantimento dell’attività dibattimentale, peraltro in contrasto con le finalità di adeguamento all’art. 11 Cost. che avevano portato alla sua abrogazione, dovendosi, invece, puntare, in linea con le recenti tendenze giurisprudenziali, ad una valorizzazione del disposto dell’art. 468 C. p. p., con specifica indicazione in lista delle circostanze sulle quali deve vertere l’esame dei testi richiesti, evitando vuote formule di stile.
Assolutamente condivisibile appare, invece, quanto previsto alla lettera c), ovvero
“prevedere che la rinunzia di una parte all’assunzione delle prove ammesse a sua richiesta non sia condizionata al consenso delle altre parti”, in armonia con il principio dispositivo della prova a cura della parte che l’ha richiesta.
Analogo favore incontra la disposizione di cui alla lettera d), volta a “prevedere il deposito
delle consulenze tecniche e della perizia entro un termine congruo precedente l’udienza fissata per l’esame del consulente o del perito, ferma restando la disciplina delle letture e dell’indicazione degli atti utilizzabili ai fini della decisione”.
La novella, a fronte del disposto dell’art. 511 C. p. p., che subordina l’acquisizione
dell’elaborato al previo esame del consulente o del perito, introduce la possibilità del
deposito della consulenza e/o perizia prima dell’esame, introducendo un termine per il
deposito della relazione, in modo da favorire, nell’ottica dell’esame incrociato, una migliore
conoscenza in capo alle parti dei contributi tecnici. Si pensi, ad esempio, all’utilità della
prospettata disposizione in procedimenti sovente incentrati sull’esito di consulenze/perizie,
come, ad esempio, in materia di reati colposi.
Importantissima, e di assoluta rilevanza, poi, appare la disposizione della lettera e):
“prevedere che la regola di cui all’articolo 190‐bis, comma 1, del codice di procedura penale sia estesa, nei procedimenti di competenza del tribunale, anche ai casi nei quali, a seguito del mutamento della persona fisica di uno dei componenti del collegio, è richiesto l’esame di un testimone o di una delle persone indicate nell’articolo 210 del codice di procedura penale e queste hanno già reso dichiarazioni nel dibattimento svolto innanzi al collegio diversamente composto, nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate”.
Tale previsione, incomprensibilmente limitata al Tribunale (anche in composizione monocratica) ma evidentemente da estendere ad ogni organo giudicante di natura collegiale (Corte di Assise o Corti di Appello, in caso di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale), si inserisce in una breccia già aperta dalla Corte Costituzionale (vd. sentenza 20.5.2019 n. 132). La Corte costituzionale ha ritenuto incongrua l’attuale disciplina, prevista dagli artt. 525, comma 2, 526, comma 1, e 511 C. p. p., per come interpretata dal diritto vivente, secondo cui dal combinato disposto delle predette norme «deriva l’obbligo, per il giudice del dibattimento, di ripetere l’assunzione della prova dichiarativa ogni qualvolta muti la composizione del collegio giudicante, laddove le parti processuali non acconsentano alla lettura delle dichiarazioni rese dai testimoni innanzi al precedente organo giudicante». La Consulta, pur riconoscendo la correlazione fra principio di immediatezza e quello di oralità e l’importanza della “diretta percezione” da parte del giudice che decide, ha sollecitato il legislatore ad adottare “rimedi strutturali” sulla base di una costatazione circa il rischio che la realtà delle aule di Giustizia tramuti il principio di immediatezza in mero “simulacro”.
La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con sentenza 30.5.2019, n. 41736 del 30/5/2019, dep. 10/10/2019, Bajrami, ha da un lato affermato il principio in base al quale l’eventuale
mutamento della persona fisica del giudice o di uno dei componenti del collegio facoltizza
le parti a chiedere sia prove nuove sia la rinnovazione di quelle assunte dal giudice diversamente composto, con obbligo, tuttavia, di indicare le ragioni che impongano tale
rinnovazione, mantenendo per il giudice la possibilità di una valutazione anche sulla non
manifesta superfluità della innovazione stessa. Il Disegno di legge in esame si pone in scia
con le citate aperture giurisprudenziali, attuando un rimedio che valorizza l’impianto
probatorio legittimamente assunto in sede dibattimentale nella pienezza del contraddittorio
tra le parti.
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L’art. 6 del disegno di legge detta, poi, disposizioni sul procedimento davanti al Tribunale
in composizione monocratica.
Si ritiene di spendere alcune riflessioni sulla previsione di cui alla lettera a): nei procedimenti a citazione diretta di cui all’articolo 550 del codice di procedura penale, prevedere un’udienza innanzi al tribunale in composizione monocratica nella quale il giudice, diverso da quello davanti al quale, eventualmente, dovrà celebrarsi il giudizio, sulla base degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, pronuncia sentenza di non luogo a procedere se sussiste una causa che estingue il reato o per la quale l’azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita, se il fatto non è previsto dalla legge come reato, se risulta che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso
o che il fatto non costituisce reato o che si tratta di persona non punibile per qualsiasi causa o se gli elementi acquisiti risultano insufficienti o contraddittori o comunque non consentono, quand’anche confermati in giudizio, una ragionevole previsione di accoglimento della prospettazione accusatoria;
prevedere nella stessa udienza il termine, a pena di decadenza, per la richiesta del giudizio abbreviato o di applicazione della pena su richiesta o per la domanda di oblazione”.
Si introdurrebbe un’udienza filtro in un’ottica di alleggerimento del carico dibattimentale.
Evidente, ad avviso della commissione, appare l’utilità di una tale udienza, d’altronde già
prevista, per via tabellare, in diverse realtà territoriali e che consente non solo di adempiere a funzioni deflattive e, in ogni caso, l’esaurimento delle questioni preliminari e, quindi, adeguata programmazione della successiva attività dibattimentale.
Le pur condivisibili sottese ragioni, rischiano, tuttavia, di produrre l’effetto contrario con
ipotetico inceppamento del sistema, creando nuove cause di incompatibilità
particolarmente allarmanti nei piccoli tribunali. Le esigenze evidenziate dalla norma
potrebbero parzialmente essere soddisfatte prevedendo che sia lo stesso giudice designato
alla trattazione a provvedere, alla prima udienza, da celebrarsi con le forme di cui all’art.
127 cpp, al filtro indicato, sulla base degli atti già presenti nel fascicolo del dibattimento,
evitando qualsiasi decisione nel merito.
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L’art. 7 è dedicato al giudizio di appello.
La lettera a) prevede il conferimento da parte dell’imputato di apposita procura al difensore
per proporre gravame, rilasciata successivamente al deposito della sentenza di primo grado, mentre la lettera b) concerne la possibilità di depositare l’atto di appello anche per via telematica.
Particolare rilievo assumono le previsioni di cui alle lettere c), d) ed e), che prevedono nuovi casi di inappellabilità.
Lettera c): “prevedere l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa, salvo che per i delitti di cui agli articoli 590, secondo e terzo comma, 590‐sexies e 604‐bis, primo comma, del codice penale”.
Lettera d): “prevedere l’inappellabilità delle sentenze di condanna a pena sostituita con il lavoro di pubblica utilità”.
Lettera e): “prevedere l’inappellabilità della sentenza di non luogo a procedere nei casi di cui alla lettera c)
Le norme proposte devono essere guardate con favore, atteso che limitano le ipotesi di
gravame quando appare recessiva l’esigenza di riforma della sentenza di primo grado di
fronte ai principi di economia processuale.
Importante e finalizzata a razionalizzare un migliore dispiegarsi di risorse umane nei
giudizi di appello e, al contempo, a ridurre i tempi di definizione dei procedimenti, appare
la norma di cui alla lettera f): prevedere la competenza della corte di appello in composizione monocratica nei procedimenti a citazione diretta di cui all’art. 550 del codice di procedura penale”.
Si tratta di abbandonare il principio di collegialità della decisione, senza rinunciare alle
garanzie per l’imputato, posto che la decisione appare comunque affidata ad un giudice
togato di secondo grado, laddove il giudizio di primo grado, sovente, nella prassi, è affidato
a magistrati onorari.
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L’art. 8 è dedicato alle condizioni di procedibilità.
Condivisibile appare la previsione di cui alla lettera a), diretta a “prevedere la procedibilità a querela della persona offesa per il reato di lesioni personali stradali gravi previsto dall’articolo 590‐ bis, primo comma, del codice penale”.
La previsione della procedibilità a querela della persona offesa in relazione alreato di lesioni
personali stradali gravi (art. 590‐bis, primo comma, c. p.) risponde senz’altro ad esigenze
deflattive, agevolando la definizione transattiva del sinistro stradale attraverso il
soddisfacimento delle ragioni risarcitorie della persona offesa.
Anche la previsione di cui alla lettera b) (“prevedere l’obbligo, quanto ai reati perseguibili a
querela che con l’atto di querela sia dichiarato o eletto domicilio per le notificazioni; prevedere la possibilità di indicare, a tal fine, l’indirizzo di posta elettronica certificata”) deve essere vista con favore, rendendo più agevole e spedito il sistema delle notificazioni alla persona offesa, anche al fine di attuare la previsione di cui alla successiva lettera c) che, tuttavia, propone una soluzione cui già la giurisprudenza di merito era giunta in via interpretativa (ovvero “prevedere quale remissione tacita della querela l’ingiustificata mancata comparizione del querelante all’udienza dibattimentale alla quale sia stato citato in qualità di testimone”).
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L’art. 9 dispone in tema di ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive.
Nell’esercizio della delega di cui all’articolo 1, i decreti legislativi recanti modifiche al codice penale in materia di ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive sono adottati nel rispetto del seguente principio e criterio direttivo: rideterminare l’ammontare della pena pecuniaria per un giorno di pena detentiva in un importo non superiore a 180 euro.
La norma persegue lo scopo di rendere maggiormente accessibile la definizione dei
procedimenti mediante decreto penale di condanna, spesso oggetto di opposizione a
cagione dell’elevato importo della sanzione pecuniaria.
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L’art. 10, dedicato alla disciplina sanzionatoria delle contravvenzioni, si inserisce nell’alveo
della c. d. giustizia riparativa, prevedendo articolate forme di elisione del danno cagionato
alla persona offesa o alla collettività come strumento per giungere ad un’estinzione del
reato.
Si tratta di un modello già noto al nostro ordinamento ed applicato con successo nel sistema della normativa antinfortunistica di natura contravvenzionale.
Di seguito l’articolato:
Lettera a): “prevedere una causa di estinzione delle contravvenzioni destinata a operare nella fase delle indagini preliminari, per effetto del tempestivo adempimento di apposite prescrizioni impartite dall’organo accertatore e del pagamento di una somma di denaro determinata in una frazione del massimo dell’ammenda stabilita per la contravvenzione commessa; prevedere la possibilità della prestazione di lavoro di pubblica utilità in alternativa al pagamento della somma di denaro; prevedere la possibilità di attenuazione della pena nel caso di adempimento tardivo”;
Lettera b): “individuare le contravvenzioni per le quali consentire l’accesso alla causa di estinzione di cui alla lettera a) tra quelle suscettibili di elisione del danno o del pericolo mediante condotte ripristinatorie o risarcitorie, salvo che concorrano con delitti”;
Lettera c): “mantenere fermo l’obbligo di riferire la notizia di reato ai sensi dell’articolo 347 del codice di procedura penale”;
Lettera d): “prevedere la sospensione del procedimento penale dal momento della iscrizione della notizia di reato nel registro di cui all’articolo 335 del codice di procedura penale fino al momento in cui il pubblico ministero riceve comunicazione dell’adempimento o dell’inadempimento delle prescrizioni e del pagamento della somma di denaro di cui alla lettera a) e la fissazione di un termine massimo per la comunicazione stessa”.
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L’art. 11 concerne disposizioni in materia di controllo giurisdizionale della legittimità della
perquisizione.
Nell’esercizio della delega di cui all’articolo 1, i decreti legislativi recanti modifiche al codice di procedura penale in materia di controllo giurisdizionale della legittimità della perquisizione sono adottati nel rispetto del seguente principio e criterio direttivo: prevedere uno strumento di impugnazione del decreto di perquisizione o di convalida della perquisizione, anche quando ad essa non consegua un provvedimento di sequestro
La previsione di uno strumento di impugnazione del decreto di perquisizione o di convalida
della perquisizione nasce dall’esigenza di fornire risposta, sul piano legislativo, alla
pronuncia della Corte EDU Brazzi – Italia, con cui il nostro Stato ha riportato condanna
per violazione dell’art. 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata) in un caso
di perquisizione domiciliare disposta dal pubblico ministero, non seguita da sequestro,
ritenendo che il ricorrente non disponesse né di un controllo di legalità ex ante della misura
né di un sindacato ex post della legittimità della stessa.
La previsione normativa, tuttavia, non appare considerare il ruolo di garanzia e di terzietà
del Pubblico Ministero nella fase delle indagini preliminari e non consente all’indagato di
conseguire, in assenza di sequestro, alcun risultato pratico.
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L’art. 12 ed il successivo art. 13 hanno come riferimento i termini di durata del processo.
Art. 12
Lettera a): prevedere che i magistrati, nell’esercizio delle rispettive funzioni, adottino misure organizzative volte ad assicurare la definizione dei processi penali, ad eccezione dei processi relativi ai reati previsti dall’articolo 407, comma 2, lettera a), numeri 1), 3) e 4), e comma 2, lettera b), del codice di procedura penale, nel rispetto dei seguenti termini:
1) i termini previsti dalla legge 24 marzo 2001, n. 89, nei procedimenti per i più gravi reati contro la pubblica amministrazione e l’economia;
2) un anno per il primo grado, due anni per il secondo grado, un anno per il giudizio di legittimità, nei procedimenti per i reati di cui all’articolo 33‐ter del codice di procedura penale;
3) due anni per il primo grado, due anni per il secondo grado, un anno per il giudizio di legittimità nei procedimenti per i reati di cui all’articolo 33‐bis del codice di procedura penale;
Lettera b): prevedere che i termini di cui alla lettera a) possano essere stabiliti in misura diversa dal Consiglio superiore della magistratura, sentito il Ministro della giustizia, con cadenza biennale in relazione a ciascun ufficio, tenuto conto delle pendenze, delle sopravvenienze, della natura dei procedimenti e della loro complessità, delle risorse disponibili e degli ulteriori dati risultanti dai programmi di gestione redatti dai capi degli uffici giudiziari;
Lettera c): prevedere che il dirigente dell’ufficio sia tenuto a vigilare sul rispetto delle disposizioni adottate ai sensi della lettera a) e a segnalare all’organo titolare dell’azione disciplinare la mancata adozione delle misure organizzative, quando sia imputabile a negligenza inescusabile.
Trattasi di previsione che impone ai magistrati l’introduzione di efficaci misure
organizzative al fine di garantire, nel rispetto dell’art. 111 Cost, la ragionevole durata del
processo.
Essa, tuttavia, appare monca in quanto affida ai singoli Magistrati la responsabilità della
gestione dei tempi del processo senza tenere in considerazione la grave carenza di risorse,
umane e materiali in cui versano moltissimi Tribunali, con carenze di organico di personale
amministrativo ai limiti della paralisi e, per di più, imponendo ai Capi degli Uffici l’obbligo
della segnalazione disciplinare.
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In stretta correlazione con l’art. 12 è il successivo art. 13, disposizione dettata per la
trattazione dei giudizi di impugnazione delle sentenze di condanna.
“1. Nell’esercizio della delega di cui all’articolo 1, i decreti legislativi recanti modifiche al codice di procedura penale in materia di trattazione dei giudizi di impugnazione delle sentenze di condanna sono adottati nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi:
a) prevedere che le parti o i loro difensori possano presentare istanza di immediata definizione del processo quando siano decorsi i termini di durata dei giudizi in grado di appello e in cassazione stabiliti sensi dell’articolo 12”.
b) prevedere che il processo sia definito entro sei mesi dal deposito dell’istanza di immediata definizione di cui alla lettera a).
c) prevedere che il dirigente dell’ufficio giudiziario sia tenuto ad adottare le misure organizzative idonee a consentire la definizione nel rispetto del termine di cui alla lettera b); e) prevedere che la violazione dell’obbligo di cui alla lettera d) nonché il mancato rispetto del termine di cui alla lettera b) costituiscano illecito disciplinare, se il fatto è dovuto a negligenza inescusabile.
Si introduce nel giudizio di appello una facoltà, per la parte, assimilabile all’istanza di
prelievo avanti al Giudice Amministrativo.
Valgono le stesse considerazioni negative di cui al precedente articolo, posto che è
demandato esclusivamente ai Giudici di secondo grado far fronte alla messe di processi
pendenti avanti alle Corti di Appello, in assenza di una seria riforma del sistema delle
impugnazioni, che, per contro, si impone, qualora obiettivo sia quello di conseguire
l’effettiva riduzione dei tempi di durata dei processi.
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Da ultimo, il disegno di legge si occupa, all’art. 14, di introdurre disposizioni in materia di
sospensione della prescrizione:
1. Allʹarticolo 159 del codice penale sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al secondo comma, dopo le parole «dalla pronunzia della sentenza» sono inserite le seguenti: «di condanna»;
b) dopo il secondo comma sono inseriti i seguenti: «La prescrizione riprende il suo corso e i periodi di sospensione di cui al secondo comma sono computati ai fini del tempo necessario al maturare della prescrizione, quando la sentenza di appello proscioglie lʹimputato o annulla la sentenza di condanna nella parte relativa all’accertamento della responsabilità o ne dichiara la nullità ai sensi dellʹarticolo 604, commi 1, 4 e 5‐bis del codice di procedura penale.
Quando viene proposta impugnazione avverso la sentenza di proscioglimento e almeno uno dei reati per cui si procede si prescrive entro l’anno successivo al termine previsto dall’articolo 544 del codice di procedura penale per il deposito della motivazione, il corso della prescrizione è altresì sospeso:
1) per un periodo massimo di un anno e sei mesi dalla scadenza del termine previsto dall’articolo 544 del codice di procedura penale per il deposito della motivazione della sentenza di primo grado, anche se emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza che definisce il giudizio di appello;
2) per un periodo massimo di sei mesi dalla scadenza del termine previsto dall’articolo 544 del codice di procedura penale per il deposito della motivazione della sentenza di secondo grado, anche se emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza definitiva.
I periodi di sospensione di cui al quarto comma sono computati ai fini della determinazione del tempo necessario al maturare della prescrizione quando la sentenza che definisce il giudizio in grado d’appello, anche se emessa in sede di rinvio, conferma il proscioglimento. Se durante i termini di sospensione di cui al quarto comma si verifica un’ulteriore causa di sospensione di cui al primo comma, i termini sono prolungati per il periodo corrispondente.»
In realtà, ci si sarebbe attesa una riforma organica del sistema della prescrizione, anche se la norma introduce un correttivo importante al sistema ad oggi vigente.
Si introduce un doppio binario tra imputati condannati e imputati mandati assolti in primo
grado. Si andrebbe, dunque, incontro alla sospensione vera e propria della prescrizione in
primo grado soltanto nei casi di sentenza di condanna; in caso di assoluzione, invece, non
si applicherebbe lo stop della prescrizione, i cui termini continuerebbero a decorrere
normalmente (salvo il caso in cui la prescrizione scada entro un anno e il Pubblico Ministero
appelli il provvedimento).
Il punto critico e, per lo meno in via pratica, più complesso dell’intervento riformatore è
rappresentato dalla necessità di un rimedio per tutti quei processi nei quali la sentenza di
appello – riformando quella emessa in primo grado – mandi assolto l’imputato: in questi
casi si prevede un sistema di ricalcolo in grado di restituire a quest’ultimo il tempo di
prescrizione perduto dalla data della sentenza di condanna di primo grado a quello di
assoluzione in appello.