Il disegno di legge delega alla riforma del processo civile: riflessioni e proposte

La recente approvazione da parte del Senato del disegno di legge delega di riforma del processo civile AS 1662, sensibilmente modificato nel suo testo originario per effetto degli emendamenti apportati dal Governo e in sede di conversione, apporta significative modifiche all’architettura dei giudizi civili; il presente contributo si propone di analizzare i pregi e i profili di criticità di alcuni degli aspetti salienti della nuova disciplina delle A.D.R. e del processo di primo grado, nonché di sottoporre alla riflessione di tutti ulteriori modifiche che si ritengono opportune al fine di migliorare la qualità del servizio giustizia.

 

  1. Premessa

Il presente contributo si propone di fornire un primo commento al d.d.l. AS 1662, avente ad oggetto la delega per la riforma del processo civile, il cui testo recentemente approvato dal Senato è stato sensibilmente modificato alla luce degli emendamenti proposti dal Governo in attuazione delle linee di indirizzo contenute nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza nonché in sede di Commissione.

L’economia dello scritto impedisce di esaminare le singole novità, per cui ci si soffermerà su alcuni aspetti salienti relativi agli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e al processo di primo grado, cogliendo l’occasione per richiamare l’attenzione su alcuni problemi trascurati dal d.d.l..

 

  1. Le novità in tema di mediazione e negoziazione assistita.

 L’art. 1, co. 4, del d.d.l. è dedicato agli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie, ed è volto ad incentivarne l’uso, in ottica deflattiva del contenzioso; sul punto, appaiono condivisibili sia l’ampliamento delle ipotesi di mediazione, che tuttavia appare dimenticare dei settori importanti e complessi sul piano tecnico come quello degli appalti privati sia le novità volte ad assicurare l’effettività della partecipazione delle parti, mentre il d.d.l. appare carente nella parte in cui non prevede degli accorgimenti per evitare che la mediazione si risolva in una mera comparizione formale delle parti e nella loro dichiarazione dell’indisponibilità a conciliarsi.

In quest’ottica, si sarebbe potuto prevedere l’obbligo per il mediatore di formulare sempre una proposta di conciliazione e per le parti di motivare il rifiuto della medesima, con l’indicazione delle condizioni alle quali vi è disponibilità a conciliare la lite, così da consentire al giudice di sanzionare sul piano processuale rifiuti dilatori o pretestuosi.

Qualche riflessione merita anche l’attività di istruzione stragiudiziale, in relazione alla quale si riscontrano i seguenti profili di criticità:

  1. a) l’assenza di un controllo terzo e imparziale sulla valutazione della rilevanza delle circostanze che ne sono oggetto, sullo svolgimento dell’istruttoria e sulla verbalizzazione delle dichiarazioni;
  2. b) l’applicabilità dell’istituto alla sola negoziazione assistita, ove non vi è un soggetto che si colloca in posizione terza tra le parti, e la mancata estensione alla mediazione, ove invece vi è il mediatore;
  3. c) la mancata previsione della possibilità di incaricare, nel corso della negoziazione assistita, un soggetto dotato di competenze tecniche per l’analisi di problematiche che richiedono specifiche cognizioni di tale natura;
  4. d) il rischio di effetti contrari alla deflazione del contenzioso, dati dall’intervento anticipato del giudice volto ad acquisire le dichiarazioni che il terzo si rifiuta di rendere stragiudizialmente, dall’appesantimento dell’istruttoria che potrebbe derivare dall’inserimento nel fascicolo di prove di cui dovrà essere valutata ex post rilevanza e ammissibilità, dalle richieste di rinnovazione dell’istruttoria (non circoscritte a casi tassativi) e dall’aggravamento dell’onere motivazionale in tutti i casi di contrasto tra le risultanze probatorie giudiziali e stragiudiziali.

 

  1. Le novità in tema di processo di primo grado

Nell’art. 1, co. 5, dedicato al processo monocratico di primo grado, è stata opportunamente stralciata la previsione contenuta nell’emendamento del Governo che attribuiva alla contumacia del convenuto valore di non contestazione dei fatti posti a fondamento della domanda, in relazione alla quale potevano porsi dei dubbi di compatibilità con l’art. 24 Cost., come rilevato da autorevole dottrina con riferimento alla soluzione prevista nel rito societario dall’abrogato art. 13, comma 2, del D. Lgs. n. 5/2003 (sul punto cfr. G. VERDE, Profili del processo civile, vol. 2, Processo di cognizione, Napoli, 2006, pag. 442).

Il contenuto dell’emendamento del Governo è stato rivisto anche relativamente alla fase di trattazione, originariamente configurata secondo un modello simile al rito del lavoro, e ora costruita in modo non dissimile dal previgente rito societario disciplinato dal D. Lgs. n. 5/2003, successivamente abrogato, visto che quello che attualmente è il contenuto delle memorie ex art. 183, comma sesto c.p.c., viene travasato in scritti difensivi da depositare antecedentemente alla prima udienza.

L’innovazione consente al giudice di avere sin da subito un quadro completo del thema decidendum e delle istanze istruttorie delle parti, ma rischia di avere un importante difetto, giacché qualora all’esito della prima udienza il giudice autorizzi la chiamata in causa del terzo o disponga l’integrazione del contraddittorio ex artt. 102 o 107 c.p.c., tutta l’attività svolta nelle memorie integrative viene vanificata e dovrà essere ripetuta a contraddittorio integrato.

In questo senso, dunque, il compito demandato al legislatore delegato di adeguare la disciplina della chiamata in causa del terzo alla nuova struttura della fase introduttiva appare particolarmente delicato e richiederà particolare attenzione.

Un ulteriore profilo di criticità attiene al fatto che la scansione ipotizzata non consente di creare una distinzione chiara tra formazione del thema decidendum e formulazione delle istanze istruttorie, giacché l’attore nella prima memoria integrativa dovrebbe non solo “precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate” ma “a pena di decadenza” già indicare i nuovi mezzi di prova e le produzioni documentali” senza conoscere tuttavia come il convenuto abbia modificato le proprie domande, eccezioni e conclusioni e replicato alle sue deduzioni, atteso che ciò avviene con una memoria che verrebbe depositata successivamente; del pari, per lo stesso motivo, il convenuto nella sua prima memoria integrativa dovrebbe anch’egli “precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate” e “a pena di decadenza” già “indicare i nuovi mezzi di prova e le produzioni documentali” senza conoscere le repliche dell’attore.

Apprezzabili appaiono le modifiche introdotte alla fase decisoria, ossia la possibilità di riservare il deposito della sentenza all’esito dell’udienza ex art. 281-sexies c.p.c. entro trenta giorni, che favorisce l’estensione dell’utilizzo di tale modulo decisorio, e la previsione dell’udienza di rimessione della causa in decisione preceduta da contraddittorio scritto (precisazione delle conclusioni, comparse conclusionali e memorie di replica) in luogo di quella di precisazione delle conclusioni, che nella prassi è sempre più un adempimento meramente formale.

È auspicabile, tuttavia, una previsione più chiara delle attività che potranno essere compiute in tale udienza, onde evitare che essa diventi un’occasione per effettuare delle “controrepliche” o introdurre tematiche nuove.

Va segnalata, poi, l’introduzione del “procedimento semplificato di cognizione” in luogo del rito sommario disciplinato dall’art. 702-bis c.p.c., con una definizione più chiara rispetto al testo originario dell’emendamento del Governo sia dei presupposti di applicazione sia della differenza rispetto al rito ordinario, consistente nella previsione di termini più ridotti di preclusione.

Interessanti appaiono le previsioni in materia di ordinanze provvisorie di accoglimento e di rigetto, che possono essere emesse nelle controversie di competenza del tribunale aventi ad oggetto diritti disponibili.

L’ordinanza provvisoria di accoglimento (totale o parziale) verrebbe adottata su istanza di parte “quando i fatti costitutivi sono provati e le difese del convenuto appaiono manifestamente infondate”.

La relazione illustrativa all’emendamento del Governo specifica che tale strumento dovrebbe avere efficacia esecutiva, lo accosta ad istituti di diritto processuale straniero (il référé provision francese e il summary judgment anglosassone) e puntualizza che sarebbe stato modellato sulle fattispecie della condanna con riserva delle difese del convenuto, già prevista nel nostro ordinamento (art. 1462 c.c. e artt. 35, 648 e 665 c.p.c.).

Le ordinanze provvisorie di rigetto, invece, verrebbero emesse all’esito della prima udienza di comparizione delle parti in caso di manifesta infondatezza della domanda oppure di mancanza o assoluta incertezza dell’oggetto della domanda o di mancanza dei fatti costitutivi.

Tali provvedimenti sarebbero inidonei al giudicato, reclamabili ex art. 669-terdecies c.p.c. avanti al Collegio, con prosecuzione del giudizio avanti ad altro giudice in caso di accoglimento del reclamo.

In generale, si osserva che la reclamabilità delle ordinanze provvisorie desta problemi sul piano dell’aumento del carico del contenzioso collegiale; con specifico riferimento a quelle di accoglimento, inoltre, si aggiunge un ulteriore profilo di perplessità sul piano sistematico, giacché i provvedimenti menzionati dalla relazione e altri anticipatori simili (cfr. gli artt. 186-bis, 186-ter, 186-quater e 423 c.p.c.) non sono reclamabili e quindi potrebbero porsi dubbi di ragionevolezza sulla scelta del legislatore.

Sarebbe stato opportuno, inoltre, chiarire sin dal momento della delega il regime di tali provvedimenti in caso di estinzione del giudizio e l’idoneità delle ordinanze di accoglimento all’iscrizione dell’ipoteca giudiziale.

Sul piano sistematico, appare interessante l’estensione dei procedimenti di licenza e di convalida di sfratto per scadenza del contratto e per morosità al comodato di immobili e all’affitto d’azienda; attualmente, infatti, per ottenere il rilascio in via d’urgenza di aziende in affitto e di immobili in comodato si utilizza il procedimento ex art. 700 c.p.c., ma tale strada non sarà più percorribile a seguito dell’innovazione di cui si è detto, in ragione del principio di sussidiarietà della tutela cautelare atipica.

L’art. 1, comma 6, del d.d.l. estende le soluzioni che si sono viste sin qui al processo collegiale di primo grado, e demanda al legislatore delegato la riduzione delle ipotesi di collegialità, sia pure con un criterio direttivo che appare eccessivamente generico, facendo riferimento soltanto alla complessità giuridica e alla rilevanza economico-sociale della controversia.

Altrettanto generica è la delega alla rideterminazione della competenza del giudice di pace prevista dall’art. 1, co. 7, del d.d.l., che non contiene alcuna specificazione dell’estensione che potrà assumere tale revisione.

Inoltre, tale scelta avrebbe dovuto essere accompagnata da ulteriori previsioni volte a garantire l’adeguamento delle piante organiche degli uffici, la formazione adeguata dei magistrati onorari che saranno chiamati ad affrontare tale contenzioso e una puntuale disciplina dei casi di appellabilità delle pronunce del giudice di pace, essendo prevedibile che a fronte di un ampliamento della sua competenza possa esservi anche un incremento degli appelli avanti il Tribunale.

È auspicabile, peraltro, che sia finalmente data concreta attuazione al PCT anche avanti il giudice di pace, che forma oggetto di una specifica previsione contenuta nell’art. 1, co. 17, del d.d.l., senz’altro condivisibile alla luce del gap informatico ancora in essere tra giudici di pace e Tribunali e Corti d’appello.

Certamente apprezzabile, invece, in quanto positivamente sperimentate nell’ultimo anno, è l’introduzione a regime della trattazione scritta e della celebrazione delle udienze a distanza (art. 1, co. 17, del d.d.l.); è opportuno, tuttavia, che siano chiariti i limiti di applicazione della trattazione scritta a fattispecie particolari come le udienze ex art. 281-sexies e 428 c.p.c. e che vengano adottate soluzioni tecniche volte a semplificare la fissazione delle udienze a distanza, integrando i relativi applicativi con la Consolle del Magistrato.

Va condiviso, altresì, quanto previsto dall’art. 1, co. 21, del d.d.l. in ordine all’individuazione dell’Amministrazione della giustizia quale soggetto danneggiato nei casi di responsabilità aggravata e all’introduzione di specifiche sanzioni in favore della cassa delle ammende, giacché le domande manifestamente infondate cagionano un danno non solo alle controparti, ma anche al buon andamento del sistema processuale.

Sono state, invece, stralciate l’introduzione del principio per il quale la condanna di cui all’art. 96, terzo comma, c.p.c. avrebbe dovuto essere pronunciata nei confronti della parte soccombente che avesse agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave e dei limiti quantitativi alla condanna.

Tale scelta non pare condivisibile, in quanto tali innovazioni, originariamente contenute nell’art. 14 del d.d.l., avevano il pregio di tassativizzare sia i presupposti di applicabilità della norma, sui quali dottrina e giurisprudenza avevano manifestato divergenze, sia le conseguenze dell’inosservanza dei doveri di leale collaborazione delle parti e dei terzi, e quindi erano apprezzabili sul piano della prevedibilità delle decisioni giurisdizionali da parte degli utenti del servizio giustizia.

Infine, va osservato che il d.d.l. non interviene in modo specifico nel diritto processuale dell’immigrazione, dove sarebbe auspicabile una razionalizzazione del sistema delle tutele e del riparto di giurisdizione tra G.O. e G.A., posto che alcune controversie sono attribuite al giudice di pace, altre alle sezioni specializzate in materia di immigrazione e altre infine al G.A..

Con specifico riferimento ai giudizi in materia della protezione internazionale, inoltre, è opportuna la reintroduzione di un modello di trattazione monocratica in luogo di quello collegiale ex art. 35-bis del D. Lgs. n. 25/2008, che si rivela inefficiente giacché astrattamente implica quattro passaggi in Collegio, ossia il decreto di concessione della sospensiva inaudita altera parte, il decreto di conferma di tale misura, il decreto decisorio e il decreto di sospensione degli effetti della decisione di primo grado impugnata avanti la Corte di cassazione.

Correlativamente, a tutela del diritto di difesa dell’interessato, appare opportuna la reintroduzione dell’appello – soppresso dal d.l. n. 13/2017 proprio a fronte della collegialità in primo grado – con previsione di sezioni specializzate anche presso le Corti d’appello.

Un’ulteriore innovazione da prendere in considerazione sarebbe l’introduzione della sezione specializzata anche presso la Corte di cassazione, al fine di evitare contrasti di giurisprudenza in materia di diritti fondamentali della persona e di consentire l’efficace esercizio della funzione nomofilattica.

Volendo concludere, più in generale, va ribadito che ogni modifica delle norme processuali è inutile laddove non sia accompagnata da interventi volti a dotare gli uffici di magistrati, personale amministrativo e dotazioni adeguate che rendano il carico di lavoro sostenibile, presupposto imprescindibile affinché il servizio giustizia possa essere reso in maniera davvero efficace ed efficiente a favore della collettività.

Dott. Fabio Doro

Giudice del Tribunale di Venezia

In foto: Palazzo di Monte Citorio, Roma (interno)