Home Primo Piano Aitala: la Corte penale internazionale paga il prezzo della sua rilevanza ...

Aitala: la Corte penale internazionale paga il prezzo della sua rilevanza  

Intervista al vicepresidente della Cpi: “Proteggiamo la vita, la libertà e la dignità dei bambini”

 

Il 17 luglio del 1998 lo Statuto di Roma dava vita alla Corte penale internazionale, operativa dal 2002. Ne abbiamo parlato con Rosario Aitala, dal 2018 giudice della Corte, oggi primo vicepresidente e presidente della Sezione che istruisce i procedimenti in Ucraina, Afghanistan, Darfur e molti altri.

 

Sono trascorsi 27 anni dallo Statuto di Roma, perché è importante ricordare questo anniversario?

In questo mese si incrociano due anniversari indimenticabili collegati fra loro. Il genocidio di Srebrenica del 1995, nel corso del quale furono sterminati oltre 8000 ragazzi e uomini musulmani bosniaci e decine di migliaia di bambine, donne e anziani furono deportati, stuprati e torturati. E nel 1998 la firma dello Statuto di Roma che istituì la Corte penale internazionale. Srebrenica ha cambiato la storia. Fu anche un momento decisivo per la nascita della Corte penale internazionale. Le immagini dei campi di concentramento, delle fosse comuni, dei deportati, di un’umanità dolente in cammino, risvegliarono le coscienze. La guerra tornò così in Europa, oggi lo abbiamo dimenticato. Srebrenica incarna l’idea del Male e del fallimento della politica internazionale. «Il fondo dell’umiliazione delle Nazioni Unite» scrisse allora il Guardian. L’inerzia europea dovuta alle divisioni politiche concorse a quegli orrori. Il Tribunale per l’ex Jugoslavia (ICTY) istituito dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel 1993 cercava di emendare la grave responsabilità morale della comunità internazionale, che aveva lasciato massacrare i civili in Kosovo, Bosnia e Croazia. La stessa vergogna si ripetette poco più tardi con gli stermini genocidari in Ruanda.

Il significato più importante ma anche doloroso dell’anniversario dello Statuto di Roma è il contrasto drammatico fra l’atmosfera che si respirò a Roma nel 1998 e quella dei nostri giorni. Il sogno di una corte internazionale penale permanente veniva da molto lontano, sin dal 1948, quando si redigette la Convenzione sul genocidio. La guerra fredda interruppe lo sviluppo della giustizia internazionale a lungo. Poi a New York cominciò a respirarsi un’aria diversa. A Roma era naturalmente presente la componente delle grandi potenze sovraniste che avrebbero voluto una Corte inefficace, debole e controllata dal Consiglio di Sicurezza. Persero 120 a 7. Oggi è in corso una guerra al diritto internazionale, ai diritti umani fondamentali, alle corti internazionali, al multilateralismo. La tensione morale e la gioia di quei giorni a Roma sono lontanissime. È un momento di grande amarezza.  

L'Aja, Corte penale internazionaleQuali passi avanti sono stati fatti dalla giustizia penale internazionale da allora?

Quella degli ultimi tre anni è una Corte radicalmente diversa da quella del lustro precedente e sta cambiando per sempre la storia della giustizia internazionale. Non mancano certo gli errori, le insufficienze e le inefficienze ma la Corte con coraggio, professionalità, indipendenza e imparzialità è diventata quello che grandi donne e uomini avevano sognato a lungo. La Corte adesso paga la sua rilevanza. Subisce una serie di misure coercitive esplicitamente indirizzate a fermare e influenzare i procedimenti. Una grande potenza ha annunciato minacciosi mandati di cattura nei confronti dei giudici, inseriti nelle liste dei latitanti come terroristi e mafiosi. Un’altra impone sanzioni contro i giudici inserendoli nelle liste nere come se fossero loro i terroristi, i criminali di guerra, i torturatori e gli stupratori. Si ripetono violenti attacchi informatici. Ma la Corte non può fermarsi. Deve continuare a difendere la vita, la libertà e la dignità dei civili inermi e innocenti, soprattutto i bambini: sequestrati, deportati, «dilaniati dalle bombe» – parole di Papa Leone – affamati a morte.  In questa atmosfera internazionale la Corte è un presidio irrinunciabile di civiltà. Sta realizzando quei principi di umanità che sono iscritti nella Carta delle Nazioni Uniti, nelle Convenzioni di Ginevra, nello Statuto di Roma. L’alternativa è un mondo ostaggio della forza brutale, dell’ingiustizia, della prepotenza. La civiltà umana rischia un declino irreversibile.

In base alla sua esperienza quali sono i limiti maggiori con cui la Corte si confronta oggi?

Il grande Antonio, “Nino”, Cassese, il primo presidente del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia diceva che quell’organo era “un gigante senza braccia né gambe” perché aveva necessità degli Stati per investigare ed eseguire i provvedimenti. Vale anche per la Corte, con la differenza che l’ICTY sostanzialmente disponeva della Nato, che forniva prove ed effettuava arresti, e che il sostegno politico era comune al Consiglio di Sicurezza, che aveva istituito i due Tribunali ad hoc, e all’Assemblea Generale. Nessuna delle due condizioni vale per la Corte. Dobbiamo guadagnare ogni cosa con grande dispendio di energie. Per esempio, l’istruttoria per i crimini in Darfur è stata condotta faticosamente sulla diaspora. Il Sudan non ci ha mai permesso di accedere ai territori degli stermini e delle devastazioni. Siamo riusciti a rinviare a giudizio uno dei comandante della milizie che hanno stuprato, torturato e massacrato trecentomila civili e costretto tre milioni alla fuga. Senza quel processo, che sta per concludersi, quel dispendio di sangue e dolore sarebbe destinato all’oblio eterno. Si può immaginare quanto siano impegnative le istruttorie nei conflitti internazionali in corso. Un lavoro meticoloso e pericoloso. Il sostegno politico alla Corte è sempre stato altalenante. Ma oggi più che mai gli Stati vorrebbero scegliere i procedimenti che si allineano ai propri interessi politici e fare a meno o fermare gli altri. Il che naturalmente non si concilia con l’avere voluto una vera Corte, dotata di indipendenza e di imparzialità. I giudici della Corte non si fanno influenzare e rispettano rigorosamente questi due requisiti fondanti di ogni giurisdizione.

In quale direzione può crescere ancora il lavoro della Cpi?

La scorsa settimana abbiamo emesso dei mandati di cattura nei confronti dei leader dei Taliban che controllano l’Afghanistan da dopo la partenza degli americani, per il diniego di diritti di base e la persecuzione di milioni di bambine, ragazze, donne e altre persone la cui identità sessuale il non si concilia con le politiche discriminatorie del regime. È una nuovissima linea giurisprudenziale e soprattutto una piccola luce di speranza per milioni di vittime di stermini, stupri, torture, persecuzioni e discriminazioni in tutto il mondo. Chi non ha speranza e vive nella disperazione, nell’assenza di prospettive, spesso odia. L’odio genera violenza e la violenza vendetta. È il ciclo eterno del male. La Corte ha un ruolo cruciale ma necessariamente limitato, è una questione politica. Chi governa deve capire che chiudendo ogni porta a questa vasta umanità dolente si costruisce una società dell’odio, destinata al conflitto, al caos e infine all’inevitabile tramonto.

Ci sono altri elementi che si possono aggiungere a questo bilancio?

È importante ricordare il fondamentale ruolo dell’Italia nella genesi e nella vita della Corte. Quelle 120 lucine verdi che si accesero a tarda sera il 17 luglio del 1998, tra  l’emozione dei presenti, devono molto alla Repubblica. Magistrati, studiosi, diplomatici, politici, attivisti, esponenti della società civile diedero un contributo storico. Le norme e la vita della Corte sono profondamente infuse della nostra cultura della giurisdizione, che è espressione di quel potere dolce, eppure forte, che ha accomunato questi primi 79 anni di vita repubblicana. Un patrimonio costruito sulla ragione invece che sull’odio, sul diritto contrapposto all’abuso, sulla giustizia in opposizione alla vendetta. Molti in questi giorni incorrono in un errore fatale. Anche esperti e intellettuali scrivono di una crisi del diritto internazionale. La crisi è politica, non giuridica. Il diritto internazionale dei conflitti armati e dei diritti umani non sono creazioni artificiali, vengono dalle sofferenze incommensurabili dei conflitti mondiali, dei genocidi, delle persecuzioni. Se gli Stati decidono di ignorarlo, calpestarlo o di voltare la testa dall’altra parte davanti agli stermini, agli abusi e alle persecuzioni riportano indietro le lancette della storia. Questa è la lezione politica di questi giorni.

 

 

Exit mobile version