La riabilitazione disciplinare: analisi e prospettive

L’articolo ha come oggetto l’istituto della riabilitazione disciplinare per i magistrati ordinari e analizza le motivazioni della Corte costituzionale, espresse nella sent.22 giugno 1992, n. 289, con le quali è stata esclusa la possibilità di applicare ai magistrati l’istituto della riabilitazione previsto per gli impiegati civili dello Stato. Sono state esaminate, inoltre, le posizioni assunte dal CSM sull’istituto e sulla sua compatibilità con lo status di magistrato, con particolare riferimento a quanto affermato nella Delibera del 31 maggio 2017 e le proposte di legge sull’istituto che si sono susseguite nel tempo. Infine, è stato affrontato il tema della discrezionalità del CSM con riferimento ai precedenti disciplinari in materia di valutazioni di professionalità e di conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi.

Parole chiave: riabilitazione; illeciti disciplinari; poteri discrezionali del CSM.

  1. L’istituto della riabilitazione nella interpretazione giurisprudenziale

La rilevanza dei precedenti disciplinari è un tema che ha nuovamente portato all’attenzione del dibattito il tema dell’istituto della riabilitazione.

Nel corso del tempo è mutato l’orientamento dottrinale e giurisprudenziale in ordine a come tale istituto debba essere considerato con riguardo alla specifica categoria dei magistrati ordinari.

Una prima accezione interpretativa riteneva applicabile anche ai magistrati la previsione dell’art. 87 del D.P.R. n. 3/1957, e dunque dell’istituto della riabilitazione nei procedimenti disciplinari riguardanti i dipendenti pubblici.

La predetta norma che dispone che, trascorsi due anni dalla data dell’atto con cui è stata inflitta la sanzione disciplinare e sempre che l’impiegato abbia riportato nei due anni la qualifica di ottimo possono essere resi nulli gli effetti di essa e possono, altresì, essere modificati i giudizi complessivi riportati dall’impiegato dopo la sanzione ed in conseguenza di questa.

Il procedimento di riabilitazione non ha natura vincolata, atteso che la contestuale ricorrenza dei predetti requisiti, ossia del requisito temporale (due anni) e di quello sostanziale (qualifica di ottimo) è rimessa  alla  valutazione della Pubblica Amministrazione che ha carattere ampiamente discrezionale e che  può essere impugnata davanti al giudice amministrativo,  qualora appaia illogica, irrazionale o viziata da evidente travisamento dei fatti.

L’interpretazione che riteneva applicabile anche ai magistrati la previsione dell’art. 87 del D.P.R. n. 3/1957,  è stata espressa dalla Cass. Civ. Sez. Un. nella sentenza interpretativa del 6 aprile 1991, n. 3612.

Si tratta di una opzione ermeneutica che trovava fondamento in primo luogo nella assenza di una espressa previsione di legge riguardante i magistrati e in secondo luogo nel richiamo alle disposizioni generali relative agli impiegati civili dello Stato contenuto nell’art. 276, comma 3, OG – per il quale “Ai magistrati dell’ordine giudiziario sono applicabili le disposizioni generali relative agli impiegati civili dello Stato, solo in quanto non sono contrarie al presente Ordinamento e ai relativi regolamenti

La giurisprudenza richiamata, quindi, riteneva che l’istituto in esame non fosse in contrasto con le norme dell’Ordinamento giudiziario, né con lo status riconosciuto ai magistrati.

La Corte costituzionale (sent.22 giugno 1992, n. 289) tuttavia, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il combinato disposto formato dall’art. 87 del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (“Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato”), e dall’art. 276 del R.D. 30 gennaio 1941, n. 12 (“Ordinamento giudiziario”), nella parte in cui consente l’applicazione ai magistrati della riabilitazione prevista per gli impiegati civili dello Stato colpiti da sanzione disciplinare.

Diversamente dalle Sezioni Unite, infatti, la Corte costituzionale, investita della questione dalla Sezione disciplinare in un procedimento relativo ad un magistrato, che aveva richiesto l’applicazione della riabilitazione,  alla luce della predetta interpretazione giurisprudenziale,  ha escluso l’applicazione dell’istituto nelle forme previste dall’art. 87 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3,  richiamando la specificità costituzionale dello status del magistrato, che si riverbera  sul procedimento disciplinare e, quindi, preclude, la possibilità di un’automatica estensione ai giudici dell’istituto della riabilitazione previsto per gli impiegati civili dello Stato.

La Corte ha evidenziato che il trattamento differenziato per i magistrati era “imposto dalla stessa Costituzione, la quale, agli articoli da 101 a 113, prevede apposite disposizioni dirette ad assicurare, a garanzia dell’autonomia e dell’imparzialità di una funzione di vitale importanza per l’esistenza e l’attuazione di uno Stato di diritto, la più ampia tutela dell’indipendenza dei giudici, considerati sia come singoli soggetti sia come ordine giudiziario”.

In altri termini, come specificato nella sentenza, se è vero che sia gli impiegati che i magistrati sono legati da un rapporto di servizio pubblico con lo Stato e svolgono attività in nome e per conto dello Stato, è altrettanto inconfutabile che la Costituzione prevede apposite disposizioni dirette ad assicurare la tutela dell’indipendenza dei giudici, a garanzia dell’autonomia e dell’imparzialità della funzione dagli stessi svolta.

Ne consegue che l’art. 87 del D.P.R. n. 3 del 1957 non rientra fra “le disposizioni generali relative agli impiegati civili dello Stato” applicabili, ai sensi dell’art. 276 del R.D. n. 12 del 1941, anche ai magistrati.

La decisione assunta dalla Consulta, quindi, non consente, l’applicazione dell’istituto della riabilitazione per combinato disposto con l’art. 276 O.G. – la figura disciplinata dall’art. 87 D.P.R. n. 3/1957.

  1. Le peculiarità del procedimento disciplinare dei magistrati

Nella sentenza citata, la Corte costituzionale ha anche evidenziato che correttamente il legislatore, in ragione delle suddette differenze e peculiarità dello status giuridico delle due categorie di dipendenti pubblici, aveva regolato diversamente il relativo procedimento disciplinare, prevedendo le forme del procedimento amministrativo per quello inerente il pubblico impiegato comune e del procedimento giurisdizionale per quello riguardante i magistrati.

Le norme che regolano il procedimento disciplinare per i magistrati, quindi, sono e devono essere difformi da quelle che regolano il procedimento disciplinare per gli impiegati civili dello Stato.

Per gli impiegati, infatti, si tratta di un procedimento amministrativo al termine del quale è adottato da un’Autorità amministrativa superiore un provvedimento di carattere non giurisdizionale, come tale soggetto al regime delle impugnazioni proprio degli atti amministrativi.

Il procedimento disciplinare dei magistrati, invece, ha carattere giurisdizionale e allo stesso, sono infatti, applicabili le disposizioni sul processo penale.

La decisione è demandata ad un Collegio espressione del CSM e la stessa è impugnabile davanti alle Sezioni unite della Corte di cassazione ed è soggetta a revisione, in analogia con l’istituto processuale penale.

In altri termini il procedimento disciplinare per i magistrati è strutturalmente e funzionalmente diverso dal procedimento disciplinare per gli impiegati civili e ha carattere giurisdizionale proprio perché mira ad assicurare il prestigio dell’Ordine giudiziario.

Il procedimento disciplinare, inoltre, è diretto esclusivamente a sanzionare la violazione dei doveri del magistrato normativamente tipizzati nelle fattispecie di illecito disciplinare, che può comportare l’irrogazione di sanzioni che incidono soltanto ed esclusivamente sul rapporto di impiego, in una vicenda alla quale resta, dunque, estraneo il soggetto che pur ne abbia eventualmente patito le conseguenze.

Come precisato dal CSM nella delibera del 31 maggio: “alla riabilitazione in favore degli impiegati civili dello Stato l’art. 87 del D.P.R. n. 3 del 1957 attribuisce la configurazione di atto amministrativo di perdono, non legato ad eventi eccezionali o straordinari, con il quale l’Autorità amministrativa di vertice nel settore, in base ad una valutazione complessiva dell’interesse della P.A., decide di cancellare gli effetti di una sanzione disciplinare a seguito della buona condotta dimostrata successivamente dall’impiegato. In considerazione dell’eterogeneità della disciplina legislativa dell’uno e dell’altro procedimento disciplinare, il trapianto della riabilitazione, come regolata dall’art. 87 del D.P.R. n. 3 del 1957 per gli impiegati civili dello Stato, nel sistema disciplinare stabilito per i magistrati dà luogo ad un irragionevole innesto e, come tale, si pone in manifesto contrasto con l’art. 3 Cost.

Si evidenzia, tuttavia, che la sentenza della Corte costituzionale n. 289/1992  non ha inteso escludere in toto la possibilità di applicazione dell’istituto della riabilitazione ai magistrati, previa adeguata modifica normativa del D. Lgs. n. 109/2006.

La Corte costituzionale ammette, infatti, in maniera chiara, che la riabilitazione è l’espressione di un principio generale e di un’esigenza che, può comunque trovare applicazione anche all’interno di un sistema disciplinare ispirato a paradigmi giurisdizionali, come, per l’appunto, è quello previsto per i magistrati: “Del resto, se si può ammettere che la riabilitazione, come istituto in sé considerato, sia espressione di un principio generale e di un’esigenza che, ancorché non rispondenti ad alcuna norma costituzionale, possono comunque trovar applicazione anche all’interno di un sistema disciplinare ispirato a paradigmi giurisdizionali, come quello previsto per i magistrati, ciò non può significare affatto che la raffigurazione di quell’istituto generale sia perfettamente rispecchiata nella particolare fattispecie regolata  dall’impugnato art. 87. […]E non vi è dubbio che la scelta di un modello ovvero di un altro e, persino, la scelta di affidare alla riabilitazione ovvero a meccanismi diversi  l’eliminazione degli effetti ulteriori della condanna disciplinare spettano al legislatore, il quale, nell’esercizio non irragionevole della sua discrezionalità politica, deve valutare quale istituto o quale modello sia più coerente con il sistema disciplinare considerato”.

  1. Le proposte di riforma dell’Ordinamento Giudiziario in materia di riabilitazione

La mancata previsione espressa dell’istituto della riabilitazione disciplinare per i magistrati, in seguito al citato intervento della Corte costituzionale, è stata oggetto di discussione fra i magistrati ed in dottrina ed è stata anche all’attenzione della Commissione per la riforma dell’ordinamento giudiziario, istituita dal Ministro della giustizia Orlando e presieduta dal professor Vietti, nonché oggetto di disciplina da parte della  disegno di legge Bonafede.

La Commissione Vietti aveva valutato positivamente l’opportunità della introduzione dell’istituto, proponendo l’introduzione dell’istituto della riabilitazione per le sanzioni meno gravi e prevedendo che potesse intervenire dopo cinque anni dalla sentenza di condanna all’ammonimento e dopo dieci anni dalla sentenza di condanna alla censura, su istanza dell’interessato.
La riabilitazione , peraltro, poteva essere chiesta se il magistrato, nel periodo successivo alla sentenza di condanna, non aveva avuto altre condanne e avesse conseguito le previste valutazioni positive di professionalità.

Lo stesso CSM con Risoluzione del 13 settembre 2016, si è espresso manifestando pieno apprezzamento alle modifiche relative all’istituto e con la delibera già richiamata, approvata il 31 maggio 2017, ha proposto al Ministro, ex art. 10, l. n. 195/58 di attivarsi per introdurre l’istituto della riabilitazione disciplinare.

Da ultimo, il disegno di legge ( cd. Riforma Bonafede) propone l’introduzione dell’istituto all’art. art. 25-bis.  disponendo che “la riabilitazione può essere richiesta quando siano trascorsi almeno tre anni dal giorno in cui le sanzioni disciplinari dell’ammonimento e della censura sono state applicate e può essere concessa a condizione che: a) nel caso di applicazione della sanzione dell’ammonimento, il magistrato abbia conseguito la valutazione di professionalità successiva a quella posseduta nel momento in cui l’illecito è stato commesso o, nel caso in cui in quel momento fosse già in possesso dell’ultima valutazione di professionalità, siano decorsi quattro anni dal conseguimento di detta valutazione e in tale periodo sia provata continuativamente la positiva sussistenza nei suoi confronti dei presupposti di capacità, laboriosità, diligenza e impegno; b) nel caso di applicazione della sanzione della censura, il magistrato abbia conseguito le due valutazioni di professionalità successive a quella posseduta nel momento di commissione dell’illecito o abbia conseguito, dopo la commissione dell’illecito, l’ultima valutazione di professionalità purché, in tal caso, siano decorsi quattro anni dal conseguimento di detta valutazione e in tale periodo sia provata continuativamente la positiva sussistenza nei suoi confronti dei presupposti di capacità, laboriosità, diligenza e impegno o, infine, sia provata la positiva sussistenza dei presupposti di capacità, laboriosità, diligenza e impegno per il periodo di otto anni dal conseguimento dell’ultima valutazione di professionalità già posseduta dal magistrato al momento di commissione dell’illecito”.

La proposta è stata oggetto di studio da parte della Commissione Ordinamento giudiziario istituita presso l’Anm e ha incontrato il favore di tutti i componenti della stessa, che hanno, però, evidenziato come sia auspicabile che tale istituto possa trovare applicazione non solo per le sanzioni indicate (censura e ammonimento) ma che, al contrario, abbia un’ampia applicazione e che quindi, possa essere previsto anche per sanzioni più gravi, purché non vi sia stata condanna penale del magistrato.

I componenti della Commissione di studio hanno proposto una disciplina dell’istituto caratterizzata da un sistema a doppio binario, in base al quale la riabilitazione opererebbe in maniera automatica per le sanzioni dell’ammonimento e della censura, purché ricorrano i presupposti indicati dalla stessa riforma cd. Bonafede, mentre per le sanzioni più gravi, potrebbe essere previsto che la riabilitazione intervenga, qualora sia trascorso un congruo lasso di tempo dalla irrogazione della sanzione, previo parere favorevole da parte del CSM.

4. Il CSM e i precedenti disciplinari che producono effetti analoghi alla riabilitazione 

Nell’ordinamento giudiziario vigente, pur in assenza, di una espressa previsione dell’istituto della riabilitazione, il CSM può adottare decisioni che di fatto comportano effetti analoghi alla stessa: ad esempio in materia di valutazioni di professionalità o di conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi.

Con riferimento alle valutazioni di professionalità la Circolare n. 20691 dell’8 ottobre 2007 stabilisce che “Il Consiglio superiore procede alla valutazione di professionalità acquisiti il parere del Consiglio giudiziario o del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e la relativa documentazione, le risultanze delle ispezioni ordinarie e tutti gli elementi di conoscenza ulteriori che ritenga di assumere”.

Sono, a tal fine, elementi di conoscenza anche gli elementi di fatto negativi e segnatamente i precedenti disciplinari incidenti sugli stessi; infatti, tra le fonti di conoscenza, sono citate dalla Circolare anche le informazioni disponibili presso la segreteria della sezione disciplinare.

Coerentemente a tale previsione, si segnala che nel disegno di legge cd Bonafede, inoltre, è stato espressamente previsto che “i fatti accertati in sede di giudizio disciplinare devono essere “oggetto di valutazione ai fini del conseguimento della successiva valutazione di professionalità”.

Sul punto si evidenzia che, soprattutto nelle ipotesi in cui i fatti ascritti riguardino quadrienni precedenti e gli stessi vengano valutati la prima volta, è più che legittimo verificarne l’incidenza sulle qualità professionali del magistrato.

La possibilità, quindi, che i fatti accertati in sede disciplinare siano valutati anche ai fini delle valutazioni di professionalità non sembra tradursi in una spinta verso la duplicazione del giudizio disciplinare, e tantomeno sembra produrre vincoli di sorta sull’esito della valutazione di professionalità.  È necessario, infatti, che la procedura di verifica della professionalità del magistrato non prescinda da un elemento che deve considerarsi accertato in via definitiva.

In materia di conferimento delle funzioni direttive e semidirettive i precedenti disciplinari assumono un sicuro rilievo. Il Testo Unico sulla Dirigenza Giudiziaria all’art. 37 esplicitamente prevede che le decisioni adottate dalla Sezione Disciplinare nei confronti degli aspiranti alle funzioni direttive e semidirettive siano comunque oggetto di valutazione.

Analoghi effetti negativi conseguono ai precedenti ed alle pendenze disciplinari nei procedimenti di conferma nelle funzioni direttive o semidirettive come disciplinati negli artt. 83 e 87 della circolare richiamata.

Ne consegue che il CSM deve sempre valutare non solo le decisioni di condanna, ma anche quelle di assoluzione. Naturalmente, laddove il fatto sia escluso perché insussistente, non potranno trarsi da quel fatto conseguenze negative ai fini del conferimento delle funzioni richieste; viceversa se l’assoluzione dipende da altre cause quali l’esclusione dell’elemento soggettivo da parte del giudice disciplinare o il proscioglimento per scarsa rilevanza del fatto, si potrà tenere conto della condotta materiale accertata.

Il CSM, tuttavia, mantiene la propria discrezionalità rispetto ai fatti accertati in sede di giudizio disciplinare, in presenza di altri indicatori, accertati, ad esempio,  nell’ambito del (più ampio) giudizio di professionalità, quali la laboriosità, la diligenza, la capacità l’impegno; per cui il precedente disciplinare, – intangibile nella sua accertata materialità e insuscettibile di rivalutazione in ordine alla sussistenza del fatto – può essere oggetto di una diversa valutazione.

In altri termini, il CSM può esercitare i propri poteri discrezionali e può, quindi, decidere di non considerare come ostativa una sanzione  disciplinare, qualora sia trascorso un  congruo lasso di  tempo dalla irrogazione della stessa e qualora sussistano altri elementi sintomatici di un corretto esercizio della funzione giurisdizionale da parte del magistrato a cui è stata irrogata la sanzione.

Ad una condotta disciplinare non deve, quindi, necessariamente conseguire una risoluzione negativa da parte dell’organo di autogoverno purché tale potere discrezionale sia esercitato in una ambito di correttezza e soprattutto di coerenza.

L’auspicio è, tuttavia, che l’istituto della riabilitazione trovi finalmente ingresso nell’ordinamento giudiziario e che, finché non intervenga una disciplina normativa primaria, il CSM  adotti, nell’ambito dei suoi poteri, norme secondarie generali che  garantiscano effetti analoghi alla riabilitazione dei magistrati, garantendo una coerenza di indirizzo e di posizione, al fine di evitare che il precedente disciplinare possa incidere per un tempo indefinito sulla carriera del magistrato.

Dott.ssa Emma Vittorio

Sostituto procuratore della Procura presso il Tribunale di Bergamo

In foto: Andrea Mantegna, La camera degli sposi, Palazzo Ducale di Mantova (particolare)