Il nostro Ordinamento Giuridico concepisce il diritto penale come sistema di norme che punisce solo il comportamento, non il pensiero, né le opinioni. Si tratta di un principio che deriva dall’articolo 25 della nostra Costituzione: nessuno può essere punito se non in forza di una legge che prevede il fatto commesso come delitto o come contravvenzione.
È sistema giuridico, pertanto, che recepisce il principio della materialità del comportamento umano ai fini della sua punibilità, pretendendo l’esistenza di un fatto umano.
Non sempre, tuttavia, accertato un “fatto umano” tipico antigiuridico e colpevole, si ha la parallela certezza della sua punibilità.
Sovente la punibilità corre il rischio di diventare assolutamente magmatica e incerta, in quanto è legata alla tempistica processuale, sempre più sconfinante nel territorio in cui viene meno la pretesa punitiva dello Stato-Autorità, in conseguenza della prescrizione.
Oggi, invero, per come introdotto dalla recente riforma si dovrebbe menzionare pure l’improcedibilità sulla cui natura processuale o sostanziale, è possibile che dovrà pronunciarsi il Giudice di legittimità, con risvolti non difficili da immaginare, ma che esulano dal tema in esame.
Ritornando all’anomalia della tempistica processuale che vede questa discrasia temporale tra “Colpevolezza” e “Punizione”, ci si può rendere facilmente conto che tale discrasia porta all’ingiustizia della cautela necessaria ad accertare la verità dei fatti colpevoli da cui dovrebbe scaturire la giusta corretta pretesa punitiva dello Stato: sovente l’anomalia del sistema, che la riforma vorrebbe correggere, trasforma l’urgenza della cautela provvisoria in sanzione definitiva.
Ecco che diventa particolarmente significativo individuare il momento in cui la pretesa punitiva dello Stato per un fatto diverso da quello per il quale matura l’ingiusta detenzione, viene meno.
E cioè diventa di fondamentale importanza stabilire se nel momento in cui un determinato individuo matura l’indennità per ingiusta detenzione (in ordine a un fatto delittuoso commesso successivamente ad altro delittuoso per il quale è invece risultato colpevole) il fatto delittuoso anteriormente commesso è ancora punibile o meno: l’operatore dovrà accertare se quel “fatto antico e colpevole” è ancora punibile; e cioè è ancora punibile quando il richiedente l’indennità ha proposto istanza di pagamento per ingiusta detenzione dinanzi alla Corte d’Appello.
Quando il “fatto antico e colpevole” è ancora punibile si ha compensazione col “fatto nuovo e successivo” per il quale si è patita detenzione cautelare ingiusta, perché innocenti.
Trattandosi di un credito di libertà del Cittadino dello Stato-Comunità maturato nei confronti dello Stato-Autorità, l’operatore giuridico deve chiedersi se le due pretese contrapposte siano fungibili e se, pertanto, operi una compensazione così come per i diritti relativi come i diritti di credito.
Nel caso in esame opera la fungibilità sancita dal comma IV dell’art. 314 del cpp.
E cioè la Corte di Appello adita con una statuizione meramente dichiarativa dovrà accertare il fenomeno compensativo, che opera ex lege: la fungibilità non ha per oggetto due diritti di credito, per i quali è necessaria la certezza la liquidità del credito, per come affermato dalle Sezioni Unite della Cassazione per i diritti relativi[1], ma ha per oggetto il diritto assoluto della libertà personale del cittadino ingiustamente detenuto e la pretesa punitiva dello Stato-Autorità, quando questa, ancora, non era perenta.
La ragione per la quale la fungibilità opera anche se la tempistica processuale porta alla prescrizione o alla improcedibilità della pretesa punitiva dello Stato, deriva dal fatto che quest’ultima, nel momento in cui il cittadino leso dall’ ingiusta detenzione agisce, non vede contrapposta una pretesa punitiva perenta ovvero improcedibile (per come avverrà con la riforma): vede come contrapposto un diritto alla punizione ancora esigibile da parte dello Stato Autorità.
L’esegesi di questo principio è antica e può essere ritrovata in quello che oggi viene denominato principio di auto responsabilità.
Nel diritto romano è la nota clausola del c.d. sibi imputet, già presente in numerosi passi del Digesto e del Codex – ad esempio, C. 4.29.22.1: «sibi imputet, si, quod saepius cogitare poterat et evitare, non fecit» – e oggi comunemente adoperata in ogni ramo dell’Ordinamento Giuridico in chiave di esclusione dell’imputazione altrui[2].
In applicazione di tale principio se l’imputato è ingiustamente detenuto anche per sua colpa perché in sede di interrogatorio dinanzi al Gip non ha offerto elementi a discolpa, l’indennità sarà ridotta tenendo conto del grado della sua colpa.
La parallela norma in tema di obbligazioni la ritroviamo nell’art. 1227 cc. in materia di infortunistica stradale.
Nell’ indennità per ingiusta detenzione, invece, la ritroviamo applicata nell’articolo 314 cpp dove il grado della colpa nel generare la custodia cautelare ingiusta incide sul quantum da indennizzare, mentre il dolo, addirittura la esclude, unitamente alla colpa grave.
Applicazione del medesimo principio lo ritroviamo nella fungibilità totale di pene ossia nella compensazione del credito di libertà del Cittadino dello Stato-Comunità contrapposto a quello dello Stato-Apparato: quando per un fatto commesso si è patita ingiusta condanna o ingiusta custodia cautela, questo pati entra in compensazione con altro fatto anteriormente commesso per il quale ancora non è stata eseguita la punizione (art. 657 cpp).
Il principio del sibi imputet, ampiamente applicato nel giudizio civile–non senza addentellati con il canone generale di buona fede e con lo strumento processuale della exceptio doli generalis – fatica però ad un maggiore ingresso nella materia penale, fatto salvo quanto già detto a proposito di fungibilità che per comodità espositiva si è chiamata pure compensazione tra Crediti di Libertà.
La motivazione può essere duplice.
La pena, ove intesa quale mera satisfactio reipublicae, non è mai stata ritenuta suscettibile di compensazione nei modi del diritto privato. E più recentemente, inoltre, vi è lo sforzo dell’operatore a individuare la vittima del reato quale centro di gravità del sistema punitivo, cui tutti gli istituti del diritto penale dovrebbero “precipitare”.
Ne costituisce un esempio la Direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI.
Da qui la tendenza ad evitare soluzioni che in qualche modo, abbiano l’effetto di far gravare sulla persona “offesa”, in tutto o in parte, la “responsabilità” del danno che su di essa si produce.
Ma si può consentire allo Stato-Autorità di perdere la facoltà di far operare la fungibilità di questa pretesa con quella per la quale è stata accertata l’ingiusta detenzione?
Sommessamente ritengo che questa avversione all’applicazione della regola del principio del sibi imputet, come avversione che non consente di compensare il diritto alla riparazione con una pretesa punitiva dello Stato non ancora oggetto di sentenza definitiva che dichiara la prescrizione, faccia indebitamente prevalere l’interesse della vittima sull’interesse patrimoniale dell’Erario; mentre la soluzione ermeneutica proposta da chi scrive opera un corretto bilanciamento tra l’interesse patrimoniale dello Stato e l’interesse economico del ricorrente, specie quando la non compensazione viene determinata da anomalie del sistema processuale come quello che porta alla prescrizione o come quello che porterà all’improcedibilità.
Ovviamente ci si augura che questa seconda ipotesi non si verifichi mai.
La soluzione che propongo sarebbe auspicabile per le ragioni sopra menzionate, stante peraltro la natura meramente dichiarativa della sentenza di prescrizione con cui si statuisce sempre e comunque “ora per allora”, e, cioè, quando la pretesa punitiva dello Stato, contrapposta a quella del danneggiato, era ancora esistente.
Altrettanto auspicabile questa soluzione lo sarà con le sentenze che dichiareranno l’improcedibilità.
Di primaria importanza, in un futuro scenario di istanze rivolte alla liquidazione di indennità per ingiusta detenzione, sarà la lettura del certificato penale da cui ricavare le sentenze di prescrizione onde verificare se, la Corte di Cassazione, abbia riformato dichiarando la prescrizione ma in un momento in cui ancora la pretesa punitiva dello Stato-Autorità non era perenta e “coesisteva” con una contrapposta istanza per ingiusta detenzione di chi è stato capace, successivamente, di sfuggire alla punizione solo grazie ai tempi anomali del processo che hanno portano alla prescrizione o alla improcedibilità.
Del resto, un riferimento storico esiste e viene offerto proprio dal Diritto Romano in cui la reciprocità dei delitti tra persone sembrava operare solo nei rapporti privati fra cittadini, escludendo l’esperibilità delle actiones private. Intatta, infatti, rimaneva la pretesa punitiva dello Stato sotto forma di “pena pubblica” così come intatta deve rimanere la fungibilità tra i due crediti di Libertà se quello dello Stato-Apparato, al momento del deposito dell’istanza di ingiusta detenzione (o nel caso di attivazione della procedura per il risarcimento danno derivante da errore giudiziario), non era ancora prescritto.
[1] Cfr. Cassazione Civile, Sezioni Unite, Sentenza 15 novembre 2016, numero 23225.
[2] Cfr. F. CARRARA, Programma del Corso di Diritto Criminale–Parte Speciale, vol. I, Lucca, 1881, 108: «La sentenza del poeta, chi è causa del suo mal pianga se stesso, non è che l’espressione di un sentimento universale della pubblica coscienza».
Dott. Riccardo Pivetti
Consigliere della Corte di appello di Catania
In foto: Rembrandt, La ronda di notte, 1640-1642, Rijksmuseum, Amsterdam.
