Tutela cautelare e arbitrato: prospettive di riforma

Il presente contributo si sofferma sulle proposte di modifica alla disciplina dell’arbitrato, contenute negli emendamenti governativi al disegno di legge AS 1662 per la riforma del processo civile, con particolare riferimento all’ampliamento della potestà cautelare degli arbitri. L’articolo offre, quindi, un inquadramento della disciplina vigente, delle problematiche che si sono poste, con particolare riguardo alla natura concorrente o esclusiva della competenza arbitrale in materia cautelare, nonché degli aspetti problematici che potrebbero porsi alla luce delle proposte di modifica.

Sommario: 1. Premessa; 2. La disciplina vigente; 3. La tutela cautelare nell’arbitrato societario e il problema della irreclamabilità; 4. Esclusività o concorrenza della potestà cautelare arbitrale; 5. Conclusioni.

1. Premessa

Tra gli emendamenti governativi al disegno di legge AS 1662 per la riforma del processo civile, vi è anche all’art. 11 una delega per apportare modifiche alla disciplina dell’arbitrato. In particolare, i principi ed i criteri direttivi di tali modifiche sono i seguenti:

a) rafforzare le garanzie di imparzialità e indipendenza dell’arbitro, reintroducendo la facoltà di ricusazione per gravi ragioni di convenienza, nonché prevedendo l’obbligo di rilasciare, al momento dell’accettazione della nomina, una dichiarazione che contenga tutte le circostanze di fatto rilevanti ai fini delle sopra richiamate garanzie, prevedendo l’invalidità dell’accettazione nel caso di omessa dichiarazione, nonché in particolare la decadenza nel caso in cui, al momento di accettazione della nomina, l’arbitro abbia omesso di dichiarare le circostanze che, ai sensi dell’articolo 815 del codice di procedura civile, possono essere fatte valere come motivi di ricusazione;

b) prevedere in modo esplicito l’esecutività del decreto con il quale il presidente della corte d’appello dichiara l’efficacia del lodo straniero con contenuto di condanna;

c) prevedere l’attribuzione agli arbitri rituali del potere di emanare misure cautelari nell’ipotesi di espressa volontà delle parti in tal senso, manifestata nella convezione di arbitrato o in atto scritto successivo, salva diversa disposizione di legge. Mantenere per tali ipotesi in capo al giudice ordinario il potere cautelare nelle sole ipotesi di domanda anteriore all’accettazione degli arbitri; disciplinare il reclamo cautelare avanti al giudice ordinario per i motivi di cui all’articolo 829, primo comma, del codice di procedura civile e per contrarietà all’ordine pubblico; disciplinare le modalità di attuazione della misura cautelare sempre sotto il controllo del giudice ordinario;

d) prevedere, nel caso di decisione secondo diritto, il potere delle parti di indicazione e scelta della legge applicabile;

e) ridurre a sei mesi il termine di cui all’articolo 828, secondo comma, del codice di procedura civile, per la proposizione dell’impugnazione per nullità del lodo rituale, equiparandolo al termine di cui all’articolo 327, primo comma, del codice di procedura civile;

f) prevedere, nella prospettiva di riordino organico della materia e di semplificazione della normativa di riferimento, l’inserimento nel codice di procedura civile delle norme relative all’arbitrato societario e la conseguente abrogazione del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5; prevedere altresì la reclamabilità dell’ordinanza di cui all’art. 35, comma 5, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 che decide sulla richiesta di sospensione della delibera;

g) disciplinare la translatio iudicii tra giudizio arbitrale e giudizio ordinario e tra giudizio ordinario e giudizio arbitrale.

Le prospettive di modifica che vengono proposte, con particolare riferimento alla tutela cautelare, impongono necessariamente un sintetico esame della disciplina vigente e delle questioni interpretative che attualmente si agitano.

2. La disciplina vigente

Attualmente, l’art. 818 c.p.c. stabilisce in via generale che gli arbitri non possono concedere sequestri, né altri provvedimenti cautelari, salva diversa disposizione di legge.

La disposizione conferma la tradizionale estraneità della tutela cautelare ai poteri spettanti agli arbitri, riconoscendo di regola solo ai giudici ordinari la competenza ad emettere provvedimenti cautelari. Ciò vale sia per gli arbitrati rituali, sia per quelli irrituali, tenuto conto del disposto dell’art. 669 quinquies c.p.c., ai sensi del quale se la controversia è oggetto di clausola compromissoria o è compromessa in arbitri anche non rituali o se è pendente il giudizio arbitrale, la domanda si propone al giudice che sarebbe stato competente a conoscere del merito.

Tale regola, tuttavia, non va esente da deroghe. L’inciso che fa salva una eventuale diversa disposizione di legge va riferito, attualmente, al potere cautelare degli arbitri in ambito societario, i quali -in virtù dell’art. 35, comma 5, d.lgs. n. 5/2003- se autorizzati dalla clausola compromissoria, possono sospendere l’efficacia delle delibere assembleari oggetto di impugnazione.

Infatti, ai sensi del quinto comma dell’art. 35 d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, la devoluzione in arbitrato, anche non rituale, di una controversia non preclude il ricorso alla tutela cautelare a norma dell’art. 669 quinquies c.p.c., ma se la clausola compromissoria consente la devoluzione in arbitrato di controversie aventi ad oggetto la validità di delibere assembleari agli arbitri compete sempre il potere di disporre, con ordinanza non reclamabile, la sospensione dell’efficacia della delibera.

Al momento dell’entrata in vigore, il citato art. 35 rappresentava una espressa deroga al disposto dell’art. 818 c.p.c. che, nella sua formulazione originaria, precludeva tout court agli arbitri ogni potere cautelare. Successivamente, con la riforma del 2006 [1] è stato inserito l’inciso “salva diversa disposizione di legge” a conclusione dell’art. 818 c.p.c. e, pertanto, la potestà cautelare riconosciuta agli arbitri in materia di sospensione di delibere assembleari può ben ricondursi in quella clausola di salvaguardia.

Peraltro, con la nuova disciplina in materia di arbitrato societario (D.lgs. n. 5/2003), il legislatore ha altresì precisato che il ricorso alla tutela cautelare statale non è precluso neanche in caso di arbitrato irrituale. Tale impostazione aveva, inizialmente, sollevato dubbi in quanto non pienamente coincidente con il testo allora vigente dell’art. 669 quinquies c.p.c.. Tuttavia, con la riforma del 2005[2], anche il testo dell’art. 669 quinquies c.p.c. è stato modificato in tal senso, prevedendo la competenza in materia cautelare del giudice statale anche in caso di devoluzione della controversia in arbitrario irrituale.

Tuttavia, la formulazione letterale del disposto dell’art. 35 d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 ha suscitato non pochi dubbi interpretativi, diversamente risolti in dottrina e in giurisprudenza. In particolare, i dubbi derivano dalla difficoltà di coordinamento tra la prima e la seconda parte della norma, collegate dalla avversativa “ma” [3]. Ci si è chiesti, infatti, se il potere cautelare arbitrale in sede di sospensione dell’efficacia delle delibere assembleari abbia carattere esclusivo o concorrente, con le relative ripercussioni sul rapporto con l’autorità giudiziaria ordinaria, oltre che in materia di litispendenza arbitrale [4].

3. La tutela cautelare nell’arbitrato societario e il problema della irreclamabilità

Come già evidenziato, l’art. 35, comma 5 del D.lgs. n. 5/2003 ha, per la prima volta, riconosciuto nel nostro ordinamento una potestà cautelare agli arbitri, in deroga al divieto generale sancito dall’art. 818 c.p.c.. Si è detto, però, che la portata eccezionale di tale innovazione è attenuata dal carattere meramente inibitorio di tale potere. Ed infatti, in passato la preclusione della tutela cautelare in sede arbitrale veniva giustificata con la cd. carenza di imperium, e cioè con la impossibilità di rendere coercibile la tutela dagli stessi apprestata.

Il citato art. 35, comma 5, tuttavia, riconosce agli arbitri il solo potere di disporre la misura cautelare tipica prevista dall’art. 2378 c.c., nell’ambito del procedimento d’impugnazione delle delibere assembleari di società per azioni. Tale misura cautelare, avendo un carattere meramente inibitorio, non richiede forme coercitive di attuazione, essendo a tal fine sufficiente la pubblicazione dell’ordinanza di sospensione nel Registro delle imprese.

La norma, infatti, si riferisce chiaramente alla sospensione delle delibere assembleari, e cioè delle determinazioni assunte dall’assemblea dei soci. Poi, parte della dottrina e della giurisprudenza ha ritenuto di poter ricomprendere nella dizione delibere assembleari anche le delibere del consiglio di amministrazione (in luogo dell’assemblea), nonché le decisioni assunte dai soci di una società di persone (laddove l’organo assembleare di regola non esiste).

Sicchè, il carattere innovativo della norma risulta comunque limitato ad una sola misura cautelare (la sospensione delle delibere assembleari); ad una misura di tipo meramente inibitorio (che quindi non richiede forme coercitive di attuazione); e peraltro nel solo ambito dell’arbitrato societario (per il quale la legge prevede espressamente che l’organo giudicante sia nominato da un soggetto terzo, estraneo alle parti ed ai loro specifici interessi) [5].

Emerge, quindi, chiaramente la mancanza di qualsivoglia pretesa della riforma di creare un modello cautelare sostitutivo a quello statuale.

In realtà, i maggiori dubbi interpretativi si sono posti con riferimento alla applicabilità delle norme sul rito cautelare uniforme. E’ opinione concorde che, anche dinanzi agli arbitri al pari del giudice statale, siano necessari i medesimi requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora: quindi, da un lato, è necessaria la verosimile fondatezza dei motivi dedotti in impugnativa (o, più in generale, la valutazione prognostica favorevole al presumibile accoglimento della domanda di annullamento) e, dall’altro, la valutazione comparativa tra il danno che subirebbe il ricorrente dalla esecuzione della delibera impugnata e quello che, invece, subirebbe la società dalla sospensione della sua esecuzione. Tale valutazione comparativa risulta, infatti, particolarmente rilevante, essendo stata introdotta dal legislatore in un’ottica di tutela della conservazione e della stabilità degli atti organizzativi della società, al fine di garantirne il buon funzionamento.

Si è, poi, ammessa la generale compatibilità con le norme sulla revocabilità e modificabilità della misura cautelare da parte del medesimo organo decidente che ha emesso il provvedimento, in presenza dei presupposti di cui all’art. 669 decies c.p.c., nonché la possibilità di riproposizione dell’istanza cautelare in caso di mutamenti delle circostanze previsti dall’art. 669 septies c.p.c..

Tuttavia, maggiori problemi pone l’aspetto della irreclamabilità dell’ordinanza cautelare. Infatti, la espressa esclusione della applicabilità dell’art. 669 terdecies c.p.c. (prevista chiaramente dal citato art. 35) ha sollevato notevoli dubbi di legittimità costituzionale, sotto il profilo della irragionevole disparità di trattamento rispetto all’ordinanza cautelare emessa dal giudice statale.

Secondo un primo orientamento, la scelta del legislatore in ordine alla non reclamabilità dell’ordinanza cautelare adottata dagli arbitri sarebbe giustificabile e ragionevole sulla base di plurime argomentazioni. In particolare, si fa riferimento alla mancanza, anche nei confronti del lodo, di meccanismi analoghi alle impugnazioni delle sentenze [6]; allo scopo di preservare le peculiarità  strutturali e l’autonomia del procedimento arbitrale cautelare; alla inopportunità di qualsivoglia interferenza o controllo da parte del giudice statale nel corso del procedimento; alla difficoltà nell’individuazione del giudice competente per il reclamo; alla esigenza di rapidità della procedura arbitrale, evitando appesantimenti e complicazioni.

Secondo altro orientamento, invece, tutte le suesposte ragioni non sarebbero sufficienti a giustificare la discrasia afferente la non reclamabilità del cautelare arbitrale, ciò soprattutto per la minore tutela che ne deriva, peraltro in un ambito particolarmente delicato come quello della tutela d’urgenza [7], tenuto conto che, in termini di effettività della tutela, la decisione cautelare spesso ha un’importanza assai più rilevante della decisione di merito.

4. Esclusività o concorrenza della potestà cautelare arbitrale

Nell’ambito del dibattito sulla legittimità costituzionale della irreclamabilità della tutela cautelare arbitrale e sulla ragionevolezza della suindicata discrasia normativa rispetto alla tutela cautelare del giudice statale, si inserisce il dibattito -che registra esiti notevolmente discordanti- afferente la natura concorrente o esclusiva della potestà cautelare arbitrale. In particolare, ci si è chiesti se l’art. 35, comma 5 del D.lgs. n. 5/2003, nel riconoscere agli arbitri la competenza a sospendere l’efficacia delle delibere assembleari, sia norma solo attributiva o anche ripartitoria della potestas cautelare tra arbitro e giudice statale. La questione non è di poco conto e comporta notevoli ripercussioni pratiche, con particolare riferimento alla litispendenza arbitrale.

Ed invero, al fine di chiarire i termini della questione, devesi innanzitutto evidenziare che -secondo l’orientamento, dottrinale e giurisprudenziale [8], pressoché maggioritario- anche nell’ambito delle controversie devolute alla competenza arbitrale le parti hanno sempre la possibilità di ricorrere al giudice statale in via d’urgenza, fino a quando il collegio arbitrale o l’ufficio dell’arbitro unico non si sia materialmente costituito. Ciò al fine di garantire che l’organo giudicante possa esaminare tempestivamente l’istanza di sospensione della efficacia della delibera assembleare, evitando che i tempi necessari per la instaurazione del procedimento arbitrale possano pregiudicare e rendere infruttuosa la tutela d’urgenza. Del resto, nell’arbitrario societario, il potere di nomina degli arbitri è affidato, a pena di nullità, ad un soggetto terzo, con la conseguenza che tra la proposizione della domanda arbitrale e la effettiva costituzione dell’organo giudicante potrebbe trascorrere un notevole lasso di tempo.

Se, tuttavia, è orientamento pressoché unanimemente condiviso che il giudice statale abbia la competenza a provvedere sull’istanza di sospensione della delibera impugnata nella fase anteriore alla costituzione dell’ufficio arbitrale, maggiormente controversa è la questione se residui un qualche potere cautelare al giudice statale anche successivamente alla costituzione dell’organo arbitrale. In tal senso, quindi, ed in tale perimetro va inteso l’interrogativo sulla natura concorrente o esclusiva della potestà cautelare degli arbitri.

Secondo una prima tesi, maggioritaria sia in dottrina che in giurisprudenza [9], la potestà degli arbitri, una volta insediatisi, sarebbe esclusiva con la conseguente inammissibilità della proposizione di un ricorso cautelare successivamente presentato dinanzi al giudice statale.

Tale orientamento fa leva su una interpretazione strettamente letterale dell’art. 35 del D.Lgs. n. 5/2003, secondo cui la congiunzione avversativa “ma” avrebbe proprio la funzione di contrapporre la prima parte della disposizione (in cui si detta la regola generale della competenza statuale in materia cautelare) e la seconda parte (in cui si detta l’eccezione a tale regola generale in caso di sospensione di delibere assembleari). Tale contrapposizione, tra regola ed eccezione, verrebbe confermata dall’uso dell’avverbio “sempre”, che viene letto in termini di esclusività, al fine di evitare duplicazioni di tutela.

Sicché, secondo tale impostazione, una volta attribuito in via derogatoria il potere cautelare agli arbitri, questo non ammetterebbe alcun potere residuo in capo al giudice statale, neanche nei limiti del decreto inaudita altera parte.

Per contro, altro orientamento ritiene di non condividere tale impostazione, affermando invece la esistenza, in ogni caso, di una potestà del giudice ordinario in ordine alla concessione del provvedimento cautelare di sospensione dell’efficacia della deliberazione assembleare. Tale posizione è stata di recente espressa dal Tribunale di Roma[10], secondo cui la potestà sospensiva del giudice statale -lungi dall’essere circoscritta alla sola fase che precede la costituzione dell’organo giudicante arbitrale- rimarrebbe durante tutto il procedimento. Si avrebbe, quindi, una sorta di doppio binario, in quanto la tutela cautelare potrebbe essere concessa sia dal giudice statale sia dall’arbitro, con la differenza che solo nel primo caso l’ordinanza sarebbe reclamabile.

Secondo tale orientamento, l’argomento letterale basato sull’intercalare “ma”, che segue alla riaffermazione del potere statale cautelare, ed all’avverbio “sempre”, collegato alla competenza arbitrale di disporre la sospensione dell’efficacia della delibera, risulta assai debole, dovendo anzi essere superato da una lettura costituzionalmente orientata della norma, collegata ad ulteriori disposizioni codicistiche.

Si osserva in primis che la congiunzione “ma”, che ricollega le due proposizioni contenute nella disposizione, non allude ad alcuna esclusività del potere conferito agli arbitri, potendo al contrario essere letta nel senso della portata innovativa della seconda parte della norma, che introduce la potestà cautelare degli arbitri, seppur in un determinato settore di intervento (quello della sospensione dell’efficacia delle deliberazioni societarie), nell’ambito di un sistema in cui, comunque, è confermata la esclusione della potestà cautelare degli arbitri.

Quanto, poi, all’utilizzo dell’avverbio “sempre”, si osserva che questo non è un sinonimo di “esclusivo”, potendo per contro essere letto nel senso della inderogabilità del potere degli arbitri. Ciò in quanto, una volta che sia stata prevista pattiziamente la devoluzione in arbitrato delle controversie aventi ad oggetto la validità delle deliberazioni assembleari, gli arbitri disporrebbero sempre del potere di sospendere la decisione impugnata, senza che possa verificarsi il caso di una impugnazione nel merito soggetta alla competenza arbitrale e, al contempo, di una sospensiva cautelare che ne risulti sottratta. Tale lettura sembra, in effetti, confermata dalla rubrica dell’art. 35, che fa riferimento alla: “disciplina inderogabile del procedimento arbitrale”, ciò impedendo che le parti possano, in deroga alla previsione di cui al comma 5, scindere al momento della redazione della clausola compromissoria contenuta nello statuto merito e sospensiva dell’efficacia della delibera impugnata.

Del resto, l’art. 35, comma 5 del D.Lgs. 5/2003 potrebbe leggersi non solo come norma attributiva di poteri cautelari ai giudici privati, bensì anche come norma ripartitoria delle competenze cautelari arbitrali e giudiziali, nel senso che gli arbitri sarebbero inderogabilmente titolari del potere (accessorio rispetto a quello di pronunciare sul merito della causa) di disporre la sospensione della decisione sociale oggetto di impugnazione; mentre il giudice statale resterebbe depositario del potere di accordare la “tutela cautelare” tout court.

Secondo il suesposto orientamento, quindi, una lettura costituzionalmente orientata del citato art. 35 imporrebbe di tener presente che la tutela cautelare ha la finalità di rendere completamente effettiva la tutela giurisdizionale dei diritti, di fare in modo cioè che il processo possa effettivamente dare, per quanto praticamente possibile, a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire. Questa finalità costituisce direttiva giuridica vincolante per il legislatore, il quale non può sottrarsi all’obbligo di assicurare che la durata dei giudizi ordinari ovvero altre circostanze (come appunto, nel caso di specie, la devoluzione in arbitrato della controversia di merito) non frustrino in concreto le ragioni che possono essere riconosciute in sentenza. Tale esigenza è espressione del più generale principio di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale, rinvenibile negli artt. 24 e 113 della Costituzione, nonché dal principio del giusto processo di cui all’art. 111 della Costituzione.

A conferma di tale impostazione, viene richiamato anche il disposto dell’art. 816 septies c.p.c. (applicabile anche all’arbitrato societario), in base al quale gli arbitri possono subordinare la prosecuzione del procedimento al versamento anticipato delle spese prevedibili determinando la misura dell’anticipazione a carico di ciascuna parte. Tale norma, infatti, potrebbe vanificare le esigenze di celerità ed effettività della tutela, subordinando l’intervento cautelare degli arbitri al pagamento di una somma di denaro (la cui determinazione, si ricorda, è rimessa agli arbitri stessi).

Sulla base delle suesposte argomentazioni, viene quindi affermato il principio secondo il quale la devoluzione in arbitrato delle controversie aventi ad oggetto l’impugnazione di deliberazioni societarie non osterebbe alla competenza -concorrente- del giudice ordinario in ordine al provvedimento cautelare di sospensione delle deliberazioni medesime: conclusione, peraltro, che appare in linea anche alla scelta compiuta dagli altri ordinamenti che ammettono la cautela arbitrale nei quali è affermato il principio per cui, di regola, la tutela cautelare arbitrale non esclude quella giudiziale.

5. Conclusioni

Alla luce della suesposta ricostruzione normativa e degli esaminati orientamenti contrapposti, lasciano perplessi alcuni dei principi e dei criteri direttivi che dovrebbero orientare le modifiche alla disciplina dell’arbitrato, con particolare riferimento ai principi espressi sub c) ed f).

Ed invero, viene in primo luogo prevista l’attribuzione agli arbitri rituali del potere di emanare misure cautelari nell’ipotesi di espressa volontà delle parti in tal senso, manifestata nella convezione di arbitrato o in atto scritto successivo, salva diversa disposizione di legge.

Ciò introdurrebbe una ampissima deroga al divieto sancito in generale dall’art. 818 c.p.c. ed al criterio di competenza sancito dall’art. 669 quinquies c.p.c., che attualmente vede -quale unicum nel sistema della cognizione arbitrale- la sola eccezione dell’autonomo potere degli arbitri di sospendere l’efficacia della deliberazione assembleare impugnata.

A differenza di quanto attualmente previsto, con la prospettata riforma il potere cautelare degli arbitri verrebbe esteso anche al di fuori della materia societaria (ed infatti, l’unica limitazione prevista all’ambito di operatività è che si tratti di arbitrato rituale) ed a qualsiasi misura cautelare, tipica ed atipica (non essendovi più alcuna limitazione alle sole misure aventi carattere inibitorio).

Tale ampliamento solleva dubbi sotto molteplici profili. Ed invero, l’unica deroga attualmente vigente all’art. 818 c.p.c. era stata giustificata dalla natura meramente inibitoria della misura cautelare adottabile dagli arbitri (non richiedente forme coercitive di attuazione) e dall’ambito di operatività della deroga limitato al solo arbitrato societario (per il quale la legge prevede espressamente che l’organo giudicante sia nominato da un soggetto terzo, estraneo alle parti ed ai loro specifici interessi).

Con la riforma, invece, anche arbitri nominati dalle parti (e non da soggetti terzi) si troverebbero ad esercitare un ampissimo potere cautelare, potendo adottare qualsivoglia misura d’urgenza, non solo di natura meramente inibitoria.

Inoltre, la volontà di devolvere agli arbitri anche il potere cautelare potrà essere espressa non solo nella originaria convenzione di arbitrato, ma anche in un atto scritto successivo. Anche tale ampliamento solleva dubbi, considerato che -nel corso della esecuzione del rapporto- il potere contrattuale delle parti può modificarsi, come possono modificarsi gli originari equilibri, soprattutto in caso di inadempimento agli obblighi inizialmente assunti. Sicchè, la circostanza che si possa attribuire agli arbitri il potere cautelare anche in un momento successivo al sorgere del rapporto tra le parti contraenti potrebbe prestarsi a strumentalizzazioni o abusi.

Dopo aver affermato un criterio di generale ampliamento del potere cautelare degli arbitri, la riforma sembra sposare la tesi della esclusività del suddetto potere, stabilendo espressamente di mantenere in capo al giudice ordinario il potere cautelare nelle sole ipotesi di domanda anteriore all’accettazione degli arbitri.

Ciò desta perplessità con riferimento al profilo della effettività della tutela, ben chiarito dal provvedimento del Tribunale di Roma sopra riportato. E’, del resto, ormai opinione ampiamente diffusa che lo strumento cautelare costituisca una componente essenziale ed ineliminabile della tutela giurisdizionale: tutela da intendersi come concreta attuazione del principio secondo il quale la durata del processo non deve andare a danno della parte che ha ragione, rendendo vana l’attuazione satisfattiva del diritto. L’azione cautelare, quindi, dovrebbe essere qualificata come azione generale, volta a tutelare –in via d’urgenza- qualsiasi diritto azionabile in via ordinaria, ciò al fine di assicurare un sistema giurisdizionale efficiente ed effettivo, qualora il tempo necessario per far valere il proprio diritto in via ordinaria rischi di vanificare gli effetti della pronuncia definitiva.

Se, dunque, la tutela cautelare va letta in funzione di assicurare il principio d’effettività della giurisdizione, deve altresì ritenersi che l’ambito di applicazione della tutela d’urgenza debba essere identico a quello della tutela giurisdizionale di cognizione. Del resto, il bisogno di tutela cautelare può presentarsi ogni volta che vi sia bisogno di tutela giurisdizionale di cognizione e lo scopo di assicurare gli effetti della sentenza di merito può essere raggiunto solo qualora, in via cautelare, si possano adottare misure volte ad anticipare in tutto o in parte gli effetti di tale pronuncia.

Partendo da tali presupposti, appare condivisibile il principio espresso dal Tribunale di Roma secondo cui la devoluzione in arbitrato della controversia (alla stregua della durata del giudizio) non deve frustrare in concreto le ragioni della parte che verranno riconosciute con la decisione di merito. Del resto, la stessa Corte costituzionale ha più volte affermato che il diritto al provvedimento urgente deriva direttamente dall’art. 24 della Costituzione, valevole per ogni ipotesi in cui si presenti come impellente la necessità di tutela cautelare[11].

Di conseguenza, limitando espressamente il potere di intervento in via d’urgenza del giudice statale alla sola ipotesi in cui la domanda cautelare sia stata proposta anteriormente alla accettazione degli arbitri, non tiene conto che, in virtù dell’art. 816 septies c.p.c., gli arbitri già costituiti potrebbero rifiutarsi di proseguire con il procedimento e potrebbero, altresì, rifiutarsi di provvedere sulla istanza cautelare già presentata, sino all’esito del pagamento anticipato delle spese, da loro stessi calcolato. E’ vero che, qualora nessuna delle parti proceda all’anticipazione nel termine fissato dagli arbitri, queste non sono più vincolate alla convenzione di arbitrato con riguardo alla controversia che ha dato origine al procedimento. Tuttavia, in una situazione di tal tipo, la parte ricorrente sarebbe costretta a riproporre la domanda dinanzi al giudice statale, ciò potendo vanificare le esigenze di celerità ed effettività della tutela, per ragioni legate esclusivamente a fattori estrinseci all’esigenza cautelare.

Il riconoscimento di una potestà concorrente, per contro, potrebbe risolvere ab origine la incongruenza sopra delineata, nonché i dubbi di legittimità costituzionale[12] in ordine alla discrasia in punto di reclamabilità del provvedimento cautelare adottato dagli arbitri.

Sul punto, gli emendamenti prevedono espressamente la competenza del giudice statale sul reclamo del provvedimento cautelare adottato dagli arbitri e sulla disciplina delle modalità di attuazione della misura cautelare arbitrale.

Tuttavia, tale soluzione non pare sufficiente a fugare i dubbi di legittimità costituzionale più volte espressi, considerato che il reclamo cautelare viene circoscritto ai soli motivi di cui all’articolo 829, primo comma, del codice di procedura civile (e quindi alle ipotesi di impugnazione del lodo arbitrale per nullità), nonché all’ipotesi di contrarietà all’ordine pubblico.

Permane, quindi, la discrasia con il reclamo previsto dall’art. 669 terdecies c.p.c., strutturato quale strumento interamente devolutivo della controversia al collegio, senza limitazione in ordine ai motivi di doglianza. Discrasia, peraltro, che sembrerebbe ancor più evidente leggendo il principio di cui alla lettera f), in cui si stabilisce genericamente di prevedere la reclamabilità dell’ordinanza di cui all’art. 35, comma 5, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, senza tuttavia far riferimento alle limitazioni di cui all’art. 829, comma 1 c.p.c..

Inoltre, tale scelta si pone in contrasto con quell’orientamento che -proprio al fine di superare i dubbi in ordine a tale discrasia- ritiene inopportuna qualsivoglia interferenza o controllo da parte del giudice statale nel corso del procedimento arbitrale, ciò alla luce delle peculiarità strutturali e della sua autonomia, nonché per l’esigenza di rapidità della procedura arbitrale, che richiede di evitare appesantimenti e complicazioni.

E’ indubbio che l’attribuzione al giudice statale della competenza in ordine al reclamo ed alla attuazione di qualsivoglia provvedimento cautelare emesso dagli arbitri comporti inevitabilmente un allungamento dei tempi del procedimento arbitrale (che invece dovrebbe essere caratterizzato da snellezza e rapidità). Per contro, l’ampliamento della potestà cautelare degli arbitri, oltre ai suesposti dubbi sotto il profilo della effettività della tutela, non sembra poter garantire un rilevante alleggerimento del carico di lavoro gravante sugli uffici giudiziari ordinari, considerata la competenza del giudice statale in tema di reclamo e di attuazione dei provvedimenti in questione emessi dagli arbitri.

[1] D.lgs. n. 40 del 2006.

[2] Con Legge n. 80 del 14 maggio 2005, di conversione del D.l. 14 marzo 2005 n. 35.

[3] Ai sensi dell’art. 35, comma 5 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, “La devoluzione in arbitrato, anche non rituale, di una controversia non preclude il ricorso alla tutela cautelare a norma dell’articolo 669-quinquies del codice di procedura civile, ma se la clausola compromissoria consente la devoluzione in arbitrato di controversie aventi ad oggetto la validità di delibere assembleari agli arbitri compete sempre il potere di disporre, con ordinanza non reclamabile, la sospensione dell’efficacia della delibera”.

[4] S. Giammillaro, La tutela cautelare nell’arbitrato societario

[5] L’art. 34 secondo comma d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 stabilisce che: “La clausola deve prevedere il numero e le modalità di nomina degli arbitri, conferendo in ogni caso, a pena di nullità, il potere di nomina di tutti gli arbitri a soggetto estraneo alla società. Ove il soggetto designato non provveda, la nomina è richiesta al presidente del tribunale del luogo in cui la società ha la sede legale”. E’ stata ritenuta legittima anche la scelta dell’arbitro unico, considerato che il citato articolo 34 –nello stabilire che la clausola compromissoria statutaria deve prevedere il numero degli arbitri- non pone limitazioni numeriche. Inoltre, l’art. 1, co. 4 del D.Lgs. 5/2003 stabilisce che -per quanto non diversamente disciplinato dallo stesso decreto- si applicano le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili e, di conseguenza, anche l’art. 809, co. 1 c.p.c. in base al quale gli arbitri possono essere uno o più, purchè in numero dispari.

[6]  F.P. Luiso, (a cura di), Il nuovo processo societario, Torino, 2006 p. 590.

[7]  C. Del Regno, L’arbitrato societario, in L’arbitrato, rituale, irrituale, societario, amministrativo, bancario, finanziario, sportivo, presso la CONSOB e internazionale, (a cura di) G. Capo, G. Cassano, F. Freni, Milan, 2018, p. 651

[8]  In questo senso, Trib. Milano, 17 marzo 2009; Trib. Napoli, 6 febbraio 2012; Trib. Napoli, 30 settembre 2005, secondo il quale rimangono al giudice ordinario soltanto alcuni segmenti d’intervento, con particolare riferimento al periodo che va dalla proposizione della domanda arbitrale alla formazione del collegio giudicante o all’accettazione dell’arbitro.

[9]  Trib. Milano, 4 ottobre 2005; Trib. Napoli, 8 marzo 2010; Trib. Milano, 17 marzo 2009; Trib. Lucca, 27 novembre 2008.

[10]  G. Tota, Impugnazione in sede arbitrale di deliberazioni assembleari e riparto di potestà cautelare ex art. 35, comma 5, D.lgs. n. 5/2003, nota a Trib. Roma, sez. impr. (ord.) 22 aprile 2018, in Riv. arb. 1, 2019, p. 99 e ss.

[11]  Si è affermato che “la disponibilità di misure cautelari costituisce espressione precipua del principio per il quale la durata del processo non deve andare a danno dell’attore che ha ragione” (Corte cost. n. 253 del 1994; v. anche Corte cost. n. 161 del 2000 e n. 190 del 1985). Una siffatta funzione strumentale all’effettività della stessa tutela giurisdizionale è innegabilmente comune sia alle misure di contenuto anticipatorio che a quelle conservative.

[12]  Dubbi quanto alla legittimità costituzionale della previsione di non reclamabilità dell’ordinanza con la quale gli arbitri concedono la sospensione sono stati espressi, tra gli altri, da F.P. Luiso, Appunti sull’arbitrato societario, in Riv. dir. proc. 2003, 725; G. Ruffini, Il nuovo arbitrato per le controversie societarie, in Riv. trim. dir. e proc. civ. 2004, 530 s..

Dott.ssa Cecilia Bernardo

Giudice del Tribunale di Roma – Sezione specializzata in materia di impresa

In foto: Tamara de Lempicka, La dormiente, 1932