Parere sulla delega al Governo per l’efficienza del processo penale

La Commissione, all’esito di numerose sedute tenutesi in via telematica, ritiene di offrire al Comitato direttivo centrale dell’A.N.M. alcuni spunti di riflessione in ordine alla riforma del Processo penale, oggetto di disegno di legge AC 2435 (sul quale la Commissione in precedenza si era espressa) alla luce degli emendamenti presentati in data 14 luglio 2021 dal Sig. Ministro della Giustizia.

La Commissione ha ritenuto di procedere attraverso una disamina del disegno di legge emendato, evidenziando le ricadute pratiche della riforma sul pianeta giustizia, in virtù della concreta esperienza dei componenti della stessa.  E’ stato altresì tenuto presente il lavoro svolto dalla Commissione Lattanzi, anche nelle parti in cui gli spunti offerti dalla commissione ministeriale non sono stati recepiti in sede di emendamenti, onde poter valutare eventuali possibili contributi propositivi in sede parlamentare.

A tal fine, in punto di premessa, si ritiene di dover dar spazio ad una riflessione di natura sistematica al concetto di vittima di rato, il cui approfondimento, frutto del lavoro della Commissione Lattanzi, non si ritrova nel disegno di legge emendato. Trattasi, a parere della commissione, di un’occasione mancata per un puntuale inquadramento dogmatico del concetto.

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Vittima di reato, diritti e facoltà da riconoscersi in capo alla stessa, costituzione di parte civile, diritto di querela[1]

Con relazione finale e le proposte emendative inerenti al disegno di legge A.C. 2435, del 24 giugno 2021, la Commissione Lattanzi aveva inserito nel corpo della legge delega un ulteriore articolo – non previsto nell’originario impianto della c.d. riforma Bonafede: si tratta dell’art. 1 bis per la definizione di vittima di reato e per alcune modifiche in tema di legittimazione alla costituzione di parte civile.

In particolare, così recitava la norma di cui si proponeva l’introduzione:

Nell’esercizio della delega di cui all’articolo 1, i decreti legislativi recanti modifiche al codice di procedura penale e al codice penale in materia di soggetti del procedimento, sono adottati nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi:

  1. a) definire la vittima del reato come la persona fisica che ha subito un danno, fisico, mentale o emotivo, o perdite economiche che sono state causate direttamente da un reato; considerare vittima del reato il familiare di una persona la cui morte è stata causata da un reato e che ha subito un danno in conseguenza della morte di tale persona; definire il familiare come il coniuge, la persona che convive con la vittima in una relazione intima, nello stesso nucleo familiare e in modo stabile e continuo, nonché i parenti in linea diretta, i fratelli e le sorelle, e le persone a carico della vittima;
  2. b) modificare e razionalizzare i riferimenti alla persona offesa, alla parte offesa e alla vittima contenuti nel codice di procedura penale e nel codice penale, individuando quelli pertinenti alla sola vittima del reato, secondo le indicazioni provenienti dalla direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio;
  3. c) modificare la legittimazione all’esercizio dell’azione civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno nel processo penale, nel senso di limitarla alla vittima e al soggetto giuridico offeso dal reato che abbia subito dallo stesso un danno diretto e immediato;
  4. d) ristrutturare l’istituto dell’intervento di cui all’art. 91 c.p.p., stabilendo che gli enti e le associazioni rappresentative degli interessi lesi dal reato possano partecipare al procedimento penale esclusivamente attraverso questa forma; riconoscere la legittimazione agli enti e alle associazioni che, al momento della commissione del reato, prevedano nel proprio statuto la promozione e la tutela degli interessi lesi dal reato;
  5. e) modificare le disposizioni di cui agli articoli 90-ter, comma 1-bis, 362, comma 1-ter, 370, comma 2-bis, 659, comma 1-bis, del codice di procedura penale e degli articoli 64-bis, comma 1, delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale e 165, quinto comma, del codice penale, al fine di aggiungere all’elenco dei delitti ivi previsti le rispettive forme tentate e il delitto di cui agli articoli 56, 575 del codice penale “.

Sebbene l’indicazione della commissione Lattanzi non sia stata recepita dal Governo con i recenti emendamenti al disegno di legge – non è stato infatti inserito alcun art. 1 bis nel corpo del testo A.C. 2435 – in vista della sottoposizione al vaglio parlamentare pare opportuno da parte dell’Associazione Nazionale Magistrati l’offerta di alcuni spunti di riflessione perché non vada sprecata quella che si presenta come un’occasione particolarmente propizia. L’organica riforma della giustizia penale è infatti la sede migliore per alcune innovazioni che paiono non solo opportune ma anche necessarie.

In primo luogo, viene in rilievo l’opportunità di fornire una definizione unica, organica e completa della “vittima di reato”, in linea con i dettami della Direttiva 2012/29 UE.

Negli attuali impianti del codice penale sostanziale e processuale convivono infatti riferimenti alla “persona offesa”, alla “parte offesa” ed alla “vittima”, che possono generare confusioni e commistioni innecessarie.

La commissione Lattanzi aveva proposto di definire la vittima di reato come “la persona fisica che ha subito un danno, fisico, mentale o emotivo, o perdite economiche che sono state causate direttamente da un reato”.

Il riferimento al danno “fisico, mentale o emotivo” potrebbe più semplicemente vedere eliminata la locuzione riferita al danno mentale, difficilmente definibile nella sua consistenza e comunque facilmente rientrante nel danno fisico e/o in quello emotivo.

Opportuna appare poi la scelta di incentrare la definizione sulla “diretta” causalità tra danno (fisico, emotivo, economico) e reato, anche alla luce di quanto si dirà in appresso circa l’intervento ex art. 91 c.p.p. e la costituzione di parte civile.

Prosegue la proposta della commissione con il suggerimento di considerare vittima del reato il familiare di una persona la cui morte è stata causata da un reato e che ha subito un danno in conseguenza della morte di tale persona.

Certamente già allo stato attuale il familiare della vittima di omicidio è legittimato alla costituzione di parte civile ma l’innovazione risiede nella definizione ampia di familiare che la commissione propone: “il coniuge, la persona che convive con la vittima in una relazione intima, nello stesso nucleo familiare e in modo stabile e continuo, nonché i parenti in linea diretta, i fratelli e le sorelle, e le persone a carico della vittima”.

La definizione è opportuna perché permette di fare chiarezza esplicita in riferimento ad alcune posizioni attualmente in “zona grigia” ma per le quali in giurisprudenza si era già posto il problema della costituzione di parte civile e del diritto al risarcimento del danno da reato – si pensi fra molti esempi al figlio convivente del partner della vittima, nato da precedente unione –.

Il rischio di allargare troppo le maglie dei soggetti rientranti nella definizione di vittima e conseguentemente di coloro che sono legittimati alla costituzione di parte civile ed all’ottenimento del risarcimento del danno da reato non dovrebbe porsi: secondo la proposta della commissione infatti non basta la mera posizione di familiare nel senso sopra descritto ma occorre anche l’aver subito un danno in conseguenza del reato.

Ci sarebbe piuttosto da riflettere se non sia opportuno un ulteriore allargamento nel senso di considerare vittima non solo il familiare della vittima di omicidio ma anche, ad esempio, il familiare della vittima di lesioni gravissime ed invalidanti.

In ogni caso, corollario della razionalizzazione della figura della vittima di reato è quella relativa alla legittimazione all’esercizio dell’azione civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno nel processo penale, da limitarsi logicamente alla vittima (da intendersi nel senso appena descritto) oltre che al soggetto giuridico offeso dal reato che abbia subito dallo stesso un danno diretto ed immediato – il che è sostanzialmente come dire che anche la persona giuridica può essere “vittima”, dato che la definizione di quest’ultima è imperniata sul duplice requisito del patito danno (anche economico) e della causalità diretta con il fatto-reato.

La chiara e precisa definizione dei soggetti legittimati ad esercitare l’azione civile nel procedimento penale dovrà essere accompagnata da una riflessione circa i limiti di ragionevole estensione del patrocinio a spese dello Stato in favore delle vittime.

Oggi, opportunamente, il beneficio è ammesso a prescindere dalla soglia reddituale di legge – di recente aggiornata ad € 11.746,68 – per alcune categorie di vittime di reato fra le quali assumono ruolo preponderante le vittime di fattispecie quali maltrattamenti in famiglia, atti persecutori e violenze di tipo sessuale.

È evidente che dovendosi considerare “vittima” legittimata all’esercizio dell’azione civile nel procedimento penale “la persona fisica che ha subito un danno, fisico, mentale  o emotivo, o perdite economiche che sono state causate direttamente da un reato”, esiste il rischio di un’estensione importante dal punto di vista quantitativo dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, che andrà regolamentata facendo leva sulla causalità diretta del danno da reato ovvero ponendo in ogni caso un limite al numero di difensori che lo Stato si impegna a retribuire in favore delle vittime. Si pensi al caso, nemmeno troppo di scuola, di un maltrattamento in famiglia alla presenza di prole molto numerosa; o ancora, ad atti persecutori nei confronti di una persona che convive con genitori, nonni e numerosi fratelli e viene fatta oggetto di condotte moleste ed importune anche al domicilio.

Si è trattato sino ad ora delle “vittime” come soggetti legittimati all’esercizio dell’azione civile del processo penale, con l’esclusione dunque degli enti che a vario titolo siano portatori di interessi diffusi non direttamente lesi dal reato.

Corollario di tale innovazione che si avverte come opportuna è la ridefinizione dell’istituto dell’intervento ai sensi dell’art. 91 c.p.p., i cui presupposti soggettivi verrebbero ampliati in conformità con quanto proposto dalla commissione Lattanzi all’art. 1 bis primo comma lettera d): l’intervento non sarebbe più riservato agli enti esponenziali cui in forza di legge è riconosciuta finalità di tutela degli interessi lesi dal reato ma sarebbe possibile anche per gli enti il cui statuto preveda tale scopo.

Per tali enti vi sarebbe dunque uno spazio partecipativo nel procedimento penale ma non vi sarebbe la possibilità di costituirsi parte civile, in linea con l’ottica deflattiva e di snellimento che caratterizza tutta la riforma.

La proposta della commissione Lattanzi chiude l’art. 1 bis con il suggerimento di aggiungere le rispettive forme tentate ed il tentato omicidio agli elenchi di delitti già previsti nel corpo degli artt. 90 ter, 362, 370 e 659 c.p.p., nonché in quello degli artt. 64 bis disp. att. C.p.p. e 165 codice penale.

La modifica appare opportuna in chiave di maggiore garanzia di protezione alle vittime di reato e non dovrebbe comportare un aggravio procedimentale significativo, dal momento che:

– per quanto riguarda la comunicazione dell’evasione o della scarcerazione (90 ter e 659 co. 1 bis c.p.p.) questa è data, almeno in fase procedimentale, a richiesta della vittima mentre per la fase dell’esecuzione non si pongono allo stato problematiche di snellimento ed accelerazione del procedimento;

– analoghe considerazioni valgono per gli obblighi del condannato cui è concessa la sospensione condizionale della pena (art. 165 co. 5 c.p.p.);

– l’audizione entro tre giorni della vittima di reato “da codice rosso” (art. 362 co. 1 ter c.p.p.) e la priorità garantita dalle FF.OO. (art. 370 co. 2 bis c.p.p.) nei fatti è operata anche in caso di tentata violenza sessuale, essendo residuale o quasi di scuola l’ipotesi del tentativo di lesioni, di stalking o di maltrattamento in famiglia;

– la comunicazione tra uffici giudiziari ai sensi dell’art. 64 bis disposizioni di attuazione è effettuata per via telematica.

Terminato l’esame delle proposte della commissione Lattanzi in tema di vittima di reato e costituzione di parte civile, sembra questa la sede opportuna per formulare alcune proposte ulteriori – naturalmente rimanendo in tema di vittima del reato – in linea con lo spirito collaborativo e propositivo che da sempre anima l’Associazione Nazionale Magistrati nel suo rapporto con gli altri poteri dello Stato.

In primo luogo, va osservato come uno dei problemi che maggiormente affligge gli Uffici giudiziari è quello relativo al carico spropositato di lavoro che grava sul personale delle Segreterie e delle Cancellerie, uffici fondamentali della macchina della giustizia che si trovano spesso se non sistematicamente in grave sofferenza d’organico.

I tempi del procedimento penale sono poi notoriamente dilatati dai lunghi tempi di attesa per le notifiche e non a caso obiettivo dichiarato della riforma è quello di introdurre, là dove possibile, lo strumento telematico per velocizzare (anche) le notifiche, garantirne la certezza e portare maggiore speditezza all’intero sistema.

Rimane fermo il diritto della vittima che presenta denuncia e/o querela di chiedere di essere informata dell’eventuale richiesta di archiviazione (art. 408 c.p.p.) o di proroga del termine per la conclusione delle indagini preliminari (art. 406 c.p.p.).

Si propone allora di inserire l’obbligo per l’autorità che raccoglie la denuncia querela, cioè la forza di polizia o l’Ufficio Ricezione atti della Procura, di domandare alla sedicente vittima se intende indicare un difensore di fiducia – presso il quale risulterebbe domiciliata ex art. 33 disposizione di attuazione c.p.p. – o un domicilio telematico di posta certificata presso il quale ricevere le notifiche. Inserendo il relativo obbligo per il caso di denuncianti o querelanti per legge obbligati al possesso di casella di posta elettronica certificata – es. enti pubblici, partite I.V.A. con obbligo di fatturazione elettronica, iscritti alla camera di commercio, professionisti a ciò obbligati.

L’occasione della riforma organica della giustizia penale dovrebbe poi essere la sede, a parere di questa Commissione, per una seria riflessione su quelli che sono stati gli esiti e le ricadute pratiche, anche in termini di giustizia sostanziale, delle attuali limitazioni al diritto di remissione della querela.

Va premesso che si tratta di discorso di difficile presentazione agli occhi dell’opinione pubblica, decisamente impopolare per dirla senza mezzi termini.

Eppure, questa commissione non può sottrarsi, nell’esercizio delle sue facoltà di proposta e di stimolo, valutata anche l’ampia maggioranza parlamentare del momento storico, dal sollevare il tema delle ricadute pratiche di norme introdotte per la tutela di alcune vittime in posizione di particolare vulnerabilità e che si traducono per contro in una limitazione ingiustificata dei loro diritti e facoltà, nonché in un aggravio procedimentale.

Si fa riferimento in primo luogo al reato di atti persecutori ex art. 612 bis c.p. ed alla possibilità esclusivamente processuale della remissione della querela. La giurisprudenza ha già dato un’interpretazione estensiva della norma ritenendo valida la remissione di querela davanti al Giudice per l’udienza preliminare e davanti al Giudice per le indagini preliminari in sede di incidente probatorio, così allargando le maglie della disposizione interpretandola come indicativa di un necessario intervento dell’Autorità Giudiziaria.

Ci si domanda se non sia opportuno prevedere almeno la possibilità che la remissione di querela possa essere formulata – se non avanti alla Polizia Giudiziaria o con dichiarazione scritta depositata in Procura – almeno davanti al Pubblico Ministero in fase di indagini, trattandosi di Autorità Giudiziaria distinta dal G.I.P. e dal G.U.P. “soltanto per funzioni” come recita la nostra Carta costituzionale.

Del resto, nella pratica, il controllo giudiziale in udienza preliminare sulla effettiva volontà non coartata di rimettere la querela non è dissimile da quello che può effettuare personalmente il Pubblico Ministero procedente durante la fase delle indagini ed un simile ampliamento porterebbe un triplice effetto benefico: in primis deflattivo, evitando la fissazione e la celebrazione di udienze preliminari destinate a concludersi brevemente con l’emissione di una sentenza di non luogo a procedere. In secondo luogo, si eviterebbe alla vittima l’aggravio in termini materiali, logistici e di stress della necessaria partecipazione ad un’udienza penale, nel caso in cui abbia inteso mettersi alle spalle la vicenda appunto rimettendo la querela; infine, non verrebbe celebrata un’udienza per la quale l’onorario del difensore è sempre a carico dello Stato, in deroga ai limiti stabiliti dal Testo Unico per le spese di giustizia.

Un’ultima notazione riguarda l’art. 459 c.p.p. dal cui testo andrebbe espunto, al primo comma, il riferimento alla possibilità per il querelante di opporsi alla definizione del procedimento mediante emissione del decreto penale di condanna.

Si tratta infatti di previsione oggetto di declaratoria di illegittimità costituzionale ormai da più di sei anni – v. la più che condivisibile sentenza della Consulta n. 23 del 2015 – eppure in calce a molte denunce querele, evidentemente redatte senza tenere conto della nota presente su tutti i codici di procedura penale, è ancora contenuta tale declaratoria di opposizione.

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Come risulta evidente già dalla rubrica dell’articolo in esame, la ratio ispiratrice della norma è quella di dare maggiore efficienza al processo penale attraverso il potenziamento degli strumenti infotelematici.

La svolta telematica del processo penale è senz’altro un cammino ineludibile e necessario ma va guidato con attenzione e cura, avendo riguardo alle specificità del settore penale. Occorre poi che gli uffici giudiziari siano messi in condizione di poter concretamente attuare il cambiamento attraverso la dotazione di strumentazioni efficienti, l’organizzazione di corsi di formazione del personale amministrativo, l’assistenza sistemistica pronta e in loco.

Occorre tener conto delle peculiarità del processo penale e affermare l’esigenza prioritaria di assicurare la segretezza delle indagini e, quindi, la massima sicurezza nella trasmissione dei dati per via telematica.

Lett.a) sono state introdotte previsioni che riguardano:

  • la formazione e la conservazione in formato digitale di atti e documenti processuali, in modo che ne sia garantita la <<autenticità, integrità, leggibilità e reperibilità>>; sotto il profilo della conservazione certamente è più agile quella in formato digitale (basti pensare agli enormi problemi di spazio e di gestione che creano gli archivi stracolmi di carte), particolare attenzione andrà posta – in sede di adozione delle regole tecniche – al profilo della sicurezza nel momento della creazione del documento processuale, sotto il profilo della autenticità e integrità intesa come certezza della provenienza e impossibilità di alterazione;
  • il deposito di atti e documenti, le comunicazioni e le notificazioni siano effettuate con modalità telematiche; il deposito telematico degli atti è stato introdotto nel nostro sistema sotto la spinta delle esigenze connesse alla emergenza epidemiologica, attraverso disposizioni di legge e interventi regolamentari del Direttore generale dei sistemi informativi automatizzati del Ministero della Giustizia (DGSIA), ed è certamente uno strumento che se correttamente utilizzato può servire allo scopo della implementazione efficientistica della giustizia penale.

Le nuove previsioni mirano ad ampliare il novero degli atti e documenti e a rendere la via telematica unico canale di deposito (tranne l’eccezione degli atti che le parti compiono personalmente, dei quali però occorrerebbe dare una specificazione), il problema concreto è che nella prassi il portale del processo penale telematico (attualmente limitato a determinati atti e alla platea degli avvocati) ha già dimostrato varie criticità, pertanto appare quanto mai inopportuno un passaggio immediato e totale al deposito telematico di tutti gli atti, pure tenendo conto che  sarebbero coinvolti soggetti diversi dagli appartenenti al foro, ad oggi completamente estranei al sistema (P.G., rappresentanti istituzionali, privati, ecc.). Inoltre l’attività di indagine si concretizza talvolta in atti (si pensi al sequestro di un documento falso, o di scritture comparative per un esame grafologico, per non parlare dei beni fisici sequestrati) che necessitano di essere acquisiti nel formato cartaceo.

Si sottolinea, inoltre, la necessità di assicurare certezza dell’avvenuta trasmissione e ricezione, e circa l’identità del mittente e destinatario; si tratta di un’esigenza certamente da condividere e che rientra nella sicurezza dei sistemi infotelematici, presupposto indefettibile.

Lett. b) si introducono disposizioni che riguardano le regole tecniche che devono dare concreta attuazione alle disposizioni in materia, ponendo due pilastri:

  • il principio dell’idoneità del mezzo
  • il principio della certezza del compimento dell’atto

Sarebbe forse opportuno aggiungere la sicurezza nel trattamento dei dati giudiziari.

Un ruolo essenziale assume il DGSIA nella adozione delle regole tecniche. E’ bene, comunque, che si preveda una interlocuzione con i responsabili degli uffici giudiziari per la verifica della effettiva funzionalità dei nuovi sistemi nel processo penale.

Lett.b-bis), b-ter) si prevede una disciplina transitoria, assolutamente necessaria alla luce delle osservazioni sopra svolte.

Lett. c) si prevedono soluzioni per i casi di malfunzionamento dei sistemi informatici dei domini del Ministero della Giustizia, certamente utile alla luce dell’esperienza attuale.

Lett. d) a completamento delle previsioni di cui alla lett.a) si prevede la possibilità, in aggiunta, di soluzioni tecnologiche che assicurino comunque la generazione di un messaggio di avvenuto perfezionamento del deposito (come il portale del processo penale telematico).

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Articolo 2-bis

Disposizioni in materia di notificazioni[3]

L’art. 2-bis, così come formulato, presenta non trascurabili criticità che, di fatto, rischiano di porre nel nulla quei propositi di accelerazione dei procedimenti penali da cui risulta animata la riforma.

Con riguardo alla lett. A) – prevedere che l’imputato non detenuto o internato abbia l’obbligo, sin dal primo contatto con l’autorità procedente, di indicare anche i recapiti telefonici e telematici di cui ha disponibilità; modificare l’articolo 161 del codice di procedura penale prevedendo che l’imputato non detenuto o internato abbia la facoltà di dichiarare domicilio ai fini delle notificazioni anche presso un proprio idoneo recapito telematico -, si evidenzia, primariamente, come difetti qualunque definizione del concetto di “idoneo recapito telematico”, sicché, ad esempio, ci si chiede se debba ritenersi “idoneo recapito un indirizzo di posta elettronica non certificato.

Non può tacersi, poi, come rispetto agli indirizzi di posta elettronica non certificata si ponga un problema di effettiva riconducibilità di esso al reale utilizzatore.

E, al riguardo, sarebbe oltremodo incompatibile con le esigenze di speditezza che la animano, oltre che impraticabile alla luce delle limitate risorse degli Uffici giudiziari, una riforma che imponesse all’Autorità di compiere accertamenti sulla effettiva titolarità dell’indirizzo di posta non certificato indicato dall’indagato al fine di stabilire se sia effettivamente utilizzato da lui ed a lui riconducibile.

In secondo luogo, l’obbligo di indicazione del recapito telematico è previsto indistintamente per tutti gli indagati, e tuttavia nella prassi possono ben verificarsi casi di indagati sprovvisti di tale recapito ovvero di indagati che, pur provvisti di un recapito telematico, dichiarino di non possederne alcuno ovvero ne dichiarino uno falso.

Rispetto a tali situazioni non è prevista alcuna disciplina.

Inoltre, il suddetto obbligo di indicazione del recapito telematico è sprovvisto di qualunque sanzione.

Si evidenzia, poi, a tutto voler concedere, come un siffatto obbligo di indicazione del recapito telematico debba necessariamente accompagnarsi alla previsione di soluzioni tecnologiche che consentano di dimostrare l’avvenuta notificazione all’indagato, soprattutto laddove trattasi di indirizzi di posta elettronica non certificati, così superando i problemi, che saranno frequenti nella prassi, ad esempio di caselle e-mail sature, dismesse subito dopo l’avvenuta indicazione da parte dell’indagato ovvero di indirizzi di posta di fantasia, ecc…

Ancora, tenuto conto di quanto riportato alla successiva lett. B), l’indicazione del recapito telematico da parte dell’indagato rileva soltanto laddove esso sia oggetto di dichiarazione ex art. 161 c.p.p. e solo per gli atti con cui l’indagato è citato a giudizio, atteso che per tutte le altre notificazioni opera il meccanismo della notifica al difensore.

Se così è, in considerazione di quanto detto, si ritiene che la previsione di cui alla lett. A) determinerà più problemi che benefici.

Con riguardo alla lett. B), prima parte – prevedere che tutte le notificazioni all’imputato non detenuto successive alla prima, diverse da quelle con le quali lo stesso è citato in giudizio, siano eseguite mediante consegna al difensore – si rileva, innanzitutto, come difetti una definizione di “prima notificazione”.

In particolare, non è chiaro se, ai fini della disposizione in commento, basti un qualunque atto con cui si informa l’indagato dell’esistenza del procedimento (es. un verbale di identificazione) oppure occorra un atto che contenga, seppure in via embrionale, l’ipotesi accusatoria.

Non è chiaro, poi, come operi il prefato meccanismo di notificazione al difensore nelle ipotesi in cui quest’ultimo, per qualunque motivo, dismetta il mandato.

Con riguardo alla lett. B), seconda parte – prevedere opportune deroghe alla notificazione degli atti mediante consegna di copia al difensore, a garanzia dell’effettiva conoscenza dell’atto da parte dell’imputato nel caso in cui questi sia assistito da un difensore di ufficio e la prima notificazione non sia stata eseguita mediante consegna dell’atto personalmente all’imputato o a persona che con lui conviva anche temporaneamente o al portiere o a chi ne fa le veci -, si rileva, primariamente, come, alla luce della disposizione, in caso di difensore di ufficio, l’opportuna deroga non può che essere rappresentata dalla notifica a mani dell’indagato affinché le successive notificazioni siano eseguite al difensore di ufficio.

Si nutrono dubbi, però, sull’estensione della notifica a mani – facoltizzante le successive notifiche al difensore di ufficio – non solo dell’indagato ma anche del convivente e del portiere, posto che trattasi di soggetti che, per qualunque motivo, potrebbero non consegnare la notifica all’indagato il quale, dunque, non è messo nelle condizioni di conoscere il procedimento a suo carico.

In generale, poi, si ritiene che la deroga al procedimento notificatorio di cui alla lett. B, prima parte, prevista per il difensore d’ufficio, debba comunque essere formulata in modo tale da non determinare disparità di trattamento tra coloro che si avvalgono del difensore di ufficio e volontariamente si sottraggono alla legge rendendosi irreperibili alla notificazione a mani e coloro che, al contrario, diligentemente nominano un difensore di fiducia, così ricevendo le notifiche presso quest’ultimo, con conseguente accelerazione dei tempi della giustizia rispetto ai primi.

Con riferimento alla lett. C), prima parte – prevedere che il primo atto notificato all’imputato contenga anche l’espresso avviso che le successive notificazioni, diverse da quelle con le quali l’imputato è citato in giudizio, e fermo quanto previsto per le impugnazioni proposte dallo stesso o nel suo interesse,   saranno effettuate mediante consegna al difensore –, si formula un giudizio positivo, trattandosi del necessario pendant alla lettera precedente.

Con riguardo alla lett. C, seconda parte – prevede che l’indagato abbia l’onere di indicare al difensore un recapito idoneo ove effettuare le comunicazioni e che a tal fine possa indicare anche un recapito telematico; prevedere che l’imputato abbia l’onere di informare il difensore di ogni mutamento di tale recapito; prevedere che l’imputato abbia l’onere di comunicare al difensore anche i recapiti telefonici di cui abbia la disponibilità -, si rileva, primariamente, come la previsione abbia scarsa utilità se posta nei termini di un mero onere per l’indagato il quale, infatti, ben potrebbe rendersi inadempiente.

Al contrario, se l’obiettivo della disposizione è quello di fare in modo che il difensore possa dimostrare di aver informato il proprio assistito, allora andrebbe previsto un obbligo con relativa sanzione.

Inoltre, andrebbero disciplinate le modalità concrete con cui tali obblighi informativi devono essere adempiuti, e tanto al fine di poter riscontrare tale avvenuto adempimento nel corso del processo e, quindi, anche di poter stabilire se l’indagato è stato informato di esso.

Con riguardo alla lett. N) – prevedere che non costituisca inadempimento degli obblighi derivanti dal mandato professionale del difensore l’omessa o ritardata comunicazione all’assistito imputabile al fatto di quest’ultimo -, si rileva, innanzitutto, l’inutilità di tale disposizione, atteso che la disciplina sulla responsabilità del difensore è già sufficiente ad escludere la responsabilità del legale per fatto altrui.

Inoltre, la disposizione in commento postula la previsione delle concrete modalità di informazione di cui alla lettera precedente e, dunque, l’individuazione  del perimetro normativo entro il quale l’indagato deve adempiere ai suddetti obblighi informativi nel confronti del legale, e tanto al fine di stabilire se effettivamente vi è stato un “fatto imputabile a quest’ultimo” escludente la responsabilità del legale.

Con riguardo alla lett. E) – disciplinare i rapporti tra la notificazione mediante consegna al difensore e gli altri criteri stabiliti dal codice di procedura penale per le notificazioni degli atti all’imputato, in particolare con riferimento ai rapporti tra la notificazione mediante consegna al difensore e la notificazione nel caso di dichiarazione o elezione di domicilio, anche telematico, e, nel caso di imputato detenuto, ai rapporti tra dette notificazioni e quelle previste dall’articolo 156 del codice di procedura penale -, in ragione di quanto sopra e, in particolare, delle notificazioni al difensore successive alla prima ad eccezione di quelle con le quali l’indagato è citato in giudizio, si ritiene che l’art. 161 resti circoscritto alla sola dichiarazione e/o elezione di domicilio rispetto alle notificazione concernenti gli atti con cui l’indagato è citato in giudizio.

Inoltre, non è chiaro quali rapporti debbano essere disciplinati rispetto all’imputato detenuto, atteso che le notifiche al difensore sono previste per i soli “imputati non detenuti”.

In ogni caso, si ritiene di poter estendere il sistema notificatorio di cui alla lett. B) anche al detenuto e, quindi, abrogare l’art. 156 c.p.p., salvo che con riguardo alla prima notifica che, a ben vedere, sarà necessariamente a mani.

Quanto alla lett. F) – prevedere che, nel caso di impugnazione proposta dall’imputato o nel suo interesse, la notificazione dell’atto di citazione a giudizio nei suoi confronti sia effettuata presso il domicilio dichiarato o eletto ai sensi dell’articolo 7, comma 1, lettera a) -, la Commissione esprime il proprio apprezzamento per la  novella legislativa.

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Art. 2 – ter Processo in assenza[4]

L’articolo in esame è stato introdotto in sede di emendamenti governativi ed appare  in gran parte ispirato dalla necessità di conformare l’istituto del processo in absentia alla  normativa europea (art. 9 e 36 della direttiva UE 2016/343 del Parlamento Europeo e. del Consiglio del 9 marzo 2016), alla  giurisprudenza sull’art.6 CEDU (Corte EDU, 18 maggio 2004, Somogyi c. Italia: Corte EDU, 10 novembre 2004, Sejdovic c. Italia) ed infine ai  recenti orientamenti della Corte di Cassazione – convenzionalmente orientati-  espressi con le decisioni SU   n. 23948del 28/11/2019, Ismail e  Sez. 5 Sentenza n. 19949del 06/04/2021, Olguin. 

Sul punto è utile richiamare l’illuminante passaggio della citata pronuncia Sez. 5, sentenza n.19949del 06/04/2021: “Il fondamento del sistema, cioè, è incentrato sull’effettività della conoscenza; sull’accertamento che la parte sia personalmente informata del contenuto dell’accusa e del giorno e luogo della udienza e, quindi il processo in assenza è ammesso solo quando sia raggiunta la certezza della conoscenza da parte dell’imputato (sicchè, quando il giudice non abbia raggiunto la certezza della conoscenza della chiamata in giudizio da parte dell’imputato, deve disporre la notifica «personalmente ad opera della polizia giudiziaria»: così le Sezioni Unite, che richiamano l’art. 420 -quater, cod. proc. pen.).

Secondo la sentenza Ismail l’art. 420-bis, comma 2, cod. proc. pen., nell’ottica di una comprensibile “facilitazione” del compito del giudice, ha tipizzato dei casi in cui, ai fini  della certezza della conoscenza della vocatio in ius, può essere valorizzata una notifica che non sia stata effettuata a mani proprie dell’imputato: l’aver eletto domicilio, l’essere stato sottoposto a misura cautelare, aver nominato il difensore di fiducia, sono situazioni che consentono di equiparare la notifica, regolare ma non a mani proprie, alla effettiva conoscenza del processo”. 

Il nuovo modello di processo in assenza formulato dal Governo appare così allontanarsi da paradigma in cui aveva rilievo la correttezza formale delle notifiche e il verificarsi di taluni indici di conoscenza (da parte dell’imputato) dell’esistenza del procedimento per giungere a nuovo schema in cui l’assenza può essere dichiarata solo in presenza di certezza della pendenza del processo ovvero, ma solo in via subordinata, di secondari indici di conoscenza dell’esistenza di vocatio in ius.  

In altri termini: ci si sposta dalla necessità che l’imputato abbia conoscenza del procedimento a quella che abbia effettiva contezza del processo (l’art. 420 bis c. p. p. attuale parla di certezza di conoscenza del procedimento). 

Appare così coerente con le premesse il nuovo apparato normativo, contenente:  

  1. a) ridefinizione della nozione di assenza (assenza solo quando esistono elementi idonei a dare certezza del fatto che egli è a conoscenza della pendenza del processo e che l’assenza è dovuta a scelta volontaria e consapevole); 
  2. b) previsione della residuale possibilità che, anche quando non vi sia certezza della conoscenza del processo, il giudice, valutate le modalità di notifica od altre circostanze concrete, possa ritenere provata la conoscenza della pendenza del processo; 
  3. c) previsione della notifica dell’atto introduttivo del procedimento a mani proprie od al più con altre modalità idonee a garantire che lo stesso venga a conoscenza della data e del processo; 
  4. d) la possibilità dell’A.G., proprio ai fini della notifica dell’atto introduttivo, di avvalersi della polizia giudiziaria.

Conseguentemente, ai fini della dichiarazione di assenza, potrebbero non giovare le notifiche della vocatio in ius operate:  

_ ex art. 161, 4 comma, c.p.p. (ipotesi di indagato che abbia dichiarato od eletto domicilio nella fase iniziale delle indagini preliminari, in presenza di contestazione ancora “liquida”); 

_ relative a soggetti che sono stati arrestati, fermati o sottoposti a misura cautelare (e poi liberati per contingente difetto di gravità indiziaria) e poi divenuti irreperibili;  

_ a mezzo del servizio postale (consegna non a mani proprie)  

_ ex art. 157 c.p.p. (con consegna a persona convivente o portiere). 

Ma si ribadisce, già l’attuale interpretazione convenzionalmente adottata di cui sopra precorre la modifica normativa. 

La Commissione esprime un giudizio complessivamente favorevole sul meccanismo, disegnato in caso di impossibilità del giudice di pervenire a declaratoria di assenza, incentrato su   

_pronuncia di sentenza inappellabile di non doversi procedere (e successiva ricerca ai fini del rintraccio);

_revoca della sentenza in caso di rintraccio dell’imputato (che verrà in quel momento avvisato della pendenza del processo e contestualmente invitato a dichiarare/eleggere domicilio); 

_ possibilità di assunzione di prove urgenti, a richiesta di parte;  

_sospensione dei termini di prescrizione (fino al doppio delle previsioni dell’art. 157 c.p.) dal momento della sentenza n.d.p. a quello del ritraccio “nel processo di primo grado” (in altri termini il periodo di prescrizione congelato nel primo grado potrebbe, in caso di appello, tornare a giovare all’imputato); 

_ regime speciale per il latitante.  

Il sistema così delineato sembra più efficiente e rispettoso del principio di legalità rispetto a quello vigente che prevede rinvio per operare notifiche a mezzo pg. e nessuna sospensione della prescrizione.     

Circa il meccanismo del congelamento della prescrizione si possono immaginare situazioni in cui tra sentenza e rintraccio trascorrano numerosi anni: l’imputato, revocata la sentenza di ndp, verrà sottoposto a processo e condannato, ma ricorrendo in appello otterrebbe certa applicazione della prescrizione in secondo grado.  

Profilo non convincente è l’apparente mancato raccordo con la disciplina dell’irreperibilità con riferimento alla notifica del decreto di citazione.  

Infatti, il P.M. che non riesca a notificare il decreto di citazione all’imputato (pensiamo ai casi di soggetti che non abbiano dichiarato/eletto domicilio e di cui sia sconosciuta la dimora) rimane costretto ad emettere decreto di irreperibilità ed a notificare la vocatio in ius al difensore, nella doppia veste (con il rispetto dei termini pre-dibattimentali), finendo per investire sempre il giudice del dibattimento della decisione di N.D.P..

Sarebbe forse auspicabile che il PM, trovandosi nell’impossibilità di notificare il decreto di citazione, possa promuovere incidente davanti al GIP: questi, tenuta udienza nella forma più snella della camera di consiglio, si troverebbe così ad emettere la sentenza NDP. Ove rintracciato, l’imputato il PM chiederà la revoca al GIP attivando la vocatio in ius. Ulteriore vantaggio sembra essere quello di far rimanere le ricerche del “sentenziato -ndp” nell’alveo dell’attività della Procura, certamente più vicina ai circuiti “informativi-investigativi” utili al rintraccio.  In effetti, ad onor del vero, l’emendamento parla di “giudice” in generale e non di giudice del dibattimento.  

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Art. 2-quater – Utilizzo delle videoregistrazioni e dei collegamenti a distanza[5]

  1. Nell’esercizio della delega di cui all’articolo 1, i decreti legislativi recanti modifiche al codice di procedura penale in materia di atti del procedimento, sono adottati nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi:
  2. a) prevedere la registrazione audiovisiva come forma ulteriore di documentazione dell’interrogatorio e dell’attività di assunzione della prova dichiarativa, salva la contingente indisponibilità degli strumenti necessari o degli ausiliari tecnici;
  3. b) prevedere i casi in cui debba essere prevista almeno l’audioregistrazione dell’assunzione di informazioni delle persone informate sui fatti, senza obbligo di trascrizione;
  4. c) individuare i casi in cui, con il consenso delle parti, la partecipazione all’atto del procedimento o all’udienza possa avvenire a distanza, nel rispetto del diritto di difesa.

L’art. 2 quater è dedicato al ricorso agli strumenti informatici di videoregistrazione e collegamento a distanza da utilizzare negli atti del procedimento penale.

L’esperienza maturata con la normativa emergenziale connessa alla pandemia da Covid-19 ha avvalorato il positivo utilizzo degli strumenti informatici per garantire il collegamento a distanza. Pertanto, con specifico riferimento alla lettera c), si guarda con favore al ricorso di sistemi informatici che garantiscano l’espletamento dell’atto a distanza sia in fase di indagine che durante il processo. Tale modalità, fermo restando il consenso delle parti coinvolte, potrebbe trovare applicazione in tutti i casi tra i quali, a titolo esemplificativo, il conferimento di incarico ex art. 360 c.p.p., l’interrogatorio dell’indagato o dell’imputato e l’incidente probatorio. Detto sistema consentirebbe, come già accaduto durante la fase emergenziale, di accelerare i tempi delle indagini o del compimento di atti in fase dibattimentale nelle ipotesi in cui vi siano difficoltà di una o più parti nel raggiungimento della sede.

Il punto a) dell’art. 2 quater prevede, invece, la registrazione audiovisiva quale forma ulteriore di documentazione dell’interrogatorio e dell’attività di assunzione della prova dichiarativa. In merito a tale profilo, si osserva come sarebbe auspicabile prevedere il ricorso a tale forma quale strumento facoltativo da adottare in fase di indagini, a discrezione del Pubblico Ministero, anche su richiesta di parte. Si guarda, invece, con favore all’utilizzo di tale strumento in fase dibattimentale (si potrebbero prevedere ipotesi specifiche quali i reati in materia di violenza di genere) attese le ricadute pratiche positive in sede di appello, nonché la circostanza che il giudice (in camera di consiglio) avrebbe modo di rivedere in maniera completa l’assunzione della prova o l’interrogatorio.

Il punto b) della disposizione in commento chiede di individuare i casi in cui debba essere prevista almeno l’audioregistrazione dell’assunzione di informazioni delle persone informate sui fatti, senza obbligo di trascrizione. Tale modalità potrebbe trovare positiva applicazione nelle ipotesi di reato in cui vi siano le c.d. vittime di violenza di genere e per le audizioni dei minori, ferma restando la possibilità di non ricorrere a detti strumenti in relazione alle peculiarità del caso concreto (quindi valutazione discrezionale in capo al P.M. che potrà valutare i casi in cui non si debba procedere in tal senso. Resta necessario dotare Procure e PG territoriali degli strumenti necessari). Su restanti ipotesi predeterminate, si ritiene che debba essere lasciata discrezionalità al P.M. in ordine al ricorso a questo strumento atteso che potrebbero esservi casi in cui si rischia di compromettere l’assunzione stessa della prova.

Quanto al mancato obbligo di trascrizione, si ritiene che tale previsione comporti ricadute negative e rallenti l’attività d’indagine e tanto soprattutto nel caso in cui l’assunzione delle sommarie informazioni avvenga ad opera della polizia giudiziaria.

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Art 3

Indagini preliminari e udienza preliminare

 a)[6] modificare la regola di giudizio per la presentazione della richiesta di archiviazione, prevedendo che il pubblico ministero chieda l’archiviazione quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non consentono una ragionevole previsione di condanna;

Tale modifica legislativa risponde a condivise esigenze deflattive e di efficienza del sistema giustizia. Si richiede al pubblico ministero di effettuare una valutazione più stringente e mirata in ordine all’esito del successivo processo, sulla base degli elementi raccolti nella fase delle indagini preliminari. L’obiettivo è quello di operare una più incisiva selezione dei procedimenti per non appesantire in modo eccessivo il successivo filtro rappresentato dall’udienza preliminare. Inoltre, una riduzione dei processi a dibattimento consentirebbe una più celere ed attenta trattazione degli stessi.

  1. b) escludere l’obbligo di notificazione dell’avviso della richiesta di archiviazione, di cui all’articolo 408, comma 2, del codice di procedura penale, alla persona offesa che abbia rimesso la querela;

Una simile previsione incontra il parere favorevole della commissione, in quanto risulta ispirata a logiche di economicità e di efficienza. In caso di remissione di querela, l’esclusione dell’obbligo dell’avviso della richiesta di archiviazione nell’ipotesi di cui al comma 2 dell’art. 408 c.p.p. (ossia nel caso in cui sia stata la stessa persona offesa a chiedere di esserne avvisata) evita un adempimento formale degli uffici di Procura che non risponde più, nella sostanza, ad una effettiva esigenza di tutela della parte. L’avviso di archiviazione è, infatti, volto a consentire alla persona offesa di prendere visione degli atti nonchè ad esercitare il diritto di opposizione e, in quanto tale, perde la sua ragion d’essere nei confronti di una parte che ha espresso la volontà di non procedere oltre. L’eliminazione dell’obbligo in questione consentirebbe, quindi, di destinare le risorse degli uffici ad altre attività e, al contempo, eviterebbe inutili stalli allo scopo di perseguire la ragionevole durata del procedimento.

L’art. 3, alla lett. c), nel testo licenziato dall’Esecutivo, prevede condivisibilmente una differente durata delle indagini preliminari, individuata in sei mesi per le contravvenzioni, in un anno e sei mesi per mi delitti ex art. 407, comma secondo, c.p.p., e di un anno in tutti gli altri casi.

È apprezzabile, in quanto previene le incertezze legate al precedente criterio di “gravità dei reati”, il riferimento alla natura degli stessi.

Deve tuttavia osservarsi che non è presa in considerazione l’ipotesi in cui risultino connessi reati di natura contravvenzionale e reati di natura delittuosa, rientranti o meno nei casi di cui al su citato art. 407, comma secondo, c.p.p.; in siffatte ipotesi si ritiene preferibile fare riferimento al termine di indagine più lungo, onde evitare di dover procedere allo stralcio dei reati connessi per i quali operi un termine minore.

La lettera d) dell’art. 3 prevede invece la possibilità per il Pubblico Ministero di richiedere la proroga dei termini predetti, prima della scadenza, per un tempo non superiore a sei mesi, aggiungendo, rispetto al testo licenziato dalla Commissione Lattanzi, il riferimento alla “complessità delle indagini” a giustificazione della richiesta; tale requisito appare eccessivamente vago e, al contempo, tale da limitare il ventaglio delle possibili esigenze di proroga, ingenerando incertezze in ordine all’esito della richiesta e, di conseguenza, all’utilizzabilità degli atti di indagine compiuti medio tempore.

La lettera e) prevede che, decorsi i termini di durata delle indagini, il pubblico ministero sia tenuto a esercitare l’azione penale o a richiedere l’archiviazione entro un termine fissato in misura diversa, in base alla gravità del reato e alla complessità delle indagini preliminari;

e-bis)[7] predisporre idonei meccanismi procedurali volti a consentire alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa di prendere cognizione degli atti di indagine quando, scaduto il termine di cui alla lettera e), il pubblico ministero non assuma le proprie determinazioni in ordine all’azione penale, tenuto conto delle esigenze di tutela del segreto investigativo nelle indagini relative ai reati di cui all’articolo 407 del codice di procedura penale e di ulteriori esigenze di cui all’articolo 7 della direttiva 2012/13/UE;

e-ter) prevedere una disciplina che, in ogni caso, rimedi alla stasi del procedimento, mediante un intervento del giudice per le indagini preliminari;

e-quater) prevedere analoghi rimedi alla stasi del procedimento nelle ipotesi in cui, dopo la notifica dell’avviso di cui all’articolo 415-bis del codice di procedura penale, il pubblico ministero non assuma tempestivamente le determinazioni in ordine all’azione penale;

Tali criteri fissati dal legislatore della riforma sono orientati nell’intentio legis a rendere più efficace la gestione dei procedimenti penali nella fase delle indagini preliminari; come del resto emerge dalla rivisitazione dell’architettura dei termini di conclusione delle indagini preliminari ancorati a fasi temporali più ristrette e limitando la possibilità per l’ufficio del Pubblico Ministero di richiedere la proroga solo una volta per ulteriori sei mesi a fronte di ragioni obiettive.

Ora, non può non evidenziarsi da parte della Commissione che i criteri fissati in funzione ulteriormente acceleratoria rispetto alla chiusura delle indagini preliminari, contingentando dal punto di vista temporale le scelte relative all’esercizio dell’azione penale, non tengono conto della diversità del carico di lavoro tra i diversi Uffici di Procura.

Il legislatore si propone, in altre parole, di fissare una finestra temporale successiva alla scadenza del termine delle indagini preliminari entro la quale il PM è chiamato ad assumere le sue determinazioni inerenti l’esercizio dell’azione penale. Alla scadenza di tale periodo di riflessione ne consegue una discovery automatica degli atti di indagini per l’indagato e la persona offesa.

Come accennato, un tale meccanismo non tiene in dovuta considerazione un primo fattore che indubbiamente rileva sotto il profilo dei tempi di definizione del procedimento penale in fase di indagini costituito dal numero dei procedimenti penali che varia da Ufficio ad Ufficio determinando carichi di lavoro significativamente diversi: il numero dei procedimenti pendenti non può che essere valutato se non considerando il numero delle sopravvenienze differenziato per Distretto di Corte di Corte d’Appello. Immaginare una discovery anticipata alla definizione a fronte di pendenze/sopravvenienze che variano da Ufficio di Procura ad Ufficio di Procura con numeri compresi tra i 300 ed i 500 procedimenti, significherebbe richiedere uno standard definitorio connesso alla scadenza dei termini di conclusione delle indagini preliminari non esigibile concretamente.

L’attività di definizione comporta – come è noto – una valutazione completa ed attenta del materiale investigativo che di certo non può essere omologata per tutti i procedimenti e per tutte le fattispecie, al riguardo a titolo esemplificativo è sufficiente tenere a mente i reati fallimentari, i reati fiscali ed i reati contro la Pubblica Amministrazione.

Questo secondo fattore costituito dal profilo qualitativo del procedimento è un altro elemento che spinge la Commissione a chiedere una rivisitazione della proposta di riforma nella parte in esame.

In alcuni settori  del diritto penale si richiede l’esame di questioni giuridiche e fattuali complesse nonché la disamina di copiosa documentazione che di certo può e deve avvenire in tempi ragionevoli ed orientati al canone costituzionale della durata ragionevole del processo, ma che non può subire accelerazioni dettate dal rischio di una discovery anticipata che rischierebbe di compromettere esigenze investigative che nascono a seguito del deposito dei risultati delle indagini delegate e che presuppongono un vaglio articolato da parte dell’organo inquirente. Gli esiti delle indagini relative a fatti complessi per tipologia e numero dei soggetti indagati o indagabili spesso implicano non solo lo studio di informative di polizia giudiziaria particolarmente estese ma anche come già evidenziato comportano uno studio analitico delle questioni collegate alla tipologia del reato per il quale si procede.

Tale fenomeno di certo non è infrequente in determinate realtà giudiziarie in cui forme di criminalità organizzata non necessariamente di tipo mafioso risultano statisticamente incidenti e tale considerazione può essere spesa per quelle realtà giudiziarie ove forme di criminalità economica generano attività investigativa a carico di numerosi soggetti e molteplici reati.

Va anche messo in evidenza che proprio in questi, come in altri settori del diritto penale, l’attività del Pubblico Ministero non si limita solo allo studio degli atti funzionalmente connesso alle determinazioni relative all’esercizio dell’azione penale, ma si riconnette alla valutazione da compiere per la formulazione di una richiesta di misura cautelare di tipo personale o reale. Consentire che l’indagato o gli indagati per i quali si è procinto di redigere una richiesta di misura cautelare prendano cognizione delle indagini compiute comprensive in tali casi anche di eventuale materiale captativo, significherebbe mettere a rischio proprio questa fase.

Altro rischio sotteso al meccanismo descritto nell’articolato normativo si pone anche per le eventuali persone offese vittime di reati contro l’incolumità fisica, morale le quali a fronte della cognizione degli atti ottenuta dall’indagato rischierebbero di essere esposte a condotte penalmente rilevanti o comunque tese a far modificare loro la versione dei fatti offerta nella fase delle indagini.

La Commissione di studio osserva altresì che appare complicato predisporre un meccanismo per il quale sia richiesto alla scadenza del periodo in questione, l’intervento del giudice delle indagini preliminari che rischierebbe di tradursi di una invasione delle attribuzioni costituzionalmente spettanti al Pubblico Ministero.

La pendenza della indagine statisticamente è già un fatto noto all’indagato in ragione di altre previsioni normative quali l’art 335 cpp e la notifica in fase di richiesta di proroga del termine ex art 407 cpp, pertanto si ritiene che la conoscenza del procedimento non accompagnata dalla cognizione degli atti sia pur nei limiti di una durata fisiologica della pendenza dello stesso, sia già garanzia sufficiente e strumento che consente il controllo dell’azione penale, il cui distorto esercizio in termini di ritardo conosce già strumenti ordinamentali di reazione.

Non può sottacersi invero che a fronte dell’inazione o del ritardo è previsto il potere di avocazione da parte delle Procura Generale, potere che ben può essere attivato e nei fatti così avviene, a fronte di una istanza dell’indagato o della persona offesa i quali per le ragioni sopra esposte il più delle volte sono consapevoli della pendenza del procedimento.

Anche la previsione normativa comma 3 bis) dell’art 407 cpp è diretta a contrastare fenomeni di esasperato ritardo nell’assunzione dell’iniziativa da parte del Pubblico Ministero nella parte in cui prevede che il Pubblico Ministero deve esercitare l’azione penale o richiedere l’archiviazione entro il termine di tre mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini preliminari o comunque alla scadenza dei termini di cui all’art 415 bis cpp.  Tale norma va coordinata con l’art 127 disp. att. che prevede la trasmissione settimanale da parte della Segreteria del Pm al Procuratore Generale presso la Corte di Appello di un elenco delle notizie di reato contro persone note per le quali non è stata esercitata l’azione penale o formulata la richiesta di archiviazione entro in termine previsto dalla legge o prorogato dal giudice. Si tratta ancora di una disposizione funzionale al controllo sulla tempestività degli Uffici Requirenti

La proposta di modifica al codice di procedura penale in questa parte a parere della commissione di studio deve essere rivista, va tuttavia osservato che la commissione ritiene auspicabile l’operatività del meccanismo tratteggiato all’art 3 lett e bis), senza alcun intervento del giudice per le indagini preliminari, solo per le persone offese per quei reati che offendono i beni giuridici monosoggettivi; ciò si porrebbe peraltro in linea di continuità  con le ultime riforme che hanno visto crescere le facoltà riconosciute alle persone offese in tutte le fasi del procedimento penale specie nel settore dei reati a vittima vulnerabile, quali l’informazione sui diritti di difesa, la notifica in caso di modifica delle misure in atto  e delle eventuali scarcerazioni.

Art. 3 lett. i)[8]:   estendere il catalogo dei reati di competenza del tribunale in composizione monocratica per i quali l’azione penale è esercitata nelle forme di cui all’articolo 552 del codice di procedura penale a delitti da individuare tra quelli puniti con pena della reclusione non superiore nel massimo a sei anni, anche se congiunta alla pena della multa, che non presentino rilevanti difficoltà di accertamento».

L’emendamento governativo ha il pregio di indicare un criterio oggettivo per individuare i reati monocratici che passano per l’udienza preliminare (viceversa, in base alla proposta Lattanzi sarebbe necessario individuare singoli reati, tra quelli di competenza monocratica, per i quali è necessaria l’udienza preliminare). Tuttavia, il limite di 6 anni appare troppo basso: sarebbe meglio innalzarlo a 7 anni in modo da ricomprendere tra i reati a citazione diretta, ad es., lo stalking e l’omicidio stradale (per i quali sono piuttosto rari i casi di definizione anticipata in udienza preliminare).

Art. 3 i-bis)[9]: «modificare la regola di giudizio di cui all’articolo 425, comma 3, del codice di procedura penale nel senso di prevedere che il giudice pronunci sentenza di non luogo a procedere quando gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna».

La modifica della regola di giudizio in udienza preliminare appare condivisibile in quanto consentirà un maggior filtro da parte del Gup e forse indurrà la Suprema Corte a rivedere il proprio rigoroso orientamento in relazione ai poteri del giudice per l’udienza preliminare. In questo senso l’emendamento del governo appare migliorativo in quanto il riferimento alla «ragionevole previsione di condanna» chiarisce meglio i limiti della valutazione del giudice per l’udienza preliminare.

Art. 3 i-ter): «prevedere che, in caso di violazione della disposizione di cui all’articolo 417, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale, il giudice, sentite le parti, quando il pubblico ministero non provvede alla riformulazione della imputazione, dichiari anche d’ufficio la nullità e restituisca gli atti; prevedere che, al fine di consentire che il fatto, le circostanze aggravanti e quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza, nonché i relativi articoli di legge siano indicati in termini corrispondenti a quanto emerge dagli atti, il giudice, sentite le parti, laddove il pubblico ministero non provveda alle necessarie modifiche, restituisca anche di ufficio gli atti al pubblico ministero».

L’emendamento del governo è migliorativo rispetto al testo originario in quanto la nullità per violazione dell’art. 417 co. 1 lett. b) c.p.p. scatta solo se il p.m. non provvede alla riformulazione (proposta dalla difesa o dal giudice), mentre in base al testo originario del disegno di legge il giudice dovrebbe dichiarare la nullità prima dell’interlocuzione con il p.m.

La seconda parte della proposta riguarda il caso della non corrispondenza tra fatto contestato e risultanze processuali (che non dà luogo a nullità della richiesta di rinvio a giudizio ma unicamente alla restituzione degli atti al p.m.), ipotesi diversa da quella avente ad oggetto la carente formulazione del capo d’imputazione (che invece è suscettibile di dare luogo alla nullità della r.r.g.).

Il parere sul punto è positivo (nella versione emendata dal governo), anche in ragione del fatto che la proposta di fatto recepisce un orientamento giurisprudenziale esistente (cfr. Cass. pen., sez. VI, 26-10-2016, n. 53968).

Art. 3 i-quater): «prevedere che, nei processi con udienza preliminare, l’eventuale costituzione di parte civile debba avvenire, a pena di decadenza, per le imputazioni contestate, entro il compimento degli accertamenti relativi alla regolare costituzione delle parti, a norma dell’articolo 420 del codice di procedura penale».

La Commissione non condivide tale impostazione anche con riguardo alla versione emendata dal governo, che inserisce l’inciso «per le imputazioni contestate», lasciando dunque spazio ad una improbabile costituzione di parte civile relativa a contestazioni suppletive: invero, prevedere la possibilità per la persona offesa di costituirsi parte civile soltanto all’udienza preliminare e non più anche in dibattimento (come attualmente previsto dall’art. 79 c.p.p.) rappresenta una limitazione eccessiva, in primo luogo in considerazione del brevissimo termine previsto per la notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare (10 giorni), entro il quale la p.o. dovrebbe decidere se costituirsi parte civile e reperire un difensore, e quest’ultimo dovrebbe redigere l’atto di costituzione (sempre entro i 10 giorni); inoltre, appare opportuno concedere alle persone offese (soprattutto dei reati sessuali, familiari e, in generale, contro la persona) uno spatium deliberandi più ampio atteso che, in casi siffatti, non di rado la p.o. (per motivi di riservatezza ovvero per paura o per un senso di vergogna) acquisisce solo con il tempo il coraggio di costituirsi parte civile o comunque una maggiore consapevolezza dei propri diritti. Deve, poi, evidenziarsi che questa proposta appare in contrasto con lo spirito della riforma volto a valorizzare il ruolo della vittima (art. 1 bis) anche attraverso l’ampliamento delle forme di giustizia riparativa (art. 9 quinquies).

l-ter) prevedere che il giudice per le indagini preliminari, anche d’ufficio, quando ritiene che il reato è da attribuire a persona individuata, ne ordini l’iscrizione nel registro di cui all’articolo 335 del codice di procedura penale, se il pubblico ministero ancora non vi ha provveduto;

Si tratta di una previsione che amplia i cd. poteri officiosi del giudice delle indagini preliminari, rispetto all’ipotesi ad oggi prevista a fronte della richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura. Si garantisce così la completezza delle indagini e si sopperisce ad eventuali inerzie dell’organo dell’accusa.

l-quater) prevedere che la mera iscrizione del nominativo della persona nel registro delle notizie di reato non determini effetti pregiudizievoli sul piano civile e amministrativo.

Si tratta di una previsione che risponde al principio della presunzione di innocenza che vige nel nostro ordinamento e che mira ad evitare che sia arrecato un nocumento eccessivo a quei soggetti la cui posizione di indagati è destinata ad una successiva definizione con un provvedimento di archiviazione.

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Art. 4 i riti speciali [10]

Rito abbreviato e patteggiamento. Rilievi comuni.

S’impone, in punto di premessa, apprezzamento per l’opzione legislativa di creare un diverso binario giudicante nei riti abbreviati e nei patteggiamenti, distribuiti, nei procedimenti a citazione diretta tra G.U.P. e Tribunale in composizione monocratica in apposita udienza predibattimentale, e riservare al Tribunale, in fase propriamente dibattimentale la celebrazione dei procedimenti in abbreviato c.d. condizionato.

Si tratta di una scelta condivisibilmente orientata dalla volontà, pure esplicitata nel medesimo disegno di riforma e parimenti apprezzata dalla commissione, di rafforzare la funzione di filtro dell’udienza preliminare dinanzi al G.U.P. e di quella predibattimentale dinanzi al Tribunale, in cui il giudice deve confrontarsi con una regola di giudizio non più di non sostenibilità dell’accusa in giudizio, ma di una non ragionevole previsione di condanna. Regole di giudizio foriere di valutazioni penetranti nel merito delle emergenze di causa che impegneranno i giudici in un verosimile conseguente maggior numero di definizioni con sentenze di non luogo a procedere.

Tale scelta non può che essere favorevolmente accolta quale significativa innovazione opportunamente deflattiva, considerati gli angusti confini – ben delineati nell’interpretazione della Suprema Corte – dell’attuale regola di giudizio dell’art. 425 co. III c.p.p..

segue: in particolare il rito abbreviato.

Assolutamente positiva risulta la proposta di riforma dell’art. 438 co. V c.p.p., pure apprezzata dalla commissione, con previsione dell’ammissione del giudizio abbreviato se l’integrazione risulti necessaria ai fini della decisione e se il procedimento speciale produca un’economia processuale, in rapporto ai tempi di svolgimento del giudizio dibattimentale.

L’introduzione del riferimento al tempo di svolgimento dell’istruttoria dibattimentale, quale parametro a cui rapportare la seconda condizione di ammissibilità del rito può concretizzare un allargamento delle ipotesi di accessibilità al rito abbreviato condizionato, riducendo il carico del Tribunale in sede dibattimentale, in quanto, in rapporto al naturale susseguirsi temporale delle prove a carico ed indi a discarico del dibattimento è prevedibile che la seconda condizione di accesso al rito sia piuttosto ordinaria e che la difesa in vista della natura premiale del rito, benchè condizionato meno rigorosamente alle finalità di economia processuale proprie del procedimento, si determini a tale scelta definitoria piuttosto che al giudizio ordinario.

Tale rilievo, induce a ritenere opportuna ed apprezzabile l’originaria proposta di sub ripartizione di cognizione di tale rito al Tribunale in fase dibattimentale, in ragione della verosimile incidenza deflattiva della proposta novella sul carico dei giudizi dibattimentali piuttosto che su quelli del G.U.P., conseguendo disagi definitori dei vari procedimenti rientranti nella cognizione del G.I.P. e del G.U.P..

Ad ogni buon conto, occorrerebbe precisare nel futuro dettato normativo se nella valutazione dell’economia processuale, nei termini richiesti dalla riforma, occorra conteggiare anche l’eventuale richiesta del p.m. di ammissione di prova contraria, onde evitare problemi interpretativi sugli indici di ammissibilità del rito.

In ultimo, la commissione, pur apprezzando la ragione deflattiva sottesa alla proposta della ulteriore riduzione di un sesto nel caso di mancata proposizione dell’impugnazione da parte dell’imputato, a seguito di definizione del procedimento nelle forme del rito abbreviato, evidenzia, altresì, che l’istituto potrebbe sostanzialmente avere scarsa applicazione, in quanto ben sovrapponibile a quello del cd. concordato in appello, pure proteso all’ottenimento di vantaggi sul trattamento sanzionatorio.

segue: l’applicazione di pena su richiesta delle parti.

Il rito del cd. “patteggiamento”, anche a seguito delle importanti modifiche intervenute con la legge di riforma del processo penale L. n. 103/17, rappresenta certamente il più significativo compromesso strategico alle esigenze deflattive che s’impongono nell’attuale fase della giustizia penale.

In quanto tale, non può che esprimersi pieno apprezzamento all’estensione di latitudine di tale modulo definitorio dei procedimenti penali, il quale si presta – più di ogni altro procedimento speciale – ad un autentico ed efficiente snellimento dei tempi processuali, trattandosi di procedimento culminante in sentenza con motivazione fisiologicamente succinta, contestuale e con gravame limitato, potenzialmente – nella logica abbozzata nella riforma – anche idoneo a garantire la confisca dei beni, oltre i casi di confisca obbligatoria.

segue: il rito abbreviato ed il “patteggiamento” conseguenti al all’emissione del decreto di giudizio immediato.

La commissione esprime parere favorevole rispetto ad entrambe le previsioni di cui all’art. 4 lett. C), trattandosi di proposte che recepiscono orientamenti già espressi dalla Suprema Corte, idonee, ad ogni modo, a dirimere ogni eventuale futura questione interpretativa problematica.

Il procedimento per decreto.

La commissione esprime parere favorevole alla previsione di cui all’art. 4 lett. d) nn. 2 e 3, quali condivisibili tentativi di stimolo al pagamento della pena pecuniaria e di rivitalizzazione dell’efficacia deflattiva dell’istituto.

Art. 5 – Giudizio[11]

lett. a)

L’articolo in esame prevede che, quando non è possibile esaurire il dibattimento in una sola udienza, dopo la lettura dell’ordinanza con cui provvede all’ammissione delle prove il giudice comunichi alle parti il calendario delle udienze per l’istruzione dibattimentale e per lo svolgimento della discussione.

La norma mira a realizzare il principio di concentrazione delle udienze.

 A fronte di tale consapevolezza, la norma introduce il principio della calendarizzazione delle udienze, intimamente connesso, nell’economia generale dell’art. 5 del testo della riforma, alla breve relazione delle parti sulla richiesta di ammissione delle prove.

Una maggiore conoscenza da parte del Giudice delle dinamiche istruttorie consente, infatti, una più incisiva capacità di organizzazione dei tempi processuali, improntati ai criteri di celerità ed efficienza.

In molti Tribunali italiani è già stata istituzionalizzata, tramite linee guida e protocolli, la prassi di calendarizzare le udienze successive a quella di apertura del dibattimento, secondo una logica sequenziale da tempo propugnata anche dalla Scuola Superiore della Magistratura. È innegabile infatti che la calendarizzazione permette una migliore gestione delle dinamiche processuali.

Inoltre, favorisce una migliore gestione dei procedimenti complessi e, di conseguenza, riduce anche i tempi per la redazione della successiva motivazione.

Di conseguenza, deve essere accolta con favore l’introduzione in chiave nazionale di una simile procedimentalizzazione.

Preme sottolineare, tuttavia, che tali forme innovative dell’organizzazione dell’udienza possono assumere una efficacia meramente tendenziale.

Ed invero, la trattazione sequenziale svolge efficacemente la propria funzione in contesti di ruoli di udienza non eccessivamente sovraccarichi, situazione quest’ultima purtroppo diffusa in tutta Italia.

Inoltre, come noto, spesso la calendarizzazione viene travolta da situazioni contingenti: il legittimo impedimento di una delle parti o di un teste; il prolungarsi inaspettato dell’escussione di un testimone; la necessità di approfondimenti istruttori ai sensi dell’art. 507 c.p.p.; il mutamento della composizione del Collegio o del singolo Giudice.

Quest’ultime sono tutte situazioni che sfuggono al controllo del Giudice, motivo per il quale è assolutamente necessario non far derivare alcuna conseguenza processuale o di altra natura all’eventuale mancato rispetto della calendarizzazione svolta.

In questo senso, allora, il principio si risolve in un criterio di gestione delle udienze, rivolto esclusivamente al Giudice nella gestione del proprio ruolo e ai dirigenti degli Uffici nella organizzazione complessiva dei Tribunali.

lett. b).

L’articolo in esame prevede che le parti illustrino le rispettive richieste di prova nei limiti strettamente necessari alla verifica dell’ammissibilità delle prove ai sensi dell’art. 190 c.p.p.

Il consolidamento trentennale del modello accusatorio ha consentito, oggi, di recuperare senza esitazioni una disciplina dell’illustrazione dei mezzi di prova evocativa di quella prevista dal codice previgente, che presentava benefici superiori ai rischi di vulnerazione del modello accusatorio.

Appare quindi condivisibile la reintroduzione di uno spazio espositivo che accompagni la formulazione delle richieste istruttorie; tale spazio appare proficuo innanzitutto per il Giudice, il quale potrà non solo esercitare un adeguato filtro nella selezione delle prove pertinenti all’oggetto di prova e non manifestamente superflue o irrilevanti, ma potrà altresì acquisire, pur mantenendo la propria verginità conoscitiva, l’ossatura e lo scheletro delle fonti entro cui inserire il fatto, con sicuro beneficio sia sulla sua capacità di orientarsi nel dipanarsi del dibattimento, sia sulla sua possibilità di strutturare motivazioni concise, che mantengano preciso e solido il legame tra prova e fatto.

La possibilità per il Giudice di acquisire informazioni sulla struttura dell’istruttoria in modo da esercitare un più serio filtro su tale segmento preliminare avrà altresì il pregio di stimolare tutte le parti ad articolare le prove dibattimentali secondo un ordine logico ben congegnato e di consentire un’organizzazione calendarizzata concertata con tutte le parti.

lett. d)

L’articolo in esame prevede, ai fini dell’esame del consulente o del perito, il deposito dell’eventuale elaborato scritto entro un termine congruo precedente l’udienza fissata per l’esame del consulente o del perito, ferma restando la disciplina delle letture e dell’indicazione degli atti utilizzabili ai fini della decisione.

Tale norma, lungi dal rappresentare un vulnus alla verginità conoscitiva del giudice e alla cultura dell’oralità della prova, appare la positivizzazione di una prassi virtuosa invalsa in numerosi Uffici giudiziari, che incontra usualmente il consenso di tutte le parti.

Del resto, nell’assunzione delle prove tecniche, la presenza di un Giudice preparato ed in grado di orientarsi nella complessità delle valutazioni tecnico-scientifiche offerte dai consulenti, è un valore aggiunto per tutte le parti, poiché consente, sin dalla genesi della prova, di stimolare un contraddittorio pieno e consapevole – senza rivalutazioni postume sui passaggi essenziali, di cui dovrà tenere conto nella redazione della motivazione.

lett. e)[12]

L’articolo in esame prevede sostanzialmente, attraverso un criterio di delega, che, nell’ipotesi di mutamento del giudice o di uno o più componenti del collegio, il giudice disponga, a richiesta di parte, la riassunzione della prova dichiarativa già assunta.

La parte innovativa della norma riguarda l’ipotesi in cui la prova dichiarativa sia stata verbalizzata tramite videoregistrazione, nel dibattimento svolto innanzi al giudice diverso o al collegio diversamente composto, nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate. In tal caso, il giudice dispone la riassunzione della prova solo quando lo ritenga necessario sulla base di specifiche esigenze.

Come è facilmente intuibile, la riforma interviene – cercando di chiarirla una volta per tutte – sulla regola dell’immutabilità del giudice fissata all’art. 525 c.p.p. in base al quale alla deliberazione della sentenza concorrono i medesimi giudici che hanno partecipato al dibattimento, a pena di nullità assoluta.

Tale regola, fino alle note pronunce della Corte Costituzionale n. 132/2019 e della Corte di Cassazione a Sezioni Unite “Bajrami”, imponeva senza deroghe al nuovo organo giudicante, in sede di rinnovazione dell’istruttoria, di acquisire il consenso delle parti processuali sull’utilizzabilità mediante lettura delle dichiarazioni già rese in contraddittorio dai testimoni escussi dinanzi al precedente giudice. A fronte del dissenso anche non motivato delle parti processuali, nessuno spazio valutativo era consentito al giudice sulle ragioni che rendevano opportuna o utile la nuova escussione orale del testimone già ascoltato nel contraddittorio.

L’imposizione rigida di una siffatta regola era ispirata al principio di immediatezza e di oralità della prova, ma chiaramente, comportando la necessità di ripetere attività istruttorie anche corpose, dilatava spesso in modo fatale i tempi di definizione dei procedimenti, in special modo nei casi – non infrequenti – di procedimenti di particolare complessità, pendenti nei Tribunali non distrettuali, maggiormente esposti al rischio di mutamento dell’organo giudicante, determinato da ragioni di trasferimento dei magistrati.

Nel tentativo di tutelare la ragionevole durata del processo e il principio di economia processuale, bilanciando principi di pari rango ma contrapposti (l’immediatezza e l’oralità della prova, da una parte, e la durata ragionevole del processo, dall’altra), era quindi invalsa negli uffici una “prassi della rinnovazione” per così dire sintetica, vidimata da numerose pronunce della Corte di Cassazione (da ultimo, Sez. 3, Sentenza n. 50299 del 18/09/2014 Ud.  (dep. 02/12/2014) Rv. 261387 – 01): allorquando non vi era il consenso dei difensori all’utilizzazione degli atti istruttori già assunti innanzi a diverso giudice, era consentito alle parti limitarsi a chiedere al testimone nuovamente citato se confermasse le dichiarazioni precedentemente rese, con un recupero per relationem delle stesse. Tale procedura, da un lato, non violava formalmente l’art. 525 c.p.p. e dall’altro non moltiplicava in modo esponenziale i tempi di svolgimento del processo, poiché, in caso di rinnovazione dibattimentale, l’aumento era limitato ai rinvii necessari per la nuova citazione di tutti i testimoni già sentiti. Del resto, la tutela dei suddetti principi era più formale che sostanziale.

La rigida interpretazione dell’art. 525 c.p.p. e per conseguenza la ben nota prassi descritta è stata, come detto, oggetto di due recenti pronunce della Consulta e del Giudice di legittimità.

La Corte Costituzionale, con la nota sentenza di inammissibilità n. 132/2019, pur non pronunciandosi sul quesito posto dal Giudice remittente, ha avuto modo di evidenziare che, in un contesto in cui i procedimenti durano per lungo tempo – ben superiore alla singola udienza prevista dal codice di procedura – «il principio di immediatezza rischia di divenire un mero simulacro: anche se il giudice che decide resta il medesimo, il suo convincimento al momento della decisione finirà – in pratica – per fondarsi prevalentemente sulla lettura delle trascrizioni delle dichiarazioni rese in udienza, delle quali egli conserverà al più un pallido ricordo». Ad avviso dei giudici costituzionali, sarebbe doveroso per il legislatore prevedere “ragionevoli eccezioni al principio dell’identità tra giudice avanti al quale è assunta la prova e giudice che decide, in funzione dell’esigenza, costituzionalmente rilevante, di salvaguardare l’efficienza dell’amministrazione della giustizia penale”.

Nel solco di una necessaria mitigazione del principio espresso dall’art. 525 c.p.p., si è posta altresì la Corte di Cassazione, con la decisione a Sezioni Unite del 10 ottobre 2019 (ud. 30 maggio 2019), n. 41736 (Bajrami, Rv. 215158), che ha – come noto – comportato un cambiamento epocale nella prassi applicativa, fissando, in relazione allo specifico punto che ci interessa, il seguente principio: la parte che ha interesse a risentire il teste già escusso può chiederlo, sempre che lo abbia indicato nella sua precedente lista testimoniale o voglia indicarlo con una lista per il cui deposito chiede un breve termine e sempre che abbia indicato puntualmente le motivazioni che rendono opportuna la nuova escussione (es. nuove circostanze su cui il teste non è stato già sentito; elementi da cui si trae l’inattendibilità del teste), le quali devono attestare che non si tratti di pedissequa e pertanto sovrabbondante reiterazione di attività già svolta; difettando queste condizioni, la richiesta può solo valere come sollecitazione del giudice ad attivare i propri poteri ex art. 507 c.p.p. Se le parti non chiedono alcuna reiterazione di prova già assunta, o la reiterazione è stata chiesta ma rigettata in quanto superflua, o la reiterazione è divenuta impossibile, le dichiarazioni già presenti al fascicolo sono utilizzabili previa lettura ex art. 511 c.p.p.

In tal modo, le Sezioni Unite nella sentenza “Bajrami” avevano sostanzialmente invertito la lettura della regola di cui all’art. 525 c.p.p., consentendo l’utilizzazione di prove dichiarative assunte innanzi a diverso giudice, mediante lettura, salvo espressa e motivata richiesta di parte da sottoporre al vaglio del giudice. Si è trattato quindi di operare un più ponderato bilanciamento dei valori sopra descritti, della ragionevole durata del processo e dell’immediatezza.

Tale rilettura ha consentito, a partire dalla data di deposito della sentenza Bajrami, ossia del 10 ottobre 2019, un improvviso e rilevante incremento delle definizioni dei procedimenti penali ultratriennali di particolare complessità, che, sebbene oggetto di impegnativa attività istruttoria, avevano visto negli anni mutare la composizione dell’organo giudicante con conseguenti plurime riassunzioni di prove. Va peraltro osservato che la portata di tale incremento non si è potuta probabilmente apprezzare con pienezza, a causa della sospensione dell’attività giudiziaria determinata dall’emergenza Sars-Cov1.

In tale contesto applicativo e diritto vivente, la norma proposta dal Governo si inscrive nel solco della riflessione sul bilanciamento tra i principi costituzionali, tracciato nelle due pronunce citate, rinforzando il sistema delle garanzie.

Ad una prima analisi, la soluzione proposta dal legislatore offre indubbie potenzialità in un’ottica di lungo periodo, anche se si espone ad inevitabili rischi, se calata nella prassi applicativa di breve periodo.

Sotto il primo profilo, va osservato che la norma recepisce e trasforma in diritto positivo l’elaborazione giurisprudenziale illustrata, rafforzandone le direttive ispiratrici, arricchendo il principio dell’immutabilità del giudice e dell’oralità della prova e offrendo al giudice della rinnovazione un “meccanismo compensativo funzionale alla correttezza della decisione”, in una direzione suggerita dalla stessa Corte Costituzionale con la sentenza n. 130 del 2019: attraverso la videoregistrazione della prova dichiarativa, il giudice potrà apprezzare i segni non comunicativi della prova orale cui non ha potuto assistere e compensare la perdita del contatto diretto con il testimone. Si tratta quindi di una sicura implementazione delle garanzie.

Sotto il profilo dei rischi, tuttavia, vengono in rilievo due ordini di problemi.

Il primo è operativo.

Lo strumento della videoregistrazione è infatti immaginato dal legislatore come obbligatorio (sebbene non sia requisito di validità della prova) in ogni assunzione della prova dichiarativa, a prescindere dalla tipologia della testimonianza e dalla complessità del procedimento. Andrà quindi gestita, dal punto di vista operativo, la sua implementazione, in termini di risorse tecniche e umane, di strumentazione e di logistica degli Uffici giudiziari; e dei conseguenti tempi di adeguamento operativo dovrebbe tenersi conto nello stabilire il dies a quo del nuovo paradigma normativo.

Il secondo attiene alla disciplina intertemporale.

La videoregistrazione è disegnata dal legislatore, pro futuro, quale requisito di utilizzabilità “rinforzata” dell’atto: in quanto modalità più garantita di assunzione della prova, la videoregistrazione, in caso di mutamento del giudice, funge da requisito di utilizzabilità mediante lettura della prova dichiarativa, alternativo rispetto al consenso del difensore (salvo il diritto di riassunzione della prova in relazione a specifiche e motivate esigenze).

Se questa è la disciplina de iure condendo, resta da sciogliere il nodo del regime applicabile ai procedimenti pendenti al momento dell’entrata in vigore della riforma, per i quali le prove dichiarative sono state già assunte senza la videoregistrazione, che non era né requisito di utilizzabilità né tantomeno di validità dell’atto. Tali prove, secondo il principio tempus regit actum, avendo riguardo al momento della loro assunzione, dovrebbero considerarsi validamente assunte ed utilizzabili mediante lettura dal giudice della rinnovazione.

Per fugare ogni dubbio in merito al loro regime, appare tuttavia opportuno che tali prove, con apposita disciplina transitoria, siano rese utilizzabili dal giudice della rinnovazione secondo il paradigma interpretativo tracciato dalla sentenza Bajrami.  Tale paradigma, lungi dall’imporre un transito automatico delle prove dichiarative assunte da un giudice diverso, consente un ragionevole filtro alla riassunzione della prova, nel contraddittorio delle parti, legato a parametri chiari precisamente indicati dalla Corte di Cassazione, in grado di disincentivare distorsioni delle garanzie difensive, che non solo sono nocive per il principio di ragionevole durata del processo, ma che soprattutto non garantiscono nella sostanza il principio di oralità e immediatezza.

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Art. 6 (Procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica)[13]

Nell’esercizio della delega di cui all’articolo 1, i decreti legislativi recanti modifiche al codice di procedura penale in materia di procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, per le parti di seguito indicate, sono adottati nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi:

  1. a) nei procedimenti a citazione diretta di cui all’articolo 550 del codice di procedura penale, prevedere un’udienza innanzi al tribunale in composizione monocratica nella quale il giudice, diverso da quello davanti al quale, eventualmente, dovrà̀ celebrarsi il giudizio, sulla base degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, pronuncia sentenza di non luogo a procedere se sussiste una causa che estingue il reato o per la quale l’azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita, se il fatto non è previsto dalla legge come reato, se risulta che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o che si tratta di persona non punibile per qualsiasi causa o se gli elementi acquisiti risultano insufficienti o contraddittori o comunque non consentono, quand’anche confermati in giudizio, una ragionevole previsione di accoglimento della prospettazione accusatoria; prevedere nella stessa udienza il termine, a pena di decadenza, per la richiesta del giudizio abbreviato o di applicazione della pena su richiesta o per la domanda di oblazione;

a-bis) nei procedimenti a citazione diretta di cui all’articolo 550 del codice di procedura penale, introdurre un’udienza predibattimentale in camera di consiglio, innanzi a un giudice diverso da quello davanti al quale, eventualmente, dovrà̀ celebrarsi il dibattimento;

a-ter) prevedere che, in caso di violazione della disposizione di cui all’articolo 552, comma 1, lettera c), del codice di procedura penale, il giudice, sentite le parti, quando il pubblico ministero non provvede alla riformulazione della imputazione, dichiari anche d’ufficio la nullità e restituisca gli atti; prevedere che, al fine di consentire che il fatto, le circostanze aggravanti e quelle che possono comportare lapplicazione di misure di sicurezza, nonché́ i relativi articoli di legge siano indicati in termini corrispondenti a quanto emerge dagli atti, il giudice, sentite le parti, laddove il pubblico ministero non provveda alle necessarie modifiche, restituisca anche di ufficio gli atti al pubblico ministero;

a-quater) prevedere che, in assenza di richieste di definizioni alternative di cui alla lettera precedente, il giudice valuti, sulla base degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, se sussistono le condizioni per pronunciare sentenza di non luogo a procedere perché́ gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna;

a-quinquies) prevedere che, nel caso in cui il processo, nell’udienza di cui alla lettera a), non sia definito con procedimento speciale o con sentenza di non luogo a procedere, il giudice fissi la data per una nuova udienza, da tenersi non prima di venti giorni, tenuta di fronte a un altro giudice, per l’apertura e la celebrazione del dibattimento; coordinare la disciplina dell’articolo 468 del codice di procedura penale;

  1. b) prevedere che il giudice non possa pronunciare sentenza di non luogo a procedere, nei casi di cui alla lettera a-quater), se ritiene che dal proscioglimento debba conseguire l’applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca;
  2. c) prevedere l’applicazione alla sentenza di non luogo a procedere di cui alla lettera a-quater) degli articoli 426, 427 e 428 del codice di procedura penale e delle disposizioni del titolo X del libro V dello stesso codice, adeguandone il contenuto in rapporto alla competenza del tribunale in composizione monocratica”.

Con l’art. 6 è stata prevista l’introduzione di una “udienza predibattimentale”, con una disciplina per certi versi sovrapponibile a quella dell’udienza preliminare, nei procedimenti monocratici a citazione diretta di cui all’art. 550 c.p.p.

La ratio di tale previsione normativa è evidentemente deflattiva, in quanto la finalità di questa udienza, da svolgersi in camera di consiglio, è l’immediato rilievo di una delle cause di non punibilità ovvero quando gli atti contenuti nel fascicolo delle indagini preliminari siano insufficienti, contraddittori o non consentano una ragionevole previsione di condanna della prospettazione accusatoria. La ratio della novella è quella di garantire la celebrazione del dibattimento laddove vi siano serie probabilità di condanna dell’imputato, stante l’elevata percentuale di sentenze assolutorie con cui ogni anno si chiudono migliaia di processi.

Tale udienza, che si svolge a porte chiuse e dinanzi ad un Giudice diverso rispetto a quello del dibattimento (laddove sarà celebrato), mira a garantire la celebrazione del processo solo quando gli elementi raccolti nel corso delle indagini preliminari siano ritenuti sufficienti a consentire una pronuncia di condanna. Al termine dell’udienza predibattimentale, dunque, se il Giudice riterrà sussistente tale eventualità, fisserà la nuova data di udienza, non prima di 20 giorni, per l’apertura e la celebrazione del dibattimento. In caso contrario, invece, il Giudice pronuncerà sentenza di non luogo a procedere, nel rispetto delle norme di cui gli artt. 426, 427 e 428 c.p.p. (rispettivamente relativi ai requisiti della sentenza, alla condanna alle spese ed ai danni del querelante e all’impugnazione della sentenza di non luogo a procedere). Solo l’applicazione, anche in caso di proscioglimento, di una misura di sicurezza diversa dalla confisca impedisce la pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere.

L’udienza cd. filtro, inoltre, rappresenta il termine, a pena di decadenza, per richiedere la celebrazione del processo con rito abbreviato, applicazione della pena su richiesta delle parti ed oblazione.

Rispetto all’originaria formulazione, peraltro, gli emendamenti del Governo sono intervenuti con riguardo al vizio di indeterminatezza del capo di imputazione ai sensi dell’art. 552 c. 1 lett. c) c.p.p., prevedendo la declaratoria di nullità con conseguente restituzione degli atti al Pubblico Ministero solo quando questi non abbia provveduto alla sua riformulazione (con un meccanismo molto simile a quello previsto dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione – sent. n. 5307 del 20/12/2007, Battistella – per la declaratoria di nullità per genericità o indeterminatezza del capo di imputazione in sede di udienza preliminare). Parimenti, nel caso in cui debba procedersi alla contestazione del fatto così come emerge dagli atti di indagine ovvero laddove debba contestarsi una circostanza aggravante, anche che comporti l’applicazione di una misura di sicurezza, il Giudice può disporre anche d’ufficio la trasmissione degli atti al Pubblico Ministero solo se questi non abbia provveduto alle necessarie modifiche.

Illustrata la portata della norma, anche alla luce delle modifiche introdotte dagli emendamenti governativi, appare necessario valutarne le conseguenze in termini applicativi.

Nel testo redatto dalla Commissione Lattanzi, l’introduzione di tale udienza filtro viene giustificata da una connessione sistematica con la nuova regola di giudizio per l’esercizio dell’azione penale, che, nella sua rinnovata latitudine, non può restare priva di un controllo giudiziale.

Tale controllo viene affidato al giudice del dibattimento, evidentemente sulla scorta di una maggiore attitudine, dettata dall’esperienza, ad effettuare il giudizio prognostico sotteso alla nuova regola per l’esercizio dell’azione penale.

L’udienza filtro monocratica, così come delineata, seppur rispondente a ragioni astrattamente valide, verosimilmente comporterà aggravi processuali senza alcun tipo di beneficio.

I pur validi presupposti dell’azione riformatrice, difatti, rischiano di apparire disancorati dalla realtà concreta dei giudizi monocratici

I ruoli di udienza, infatti, sono spesso così sovraccarichi che ragionevolmente si potrà prevedere che la controspinta psicologica immaginata dalla Commissione sia annichilita dalla mole di lavoro da gestire.

Inoltre, la riforma sembra trascurare la realtà di molti Tribunali di piccole dimensioni, in cui il numero esiguo dei giudici del dibattimento, in connessione al costante turn-over che caratterizza tale tipologia di Uffici, potrebbe agevolmente causare diverse incompatibilità, foriere di prolungamenti irragionevoli della durata dei procedimenti.

Le connotazioni dell’udienza filtro, poi, appaiono in contraddizione con la contestuale riduzione del numero di procedimenti in cui è prevista l’udienza preliminare: contraddizione ancor più marcata se si tiene conto che i processi di natura monocratica sono spesso caratterizzati da una minore complessità.

Come delineata, in definitiva, l’udienza filtro potrebbe determinare una maggiore durata dei procedimenti penali rispetto a quella attuale: il giudice dell’udienza filtro dovrebbe rinviare al giudice competente per “l’apertura e la celebrazione del dibattimento”, con una sorta di duplice udienza per la conferma del rinvio a giudizio, a fronte dell’assenza di richieste di riti alternativi, e per l’apertura del dibattimento quando, invece, nella prassi attuale, tali due adempimenti sono svolti nella medesima udienza. Non è ipotizzabile, infatti, che il giudice dell’udienza filtro possa già disporre il rinvio con la citazione dei testimoni, non avendo a disposizione il calendario delle udienze del giudice competente per la celebrazione del dibattimento.

Nei termini in cui prevista, pertanto, l’udienza in commento, oltre a non incidere significativamente sulla ragionevole durata del processo, potrebbe condurre a benefici solo minimi.

Sarebbe stato auspicabile, invece, aumentare le possibilità di intervento del Giudice in sede predibattimentale ai sensi degli artt. 129 e 469 c.p.p., senza determinare così una duplicazione dei giudici coinvolti, con annesse possibili situazioni di incompatibilità.

D’altronde, già nella prassi attuale, gli imputati che intendano definire il procedimento con riti alternativi o con strumenti deflattivi (remissione di querela, condotte riparatorie, proposte di particolare tenuità del fatto), effettuano tali richieste dinanzi al giudice competente per il dibattimento.

Ed anche laddove gli atti presenti nel fascicolo del pubblico ministero siano insufficienti o inidonei per una sentenza di condanna, sovente si assiste alla richiesta di riti abbreviati, in cui tale condizione sfocia necessariamente in una sentenza di assoluzione.

Art. 7.

Impugnazioni[14]

La norma introduce alcune previsioni volte a garantire che l’impugnazione risponda ad una effettiva esigenza dell’imputato. Tale finalità viene garantita già nel processo celebrato in absentia : l’art. 2 ter lett. h) prevede <che il difensore dell’imputato assente possa impugnare la sentenza solo se munito di specifico mandato, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza> ; che <con lo specifico mandato a impugnare l’imputato dichiari o elegga il domicilio per il giudizio di impugnazione>; ed infine si prevede, per il difensore dell’imputato assente, un allungamento del termine per impugnare.

Come già evidenziato dalla Commissione Lattanzi, l’intervento sulla legittimazione del difensore ad impugnare costituisce uno snodo essenziale, sia in chiave di effettiva garanzia dell’imputato, sia in chiave di razionale e utile impiego delle risorse giudiziarie: la misura, infatti, è volta ad assicurare la celebrazione delle impugnazioni solo quando si abbia effettiva contezza della conoscenza della sentenza emessa da parte dell’imputato giudicato in assenza e ad evitare l’inutile celebrazione di gradi di giudizio destinati ad essere travolti dalla rescissione del giudicato. A tutela delle esigenze di pieno e impregiudicato esercizio del diritto di difesa, la modifica è accompagnata dalla previsione di un allungamento dei termini per impugnare a favore del difensore dell’assente.

Anche per i processi che non sono stati celebrati in absentia è previsto che con l’atto di appello sia depositata dichiarazione o elezione di domicilio ai fini della notifica dell’atto introduttivo del giudizio di impugnazione, cui si accompagna secondo quanto previsto dall’art.2ter lett. h) la necessità per il difensore dell’imputato assente di munirsi di specifico mandato rilasciato dopo la pronuncia della sentenza per poter proporre impugnazione. Le disposizioni appena esaminate vanno salutate con favore, non solo perché volte ad intraprendere solo quei giudizi di impugnazione che rispondano effettivamente all’interesse dell’imputato, ma anche perché costituiscono un filtro rispetto ad impugnazioni che, aggravando il carico di lavoro delle Corti di Appello, ne impegnino infruttuosamente le risorse.

Condivisibile appare la previsione dell’abrogazione dell’art.582 co.2 c. p. p. e dell’art.583 c. p. p., in quanto volta a favorire la concentrazione dei luoghi e modi di proposizione dell’atto di impugnazione e con essa una più tempestiva trasmissione dei relativi atti al giudice del gravame.

Si segnalano per converso alcune criticità rispetto alla previsione dell’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento per i reati puniti con pena alternativa, o con pena pecuniaria tout court, poiché questi possono riguardare anche vicende delicate come, ad esempio, in tema di lesioni gravi derivanti da violazione normativa antinfortunistica.

Un sia pur contenuto deflattivo può avere, invece, la perdurante previsione dell’inappellabilità della sentenza di condanna a pena sostituita con il lavoro di pubblica utilità, per cui appare possibile esprimere una valutazione positiva.

Appare parimenti apprezzabile anche la previsione della celebrazione del giudizio di appello con rito camerale non partecipato, salva diversa richiesta del Difensore o dell’imputato;

In ottica deflattiva appare condivisibile l’eliminazione delle preclusioni di cui all’art.599 bis co. 2 c.p.p. in quanto proprio i reati attualmente esclusi dall’applicazione del cd concordato impegnano maggiormente le Corti di Appello e potrebbero determinare una maggior convenienza processuale per gli imputati, nonché una più rapida formazione del giudicato. Non sfugge che nella sua precedente formulazione l’istituto aveva condotto a prassi non sempre condivisibili quanto alla entità delle riduzioni di pena; tuttavia la pregressa esperienza, nonché la esplicita previsione del comma 3 dell’art. 599 bis c.p.p., appaiono idonei a scongiurare la reiterazione di una simile applicazione dell’istituto.

Pur prendendo atto della rinuncia a configurare l’appello come impugnazione a critica vincolata della sentenza di primo grado, come proposta dalla Commissione Lattanzi, appare comunque opportuna la esplicita previsione dell’inammissibilità dell’appello per aspecificità dei motivi. Tale previsione valorizza il carattere tecnico dell’atto di impugnazione e riecheggia quanto già affermato dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione con la sentenza 27.10.2016 – 22.2.2017 ric. Galtelli.

Maggiormente coerente con la struttura del rito abbreviato appare la previsione secondo cui,  in caso di appello contro sentenza di proscioglimento per motivi relativi alla valutazione della prova dichiarativa, la rinnovazione dell’istruzione sia limitata ai soli casi di prove dichiarative assunte in udienza nel corso del giudizio di primo grado: la proposta di legge qui in commento sarebbe dunque applicabile , oltre che al giudizio ordinario, ai soli giudizi abbreviati nei quali si sia proceduto ad attività istruttoria a norma dell’art. 438 co. 5 o 441 c. p. p.., fermo restando il potere conferito alla Corte di Appello dall’art. 603 c. p. p..

Quanto al procedimento dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione, si segnalano i rischi insiti nella previsione del contraddittorio posticipato, descritto alla lettera h-quinquies, rispetto ai provvedimenti che dichiarino la inammissibilità del ricorso. Si profila infatti il rischio di un consistente aggravio del carico di lavoro conseguente all’impugnazione di siffatti provvedimenti, non adeguatamente compensato dalla previsione della assenza di effetto sospensivo. Analogo rischio si segnala in ordine alla previsione della lettera h – sexies, che nella sua attuale formulazione si presta ad un utilizzo estremamente ampio e strumentale, non adeguatamente compensato in termini numerici dalla utilità del rimedio nei casi in cui la questione di competenza, effettivamente proposta e rigettata in primo grado, venga ritenuta invece fondata in Cassazione.

Art. 8

Condizioni di procedibilità[15]

La commissione condivide la delega di modifica contenuta nella versione emendata dell’art. 8 del disegno di legge A.C. 2453 (lett. a), volta a estendere la procedibilità a querela di parte per i delitti di lesioni personali stradali gravi e gravissime, di cui all’art. 590 bis comma 1 c.p., ferma restando la procedibilità d’ufficio per le ipotesi previste dai successivi commi dell’articolo stesso, nonché per ulteriori specifici reati contro la persona o contro il patrimonio individuati tra quelli puniti con la pena edittale detentiva non superiore nel minimo a due anni (pena detentiva da individuarsi non tenendo conto delle  circostanze), facendo salva la procedibilità d’ufficio quando la persona offesa sia incapace per età o per infermità (lett. a bis). L’adeguatezza di tali proposte discende dalla dimensione eminentemente individuale e disponibile del bene giuridico tutelato in via diretta dalle norme incriminatrici e dall’assenza o esiguità degli effetti pregiudizievoli nei confronti della collettività.

Per le medesime ragioni innanzi esposte, e nella prospettiva di un alleggerimento del carico di lavoro dei tribunali e dell’accelerazione dei procedimenti, si potrebbero inoltre rendere procedibili a querela di parte anche le fattispecie previste dall’art. 574 bis c.p. – che, immotivatamente, è procedibile d’ufficio a differenza del 573 e 574 c.p. -, nonché gli artt. 570 e 570 bis c.p., a esclusione dei casi in cui la persona offesa sia incapace per età o infermità e priva di tutore o curatore speciale.

La commissione propone, inoltre, il superamento dell’impasse in ordine alla procedibilità d’ufficio del delitto di atti persecutori, fuori delle ipotesi di cui al terzo comma dell’art. 612 bis c.p. (persona offesa minore o con disabilità), quando connesso con il delitto di lesioni volontarie aggravate ex artt. 585 – 576 n. 5.1 c.p. in quanto commesse dal medesimo autore del delitto di atti persecutori nei confronti della stessa vittima: trattasi infatti di reati che, isolatamente considerati, sarebbero procedibili a querela di parte (rimettibile) ma che, se connessi, si rendono reciprocamente procedibili d’ufficio e precluderebbero l’estinzione dei reati nonostante l’eventuale remissione di querela per entrambe le fattispecie e la conseguente accettazione della stessa.

Si ritiene infine utile valutare la procedibilità a querela di parte per le contravvenzioni a tutela di beni giuridici riferibili a persona offesa privata, prima fra tutte quella di molestie, ex artt. 659 e 660 c.p., la cui procedibilità d’ufficio appare irragionevole e sproporzionata a fronte della procedibilità a querela di parte del più grave reato di atti persecutori.

La commissione accoglie con favore la proposta di riforma contenuta nella lettera b) dell’art. 8 del disegno di legge A.C. 2453, in relazione all’obbligo della persona offesa di indicare in querela un “idoneo recapito telematico” (pur ritenendo preferibile – per esigenze di certezza – l’originaria formulazione che faceva espresso riferimento all’utilizzo di un “indirizzo di posta elettronica certificata”), che – unitamente alla previsione di cui all’art. 3 lett. b) – costituisce un valido e adeguato strumento defatigatorio e acceleratorio del procedimento, eliminando i ritardi derivanti dalle difficoltà di reperire l’interessato dopo la proposizione di querela.

Un giudizio complessivamente favorevole merita altresì la previsione di riforma contenuta nella lettera c) dell’art. 8 del d.d.l. A.C. 2453, che consentirebbe di eliminare l’onere di proseguire procedimenti per i quali appaia essere venuta meno l’aspirazione alla punizione del responsabile da parte del soggetto legittimato a richiederla.

Deve tuttavia osservarsi che tale ultima presunzione non appare collimante con quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità, anche a Sezioni Unite, con sentenza 10 ottobre 2008 n. 46088, in ordine alla necessità di avvisare preventivamente di tale conseguenza la persona offesa. Tale criticità potrebbe essere superata prevedendo normativamente l’inserimento del relativo avviso nel corpo della citazione del testimone-querelante. Si ravvisa, infine, l’opportunità di mitigare l’automatismo dell’effetto estintivo al fine di consentire la possibilità di valutare eventuali giustificazioni postume dell’assenza in udienza da parte del querelante legittimamente impossibilitato a parteciparvi (prevedendo ad esempio un adeguato termine dilatorio tra l’udienza e la pronuncia estintiva, ovvero che l’estinzione sia disposta solo dopo due assenze ingiustificate consecutive, analogamente a quanto previsto per l’attore nel processo civile).

Nell’ottica del perseguimento delle medesime finalità deflattive e acceleratorie, la commissione fa altresì proprie le proposte emendative contenute nelle lettere e) ed f) dell’art. 8 del disegno di legge A.C. 2453, contenute nella relazione finale della commissione di studio Lattanzi, che ben si integrano nel complessivo impianto di riforma normativa.

Al riguardo, la commissione propone al legislatore di voler valutare l’opportunità di modificare l’art. 162 ter c.p. estendendo l’estinzione del reato per condotte riparatorie ai casi di procedibilità d’ufficio, allorché la disposizione incriminatrice tuteli in via diretta beni giuridici facenti capo a privati e, solo in via mediata, alla collettività (es. delitti contro l’assistenza familiare di cui al capo IV del Titolo XI del libro II c.p.), nonché ai casi di procedibilità a querela non soggetta a remissione, se vi è il consenso della persona offesa e al netto di adeguata valutazione da parte del giudice degli atti disponibili per la decisione alla luce dei criteri di giudizio di cui all’art. 133 c.p..

Sul punto si osserva che alcuni dei delitti contemplati dalle disposizioni comprese nel richiamato capo IV del Titolo XI del libro II c.p. (es. artt. 570 e 570 bis c.p.) tutelano interessi eminentemente privatistici (motivo per il quale se ne propone, altresì, la procedibilità a querela di parte), al punto che difficilmente giungerebbero a conoscenza dell’autorità giudiziaria senza la comunicazione da parte dell’interessato, il quale è ragionevole che manifesti eventualmente il proprio interesse a che venga perseguito penalmente il presunto autore di tali reati.

In altre ipotesi, in particolare per il delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) non può prescindersi da una procedibilità d’ufficio in ragione della sua stessa particolare offensività e della conseguente difficoltà per la vittima di acquisire consapevolezza del proprio status e di reagire all’autore del delitto, cui è legata da particolari legami. Nel perseguimento delle richiamate finalità deflattive e acceleratorie, piuttosto che prevedere la procedibilità a querela di parte dello stesso delitto (dal momento che proprio la rinuncia a sporgere querela in virtù della prostrazione fisica e morale derivante dalle condotte delittuose è uno degli aspetti caratterizzanti di tale fattispecie), o di prevedere l’estinzione del reato in virtù della semplice remissione della querela (che potrebbe essere indotta e comunque non implicherebbe necessariamente la riparazione dei danni e la rieducazione del reo) si potrebbe estendere a tale ipotesi delittuosa (come innanzi proposto) il meccanismo dell’estinzione del reato per condotte riparatorie, subordinando la stessa, oltre che alla riparazione del danno da parte dell’autore del delitto, anche alla proficua partecipazione a specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per questo e analoghi reati, similmente a quanto previsto per la sospensione condizionale della pena dall’art. 165 c.p..

Art. 9

Disposizioni in materia di pena pecuniaria[16]

Le modifiche introdotte dal Governo all’art. 9 della Proposta della Commissione Lattanzi hanno reso indeterminato il contenuto della riforma in relazione alle sanzioni pecuniarie. I criteri ed obiettivi della legge delega prevedono genericamente la razionalizzazione del sistema, una maggiore efficienza ed equità nel meccanismo di conversione della pena pecuniaria nel caso di insolvibilità e, infine, la previsione di meccanismi efficaci volti alla riscossione. La vaghezza delle espressioni e la genericità dei possibili rimedi ad una criticità evidente del sistema sanzionatorio italiano conforta la sensazione che ancora non sia chiara la causa prima di tale inefficienza (verosimilmente dovuta a più fattori concomitanti).

Per tali ragioni la Commissione  non condivide la novella normativa di cui  ai punti a), b) e c), non essendo possibile comprendere attraverso quali modifiche ovvero novità normative potranno essere raggiunti i fini prefissati.

Eppure la questione dell’effettività della pena pecuniaria dovrebbe assumere assoluta preminenza in uno Stato che deve costantemente fare i conti con le proprie limitate risorse. Si assiste così all’abdicazione di fatto della possibilità di reperire mezzi per soddisfare le esigenze primarie della collettività.

Nella proposta della commissione Lattanzi la sola soluzione concreta individuata per porre rimedio all’inefficienza dell’esecuzione delle pene pecuniarie era il sistema delle quote giornaliere.

Nei confronti di tale soluzione, non più prevista, si deve esprimere un parere nettamente favorevole. Tuttavia, devono essere certamente previsti criteri di agevole e snella applicazione per stabilire le condizioni economiche del condannato ai fini della commisurazione; in caso contrario si assisterebbe ad un appesantimento del processo, in contrasto con gli obiettivi della riforma.

Il sistema delle quote giornaliere recherebbe con sé numerosi vantaggi, non ultimo l’equità del computo della pena detentiva nel caso di conversione, essendo separato concettualmente il quantum legato alla gravità del reato (determinazione del numero di quote giornaliere) dal quantum correlato alle condizioni economiche del reo (determinazione dell’ammontare della quota).

Se appare assolutamente condivisibile l’opinione che una delle cause della evanescenza delle pene pecuniarie vada ricercata nella fissità di alcune di esse o nella assenza di un valido criterio di commisurazione al reddito del condannato, si reputa ottimistico il riconoscimento della stessa quale esclusiva origine di tutti i mali.

Fattori come la scarsità di personale amministrativo incardinato nel “campione penale” o la complessità della richiesta di rateizzazione della pena pecuniaria in fase esecutiva rivestono altrettanta importanza nella ricostruzione delle ragioni di tale inefficienza.

Peraltro, il passaggio di atti dal soggetto riscossore al pubblico ministero e, infine, al magistrato di sorveglianza in caso di insolvenza (art. 660 c.p.p. e 238 bis T.U. Spese di giustizia) spesso implica il decorso di un apprezzabile lasso di tempo.

La possibilità di convertire le pene pecuniarie in lavori di pubblica utilità prevista dall’art. 102 L. 24 novembre 1981 n. 689 merita una estensione capace di rimediare, con risultati utili per la società, all’insolvibilità del condannato. Di talché, l’aumento dell’organico degli uffici del pubblico ministero e del magistrato di sorveglianza deputati alla conversione riveste carattere obbligato.

Altro punctum dolens della normativa afferente all’esecuzione della pena pecuniaria è costituito dalla assenza di concrete conseguenze sanzionatorie nei confronti degli agenti della riscossione incaricati di eseguire, anche coattivamente, la pena pecuniaria  qualora non ottemperino agli obblighi previsti dalla legge . In particolare, nel caso l’esecuzione si riveli infruttuosa l’agente della riscossione deve immediatamente informare il pubblico ministero affinché il procedimento per la conversione possa essere messo in moto. La formazione di dipendenti specificamente istruiti e responsabili, in numero adeguato, si rende quanto mai doverosa, pena la dispersione di preziose risorse e l’ineffettività della pena pecuniaria.

Si osserva, inoltre, che l’amministrazione finanziaria è l’unico soggetto dotato di strumenti idonei e rapidi a rinvenire i beni posseduti dal condannato.

La semplificazione dei passaggi diretti all’esecuzione della pena pecuniaria, alla conversione della stessa in caso di insolvibilità e alla notificazione dell’invito al pagamento sono tappe obbligate di qualunque riforma che si proponga di rendere effettiva la sanzione di cui agli artt. 24 e 26 del Codice penale.

Soluzione radicale ma razionale, stante l’assenza di prospettive definite nella legge delega, potrebbe essere quella di evitare l’applicazione delle pene pecuniarie, salvo il limite del decreto penale di condanna e l’oblazione. In tal caso, una volta compiuta la conversione in pene pecuniarie, l’omesso pagamento implicherebbe la reviviscenza della reclusione o dell’arresto, eccetto nei casi di impedimenti oggettivi da dimostrare puntualmente.

La lettura dell’affermazione sopra espressa sia letta nell’ottica di un cordiale sollecito ad individuare, previo confronto con gli operatori che dell’esecuzione delle pene pecuniarie si occupano, concreti rimedi ad una problematica avvertita dalla giurisprudenza e dalla dottrina, la cui soluzione si impone per restituire risorse allo Stato e nell’ottica di una efficacia general-preventiva e special-preventiva.

 

Art. 9 bis

SANZIONI SOSTITUTIVE DELLE PENE DETENTIVE BREVI[17]

In relazione al testo dell’art. 9 bis, rubricato “Disposizioni in materia di sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi”, si esprime parere in linea di massima favorevole alla riforma, con le precisazioni di cui nel prosieguo.

In primo luogo, con riferimento alla lett. b) in materia di pene sostitutive alla detentiva, si ritiene di valorizzare, tra le varie proposte dal legislatore, quella dei lavori di pubblica utilità, che, se correttamente modulati e ancorati al reato, hanno mostrato, come emerso in sede di applicazione della messa alla prova, le proprie potenzialità di effettiva rieducazione. In proposito, per l’individuazione dell’ente presso cui svolgere i l.p.u., si propone di coinvolgere l’U.E.P.E. territorialmente competente, secondo il modello della sospensione del procedimento con messa alla prova, opportunamente integrato e implementato, al fine di delineare un sistema più rapido ed efficiente. In tal senso, si auspica una maggiore partecipazione degli enti ospitanti, da realizzarsi tramite l’istituzione di apposito elenco nazionale, che, eventualmente, dia conto di suddivisioni territoriali, nel quale le strutture possano iscriversi a loro richiesta, previa verifica ad opera dell’U.E.P.E. della sussistenza di taluni requisiti– e salva restando la valutazione finale del giudice – con specifico riferimento alla copertura assicurativa obbligatoria per il lavoratore e alla finalizzazione alla pubblica utilità dell’attività da svolgersi, che dovrebbe altresì presentare un effettivo collegamento con il reato posto in essere, così da valorizzare la finalità rieducativa dell’istituto. In quest’ottica, potrebbe altresì prevedersi, alternativamente, che, laddove l’imputato sia capiente, l’assolvimento dell’onere assicurativo ricada sullo stesso, così ponendo rimedio a una criticità emersa nella prassi applicativa, data la frequente indisponibilità di risorse economiche da impiegare a tal fine da parte degli enti pubblici.

Per velocizzare e semplificare la redazione del programma, che, come ha dimostrato l’applicazione della messa alla prova, stante l’attuale carenza di risorse degli uffici di esecuzione penale esterna, di fatto determina una stasi del procedimento di alcuni mesi, è auspicabile, oltre alla creazione del predetto elenco, anche la predisposizione di protocolli e modelli standard da impiegare in tutti gli uffici.

Si propone poi l’espunzione della disposizione di cui alla lett. i), che, mantenendo opportunamente fermi i casi di confisca obbligatoria, risulta di esiguo perimetro applicativo e che, pertanto, rischia di risolversi in un aggravio del procedimento senza apportare alcun reale beneficio all’imputato, non risultando funzionale alla deflazione del contenzioso che il legislatore si propone di incentivare con il ricorso a riti premiali.

In ordine alla lett. l), si rappresenta che, in concreto, la valutazione delle effettive condizioni economiche dell’imputato potrebbe richiedere accertamenti e indagini non agevoli per il giudicante, risultando maggiormente praticabile, anche in ottica acceleratoria e di economia processuale, la possibilità di desumere indicatori delle condizioni economiche dell’agente dagli atti di indagine, dalle modalità e dalla specie del reato.

Non si ritiene invece di formulare alcun rilievo in ordine alle lett. a), c), d), e), f), h) m), n), per le quali si esprime  parere favorevole.

 

Art. 9 BIS

PARTICOLARE TENUITA’ DEL FATTO e MESSA ALLA PROVA[18]

Appare ampiamente condivisibile l’emendamento governativo al disegno di legge delega volto a conseguire l’estensione dell’ambito di applicabilità dell’art. 131-bis c.p., la cui adozione appare coerente all’intervento riformista finalizzato a conseguire una maggiore efficienza del processo penale ed una celere definizione dei procedimenti, agendo quale valvola di sfogo di sistema – in funzione deflattiva – onde controbilanciare il principio di obbligatorietà dell’azione penale in relazione a quei fatti tipici in concreto minimamente offensivi.

Si condivide la scelta di estendere il perimetro operativo dell’istituto facendo riferimento non più al limite edittale massimo (pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni) ma al limite edittale minimo (pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, sola o congiunta a pena pecuniaria).

Tale opzione risponde a ragioni di razionalità già segnalate dalla Corte costituzionale con la sentenza 21 luglio 2020 n. 156 (che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 131-bis c.p. nella parte in cui non consente l’applicazione della causa di non punibilità ai reati per i quali non è previsto un minimo edittale di pena detentiva), consentendo di applicare l’istituto ai reati puniti con pena minima determinata e pena massima superiore a sei anni, tra i quali spiccano fattispecie bagatellari come il furto nei supermercati, aggravato dall’esposizione della res alla pubblica fede (art. 625, n. 7, c.p.), attualmente escluso dal perimetro operativo dell’art. 131-bis c.p. in ragione della cornice edittale (reclusione da 2 a 6 anni).

D’altra parte, si fa specularmente salva la possibilità di estendere le ipotesi di esclusione della particolare tenuità di cui all’art. 131-bis, comma 2, c.p., al riguardo dovendosi tuttavia segnalare la genericità del criterio di delega (“se ritenuto opportuno sulla base di evidenze empirico-criminologiche o per ragioni di coerenza sistematica”) che, in assenza di un più determinato parametro, potrebbe frustrare l’estensione dell’istituto.

Inoltre, si segnala che l’intervento riformatore può costituire occasione per fugare i dubbi ermeneutici insorti in relazione alle “condotte plurime, abituali e reiterate” di cui all’art. 131-bis, comma 3, c.p., integranti il comportamento abituale escludente la causa di non punibilità: una difforme interpretazione di tale locuzione tra diverse A.G., infatti, si presta ad applicazioni dell’istituto irregolari sul territorio nazionale; rischio che meriterebbe di essere fugato da parte del legislatore (si pensi ai reati permanenti, al reato continuato, ecc.).

Si apprezza positivamente, infine, il criterio di delega teso ad attribuire rilievo, nella valutazione della particolare tenuità del fatto, alla condotta susseguente al reato, il quale permetterebbe di valorizzare adeguatamente l’eliminazione delle conseguenze dannose del reato o la realizzazione di azioni risarcitorie o riparatorie in favore della vittima.

Anche la proposta di estendere l’ambito di applicabilità della sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato (art. 168-bis c.p.) va accolta favorevolmente, essendosi già apprezzata nella prassi la funzione di deflazione processuale e penitenziaria espletata dall’istituto, peraltro affidandone l’impulso proposito non più solo al difensore dell’imputato ma altresì al pubblico ministero, onde massimizzare le occasioni di accesso al rito alternativo.

La delega, in questa condivisibile prospettiva, prevede di estendere il catalogo dei reati per i quali è possibile ammettere alla prova (allo stato individuati per relationem rispetto all’art. 550, comma 2, c.p.) includendovi quelli puniti con la reclusione fino a sei anni, da individuare specificamente tra quelli “che si prestino a percorsi risocializzanti o riparatori, da parte dell’autore, compatibili con l’istituto”.

Va nondimeno segnalato che detto criterio, in assenza di ulteriori specificazioni, rischia di risultare eccessivamente vago e, inoltre, il limite edittale massimo di sei anni di reclusione escluderebbe per tabulas fattispecie di reato che, nella loro declinazione non aggravata, ben si offrirebbero allo svolgimento, da parte del loro autore, di percorsi risocializzanti, coerenti con la finalità di riparazione sociale e individuale dell’istituto, ove accompagnati da un rafforzamento del coinvolgimento della persona offesa e alla valorizzazione dei percorsi di giustizia riparativa (proposti dal medesimo disegno di legge), tali da consentire una valutazione globale del fatto in uno al superamento del “bisogno di pena” da parte della vittima.

 

Art. 9 BIS

GIUSTIZIA RIPARATIVA [19]

In ordine alla previsione di cui all’art. 9 bis, relativamente all’introduzione di una disciplina organica della giustizia riparativa, non può che ritenersi condivisibile il doveroso recepimento di quanto previsto con Direttiva 2012/29/UE, attraverso l’introduzione di un quadro normativo di riferimento che fornisca agli operatori giudiziari e sociali indicazioni utili in ordine a “nozione, principali programmi, criteri di accesso, garanzie, persone legittimate a partecipare, modalità di svolgimento dei programmi e valutazione dei suoi esiti, nell’interesse della vittima e dell’autore del reato” (lettera a)).

Appare apprezzabile, nel contempo, l’introduzione, secondo i criteri di cui alla lettera b), di una nozione normativa di “vittima”, idonea a ricomprendere ogni soggetto che abbia subito conseguenze negative per effetto del reato, purché, come correttamente stigmatizzato, in via diretta; altrettanto condivisibile risulta il riferimento non solo ai rapporti di coniugio e di unione civile tra persone dello stesso sesso ma anche alla convivenza more uxorio nel definire la predetta nozione di vittima, con particolare riferimento ai casi di decesso di un familiare in conseguenza di un reato; tale soluzione si pone in linea con la più recente giurisprudenza di legittimità e, in particolare, con la soluzione adottata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione in ordine all’equiparazione del trattamento giuridico dei conviventi more uxorio, in via analogica, rispetto ai coniugi e alle parti di un’unione civile.

Appare invece generico e non sufficientemente specificato il criterio di cui alla lettera c), relativo all’accesso ai programmi di giustizia riparativa in ogni stato e grado del procedimento penale e durante l’esecuzione della pena, nella parte in cui non si accompagna all’individuazione di momenti di raccordo tra i programmi di giustizia riparativa (mediazione penale e altri) e il procedimento stesso, che, in mancanza di idonee indicazioni, possono presentare pericolosi punti di attrito in ordine alla utilizzabilità delle dichiarazioni rese nella prima sede e agli effetti sulla genuinità della prova acquisita in quella processuale.

Anche la limitazione dell’iniziativa ai casi “invio dell’Autorità giudiziaria” appare limitativo, esautorando le parti di tale facoltà, così come la previsione di una condizione in termini di “positiva valutazione da parte dell’autorità giudiziaria dell’utilità del programma”, senza disconoscere un ruolo propositivo in capo all’Autorità giudiziaria. Appare inoltre poco conciliabile con il principio di accessibilità alla giustizia ripativa.

La previsione, inoltre, di un accesso “senza preclusioni in relazione alla fattispecie di reato o alla sua gravità” merita una maggiore attenzione in ordine all’idoneità degli strumenti che si intendono adoperare, anche in relazione alla fase procedimentale di riferimento.

Appare invece in linea con le previsioni europee e del Consiglio d’Europa il riferimento alla necessità di un “consenso libero e informato della vittima e dell’autore del reato”, così come quelle di cui alla successiva lettera d), riguardo “la completa, tempestiva ed effettiva informazione alla vittima del reato e all’autore del reato, nonché, nel caso di minorenni, agli esercenti la responsabilità genitoriale, circa i servizi di giustizia riparativa disponibili; il diritto all’assistenza linguistica delle persone alloglotte; la rispondenza dei programmi di giustizia riparativa all’interesse della vittima, dell’autore del reato e della comunità; la ritrattabilità in ogni momento del consenso; la confidenzialità delle dichiarazioni rese nel corso del programma di giustizia riparativa, salvo che vi sia il consenso delle parti o che la divulgazione sia indispensabile per evitare la commissione di imminenti o gravi reati e salvo che le dichiarazioni integrino di per sé reato, nonché la loro inutilizzabilità nel procedimento penale e in fase di esecuzione della pena”. Appare preferibile rinforzare quest’ultimo profilo, garantendo non solo la inutilizzabilità bensì la segretezza di tali dichiarazioni, estendendo tale tutela anche ai mediatori penali, onde evitare citazioni testimoniali degli stessi, elusive delle predette garanzie. Non meno importante è garantire, come già previsto alla lettera f), di cui nel prosieguo, la necessità di prevenire “intimidazioni, ritorsioni, vittimizzazione ripetuta e secondaria” ai danni delle vittime oltre che di tutti i protagonisti coinvolti.

In relazione alla lettera e), si ritiene che la delega risulti generica e non consenta di apprezzare con sufficiente determinatezza quali sono gli spazi che la giustizia riparativa è destinata a occupare nell’ambito del procedimento penale, rispetto al quale potrebbe invece porsi in un rapporto di alternatività. Tale genericità impone una più approfondita riflessione.

Indispensabile e quindi pienamente condivisibile appare invece quanto previsto alla lettera f), in ordine alla formazione dei mediatori esperti in programmi di giustizia riparativa, i cui criteri meritano tuttavia di essere integrati attraverso la valorizzazione delle cc.dd. soft skills, con particolare riferimento alle abilità comunicative, empatiche e relazionali, la cui importanza non è secondaria rispetto alle invocate conoscenze penalistiche e che dovrebbero essere inserite tra i requisiti e le caratteristiche che l’accreditamento ministeriale deve tendere a garantire, insieme a “imparzialità, indipendenza ed equi-prossimità del ruolo”. Tanto anche in linea con quanto già previsto per gli operatori coinvolti nel procedimento minorile.

A tal fine non può che ritenersi condivisibile quanto previsto alla lettera g), in relazione alla individuazione di livelli essenziali ed uniformi delle prestazioni dei servizi per la giustizia riparativa, nonché alla natura pubblicistica delle strutture incaricate di procedere ai percorsi predetti e alla distribuzione geografica delle stesse, tenendo debitamente conto dei carichi di lavoro dei singoli distretti e dell’utenza di riferimento. Fondamentale appare infine la necessità di prevenire “intimidazioni, ritorsioni, vittimizzazione ripetuta e secondaria” ai danni delle vittime.

 

Art. 11[20]

 Disposizioni in materia di controllo giurisdizionale della legittimità della perquisizione

  1. nell’esercizio della delega di cui all’art. 1, i decreti legislativi recanti modifiche al codice di procedura penale in materia di controllo giurisdizionale della legittimità della perquisizione sono adottati nel rispetto del seguente principio e criterio direttivo: prevedere il diritto della persona sottoposta alle indagini e dei soggetti interessati di proporre opposizione al giudice per le indagini preliminari avverso il decreto di perquisizione cui non consegua un provvedimento di sequestro.

***

Si formula un parere negativo e di assoluta non condivisione della proposta modifica normativa in considerazione dell’inutilità dello strumento processuale, con violazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale. Tale considerazione disvela l’effettiva ratio che muove la novella ovverosia quella di disincentivare il ricorso allo strumento da parte del PM. La norma persegue uno scopo esclusivamente intimidatorio e punitivo, ciò può sostenersi, infatti, in ragione dell’assenza di una effettiva utilità dello strumento di controllo del Giudice che si vuole introdurre.

In breve: ipotizzando un ricorso all’opposizione in parola da parte di un legittimato, pur a fronte dell’accoglimento del Gip dell’opposizione stessa avanzata dalla persona sottoposta ad indagini o dal terzo interessato, non si raggiungerebbe alcuno scopo dotato di un pur minimo contenuto in termini di efficacia procedimentale – né nell’interesse del procedimento né nell’interesse dell’opponente. Si tratterebbe di un provvedimento, quello di accoglimento dell’opposizione, inutiliter datum, ciò che appare contrario ai principi ispiratori del diritto processuale che, in quanto tale, è regolamentazione degli atti e della loro concatenazione finalisticamente tesa al raggiungimento di un risultato.

Da questo si può desumere che l’unico obiettivo che si prefigge il legislatore è quello punitivo, un obiettivo estraneo al processo che trova i suoi rimedi nell’accertamento della responsabilità civile del magistrato (il giudice civile è libero di apprezzare la sussistenza di un illecito ex art. 2043 c.c. senza alcun preventivo vaglio da parte del G.I.P.)  o nel giudizio disciplinare, ove ne ricorrano i presupposti.

Non è compatibile con il nostro ordinamento la previsione di uno strumento sic et simpliciter sanzionatorio nei confronti della stessa AG, allorquando tale strumento sia interno al medesimo contesto processuale ove il magistrato giudicante o requirente opera nell’esercizio delle sue funzioni giurisdizionali.

Inoltre, la previsione appare mossa dal tentativo di introdurre una forma di “legittimo sospetto” nella disciplina processuale nei confronti del magistrato del pubblico ministero, in assenza di una adeguata analisi e apprezzamento in ordine alla natura giurisdizionale che ispira e muove il pubblico ministero nel nostro ordinamento. Questi è soggetto del procedimento/processo penale che condivide con il giudice la medesima matrice, che declina la medesima natura giurisdizionale e che è posto a presidio e coordinamento delle indagini, così garantendo il rispetto – già nella fase delle indagini per gli atti che non richiedono il provvedimento del gip – dello statuto di legittimità della perquisizione, attraverso il vaglio di sussistenza delle condizioni legittimanti il ricorso all’attività di ricerca della prova, nella specie quello della perquisizione ex art. 247 e ss. c.p.p. Per tale ragione, già la rubrica dell’art. 11 appare non conforme al nostro ordinamento, in quanto il controllo giurisdizionale sulla perquisizione è già garantito dal PM.

Diversamente, i casi (già previsti dal codice) di impugnazione del sequestro conseguito al decreto di perquisizione del PM, garantiscono effettivamente gli interessi delle persone sottoposte ad indagini e dei terzi interessati dalla perquisizione e dal conseguente vincolo reale; tali mezzi di censura forniti alla persona sottoposta ad indagini o al terzo si muovono nel rispetto del principio di effettività dello strumento processuale e, più in generale, della tutela giurisdizionale. Tale principio, di contro, non è garantito dalla proposta di modifica normativa.

La previsione di un potere del giudice di controllo sulla perquisizione risponde ad una logica di sospetto aprioristico verso l’attività di ricerca della prova che ontologicamente è connotata da un’alea di incertezza circa la sua buona riuscita, diversamente non si tratterebbe di mezzo di ricerca della prova. Esso è per sua natura strumento volto a colmare un vuoto conoscitivo per le indagini preliminari e solo la sua esecuzione può dare ragione circa la fondatezza della prognosi formulata dal PM di riuscita dell’attività. Peraltro, la proposta di riforma sul punto non tiene conto delle evenienze del caso concreto che possono portare ad un esito negativo della perquisizione, pur nel rispetto dei presupposti che la legittimano.[21]

Prevedere – per il tramite dell’opposizione de qua – il controllo sulla perquisizione che non abbia condotto ad un risultato (in termini di sequestro) costituisce mezzo per disincentivare l’attività, in assenza di una efficacia del provvedimento del giudice che, in ipotesi, accolga l’opposizione del privato. Tali conclusioni costituiscono il risultato di un non condivisibile bilanciamento tra istanze punitive dell’AG requirente (che conoscono già diverse sedi di trattazione) e la valorizzazione dell’attività di ricerca della prova, con intollerabile compressione di quest’ultima che – in un ordinamento democratico di uno Stato di diritto – è mossa esclusivamente dall’obiettivo di accertamento e perseguimento dei reati, condizione preliminare alla tutela del principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale e ad esso strettamente connesso.

Infine, tornando alla natura del magistrato del pubblico ministero, quale titolare del potere di decretare una perquisizione, appare oltremodo sufficiente ed adeguata la vigenza di principi di diritto che presidiano la disciplina in ordine alla sussistenza di una piattaforma indiziaria necessaria per ricorrere allo strumento. Tale presidio è garantito proprio dalla figura del pubblico ministero che dispone la perquisizione, sottoposto quale magistrato, solo alla legge, e dunque garanzia dell’accertamento circa i presupposti della perquisizione ben più stringenti di quelli che la legge ammette per le perquisizioni di iniziativa della PG (previste dalle leggi speciali e nei casi di flagranza di reato), ove appunto il controllo successivo del PM integra il vulnus che, in prima battuta, è vissuto dal perquisito dalla polizia giudiziaria, pur a fronte di presupposti molto meno stringenti di quelli che – ai sensi degli artt. 247 e ss. c.p.p. – devono essere valutati dal PM, anche in ossequio alle regole elaborate dal diritto vivente.

 

ARTT. 14 E 14 bis- Prescrizione

A – NOTE INTRODUTTIVE  [22]

In ordine alle modifiche che il disegno di legge delega AC2435, come licenziato dall’Esecutivo, intende introdurre, si osserva che sarebbe stato opportuno tenere debitamente in considerazione il dato dell’estinzione del 70% dei procedimenti durante la fase delle indagini e il primo grado di giudizio, onde valutare l’effettiva incidenza della riforma, incentrata sui gradi successivi di giudizio.

Si ritiene, al riguardo, che si sarebbe potuto valutare, quali strumenti ulteriori o alternativi, volti a ridurre la durata delle predette fasi procedimentali, la rivisitazione del ruolo della parte civile, l’individuazione di nuove aree di depenalizzazione, la previsione di limiti all’impugnazione in appello per determinate categorie di reati, l’aumento di competenze della magistratura onoraria.

Con particolare riferimento a tale ultima soluzione, va evidenziato che essa comporterebbe infatti l’alleggerimento, da un lato, del carico dei Tribunali, limitandone la giurisdizione monocratica, e dall’altro, conseguentemente, il numero di procedimenti pendenti innanzi alle Corti d’Appello, in quanto tale funzione è assegnata al giudice monocratico, senza tuttavia i carichi dell’attività istruttoria (salvi i casi di rinnovazione dell’istruttoria).

In tale ottica assume particolare importanza la giustizia riparativa, quale possibile alternativa al processo penale e quindi efficace strumento deflattivo, che porta con sé l’ulteriore vantaggio della effettiva risocializzazione del reo e del superamento del contrasto con la vittima o la società. A fronte della previsione di una forma di improcedibilità dell’azione penale nei gradi di impugnazione, su cui più diffusamente nel prosieguo, si ritiene quanto mai opportuno, in primo luogo, fare salvo il materiale probatorio raccolto nel giudizio di primo grado – al fine di recuperare le energie processuali spese in sede di giudizio civile – e soprattutto di prevedere che, in siffatte ipotesi di improcedibilità, sia valorizzato – ove possibile – lo strumento della giustizia riparatoria, specie al fine di offrire una effettiva soddisfazione alla domanda di giustizia delle parti coinvolte, in primis la vittima.

 

  1. B) RIFLESSIONI GENERALI IN ORDINE ALL’OPPORTUNITÀ E ALLA PRATICABILITÀ DELL’ART. 14 bis [23]

B.1: Praticabilità della riforma: 19 distretti su 29, in realtà, già oggi rispettano i due anni di durata della fase di appello

Nonostante la riforma della prescrizione – a differenza delle altre modifiche ipotizzate con riguardo alla giustizia penale nel suo complesso – sia destinata ad entrare immediatamente in vigore, occorre segnalare che qualsiasi valutazione con riferimento al “realismo” ed alla “praticabilità” delle modifiche in corso di discussione non può seriamente essere compiuta in mancanza di un quadro sufficientemente chiaro con riferimento agli altri ambiti dell’intervento del Legislatore, con particolare riferimento a quelli contrassegnati da una più spiccata incidenza in relazione alla durata del processo.

Operata tale doverosa premessa, occorre segnalare che – a ben vedere – già oggi (e a legislazione ed organico invariati) i dati disponibili attestano taluni margini di praticabilità della riforma così come ipotizzata.

  • In Cassazione, la durata media dei processi nel 2019 è stata pari a 166 giorni.
  • In appello, in 19 distretti su 29, la durata media dei processi è già attualmente inferiore ai 2 anni (A Milano, è inferiore ad un anno: 335 giorni la media dell’appello; Genova, 680 gg; Palermo, 445 gg; Perugia, 430; Potenza, 699; Salerno, 340; Torino, 545 gg).
  • Ci sono inoltre 3 distretti con tempi medi del giudizio di appello appena di poco superiori ai 2 anni (Bari, 813 gg; Bologna, 823 giorni; Firenze, 745 gg.).
  • In definitiva, solo sette distretti registrano, ad oggi, tempi superiori alla media e sensibilmente superiori a quelli ipotizzati da parte del Legislatore della riforma: Napoli, 2.031 gg; Reggio Calabria, 1.645; 1.247 Catania; 1.111 Lecce; 1.142 Roma; 1.028 Sassari; 996 Venezia).

Modifiche possibili: i 3 anni che le riforma ipotizza di riconoscere alla fase delle impugnazioni nel suo insieme, potrebbero essere calcolati complessivamente sommando la fase dell’appello e della Cassazione, ipotizzando dunque una durante totale di 3 anni per la celebrazione di entrambi i gradi di impugnazione, in modo tale da “compensare” eventuali criticità che dovessero emergere nella prima prassi applicativa in relazione al grado di appello. Si tratterebbe di un correttivo in grado di garantire il rispetto del termine ipotizzato anche da parte delle Corti d’Appello di Bari, Bologna e Firenze ma in ogni caso – quantomeno in base ai dati disponibili – largamente insufficiente a colmare il gap che caratterizza i distretti più gravati.

In relazione ad essi, i dati disponibili attestano piante organiche ampiamente sottodimensionate rispetto al carico effettivo, profilo in relazione al quale la riforma ipotizza di intervenire attraverso un incremento del numero dei magistrati e delle risorse/dotazioni disponibili che tuttavia richiede tempistiche di attuazione incompatibili con l’entrata in vigore immediata della riforma della prescrizione.

B.2: Necessità della riforma: pressioni politiche legate all’erogazione dei fondi europei.

Uno degli obiettivi principali della riforma è quello di assicurare la riduzione del 25% del c.d. disposition time (che altro non è che la durata media dei processi) relativamente ai processi penali; impegno trasfuso nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) dichiaratamente proteso a rimediare ai disastri economici e sociali provocati dalla pandemia.

La riforma, per la verità, mira ad attuare – al contempo – il principio costituzionale della ragionevole durata del processo (art.111 Cost.), imposto anche dall’art.6 della CEDU (in combinato disposto con l’art. 117 Cost.).

Si tratta di un problema oggettivo e conclamato dell’ordinamento giuridico italiano: l’Italia, infatti, è il primo Paese – tra tutti quelli che hanno aderito alla Cedu – per numero di condanne per la violazione del diritto alla ragionevole durata del processo: 1202 condanne dal 1959 (data di avvio di attività della Corte di Strasburgo) ad oggi; al secondo posto, la Turchia doppiata con 608, Francia (284), Germania (102) e GB (30), Spagna (16).

B.3: Perplessità: si mandano al macero migliaia di processi, con il contrapposto rischio di una giustizia sommaria e l’effetto di una fuga dalle funzioni di appello

La necessità di garantire una ragionevole durata dei processi, occorre ribadirlo con nettezza, oltre che imposta da precisi vincoli nazionali e sovranazionali, è un principio pienamente condiviso dalla magistratura associata, come ribadito nel corso dei lavori della sottocommissione.

Occorre tuttavia conciliare tale priorità con quella, di pari rilevanza, di effettività della repressione penale (soprattutto in presenza di forme di criminalità particolarmente aggressive) e di tutela delle vittime del reato.

Tale mediazione, come segnalato da una molteplicità di Autori nei primi commenti, non appare allo stato correttamente operata dalla bozza di riforma in corso di discussione: il rischio da più parti segnalato, in particolare, è quello di una sostanziale impunità in relazione alle più gravi forme di criminalità.

La predeterminazione di un arco temporale rigido ed insuscettibile di adeguati margini di personalizzazione in funzione delle concrete condizioni che caratterizzano le singole Corti d’Appello, infine, rischia di determinare il concreto pericolo di una “fuga” dagli Uffici Giudiziari in commento, prospettiva da taluni ritenuta ancor più concreta in ragione della futuribile riforma riguardante la responsabilità civile dei magistrati.

  1. Ragionevole durata del processo e improcedibilità in sede di impugnazioni [24]

Il testo dell’art. 14-bis, rubricato <Disposizioni in materia di ragionevole durata dei giudizi di impugnazione> presenta numerose criticità. 

In primo luogo, la previsione di tempi predeterminati per la definizione dei giudizi di impugnazione non si accompagna ad alcuna restrizione della possibilità di impugnare. Il tema è particolarmente avvertito per il giudizio di appello, rispetto al quale la relazione conclusiva della Commissione Lattanzi aveva proposto di trasformare l’appello in un giudizio a critica vincolata della sentenza di primo grado. Tale proposta, che è stata in seguito accantonata, presentava però il vantaggio di accompagnare i rigidi termini posti a carico del giudice di appello ad una maggiore tecnicità dell’atto di impugnazione, così da selezionare razionalmente gli atti di impugnazione ammissibili e da permettere un miglior impego delle risorse delle Corti di Appello.  

Occorre ancora rilevare che la norma qui in commento non attribuisce alcun rilievo all’esito del giudizio di primo grado e prevede i medesimi tempi di durata del giudizio di impugnazione sia per i processi definiti con sentenza di assoluzione che per quelli definiti con sentenza di condanna. La scelta appare in qualche misura irragionevole se si considera che solo nella prima ipotesi la presunzione di innocenza sancita dall’art. 27 co.2 Cost. è stata corroborata dalla sentenza di merito – di primo grado o di appello – mentre nel secondo caso la colpevolezza dell’imputato, sebbene in via non definitiva, è stata dimostrata al di là di ogni ragionevole dubbio. 

Ulteriore riflessione si impone rispetto al comma 1 lett. a) n.4 (< Nei procedimenti per i delitti di cui all’articolo 407,comma 2, lettera a), e per i delitti di cui agli articoli 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, 320,  321, 322 e 322-bis del codice penale i termini di durata massima del processo possono essere prorogati con ordinanza del giudice procedente nel caso di giudizio particolarmente complesso, in ragione del numero delle parti o delle imputazioni o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare, per un periodo non superiore a un anno nel giudizio di appello e a sei mesi nel giudizio di legittimità). 

Desta infatti perplessità la selezione delle categorie di reati per i quali è possibile la proroga dei termini di durata massima del processo, poiché difetta il coordinamento con la ben più ampia serie di reati per i quali il termine di prescrizione è raddoppiato, a norma dell’art. 157 co. 6 c.p..  

Occorre inoltre segnalare che attualmente, quando si procede per taluno dei reati indicati dall’art. 407 co. 2 lett. a) c.p.p., i commi 2 e 4 dell’art. 304 c.p.p. consentono di sospendere il termine della misura cautelare senza che si possa comunque superare il doppio del termine di fase ovvero, se più favorevole, i due terzi del massimo della pena temporanea prevista per il reato contestato o ritenuto in sentenza. Qualora venga raddoppiato il termine previsto dall’art. 303 lett. c) n. 3, si può dunque pervenire ad una sospensione del termine di custodia cautelare che raggiunge i tre anni. Anche per tale categoria di reati, dunque, difetta il coordinamento tra la proroga della durata del processo (pari alla metà del termine ordinario) e la sospensione dei termini della misura cautelare coercitiva, suscettibile invece di condurre al loro raddoppio: il fatto che in entrambe le eventualità si pervenga al medesimo termine massimo di tre anni non può quindi ritenersi frutto di una scelta legislativa ponderata. 

Merita riflessione anche il comma 8 n. 2, con cui si propone la novella dell’art. 578 c. p. p. introducendo, dopo il comma 1, il comma 1-bis (<Quando nei confronti dell’imputato è stata pronunciata  condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello e la Corte di cassazione, nel dichiarare improcedibile l’azione penale per il superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione, rinviano per la prosecuzione al giudice civile competente per valore in grado di appello, che decide valutando le prove acquisite nel processo penale>). 

Nella disciplina vigente, nei giudizi in cui vi è parte civile la Corte di Appello, quale giudice di merito che dichiari la prescrizione del reato, deve comunque analizzare compiutamente le doglianze dell’appellante riguardanti il giudizio di penale responsabilità, poiché devono essere comunque verificati i fatti costitutivi dell’illecito civile e della conseguente obbligazione risarcitoria. 

La proposta di riforma comporterebbe viceversa una semplificazione della motivazione, che dovrebbe limitarsi a prendere atto della sopravvenuta improcedibilità dell’azione penale trasmettendo gli atti al giudice civile. Tale pronuncia in rito sembra volta a preservare l’autonomia di giudizio del giudice civile, che dovrà decidere <valutando le prove acquisite nel processo penale>. Tuttavia, tale intento, seppure conforme alla autonomia del giudizio civile rispetto a quello penale, presenta tuttavia forti rischi di dispersione della prova raccolta nel giudizio penale. Nel dibattimento di primo grado infatti la parte civile e l’imputato – rispettivamente attore e convenuto nel giudizio civile – sono stati entrambi presenti ed hanno entrambi partecipato all’istruttoria articolando già, con pienezza di contraddittorio, i rispettivi mezzi di prova. Nonostante ciò, non vengono introdotte previsioni che salvaguardino esplicitamente i risultati di tale attività processuale. 

Infine, desta numerose perplessità la previsione dei commi 2 e 3 della norma in commento, relativi alla entrata in vigore della riforma (<2. Le disposizioni del presente articolo si applicano ai soli procedimenti di impugnazione che hanno ad oggetto reati commessi a far data dal 1° gennaio 2020. 3. Per i procedimenti di cui al comma 2 nei quali, alla data di entrata in vigore della presente legge, siano già pervenuti al giudice dell’appello o alla Corte di Cassazione gli atti trasmessi ai sensi dell’articolo 590 del codice di procedura penale, i termini massimi di durata del processo decorrono dalla data di entrata in vigore della presente legge.>)  

Con tali previsioni si limita la retroattività della riforma, e con essa gli effetti favorevoli all’imputato che la riforma produrrà in un numero elevatissimo di giudizi di impugnazione. 

Tale scelta tuttavia non considera che la improcedibilità dell’azione penale, ad onta della terminologia processuale adoperata, presenta ricadute fortemente sostanziali, tali da generare il dubbio di un possibile contrasto con l’art. 2 co. 4 c.p. e di una possibile irragionevolezza della scelta operata dai commi in esame. Se infatti la ratio della riforma va ricercata nella finalità di individuare strumenti deflattivi che contengano i tempi di durata del giudizio di impugnazione, appare arbitrario selezionare alcuni soltanto dei giudizi che, alla data di entrata in vigore della riforma, pendano già dinanzi alle corti di appello o alla corte di cassazione. 

 

  1. RIFLESSIONI CIRCA LA PRATICA OPERATIVITA’ IN APPELLO DELLA RIFORMA DELL’ART. 14 bis [25]

Pare doveroso rilevare, in riferimento alla pratica operatività della riforma che l’art. 14 bis del d.d.l. AC2435 vorrebbe apportare al sistema processuale delle impugnazioni, che risulta estremamente arduo rendere oggi un qualsiasi parere effettivamente costruttivo, stante che si discute di norme in itinere che sono state e sono ancora soggette a ripetute modifiche in corso.

Ad ogni modo, prendendo a base il testo degli emendamenti licenziato dal Governo in data 14/07/2021 -e ricollegandosi così anche ai punti di cui si è già discusso sopra- pare opportuno rilevare, preliminarmente, che l’introduzione della improcedibilità di cui all’art. 344 bis c.p.p. non soltanto non avrà alcun verosimile effetto deflattivo in ordine al numero delle impugnazioni proposte ma, anzi, avrà un effetto chiaramente moltiplicatore del numero delle stesse e ciò in quanto, a questo punto, appare ben probabile che qualsiasi sentenza di condanna -sia in primo che in secondo grado- sarà, verosimilmente, oggetto di impugnazione, quanto meno proprio al fine di raggiungere ove possibile la improcedibilità nel termine biennale o annuale: effetto questo, si noti, diametralmente opposto a quello che, invece, si è voluto realizzare con il disposto del nuovo testo dell’art. 159 co. 2° c.p. vigente (con la sospensione del corso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado) o con la introduzione dell’art. 161 bis c.p. prevista dalla stessa riforma in esame (con la cessazione del corso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado) la cui effettiva portata, però, come si è già detto sopra, appare, di fatto chiaramente neutralizzata dal testo dell’art. 344 bis.

La difficoltà di cui si è appena detto si manifesta ancor di più con riferimento alla questione del dies a quo dal quale deve decorrere il termine biennale o annuale per la prevista improcedibilità: nella sua primissima versione questo dato veniva, più correttamente, individuato nel “pervenimento al giudice dell’appello degli atti trasmessi ai sensi dell’articolo 590”, in modo cioè da consentire, correttamente, allo stesso Giudice della impugnazione la intera gestione del termine previsto dalla norma in oggetto. Norma questa che appare, peraltro, in linea con quella già prevista per il procedimento di riesame delle misure cautelari personali e reali di cui agli artt. 309 e 324 c.p.p.. Una seconda stesura prevedeva, invece, che “I termini di cui ai commi 1 e 2 (due ed un anno) decorrono dalla scadenza del termine previsto dalla legge per proporre impugnazione”, così di fatto, però, sottraendo totalmente al Giudice della impugnazione un congruo periodo temporale (di norma lungo anche mesi) connesso con gli adempimenti necessari a che il fascicolo impugnato sia effettivamente predisposto a tal fine dalle relative cancellerie e materialmente inviato al Giudice della impugnazione, adempimenti peraltro non eseguiti dal Giudice. L’ultima stesura licenziata dal Governo in qualche modo tempera, invero, tale precedente disposizione prevedendo, invero, che i termini in questione decorrano “dal novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine previsto dall’art. 544, come eventualmente prorogato ai sensi dell’articolo 154 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie per il deposito della motivazione della sentenza”. Ma, pur interpretando tale norma nel senso che i novanta giorni in questione decorrano dalla scadenza anche del termine di cui all’art. 544 co. 3° c.p.p. (eventualmente prorogato ai sensi dell’art. 154 d.a. c.p.p.), si ritiene che tale successivo termine di appena novanta giorni se, tutt’al più, potrà essere rispettato nei procedimenti più semplici, sicuramente lo stesso non potrà che essere violato in quelli più complessi, quelli cioè con molti imputati ed, in particolare, in tutte quelle ipotesi in cui la sentenza sia, purtroppo, depositata fuori termine (ipotesi questa non rara proprio nei procedimenti più complessi), con necessità, quindi, di procedere anche alla notifica dell’avviso di deposito a tutte le parti: adempimenti questi particolarmente complessi -fino a quando, peraltro, non si procederà alla razionalizzazione del sistema delle notifiche- che non potranno che sottrarre anche mesi ai termini previsti per il Giudizio di impugnazione.

– Tali criticità non pare che possano essere agevolmente superate con la sola previsione nel d.d.l. in oggetto di introdurre un co. 4° all’art. 344 bis con possibilità di prorogare i termini biennali ed annuali dei giudizi di appello e cassazione, rispettivamente, di solo un anno o di sei mesi, nell’ipotesi, peraltro, dei soli procedimenti di particolare complessità ivi dettagliatamente indicati. Infatti, intanto sarebbe opportuno che la possibilità della proroga sia prevista per tutti i processi (sia pure con specifico provvedimento ad hoc) posto che già solo l’incremento delle pendenze in appello potrebbe ben mettere in crisi l’organizzazione giudiziaria; peraltro, la effettiva complessità in fatto di un procedimento, come noto, può emergere anche in un momento successivo e può essere collegata a motivi non sempre predeterminabili, quali, ad esempio, proprio quelli emersi a seguito delle nuove prove assunte o di altri ancora. In ogni caso, poi, si ritiene che la proroga dovrebbe essere possibile -eventualmente anche con provvedimenti successivi- almeno per un periodo pari a quello biennale o annuale previsto per ciascun tipo di impugnazione in esame, se del caso anche recuperando periodi temporali comunque non utilizzati nei gradi precedenti (secondo il sistema già utilizzato per le misure cautelari dall’art 303 co. 1°, lett. b) n. 3 bis c.p.p.), in particolare nell’ipotesi di procedimenti particolarmente celeri in primo grado e definiti, ad esempio, entro il triennio di cui alla cd. L. Pinto. Peraltro, appare decisamente contraddittoria la circostanza che un processo per un reato per cui si prevista una lunga prescrizione (ad esempio per il delitto di cui all’art. 572 c.p.) sia definito in primo grado in brevissimo tempo e debba essere, comunque, sottoposto al termine di improcedibilità che, in sostanza, accorcia anche sensibilmente quello ordinario di prescrizione.

Una ulteriore criticità pratica di cui la riforma non si occupa è legata anche alla organizzazione degli Uffici di Procura Generale che, come noto, non sono sempre direttamente connessi con le Procure di primo grado: per cui termini di improcedibilità così brevi mal si conciliano con la organizzazione di tali Uffici superiori che, si ricordi, non sono di norma in possesso del fascicolo del Pubblico Ministero di primo grado la cui eventuale acquisizione richiede anch’essa tempo e può spesso condurre a necessari rinvii di udienza.

Tema questo che introduce anche a quello dello stringato termine massimo di rinvio tra una udienza e l’altra (appena 60 giorni) previsto per l’operatività della eventuale sospensione del termine biennale di improcedibilità in caso di rinnovazione dell’istruzione in appello o di rinvii ex art. 159 c.p., posto che, di norma, anche gli Uffici più virtuosi, come è notorio, non riescono a garantire rinvii così brevi se non nei soli processi particolarmente urgenti e/o con detenuti: per cui anche sotto questo profilo è auspicabile la individuazione di un termine per l’efficacia della sospensione tra una udienza e l’altra decisamente più lungo.

 

Parere in ordine alla Archiviazione meritata

di cui all’ art. 3 bis d.d.l. A.C. 2435 (punto 2.7.)[26]

La Commissione di studio presieduta dal dott. Lattanzi ha inserito, tra le proposte relative al processo penale, anche la cd. archiviazione meritata (art. 3 bis). La Commissione ritiene, a fini di completezza, dedicare alcune riflessioni in merito all’istituto, che tuttavia non è stato inserito nel testo licenziato dal governo in data 14 luglio 2021

Le positive esperienze di altri ordinamenti europei e il favor verso le archiviazioni condizionate emerso nel contesto dell’Unione Europea hanno indotto gli esperti nominati dal Ministro della Giustizia a ritenere maturi i tempi per l’adozione dell’istituto in parola anche nel nostro ordinamento.

Non si è mancato di evidenziare come tale forma di archiviazione presenti delle assonanze con istituti già presenti nel sistema penale domestico, quali l’oblazione e l’estinzione del reato per condotte riparatorie (che, però, “consegnano la risoluzione del conflitto aperto con il reato alle parti, relegando in un ruolo di secondo piano la figura della pubblica accusa”) e, soprattutto, con la messa alla prova per adulti (che, tuttavia, richiede la formulazione dell’imputazione).

Si è, cioè, evidenziato come il legislatore abbia introdotto strumenti vicini al genus delle archiviazioni meritate, senza però mai accoglierlo in pieno.

L’introduzione di forme di sanzioni ispirate a fini di risocializzazione (come la probation processuale) e l’affermarsi di una lettura più elastica del principio di obbligatorietà dell’azione penale consentono, in questo momento storico, di introdurre nel sistema un istituto che rappresenta una “terza via” tra archiviazione semplice e esercizio dell’azione penale e che costituirebbe un filtro prezioso nei procedimenti attribuiti al tribunale in composizione monocratica, fondato su una logica negoziale e riparativa.

Si tratta di un contenitore flessibile (il catalogo delle prestazioni negoziabili è aperto) che si attiva, su iniziativa del pubblico ministero o dell’indagato, a seguito della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari e che prevede, da un lato, l’interazione tra indagato, persona offesa e pubblica accusa e, dall’altro, il necessario controllo del giudice per le indagini preliminari.

Quanto alla collocazione sistematica, nella relazione della Commissione si evidenzia come “si dovrebbe far confluire la probation procedimentale (ossia la messa alla prova nelle indagini di cui all’art. 464 ter) nell’ambito del contenitore dell’archiviazione meritata e lasciare invece inalterata la probation processuale”.

In sostanza, l’archiviazione meritata sostituirebbe la messa alla prova procedimentale, cioè attuata nel corso delle indagini, mentre la messa alla prova rimarrebbe applicabile solo dopo l’esercizio dell’azione penale.

Tale modello, inoltre, andrebbe raccordato con gli istituti già esistenti (oltre a quelli già sopra richiamati, anche l’archiviazione per particolare tenuità del fatto).

Così individuate le grandi linee del nuovo modello, si affida al legislatore delegato il compito di individuare alcuni “dettagli”, quali il ruolo della persona offesa, il sistema di controllo sull’esecuzione delle prestazioni, la prospettiva temporale e il meccanismo di archiviazione per estinzione del reato nel caso di corretto adempimento delle stesse.

Orbene, la Commissione di Studio istituita presso l’Associazione Nazionale Magistrati, nel prendere atto favorevolmente degli sforzi  – sottesi anche all’istituto in esame –  diretti a ridurre la “insostenibilità del carico giudiziario” (così la Relazione Lattanzi pg. 22) e dell’attenzione verso forme di “giustizia negoziata” da tempo presenti in altri ordinamenti europei, esprime alcune perplessità circa lo strumento in questione.

  1. L’iniziativa

In primis, non convince l’idea di attribuire tout court all’indagato l’iniziativa in ordine all’attivazione del nuovo modello senza prevedere alcun vaglio da parte del pubblico ministero.

Occorre premettere che, come detto, nell’ottica della Commissione Lattanzi l’archiviazione meritata sembra destinata a sostituirsi alla probation procedimentale (con la quale, peraltro, condivide i limiti edittali di pena per l’ammissibilità).

Ora, mentre nell’attuale disciplina della messa alla prova procedimentale il meccanismo si attiva solo nel caso di parere favorevole del PM (la Corte di Cassazione, con sentenza n. 4171 del 21/10/2015, ha chiarito come, “in presenza del dissenso del pubblico ministero, il g.i.p. non può che adeguarsi alla valutazione negativa della pubblica accusa, dal momento che non sarebbe neppure in grado di operare una decisione sulla richiesta, mancando un’imputazione, seppur provvisoria, e quindi l’esercizio stesso dell’azione penale, sicché difettano gli elementi di fatto su cui assumere la determinazione in ordine alla richiesta di messa alla prova. Non a caso l’art. 464-ter cit. prevede che l’imputazione venga formulata solo con l’atto scritto con cui il pubblico ministero esprime il consenso”), nel nuovo modello proposto dalla Commissione Lattanzi non sembra essere attribuito alla pubblica accusa alcun potere di “veto”, sicchè in ogni caso (cioè, anche laddove il pubblico ministero sia contrario alla archiviazione meritata) l’indagato potrebbe rivolgersi al giudice, che non avrebbe alcun vincolo.

L’indagato, in sostanza, acquista il potere di chiedere e ottenere l’archiviazione dal g.i.p. pur in presenza di un parere contrario del pubblico ministero, naturale depositario del potere di domandare l’archiviazione.

Non si può escludere, ad avviso della Commissione di studio dell’ANM, che all’attribuzione di un tale potere all’indagato consegua un effetto criminogeno, giacchè chi delinque potrà sperare in un provvedimento di archiviazione (seppur meritata) da parte del giudice a prescindere dall’eventuale richiesta/opposizione del pubblico ministero.

Per evitare questo effetto, tuttavia, non si può eliminare radicalmente la previsione secondo cui anche l’indagato può chiedere di accedere alla procedura dell’archiviazione meritata: ed invero, se tale modello deve sostituirsi alla messa alla prova procedimentale, allora non può non considerarsi che in quest’ultimo istituto l’iniziativa è proprio dell’indagato (e non del PM, che conserva, tuttavia, un sostanziale potere inibitorio, secondo quanto statuito dalla giurisprudenza di legittimità richiamata).

Si propone, quindi, di condizionare l’ammissione alla procedura a richiesta dell’indagato al parere favorevole del PM, come previsto per l’attuale probation procedimentale.

Tale limitazione, oltre ad elidere l’effetto sopra descritto, consentirebbe di evitare il rischio di  proliferazione di richieste di archiviazione al g.i.p. da parte di indagati che tentano di sottrarsi al procedimento penale con prestazioni incongrue rispetto al fatto e il conseguente incremento delle udienze di discussione di tali istanze alla presenza del PM e della persona offesa (con tutti i relativi adempimenti di cancelleria).

  1. La fissazione dell’udienza

Invero, su quest’ultimo aspetto (la necessità per il giudice di fissare un’udienza nella quale valutare la proposta di prestazione) non vi è chiarezza: l’art. 3 bis, nel prevedere che debbano essere “sentiti il pubblico ministero, l’indagato e la persona offesa”, non specifica, a ben vedere, che ciò debba avvenire attraverso la fissazione di un’udienza; tuttavia, la complessità delle valutazioni che l’organo giudicante è chiamato ad effettuare (circa la non evidenza della infondatezza della notizia di reato, della mancanza di una condizione di procedibilità, della estinzione del reato ecc.; circa la congruità delle prestazioni e la volontarietà del consenso), inducono a ritenere che difficilmente si potrà fare a meno di convocare le parti in udienza, ricorrendo a un contraddittorio meramente “cartolare”.

È evidente come tale modo di procedere finisca per appesantire, anziché ridurlo, il carico degli Uffici del giudice per le indagini preliminari, che, come accennato, si troverebbero a dover fissare udienza anche di fronte a proposte di prestazione ritenute già dal pubblico ministero incongrue.

  1. Il problema del coordinamento con istituti similari

Si rappresenta, in ogni caso, il rischio (già invero avvertito dai proponenti) di sovrapposizione con altri istituti già presenti nel nostro ordinamento, come l’oblazione e l’archiviazione per particolare tenuità del fatto o le procedure estintive previste in materia di sicurezza sul lavoro (art. 24 d.lgs. 19 dicembre 1994, n. 758) e in ambito ambientale (art. 318-septies d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152).

L’idea, alla luce del testo del nuovo art. 3 bis, sembra essere quella di voler “coordinare l’archiviazione meritata con gli istituti della non punibilità per particolare tenuità del fatto, dell’oblazione, dell’estinzione del reato per condotte riparatorie” e non già quella (pur proposta in dottrina[27]) di “ricondurre” tali istituti al nuovo modello, razionalizzando il sistema.

Se (come pare) si procederà a un “coordinamento”, senza una “riduzione ad unità” degli istituti di cd. “giustizia riparativa”, lo spazio di concreta operatività dell’archiviazione meritata appare ridotto.

Ed invero nella proposta si prevede che negoziazione della prestazione postula l’emissione dell’avviso di conclusione delle indagini.

Si vuole, evidentemente, che il pubblico ministero decida sulla base di indagini complete.

Tuttavia, ciò rende, nell’ottica del pubblico ministero, il nuovo istituto meno “competitivo” rispetto agli altri analoghi già richiamati, che non prevedono tale passaggio (es. archiviazione per particolare tenuità del fatto).

Né – diversamente da quanto immaginato dagli esperti – vi è di fatto il vantaggio, per la parte pubblica, di non dover formulare l’imputazione, dal momento che, nella prassi, con tale atto si procede normalmente alla formale contestazione dell’addebito.

Vi sarebbe, quindi, un problema di “concorrenza” tra istituti, che, peraltro, non gioverebbe alla chiarezza.

In questo quadro, sarebbe opportuno – per conferire uno spazio applicativo più vasto all’archiviazione meritata ed evitare al contempo abusi – da un lato, attribuire alla pubblica accusa un ampio potere di effettuare una proposta di prestazione all’indagato onde ottenere l’archiviazione, senza subordinarla necessariamente all’emissione dell’avviso di conclusione delle indagini; dall’altro, riconoscere il potere di proporre una prestazione anche all’indagato, ma, come detto, prevedendo, come contrappeso, un potere di “veto” del pubblico ministero attraverso il parere contrario (come già previsto per altri strumenti deflattivi come la messa alla prova o il patteggiamento).

Nel caso di parere favorevole del pubblico ministero (e solo in tal caso) si passerebbe alla fase della fissazione dell’udienza davanti al g.i.p., della verifica dell’adempimento e della declaratoria di estinzione del reato.

Resterebbero fermi meccanismi ancora più “snelli”, come quelli previsti in materia di sicurezza sul lavoro (art. 24 d.lgs. 19 dicembre 1994, n. 758) e in ambito ambientale (art. 318-septies d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152), ove la prestazione consiste nel versamento di una somma di denaro e il PM, verificato l’adempimento, chiede l’archiviazione.

Ed anzi si potrebbe valutare l’ipotesi di estendere siffatti modelli ad altri settori.

Invero, una simile procedura sarebbe alquanto efficace nel caso di reati in relazione ai quali manca la persona offesa: si pensi, per esempio, ai piccoli abusi edilizi ex art. 44 DPR 380/2001 (come noto, non soggetti ad oblazione), laddove la negoziazione della prestazione tra PM e indagato potrebbe avvenire parallelamente agli sviluppi relativi al sequestro del bene e al ripristino dello stato dei luoghi, invogliando in tal modo il privato ad eliminare l’abuso e a effettuare una prestazione per evitare il procedimento penale e le sue conseguenze (si pensi al versamento di una somma di denaro a favore del Comune).

Tale strumento (da utilizzare per le sole prestazioni consistenti nella dazione di una somma di denaro) risulterebbe più flessibile e più celere e non coinvolgerebbe (se non nella fase di archiviazione) il giudice, escludendo l’udienza e i connessi adempimenti.

Inoltre la notevole frequenza delle fattispecie sopra richiamate a titolo meramente esemplificativo induce a ritenere che il “ritorno” per lo Stato o le comunità locali sarebbe probabilmente non trascurabile.

Senza contare che tale modello deflattivo andrebbe ad operare proprio in relazione a quei reati per i quali è assai ricorrente la declaratoria di prescrizione.

  1. Conclusioni

L’art. 3 bis lascia ancora indefiniti alcuni aspetti della disciplina, rimettendoli alle determinazioni del Legislatore delegato; tra essi, risulta di particolare importanza il ruolo della persona offesa e la disciplina del suo potere di opposizione, che dovrebbe bilanciare il potere, riconosciuto in termini ampi alle altre parti dalla proposta in esame, di risolvere il conflitto.

Si tratta di una incognita che si aggiunge alle perplessità sopra espresse.

In definitiva, la Commissione di studio dell’A.N.M., pur accogliendo con favore ogni proposta volta ad abbattere il carico giudiziario relativo ai reati di criminalità minore e a introdurre strumenti di risoluzione negoziata dei conflitti, considera la disciplina concretamente proposta in relazione all’archiviazione meritata insoddisfacente sotto vari aspetti e di fatto insufficiente a perseguire lo scopo indicato.

[1] A cura del Dr. Carlo Introvigine

[2] A cura della Dott.ssa Santina Lionetti

[3] Nota a cura del Dott. Flavio Serracchiani

[4] Nota a cura del Dr. Andrea Palmieri

[5] Nota a cura della dott.ssa Veronica Rizzaro

[6] A cura della Dott.ssa Luisa Bettiol

[7] A cura delle Dott.ssa Alessia Giorgianni

[8] A cura del Dr. Andrea Fanelli

[9] A cura dott.ssa Teresina Pepe

[10] Nota a cura della Dott.ssa Anna Tirone

[11] Nota a cura della Dott.ssa Gabriella Ambrosino e del Dott. Vincenzo Giordano

[12] A cura della Dott.ssa Gabriella Ambrosino e della Dott.ssa Roberta Russo

[13] A cura dei Dott.ri Vincenzo Giordano e Maria Amoruso

[14] Nota a cura della Dott.ssa Rossana Riccio e della Dott.ssa Paola Cervo

[15] A cura dei Dott.ri Angelo Salerno e Matteo Stella

[16] A cura del Dott. Mauro Lavra

[17] A cura della dott.ssa Valentina Prudente

[18] A cura del dott. Alessandro Quattrocchi

[19] A cura del dr. Angelo Salerno

[20] Nota a cura della Dot.ssa Roberta Bray

[21] La perquisizione deve ancorarsi all’esistenza di indizi di rilievo convergenti verso la probabilità del rinvenimento della res, oggetto della ricerca sulla persona o nel luogo in cui è disposta la perquisizione.

[22] A cura del Dott. Angelo Salerno

[23] Nota a cura del Dott.Francesco Loschi

[24] Nota a cura della Dott.ssa Paola Cervo

[25] Nota a cura del Dr. Giuseppe Miceli

[26] A cura del Dr. Antonino Santoro

[27] Mitja Gialuz, L’“archiviazione meritata” come terza via tra archiviazione ed esercizio dell’azione penale, su www.processopenaleegiustizia.it