L’art. 98 della Costituzione, comma 1

Commento all’art. 98, comma 1, della Costituzione

di Vito Tenore, Presidente di Sezione della Corte dei Conti e docente SNA

Art. 98 – I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione.

Abstract: Il principio di esclusività a favore della Nazione del servizio reso dai pubblici impiegati stabilito dall’art.98, co.1, cost., intende sottolineare, in raccordo con altri precetti della Carta, in primo luogo, l’indipendenza dalla politica dell’organizzazione amministrativa e, dunque, del funzionario pubblico e del suo agere, indipendenza assente nel periodo fascista, ed esprime, nel contempo, il carattere servente dell’apparato amministrativo per la realizzazione del fine pubblico in modo imparziale e senza interferenze di interessi personali o esterni. Lo studio evidenzia alcuni evidenti limiti nella vigente normativa alla indipendenza dalla politica della dirigenza pubblica, pur nella formale autonomia e distinzione formale tra politica e organizzazione amministrativa e nel contempo analizza i diversi interventi normativi tesi a dare attuazione al precetto costituzionale nell’espletabilità o meno di incarichi esterni da parte del dipendente pubblico che posso originare conflitti di interesse con il servizio reso in via esclusiva alla Nazione.

Sommario: 1. Inquadramento sistematico e portata applicativa del precetto. – 2. L’esclusività del servizio alla Nazione come indipendenza dalla politica. – 3. L’esclusività del servizio alla Nazione come freno a possibili conflitti di interesse personali ed esterni nelle attività lavorative. – 4. L’esclusività “postuma” per il personale pubblico in quiescenza: il pantouflage e altri divieti. – 5. Ipotesi di presunzione normativa di “difetto di esclusività”: il regime di inconferibilità e di incompatibilità per i dipendenti pubblici ex d.P.R. n. 39 del 2013. – 6. Una riflessione conclusiva.

1. Inquadramento sistematico e portata applicativa del precetto.

L’art. 98, co. 1, Cost. recita: “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”. E tale obbligo, strutturale, funzionale e nel contempo finalistico, è plasticamente ribadito dalla non banale, seppur aulica e antica, espressione “Servitori dello Stato[1], con cui sovente si identificano i dipendenti pubblici.

Il precetto, che si snoda in tre commi e costituisce il frutto di un progressivo lavoro di cesello in sede costituente[2], rientra tra i pochi articoli dedicati dalla suprema Carta alla pubblica amministrazione[3] e fissa alcuni principi abbastanza eterogenei: a) l’esclusività a favore della Nazione del servizio reso dai pubblici impiegati (co. 1); b) il divieto di conseguimento di promozioni da parte dei parlamentari durante il mandato, se non per anzianità (co. 2); c) il divieto, ad opera di apposite leggi, di iscrizione a partiti politici per alcune categorie di pubblici dipendenti particolarmente esponenziali di terzietà ed indipendenza (co. 3).

In questa sede saranno sviluppate alcune considerazioni solo sul primo comma dell’art. 98, che si pone in perfetta sintonia con l’art. 130 della Costituzione di Weimar (“gli impiegati sono al servizio della collettività e non di un partito”), dovendosi intendere il riferimento alla “Nazione”, come servizio reso alla collettività[4].

Giova premettere che, soprattutto negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore della Costituzione, la dottrina giuridica italiana ha riposto scarso e apatico interesse nello studio dei rari profili costituzionali dedicati alla pubblica amministrazione. Ma in tempi più recenti, diversi interventi legislativi, di seguito analizzati (legge n. 241 del 1990 sul procedimento amministrativo; d.lgs. n. 29 del 1993, oggi d.lgs. n. 165 del 2001 sulla privatizzazione del pubblico impiego; l. n. 190 del 2012 c.d. anticorruzione e suoi decreti attuativi), hanno reso centrale l’agere della p.a. e dei suoi dipendenti, dettagliando, sostanziando e problematizzando il laconico precetto costituzionale dell’art. 98 (oltre che dell’art. 97), e originando interventi giurisprudenziali e dottrinali su diversi profili della “esclusività” del servizio reso “alla Nazione”.

In buona sostanza, si è dovuta attendere una più recente multidirezionale specificazione legislativa per sostanziare il sintetico e lapidario precetto costituzionale, che aveva comunque, pur nella sua laconicità, una chiara portata teleologica e quasi di “monito”[5] ribadita, già prima degli interventi normativi sopradetti, sia dall’art. 13, co. 1 e 2 del d.P.R. n. 3 del 1957 – ai sensi del quale “L’impiegato deve prestare tutta la sua opera nel disimpegno delle mansioni che gli sono affidate curando, in conformità delle leggi, con diligenza e nel miglior modo, l’interesse dell’Amministrazione per il pubblico bene. L’impiegato deve conformare la sua condotta al dovere di servire esclusivamente la Nazione, di osservare lealmente la Costituzione e le altre leggi e non deve  svolgere attività incompatibili con l’anzidetto dovere” – sia dagli artt. 60 e 65 del medesimo d.P.R. n.3, che vietano cumuli di rapporti di lavoro.

Il principio di esclusività a favore della Nazione del servizio reso dai pubblici impiegati intende sottolineare, in primo luogo, l’indipendenza dalla politica dell’organizzazione amministrativa e, dunque, del funzionario pubblico e del suo agere, indipendenza assente nel periodo fascista, ed esprime, nel contempo, il carattere servente dell’apparato amministrativo per la realizzazione del fine pubblico in modo imparziale e senza interferenze di interessi personali o esterni[6]. In perfetta sintonia con tale obiettivo si pone il basilare principio di accesso alla p.a. tramite concorso (art. 97, co. 4, Cost.), che, sulla carta, esprime l’indipendente e meritocratica scelta dei “migliori” candidati, scevra da lottizzazioni politiche o lobbistiche.

Il principio di esclusività, inoltre, stante il rango costituzionale della norma, evidenzia la prevalenza su vincoli associativi, pur costituzionalmente tutelati (art. 14 Cost.) ma talvolta molto incisivi e pregnanti, che impongono l’osservanza degli ulteriori precetti fissati da micro-ordinamenti in evidente contrasto con il servizio a favore della collettività-Nazione: si pensi ad associazioni a logge massoniche (art. 5, l. n. 17 del 1982)[7] o a sodalizi criminali (vietati ex art. 18, co.1, Cost.), quali la mafia e la camorra, che ben potrebbero avere tra i propri adepti, come la realtà giudiziaria conferma, pubblici dipendenti. Questi ultimi micro-ordinamenti, pur avendo regimi gerarchici solidi e soprattutto sanzionatori, preventivi e dissuasivi, ben più rapidi ed efficaci rispetto a quelli dell’ordinamento nazionale, sul piano sistemico si fondano, in punto di diritto[8], su regole comunque recessive rispetto a quelle a cui sottostà il dipendente pubblico sulla base dell’art. 98 Cost., palesemente prevalente su vincoli di matrice meramente consensuale/negoziale. In modo ancor più radicale, l’art. 11 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, pur tutelando i diritti di riunione e associazione, testualmente afferma, al secondo comma, che “Il presente articolo non vieta che restrizioni legittime siano imposte all’esercizio di questi diritti da parte dei membri delle forze armate, della polizia o delle amministrazioni dello Stato”, così consentendo, da parte di un legislatore non pavido, limitazioni all’associazionismo dettate da esigenze, prevalenti, di esclusività del servizio alla Nazione.

Ma, soprattutto, la norma dell’art. 98 Cost., nell’ampia cornice dei valori costituzionali al cui perseguimento tende anche l’azione amministrativa, esprime un’amministrazione indipendente da altri poteri, unitamente ad altri precetti quali la forma di governo parlamentare, il buon andamento della p.a., l’accesso tramite concorso, l’imparzialità, la separazione tra politica e gestione amministrativa.

L’articolo in esame si correla poi ad altri canoni costituzionali: come è noto, ogni cittadino ha un dovere di fedeltà alla Repubblica in base all’art. 54, co.1, Cost.[9] Questo dovere di fedeltà viene ulteriormente dettagliato, sul piano modale, dal secondo comma dell’art. 54, che impone ai cittadini cui sono affidate “funzioni pubbliche” di adempierle con “disciplina e onore”.

In perfetta sintonia con tale dovere di “disciplinata fedeltà” generale si pone l’art.98, co. 1, Cost., che lo ribadisce e rafforza per una particolare categoria di cittadini, ovvero i pubblici dipendenti, cui viene imposta, per il ruolo rivestito, una “fedeltà qualificata[10], ossia la esclusività del servizio reso alla p.a. che, invece, non è regola generale (salvo pattizia statuizione tra le parti) nel lavoro con datore privato, se non in caso di attività in concorrenza con quella datoriale (art. 2105 c.c.)[11]. Tale “fedeltà qualificata” non interviene, si badi, nei confronti del (temporaneo) vertice politico (Ministro, Sindaco, Presidente della Regione, etc.), ma opera nei confronti dell’Amministrazione di appartenenza e di tutta la p.a. in generale, stante la convergenza di tutte le amministrazioni nel comune obiettivo della corretta gestione della “cosa pubblica” e, dunque, del principale fine della Nazione, cui fa riferimento l’esclusività sancita dall’art. 98.

Accanto a una lettura in combinato-disposto con l’art. 54 Cost., si è poi proposto un collegamento tra l’art. 98, co.1, e l’art. 4 Cost., valorizzando il contributo centrale dato dal cittadino-dipendente pubblico al “progresso materiale o spirituale della società” servendo la Nazione[12].

La tesi preferibile è però quella che, senza alcun richiamo ad un nazionalismo retorico tipico dell’epoca fascista, tende ad esaltare, nel servizio reso in via esclusiva alla Nazione ai sensi dell’art. 98, il ruolo assolto dal funzionario pubblico e, dunque, dall’attività amministrativa nel perseguire e attuare i valori costituzionali di cui la Nazione è espressione: salvaguardia dei diritti fondamentali, di libertà e solidarietà, di eguaglianza, di giustizia, di solidarietà[13]. E a tutti questi principi sottostà, in chiave finalistica, l’azione dell’amministrazione e dei suoi funzionari[14].

Del resto, come ben rimarcato da attenta dottrina, “nel caso di una costituzione aperta alla poliarchia dei valori ed al pluralismo istituzionale…il rapporto di servizio esclusivo sta proprio nella capacità di armonizzare la pluralità con l’unità, la democrazia con l’unità, la policentricità con il centralismo: nella costituzione democratica di matrice liberale la Nazione servita dai dipendenti pubblici è la sintesi tra queste diverse esigenze di libertà ed autorità che non sono la contraddizione reciproca di un termine con l’altro, ma il codice genetico dell’impianto costituzionale…….E’ il valore della sostanziale unità dei valori, è il valore della coerenza di fondo della pluralità di azioni ed iniziative istituzionali con la variegata talvolta assiologica della Costituzione su cui si basa la società stessa[15].

Ma la portata sistemica dell’art.98 Cost. è stata ben colta dalla dottrina la quale, nel ricordare che “la nostra Costituzione, come quasi tutte quelle del secondo dopoguerra, non si limita a garantire le libertà fondamentali e a dettare le regole sull’organizzazione del potere, ma assegna alla Repubblica, al complesso delle istituzioni, il compito di trasformare una società ritenuta inadeguata, attraverso la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti al progresso economico e sociale del Paese”, rimarca come in questa più ampia prospettiva il vincolo di esclusività, nella accezione di “dovere d’ufficio di perseguire e proteggere l’interesse pubblico primario affidato alla cura dell’amministrazione”, assuma una valenza ben più ampia e superiore di quella di principio di mera organizzazione diretto a regolare il rapporto di servizio tra amministrazione e funzionario[16].

Né va dimenticato il raccordo con il principio di imparzialità sancito dall’art. 97 Cost. (a sua volta corollario del principio di eguaglianza formale), di cui l’art. 98 costituisce rafforzamento, come ben rimarcato dalla Consulta[17], secondo cui “L’art. 97, primo comma, Cost. individua nella “imparzialità” dell’amministrazione uno dei principi essenziali cui deve informarsi, in tutte le sue diverse articolazioni, l’organizzazione dei pubblici uffici. Alla salvaguardia di tale principio si collegano anche le norme costituzionali che individuano nel concorso il mezzo ordinario per accedere agli impieghi pubblici (art. 97, terzo comma) e che pongono i pubblici impiegati al servizio esclusivo della Nazione (art. 98). Sia l’una che l’altra di tali norme si pongono, infatti, come corollari naturali dell’imparzialità, in cui viene a esprimersi la distinzione più profonda tra politica e amministrazione, tra l’azione del governo -che, nelle democrazie parlamentari, è normalmente legata agli interessi di una parte politica, espressione delle forze di maggioranza- e l’azione dell’amministrazione -che, nell’attuazione dell’indirizzo politico della maggioranza, è vincolata invece ad agire senza distinzione di parti politiche, al fine del perseguimento delle finalità pubbliche obbiettivate dall’ordinamento”.

Tali obiettivi costituzionali, come detto, sono stati in tempi più recenti dettagliati da varie normative primarie infraprecisate e dal d.P.R. 16 aprile 2013 n. 62 (Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell’articolo 54 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165), che, in attuazione della legge anticorruzione (l. n. 190 del 2012), nel sancire in via generale all’art. 3, co. 1 e 2, che “1. Il dipendente osserva la Costituzione, servendo la Nazione con disciplina ed onore e conformando la propria condotta ai principi di buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa. Il dipendente svolge i propri compiti nel rispetto della legge, perseguendo l’interesse pubblico senza abusare della posizione o dei poteri di cui è titolare. 2. Il dipendente rispetta altresì i principi di integrità, correttezza, buona fede, proporzionalità, obiettività, trasparenza, equità e ragionevolezza e agisce in posizione di indipendenza e imparzialità, astenendosi in caso di conflitto di interessi”, esplicita poi, in tutti i suoi articoli, varie manifestazioni di indipendenza ed esclusività del servizio reso alla Nazione dal dipendente.

L’espletamento del servizio in funzione della collettività-Nazione, tuttavia, non rende il dipendente agnostico o ideologicamente indifferente e non preclude dunque al lavoratore l’esercizio di tutti i diritti di cittadinanza costituzionalmente sanciti: il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero politico[18], di associarsi in partiti e, in quanto lavoratore, di aderire a una organizzazione sindacale e di esercitare il diritto di sciopero.

Sotto il profilo soggettivo, la dizione, volutamente ampia, “pubblici impiegati”, quale anacronistico e bigio sinonimo (di evidente matrice “burocratese” quasi Gogoliana) di “lavoratore (o dipendente) pubblico” (termine più tecnico e maggiormente ancorato a comuni categorie lavoristiche), è idonea a sussumere nella sua vasta portata applicativa qualsiasi dipendente della pubblica amministrazione, centrale e locale, statale o di enti pubblici, a statuto ordinario o speciale, privatizzato o non privatizzato[19].

A quest’ultimo proposito, pare evidente come la sopravvenuta privatizzazione del rapporto di pubblico impiego (ad opera del d.lgs. n. 29 del 1993, oggi, d.lgs. n. 165 del 2001)[20] riguardante la maggior parte dei lavoratori, non abbia scalfito minimamente il principio costituzionale di esclusività del servizio reso alla Nazione, mutando solo lo status giuridico e le fonti normative di riferimento. Difatti, anche la Consulta ha ben rimarcato come la cornice dei principi costituzionali in materia di pubblica amministrazione non deve ritenersi “garantita necessariamente nelle forme dello statuto pubblicistico del dipendente”, dal momento che tale soluzione costituirebbe un esito non imposto dall’art. 97 Cost. (né dall’art. 98, aggiungiamo noi)[21].

Dissentiamo dunque fermamente da quell’indirizzo dottrinale secondo cui, dopo la privatizzazione, “tutta l’organizzazione del personale e del lavoro ruota adesso attorno alla nuova figura del dirigente la cui disciplina giuridica ha oramai ben poco da spartire con il servizio esclusivo alla nazione solennemente sancito all’art. 98 Cost.: il suo orizzonte di riferimento è ora l’organizzazione aziendale[22].

Il medesimo canone teleologico connota infine i dipendenti delle tante Autorità indipendenti proliferate negli anni a garanzia e vigilanza di alcuni settori economici o dell’agere della p.a. o di operatori privati: la più marcata autonomia delle Authorities rispetto agli organi di governo non esclude l’esclusività a favore della Nazione del servizio reso dai propri dipendenti.

Tale esclusività riguarda anche i dipendenti assunti a termine, mentre incontra deroghe, come si vedrà nel prosieguo (parag. 3), per i dipendenti che optino per il c.d. part-time ridotto (ovvero nei limiti del 50% orario). Qualche dubbio permane, a nostro avviso, sulla applicabilità del precetto costituzionale ai funzionari onorari, che tenderemmo a escludere per le peculiarità di tale categoria[23].

Può dunque concludersi che, nonostante l’evoluzione policentrica delle Istituzioni titolari di indirizzo politico, il principio codificato nel primo comma dell’art. 98 ha operatività generale nel lavoro presso la p.a. e ha una portata soggettiva più ampia rispetto ai precetti del d.lgs. n. 165 del 2001, il cui art.1, co. 2 delimita la portata dei principi sulla c.d. “privatizzazione del pubblico impiego” ai soli dipendenti delle pubbliche amministrazioni ivi menzionate.

Sotto il profilo oggettivo e teleologico, la portata applicativa del principio, sgombrato il campo da risalenti e non condivisibili tesi sulla sua valenza non giuridica, ma prevalentemente “etica”[24], va individuata in due direttrici fondamentali unificate dalla unitaria nozione di imparzialità cui tende il dovere di esclusività: a) l’esclusività come indipendenza dalla politica (analizzata nel parag. 2); b) l’esclusività come freno a possibili conflitti di interesse esterni (analizzata nei parag. 3-5).

Su un piano generale e in chiave critica, va comunque ben rimarcata la troppo minimale valorizzazione, sul piano costituzionale[25] nonchè delle norme primarie sulla c.d. privatizzazione del pubblico impiego, della dimensione costituzionale della Nazione (e del servizio a suo favore reso dai dipendenti), intesi quale orizzonte simbolico della funzione amministrativa (tendente a imparzialità, interesse generale, unità del Paese) e finalità essenziale della sua azione[26]: da qui, probabilmente, la più agevole erosione legislativa dell’art. 98 Cost. ad opera della politica, come si vedrà nel prosieguo.

Ma nonostante ciò, riteniamo che sia comunque ciascun dipendente pubblico, nel suo quotidiano agere, a dare concreta applicazione al “patto costituente” molto sinteticamente sancito dall’art. 98 Cost., in quanto il servizio esclusivo alla Nazione – e, dunque, alla collettività – si fonda su un’adesione cosciente e attiva da parte del lavoratore, con la sua etica e competenza tecnica, ai principi costituzionali (di imparzialità, giustizia, eguaglianza, solidarietà, di salvaguardia dei diritti fondamentali di libertà e sociali, di dignità) e alla pluralità di istanze ideologiche sulle quali si fonda la Nazione repubblicana.

Solo un dipendente pubblico impermeabile a pressioni politiche e a interessi personali può realizzare una reale tutela dei c.d. diritti sociali [27]e contribuire allo sviluppo culturale, economico e sociale di tutto il popolo, cogliendone e interpretandone le esigenze, così perseguendo una eguaglianza reale e non solo formale e realizzando il “servizio esclusivo” a favore della Nazione di cui parla la Carta costituzionale.

Come ben colto dalla dottrina più attenta[28], il servizio alla Nazione deve essere proteso a stemperare gran parte dei tratti dell’imperium, tipico di una amministrazione ottocentesca, per acquisire progressivamente tutti i connotati salienti della doverosità, intesa quale concreta e dirimente istanza di soddisfacimento dei diritti sociali e degli interessi della collettività.

 

  1. L’esclusività del servizio alla Nazione come indipendenza dalla politica.

Come si è anticipato, l’esclusività del servizio reso alla Nazione esclude in primo luogo una dipendenza dei pubblici dipendenti dalla politica, in ossequio al principio di imparzialità sancito dall’art. 97 Cost., unitamente all’art. 98 in esame. Il precetto fu fortemente voluto in sede costituente, ove si avvertì il bisogno di dare vita a una “amministrazione obiettiva della cosa pubblica e non una amministrazione di partiti[29], prendendo così le distanze dalla pregressa ideologizzazione dell’apparato amministrativo di matrice fascista.

E la dottrina, sulla scorta delle riflessioni Gianniniane[30], ha ben colto tale primaria portata dell’art. 98[31].

Secondo la Consulta[32], dunque, l’organo di governo fissa le direttive di indirizzo politico legato agli interessi di una parte politica ed espressivo delle forze di maggioranza, mentre l’amministrazione è vincolata ad agire senza distinzione di parti politiche, per il perseguimento delle finalità pubbliche obbiettivate dall’ordinamento.

Il principio della distinzione tra indirizzo e controllo, da un lato, e attuazione e gestione dall’altro, è oggi testualmente sancito dall’art. 4, co. 1 e 2, del d.lgs. n. 165 del 2001 (completato dall’art. 14), secondo il quale “1. Gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento ditali funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti. Ad essi spettano, in particolare: a) le decisioni in materia di atti normativi e l’adozione dei relativi atti di indirizzo interpretativo ed applicativo; b) la definizione di obiettivi, priorità, piani, programmi e direttive generali per l’azione amministrativa e per la gestione; c) la individuazione delle risorse umane, materiali ed economico-finanziarie da destinare alle diverse finalità e la loro ripartizione tra gli uffici di livello dirigenziale generale; d) la definizione dei criteri generali in materia di ausili finanziari a terzi e di determinazione di tariffe, canoni e analoghi oneri a carico di terzi; e) le nomine, designazioni ed atti analoghi ad essi attribuiti da specifiche disposizioni; f) le richieste di pareri alle autorità amministrative indipendenti ed al Consiglio di Stato; g) gli altri atti indicati dal presente decreto. 2. Ai dirigenti spetta l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. Essi sono responsabili in via esclusiva dell’attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati[33].

Il principio – ribadito, per gli enti locali, dall’art. 51 della l. n. 142 del 1990 e, oggi, dall’art. 107 del d.lgs. n. 267 del 2000, circa il riparto tra compiti di governo, di indirizzo e di controllo, spettanti agli organi politici elettivi, e compiti di gestione, spettanti ai dirigenti – costituisce “struttura fondante dell’intera riforma delle autonomie locali[34], di per sé immediatamente applicabile senza la necessità dell’interposizione di fonti secondarie, cui spetta soltanto la determinazione delle modalità di esercizio della competenza, comunque indefettibile e tale da non tollerare impedimenti e soluzioni di continuità[35]. Su un piano più generale è stato dunque confermato, anche negli enti locali, che, a seguito della privatizzazione del rapporto di pubblico impiego, ai dirigenti è stata attribuita la competenza esclusiva nella gestione dell’attività amministrativa, compresa l’adozione degli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, mentre agli organi di governo sono rimaste le funzioni di indirizzo politico.

In sintonia con tale riparto di compiti si pone, sul piano della responsabilità amministrativo-contabile, l’art. 1, co. 1-ter, l. 14 gennaio 1994 n. 20 secondo cui “Nel caso di atti che rientrano nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi la responsabilità non si estende ai titolari degli organi politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l’esecuzione[36].

Sul piano sistemico complessivo, completato da alcuni interventi sulla legge n. 241 del 1990, è stato dunque esaltato l’aspetto funzionale per evitare il rischio di sovrapposizioni di ruoli, di interferenze e di ingerenze fra autorità politica e dirigenti. Tale obiettivo è stato realizzato tramite la sostituzione, da parte del legislatore, del modello gerarchico dei rapporti tra Ministro e dirigente con il modello funzionale basato sulla definitività dei provvedimenti amministravi (e delle determine privatistiche) emanati dai dirigenti.

In tal senso, ad opera del d.lgs. n.165 del 2001[37]: sono stati esplicitamente individuati, integrando la formula di ordine generale del testo originario dell’attuale art. 4, gli atti attraverso i quali normalmente si esercita la funzione di indirizzo ed è stato precisato che comunque agli organi di governo compete l’adozione dei soli atti rientranti nello svolgimento di tale funzione (art. 4, co. 1); è stato stabilito che ai dirigenti, oltre che la gestione, spetti “l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi” e che gli stessi sono responsabili “in via esclusiva” dell’attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati (art. 4, co. 2); è stato previsto che le attribuzioni dei dirigenti possano essere derogate solo ad opera di specifiche disposizioni legislative (art. 4, co. 3); sono stati ridefiniti oggetto, termini e modalità di emanazione delle direttive generali del ministro per l’attività amministrativa e la gestione e di assegnazione ai dirigenti delle relative risorse (art. 14, co. 1); sono stati specificati la natura e il ruolo degli uffici di diretta collaborazione con il ministro, ai quali sono attribuite “esclusive competenze di supporto e di raccordo con l’amministrazione” (art. 14, co. 2); è stata esclusa, fatto salvo il potere di annullamento per motivi di legittimità, qualunque possibilità per il ministro di revocare, riformare, riservare o altrimenti adottare provvedimenti o atti di competenza dei dirigenti (art. 14, co. 3) e, in particolare, è stato eliminato il residuo potere di avocazione; nei casi di inerzia o ritardo da parte del dirigente competente, è stata introdotta una procedura che non conduce, salve le ipotesi di urgenza, a un intervento diretto dell’organo politico nella sfera amministrativa, bensì alla nomina di un commissario ad acta (art. 14, co. 3, a cui si aggiunge l’art. 2, co.9-bis, l. n. 241 del 1990); è stata eliminata la possibilità di ricorso gerarchico rivolto all’organo politico di vertice contro gli atti adottati dai dirigenti preposti agli uffici di massimo livello dell’amministrazione (art. 16, co. 4).

Anche la riforma di cui alla legge delega n. 15 del 2009 e al d.lgs. attuativo n. 150 del 2009 (c.d. riforma Brunetta), che ha investito la disciplina della dirigenza pubblica, ha avuto tra i principi ispiratori quello di rafforzare l’autonomia della dirigenza rispetto agli organi politici e, a tal fine, ha previsto la ridefinizione della disciplina del conferimento degli incarichi dirigenziali e delle modalità di accesso alla prima fascia dirigenziale, rivisitando altresì la procedura di valutazione delle prestazioni rese dai dirigenti.

La torsione privatistica intervenuta nel lavoro pubblico, salutata con ingenua enfasi da parte della dottrina che intravedeva e quasi auspicava una conversione dell’amministrazione in azienda e in una trasformazione dei burocrati pubblici in managers[38], non ha tuttavia affatto esaltato il principio di esclusività del “servizio esclusivo alla Nazione” dei pubblici dipendenti e dei dirigenti in particolare e, anzi, la ha messa seriamente in discussione.

Difatti, a fronte del quadro normativo qui sunteggiato, formalmente attuativo anche dell’art. 98, co. 1, Cost., va rimarcato come l’osservazione “sul campo” dell’attività gestionale della dirigenza pubblica, l’analisi del contenzioso giudiziario innanzi alle varie magistrature (ordinaria, del lavoro e penale, amministrativa e contabile), il franco dialogo con  centinaia di dirigenti in contesti didattici, evidenzino una forte discrasia tra l’utopia normativa e la ben diversa realtà fattuale: se, in modo più edulcorato, attenta dottrina[39] ha osservato come tali misure normative sul lavoro pubblico, pur essendo intervenute “a valle ed a monte dello svolgimento dell’incarico” dirigenziale, non risultino inidonee a garantire durante l’attuazione dello stesso incarico un esercizio della funzione dirigenziale effettivamente autonomo rispetto agli organi politici, noi riteniamo, con ancor più netta valutazione, che mai come in questo momento storico la dirigenza sia letteralmente asservita alla mutevole politica[40] in totale spregio del dettato costituzionale.

Depongono per questa cruda, ma realistica, conclusione diversi dati, che confermano la evidente forbice esistente tra intenti legislativi e distorsioni applicative fattuali:

  1. a) la pervicace volontà di continuare a espletare in forma decentrata (presso ciascun ente, centrale e locale) i concorsi, i cui commissari sono scelti dal vertice politico, porta a scarsa indipendenza selettiva, garantibile esclusivamente con concorsi centralizzati presso soggetti terzi e meritocratici, quali la SNA (che ad oggi recluta solo una parte minima della dirigenza). La cooptazione locale in sede di reclutamento è il primo strumento di fidelizzazione della dirigenza al vertice politico;
  2. b) il principio della separazione tra rapporto di lavoro, che si instaura, di regola, a seguito della partecipazione a un concorso pubblico e che resta stabile, e rapporto di ufficio, che si realizza a seguito del conferimento di un incarico da parte dell’organo politico[41], comporta una fatale sudditanza alla politica, stante la temporaneità e modificabilità (in peius) dell’incarico, il cui rinnovo presuppone “fedeltà” e “collateralismo”;
  3. c) gli incarichi di Segretario generale e di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali sono conferiti con dPR su proposta del Ministro competente, ergo su proposta politica (art. 14, co. 3, d.lgs. n. 165);
  4. d) gli incarichi dirigenziali generali sono conferiti con dPCM su proposta del Ministro competente (art. 14, co. 4, d.lgs. n. 165), ergo su proposta politica; a loro volta i dirigenti generali così prescelti conferiscono gli incarichi dirigenziali di seconda fascia ai dirigenti assegnati al proprio ufficio, con conseguenti possibili strascichi anche in tale fase dell’influenza politica;
  5. e) gli incarichi dirigenziali apicali, generali e non generali, possono essere conferiti a termine (3 o 5 anni) anche a “persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell’amministrazione” sebbene non abbiano vinto un concorso per accedere alla p.a. (es. liberi professionisti). Analoga norma opera negli enti locali (art. 110 TUEL, d.lgs. n. 267 del 2000[42]). Tali precetti istituzionalizzano, nei limiti percentuali di legge, la nomina temporanea e non concorsuale, ma esclusivamente fiduciaria e meritocratica, che, se rettamente intesa, dovrebbe selezionare, a tempo, i migliori talenti operanti nel privato e nel pubblico per colmare lacune professionali interne e far crescere giovani funzionari interni sotto l’autorevole (e comunque indipendente dalla politica[43]) guida del prescelto, ma la realtà giudiziaria (soprattutto quella vagliata dalla attenta Corte dei conti) e la prassi applicativa (i prescelti e i relativi curricula sono on line, al pari dei reiterati rinnovi degli incarichi) evidenziano conferimenti, con le dovute eccezioni, di incarichi a soggetti con curricula abbastanza ordinari[44], ispirati a logiche clientelari, politiche nel senso spartitorio del termine e, soprattutto, una frequentissima reiterazione degli stessi, in evidente violazione della temporaneità normativa (triennale o quinquennale)[45];
  6. f) il c.d. spoils system al momento dell’insediamento del nuovo Governo, codificato nell’art. 19, co. 8, del d.lgs. n.165, seppur ritenuto costituzionalmente illegittimo per i dirigenti generali (in quanto la precarizzazione dell’incarico dirigenziale generale è stata ritenuta in contrasto con il valore costituzionale dell’imparzialità e autonomia dalla politica), ha retto al vaglio della Consulta con riferimento agli incarichi di funzioni dirigenziali conferiti a personale non appartenente ai ruoli di cui all’art. 23, d.lgs. n.165[46] e ai Capi dipartimento e Segretari generali, in quanto tali apicali dirigenti e l’organo politico vi è un rapporto diretto di stretta collaborazione ed è, quindi, ammissibile un rapporto di tipo fiduciario[47]; tale istituto manifesta l’incremento delle già presenti forme di collateralismo tra politica e massimi livelli dirigenziali e della consequenziale sudditanza psicologica della dirigenza nei confronti del vertice politico[48];
  7. g) il dirigente apicale degli enti locali, il Segretario comunale, soggetto di elevata competenza tecnico-giuridica frutto di accurata selezione centrale (e non locale) e di costante formazione e aggiornamento nel lungo percorso di ascesa professionale, è soggetto a una sorta di spoils system sancito dall’art. 99 del d.lgs. n. 267 del 2000 (c.d. TUEL) allorquando si insedia un nuovo Sindaco; tale criticabile regime, ritenuto tuttavia costituzionalmente legittimo dalla Consulta[49], porta, ancor di più che presso Ministeri ed enti nazionali, a una forte fidelizzazione con il vertice politico, delle cui scelte il Segretario sarà per anni supporto coadiuvante, esecutore e garante in punto di legittimità, e tale quadro normativo, a nostro avviso da rivedere con urgenza, attenua fortemente la terzietà normativamente attribuita all’alto dirigente locale;
  8. h) la stessa precarizzazione del rapporto di lavoro pubblico, attraverso forme flessibili, porta a una fatale dipendenza dalla politica in sede di conferimento, rinnovo o proroga degli incarichi[50].

Si può quindi concludere, all’esito di tale disamina normativa espressiva della c.d. privatizzazione, che il tentativo operato con le progressive riforme apportate al lavoro pubblico, su pungolo di alcuni Ministri della Funzione pubblica, della dottrina e della giurisprudenza, in particolare quella costituzionale e contabile, per cercare di mediare tra le spinte della politica tendenti a fidelizzare a sé la dirigenza pubblica e la tendenza a garantire l’autonomia della dirigenza dalla politica in funzione del rispetto dei principi sanciti dagli artt. 95, 97 e 98 dalla Costituzione, si è solo in teoria, e in modo tendenziale, tradotto in un doveroso ossequio legislativo al canone costituzionale del “servizio esclusivo della Nazione” reso dai dipendenti pubblici.

Difatti, sul piano della applicazione concreta delle norme, le ingerenze della politica, attraverso scelte fiduciarie fidelizzanti, permangono oggi più forti che mai, consentendo opzioni dei vertici gestionali, centrali e locali a favore di alti dirigenti vicini o contigui alla politica, che, a loro volta, prescelgono i dirigenti di seconda fascia con verosimili tributi alla politica.

Si è però in altra prospettiva evidenziato che, se l’oggetto ultimo del vincolo di esclusività è costituito dall’interesse generale, non può certo ritenersi estraneo a esso l’indirizzo politico, che ne costituisce anzi un fattore determinante di identificazione e definizione. In questa prospettiva, il rapporto intuitus personae si configura come una componente essenziale dell’indirizzo politico che, a sua volta, costituisce il necessario legame tra bisogni, istanze ed esigenze della collettività amministrata, interesse generale e azione amministrativa strumentale alla sua realizzazione. In altri termini, stante la comune finalizzazione dell’attività politica e amministrativa al soddisfacimento dell’interesse collettivo, una certa collateralità tra le due dimensioni deve ritenersi fisiologica e non può considerarsi produttiva di un inquinamento del vincolo esclusivo. Ciò proprio perché l’esclusività del servizio deve intendersi riferita al perseguimento dell’interesse generale, di cui l’indirizzo politico costituisce un elemento determinante[51].

Pur prendendo atto di tali validi argomenti, è comunque del tutto evidente, a nostro avviso, come il rapporto fiduciario con il potere politico contamini, alla base, il fondamento di legittimazione del dirigente, la cui titolarità dell’ufficio dipende non solo dal merito, ma, anche e soprattutto, dal gradimento politico: in primis la durata limitata degli incarichi dirigenziali apicali legati al ciclo politico (e, a catena, quelli sottostanti, soprattutto, ma non solo, quelli a favore di esterni ex art.19, co. 6, d.lgs. n. 165) rischia di favorire, ancor di più rispetto al passato, l’emersione di soggetti sempre più incapaci di far valere le proprie competenze e sempre meno adatti ad operare in modo imparziale ed efficiente al servizio della Nazione, ma abilissimi nelle empatiche e trasversali relazioni interpersonali e a tradurre acriticamente input e desiderata faziosi della politica in scelte gestionali.

Come icasticamente affermato da attenta dottrina “non può di certo essere definita imparziale e al servizio della Nazione l’amministrazione collegata istituzionalmente agli interessi di partiti, tramite meccanismi – come quelli cui si è accennato – che ne sanciscono la parzialità[52].

E analoghe considerazioni valgono, con i dovuti distinguo qui non analizzabili, per le nomine politiche dei vertici delle magistrature speciali (Consiglio di Stato e Corte dei conti), effettuate discrezionalmente dal Governo nell’ambito di “rese di candidati” proposte dai rispettivi organi di autogoverno.

 

  1. L’esclusività del servizio alla Nazione come freno a possibili conflitti di interesse personali ed esterni nelle attività lavorative.

L’attuazione sul piano legislativo dell’art. 98 Cost., come più volte rimarcato da tutte le Magistrature[53], passa però anche attraverso un’altra direttrice fondamentale, ovvero l’autonomia e indipendenza dei funzionari pubblici, di ogni grado e qualifica, da possibili interferenze nascenti da incarichi e interessi personali o esterni ostativi al corretto perseguimento di obiettivi pubblici.

Tale rischio è stato da tempo normato e drenato, per quanto concerne gli incarichi esterni, attraverso il già richiamato regime delle incompatibilità di cui agli artt. 60 segg., d.P.R. 10 gennaio 1957 n.3 (c.d. TU del pubblico impiego), vivo e vitale in virtù del richiamo operato dall’art. 53 del d.lgs. n.165 del 2001 (oltre che da varie norme settoriali afferenti carriere pubbliche non privatizzate)[54].

Ma ancor più a monte, tale rischio è stato più di recente normato, per qualsiasi attività posta in essere da pubblici dipendenti (e non solo nell’espletamento di incarichi esterni), dagli artt. 3-6 e soprattutto dall’art. 7 del d.P.R. 16 aprile 2013 n. 62 (Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell’articolo 54 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165), che, in attuazione della legge anticorruzione (l. n. 190 del 2012), e in sintonia con l’art. 6-bis, l. 7 agosto 1990 n. 241, impone che “Il dipendente si astiene dal partecipare all’adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito significativi, ovvero di soggetti od organizzazioni di cui sia tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero di enti, associazioni anche non riconosciute, comitati, società o stabilimenti di cui sia amministratore o gerente o dirigente. Il dipendente si astiene in ogni altro caso in cui esistano gravi ragioni di convenienza. Sull’astensione decide il responsabile dell’ufficio di appartenenza”.

In ordine alla limitazione sulle attività extralavorative, la ratio sottesa agli artt. 60 del d.P.R. n. 3 del 1957 e 53 d.lgs. n. 165 del 2001 va rinvenuta, oltre che nella esclusività/terzietà dell’azione del pubblico dipendente, nell’esigenza di preservare le energie del lavoratore durante il riposo e di tutelare il buon andamento della p.a., che risulterebbe turbato dall’espletamento da parte di propri dipendenti di attività imprenditoriali o professionali caratterizzate da un nesso tra lavoro, rischio e profitto.

Più in generale, centri di interesse alternativi all’ufficio pubblico rivestito, implicanti un’attività caratterizzata da intensità, continuità e professionalità, potrebbero turbare la regolarità del servizio o attenuare l’indipendenza del lavoratore pubblico e il prestigio della p.a. Ma ciò non avviene per ogni incarico esterno, con conseguente suddivisione normativa in tre macro-ipotesi[55]:

  1. le attività assolutamente vietate. Trattasi delle tassative ipotesi indicate agli artt. 60 e 65, d.P.R. n. 3 del 1957, che precludono al dipendente pubblico le attività industriali, commerciali, artigianali, agricole e professionali svolte in modo continuativo o assumendo cariche sociali (la mera titolarità di azioni, con conseguente acquisizione dello status di socio, è ovviamente compatibile, salvo conflitti di interesse). Deve ritenersi parimenti vietato il cumulo di rapporti di lavoro alle dipendenze di un privato o di altro datore pubblico. La violazione del precetto comporta, previa diffida a cessare, la decadenza di diritto senza alcun procedimento disciplinare (art. 63, d.P.R. n. 3).

Tale divieto non opera per le attività libero-professionali del personale in part-time ridotto[56] (art. 1, co. 56, l. n. 662 del 1996, richiamato dall’art. 53, d.lgs. n. 165 del 2001), dei professori universitari a tempo definito (art. 6, co. 12, l. 30 dicembre 2010 n. 240), dei docenti di istituti secondari (art. 508, co. 15 d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297)[57], dei medici che optino per il regime extramoenia (ex d.lgs. n. 502 del 1992 e n. 448 del 1998), connotati da peculiari regimi opportunamente più permissivi in considerazione del beneficio esperienziale traibile nella resa lavorativa pubblica derivante da parallela attività professionale privata. Il divieto non opera altresì per il personale in aspettativa senza assegni che espleti attività in strutture pubbliche o private ex art. 23-bis, d.lgs. n. 165 del 2001;

  1. le attività autorizzabili. Esse consistono, in base all’art. 53 del d.lgs. n. 165, in occasionali incarichi retribuiti a pubblici dipendenti, che non configurano delle stabili attività commerciali, industriali, professionali in costanza di rapporto di lavoro e non si pongono in contrasto o in conflitto di interessi con i compiti istituzionali dell’ente pubblico datore di lavoro, che non si palesino logoranti. Poiché è però indefettibile una verifica in concreto sulla reale occasionalità e compatibilità di tali attività extralavorative non preponderanti, che potrebbero non urtare con il divieto generale di espletamento di attività esterne, la legge ha attribuito tale riscontro alla stessa p.a.-datrice, che ha spesso adottato, assai opportunamente, regolamenti-guida o circolari interne (come tali, autovincolanti) sulle attività autorizzabili o meno e sui parametri decisori in sede autorizzativa, al fine di rendere oggettive, imparziali e trasparenti le proprie scelte[58]. L’omessa richiesta di autorizzazione comporta sanzioni disciplinari e l’introito (anche coattivo attraverso la Corte dei conti) da parte della p.a.-datore della somma versata al lavoratore dal soggetto conferente l’incarico (art. 53, co.7 e 7-bis, d.lgs. n.165);
  2. le attività liberalizzate. Si tratta o di attività “de minimis”, di evidente modesta rilevanza (occasionali, poco assorbenti fisicamente o mentalmente), ovvero quelle espressive di basilari diritti costituzionalmente rilevanti di qualsiasi soggetto (libertà di pensiero, diritto di critica, tutela delle opere di ingegno etc.), e dunque anche del pubblico dipendente, come tali, non sottoponibili a regimi autorizzatori al pari delle attività gratuite, purché, ovviamente, non in conflitto di interesse con i compiti istituzionali espletati per il datore di lavoro pubblico. Il referente normativo è dato dall’art. 53, d.lgs. n. 165 del 2001 che, al comma 6, liberalizza “i compensi derivanti: a) dalla collaborazione a giornali, riviste, enciclopedie e simili; b) dalla utilizzazione economica da parte dell’autore o inventore di opere dell’ingegno e di invenzioni industriali; c) dalla partecipazione a convegni e seminari; d) da incarichi per i quali è corrisposto solo il rimborso delle spese documentate; e) da incarichi per lo svolgimento dei quali il dipendente è posto in posizione di aspettativa, di comando o di fuori ruolo; f) da incarichi conferiti dalle organizzazioni sindacali a dipendenti presso le stesse distaccati o in aspettativa non retribuita; f-bis) da attività di formazione diretta ai dipendenti della pubblica amministrazione nonchè di docenza e di ricerca scientifica”.

Solo per alcune categorie (magistrati, forze di polizia, prefetti, diplomatici), i rispettivi regimi settoriali impongono regole, di dubbia legittimità (soprattutto se di fonte secondaria, ovvero regolamentare, notoriamente recessiva rispetto a fonte legislativa)[59], più stringenti anche per queste attività in generale liberalizzate dall’art. 53, co.6, d.lgs. n.165 senza eccezioni soggettive.

In conclusione, il sunteggiato regime delle attività extralavorative vietate, autorizzabili e liberalizzate va comunque letto, soprattutto per le ultime due tipologie, anche alla luce del soprarichiamato generale canone del “conflitto di interesse”, dettagliato dall’art.7 del d.P.R. n. 62 del 2013 ed espressivo del servizio reso in via esclusiva alla Nazione. Tali ipotesi di conflitto, reale o potenziale (che i regolamenti attuativi del d.P.R. n. 62 adottati dalle singole amministrazioni possono e devono ulteriormente specificare ed ampliare), portano al divieto di autorizzazione e persino di espletamento di attività extralavorative, ancorchè in generale liberalizzate[60].

Ma, più in generale, giova ribadire che, non solo nell’espletamento di attività extralavorative, ma soprattutto per quelle istituzionali, opera il basilare obbligo di astensione per qualsiasi dipendente versi in una delle situazioni di “conflitto di interesse” normate nel Codice di comportamento del proprio ente in attuazione del d.P.R. n. 62 del 2013 (e ribadite dall’art. 6-bis, l. n. 241 del 1990): l’omessa astensione nel gestire “pratiche” (autorizzatorie, concessorie, negoziali, finanziarie, concorsuali, ispettive etc.), in palese violazione dell’art. 98 Cost. e del d.P.R. 62 del 2013, oltre ad avere evidenti ricadute disciplinari (anche espulsive), potrebbe configurare il reato di abuso d’ufficio (art. 323 c.p., testualmente ipotizzabile anche “omettendo di astenersi in presenza di un interesse  proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti[61]), oltre ai risvolti relativi alle possibili responsabilità per danno erariale qualora l’omessa astensione porti alla invalidazione di una gara o di un concorso, con conseguenti azioni risarcitorie vittoriose in sede civile contro la p.a. da parte di imprese e concorrenti.

Come si coglie da tali plurimi profili patologici, dunque, il canone costituzionale di esclusività statuito dall’art. 98 ha una portata non meramente teorica, bensì concreta e dalle diversificate ricadute sanzionatore.

 

  1. L’esclusività “postuma” per il personale pubblico in quiescenza: il pantouflage e altri divieti.

La legge n. 190 del 2012 ha introdotto ulteriori norme in materia di incompatibilità addirittura “postuma”: difatti l’art. 1, comma 42, lettera l), ha aggiunto il seguente comma all’art. 53: « 16-ter. I dipendenti che, negli ultimi tre anni di servizio, hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, non possono svolgere, nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego, attività lavorativa o professionale presso i soggetti privati destinatari dell’attività della pubblica amministrazione svolta attraverso i medesimi poteri. I contratti conclusi e gli incarichi conferiti in violazione di quanto previsto dal presente comma sono nulli ed è fatto divieto ai soggetti privati che li hanno conclusi o conferiti di contrattare con le pubbliche amministrazioni per i successivi tre anni con obbligo di restituzione dei compensi eventualmente percepiti e accertati ad essi riferiti» (il comma 43 dell’art.1, l. n. 190 lascia in vita sino alla scadenza i contratti già in essere alla data di entrata in vigore della norma)[62].

La norma è evidentemente ispirata da afflati di tutela di trasparenza e imparzialità e, dunque, da un evidente ossequio all’art. 98 Cost., in quanto previene condotte poco imparziali (ovvero non al “servizio esclusivo della Nazione”, ma tese al perseguimento dell’interesse proprio) di dipendenti in servizio, assunte in vista di successivi incarichi, una volta in quiescenza, presso i soggetti privati beneficiari dell’attività della pubblica amministrazione.

A una similare ratio, unita ad esigenze di risparmio di spesa, risponde anche il più risalente art. 25 della legge 23 dicembre 1994 n. 724, ritenuto costituzionalmente legittimo[63], che, al fine di garantire la piena ed effettiva trasparenza e imparzialità dell’azione amministrativa, vieta il conferimento di incarichi di consulenza, collaborazione, studio e ricerca al personale delle amministrazioni pubbliche che, pur non avendo il requisito previsto per il pensionamento di vecchiaia, ha tuttavia il requisito contributivo per l’ottenimento della pensione anticipata di anzianità da parte dell’amministrazione di provenienza o di amministrazioni con le quali ha avuto rapporti di lavoro o impiego nei cinque anni precedenti a quello della cessazione dal servizio e, dunque, cessa volontariamente dal servizio[64].

E’ poi intervenuto, poco prima della l. n.190 del 2012, l’art.5, co.9 del d.l. 6 luglio 2012 n. 95, convertito in l. 7 agosto 2012 n.135 (c.d. “spending review2”), che vieta alle amministrazioni pubbliche di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti, già appartenenti ai ruoli delle stesse e collocati in quiescenza, che abbiano svolto, nel corso dell’ultimo anno di servizio, funzioni e attività corrispondenti a quelle oggetto dello stesso incarico di studio e di consulenza.

La disposizione, tesa anche al ricambio generazionale nella p.a., ha allargato il campo di applicazione rispetto all’art. 25 della legge n. 724 del 1994, che si limitava ad indicare quali i destinatari solamente i dipendenti cessati per pensionamento di anzianità (e non di vecchiaia), estendendo il divieto a tutti i dipendenti collocati in quiescenza dall’amministrazione di appartenenza, senza alcuna distinzione. L’art. 5, co. 9, della l. n. 135 del 2012 è stato poi modificato ad opera dell’art. 6 della legge 11 agosto 2014, n. 114: la nuova versione della norma estende il divieto di attribuire incarichi di studio e di consulenza a tutti i soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza. Il successivo periodo prevede un’unica deroga alla citata disciplina, consentendo incarichi e collaborazioni a titolo gratuito e per una durata non superiore a un anno, non prorogabile né rinnovabile. La Corte dei Conti[65] ha sottolineato in più di un’occasione che il divieto ex art. 5, co. 9, della l. n.135 del 2012 non può essere applicato oltre i casi espressamente indicati dalla norma limitatrice, vale a dire gli incarichi di studio e di consulenza. Ne consegue l’inapplicabilità del divieto a tutte le ipotesi di incarico o collaborazione non rientranti nelle suddette fattispecie.

Va da ultimo rimarcato che la opportuna circolare 4 dicembre 2014 n. 6 del Ministero per la Semplificazione e per la Pubblica Amministrazione ha individuato una serie di fattispecie di incarichi conferibili a dipendenti pubblici in quiescenza non ricadenti nel divieto: a) incarichi inerenti attività legale o sanitaria, non aventi carattere di studio o consulenza; b) incarichi di ricerca, per i quali occorre ricordare che presuppongono la preventiva definizione del programma da parte dell’amministrazione; c) incarichi di docenza; d) incarichi nelle commissioni di concorso e di gara (sull’utilizzo di pensionati da non oltre 4 anni per commissioni di concorso si veda anche l’art. 3, co. 11, l. 19 giugno 2019 n. 56, c.d. “legge concretezza”); e) la partecipazione a organi collegiali consultivi, a commissioni consultive e comitati scientifici o tecnici, ove essa non dia luogo di fatto ad incarichi di studio o consulenza. La circolare della Funzione pubblica ha precisato altresì che devono ritenersi esclusi dall’applicazione del divieto per la loro natura eccezionale anche gli incarichi dei commissari straordinari, nominati per l’amministrazione temporanea di enti pubblici o per lo svolgimento di compiti specifici.

In queste ultime ipotesi il servizio esclusivo alla Nazione è reso da soggetti particolarmente indipendenti e terzi, in quanto sottratti a pressioni e ingerenze politiche: i pensionati della p.a., un formidabile bacino di esperti alla cui vasta esperienza occorrerebbe sempre più spesso attingere per garantire in gare e concorsi una maggior rapidità (visto il tempo disponibile) e una più elevata impermeabilità a logiche lottizzatorie.

 

  1. Ipotesi di presunzione normativa di “difetto di esclusività”: il regime di inconferibilità e di incompatibilità per i dipendenti pubblici ex d.P.R. n. 39 del 2013.

Per chiudere la disamina dei precetti normativi attuativi dell’obbligo costituzionale di servire in via esclusiva la Nazione, e in modo indipendente e imparziale, da parte del pubblico dipendente, va fatto doveroso cenno al d.P.R. 8 aprile 2013 n. 39 (Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell’articolo 1, commi 49 e 50, della legge 6 novembre 2012, n. 190)[66].

Tale normativa, criticata per essersi limitata a fissare, per le inconferibilità, limiti per l’accesso (o obblighi di uscita per le incompatibilità) alle sole cariche gestionali e non anche a quelle politiche (pur unitariamente entrambe tese alla cura dell’interesse pubblico), ha anch’essa come obiettivo una attenta osservanza dell’art. 98 della Costituzione (oltre che dell’art. 97). E ciò sia nell’attribuzione di incarichi dirigenziali e di incarichi di responsabilità amministrativa di vertice (Segretario generale, capo Dipartimento, Direttore generale o posizioni assimilate nelle pubbliche amministrazioni da conferire a soggetti interni o esterni alle pubbliche amministrazioni, sia nel modificare la disciplina vigente in materia  di incompatibilità tra i detti incarichi e lo svolgimento di incarichi pubblici elettivi o la titolarità di interessi privati che possano porsi in conflitto con l’esercizio imparziale delle funzioni pubbliche affidate.

Mentre le ipotesi di conflitto di interesse normate dall’art.7, d.P.R. n.62 del 2013 riguardano la gestione di singoli procedimenti espressivi dell’attività amministrativa, le ipotesi di inconferibilità e incompatibilità normate dal d.P.R. n. 39 del 2013 operano anch’esse sul piano del conflitto di interesse, ma su un livello più alto e strutturale, quello dell’organizzazione e dell’incardinamento del dipendente pubblico all’interno dell’articolazione amministrativa, tipizzando ipotesi di “divieto di ingresso” e “obblighi di uscita” dall’organizzazione senza alcun margine di apprezzamento su conflitti potenziali, essendo tutti normativamente attuali e reali.

Il legislatore ha cioè ritenuto, per le inconferibilità, che non possa essere temporaneamente attribuito un incarico gestionale pubblico a coloro che provengano, senza un adeguato lasso temporale di “raffreddamento” dai pregressi legami, da situazioni che sono in grado di comportare indebite pressioni sull’esercizio della funzione. Per le incompatibilità invece, il legislatore canonizza ipotesi puntuali di conflitto attuale e reale di interesse che vanno a specificare il concetto generale attuativo dell’art. 98 Cost.

La normativa del d.P.R. n. 39 ribadisce altresì la distinzione tra cariche politiche e compiti gestionali dirigenziali, ponendo divieti post-mandato di durata variabile a seconda del pregresso incarico politico e di quello gestionale di destinazione, ma con particolare attenzione alle cariche politiche locali e clamorosa disattenzione per quelle nazionali (ribadendo la vigenza, ma per i soliti incarichi di Governo, della legge n.215 del 2004).

Da qui i numerosi precetti che hanno tipizzato, sia per le inconferibilità che per le incompatibilità, diverse ipotesi di conflitto di interesse ope legis, statuendo:

a) l’inconferibilità di incarichi dirigenziali e di incarichi di responsabilità amministrativa di vertice nelle amministrazioni statali, regionali e locali a soggetti provenienti da enti di diritto privato regolati o finanziati dall’amministrazione o dall’ente pubblico che conferisce l’incarico, ovvero abbiano svolto in proprio attività professionali, se queste sono regolate, finanziate o comunque retribuite dall’amministrazione o ente che conferisce l’incarico (art. 4);b) l’inconferibilità di incarichi di direzione nelle Aziende sanitarie locali a soggetti provenienti da enti di diritto privato regolati o finanziati dal servizio sanitario regionale (art. 5);c)  l’inconferibilità di incarichi dirigenziali e di incarichi di responsabilità amministrativa di vertice nelle amministrazioni regionali a componenti, nel precedente biennio, di organo politico di livello regionale e locale (art. 7);d) l’inconferibilità di incarichi di direttore generale, direttore sanitario e direttore amministrativo nelle Aziende sanitarie locali a coloro che nei cinque anni precedenti siano stati candidati in elezioni europee, nazionali, regionali e locali, in collegi elettorali che comprendano il territorio della ASL o che nei due anni precedenti abbiano esercitato la funzione di Presidente del Consiglio dei ministri o di Ministro, Viceministro o sottosegretario nel Ministero della salute o in altra amministrazione dello Stato o di amministratore di ente pubblico o ente di diritto privato in  controllo pubblico nazionale che svolga funzioni di controllo,  vigilanza o finanziamento del servizio sanitario nazionale, o che nell’anno precedente abbiano esercitato la funzione di parlamentare e in altre evenienze (art. 8);e) il d.lgs. n. 39 regola poi, agli artt.9-14, diverse ipotesi di incompatibilità con incarichi dirigenziali e incarichi di responsabilità amministrativa di vertice nelle amministrazioni, che impongono l’obbligo per il  soggetto cui viene conferito l’incarico di scegliere, a pena di decadenza, entro il termine perentorio di quindici giorni, tra la permanenza nell’incarico e l’assunzione e lo svolgimento di incarichi e cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati dalla pubblica amministrazione che conferisce l’incarico, lo svolgimento di attività professionali, ovvero l’assunzione della carica di componente di organi di indirizzo politico.

In tutte tali evenienze è evidente che l’incarico dirigenziale o di responsabilità amministrativa di vertice è inconferibile (con conseguente automatica nullità dell’atto di conferimento) o incompatibile (con conseguente decadenza in caso di mancata rimozione della causa dopo la diffida da parte del Responsabile anticorruzione) con altri, in quanto potrebbe essere svolto nell’interesse non già “della Nazione”, ma di soggetti privati o di fazioni politiche, con conseguente violazione del dovere di esclusività sancito dall’art. 98 Cost.

 

6. Una riflessione conclusiva.

Un attento studioso ha alcuni anni fa chiuso un proprio accurato saggio sul servizio esclusivo a favore della Nazione[67] rilevando molto efficacemente che in questi anni si è preferito insistere, sul piano delle riforme amministrative e lavoristiche della p.a., nella passiva ricezione del modello amministrativo americano[68], “un modello fondato sulla strisciante omogeneizzazione tra pubblico e privato, sulla indistinzione degli ambiti di riferimento tra amministrazioni centrali e periferiche, sul collateralismo dei rapporti tra potere politico e amministrazione (come dimostra l’introduzione dell’istituto dello spoils system), sull’ostentazione delle logiche aziendalistiche”.

A fronte di tale constatazione, ci si è chiesti da parte di tale dottrina se abbia “ancora un senso ostinarsi a ricordare che «i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione» e tentare così di riproporre il progetto politico e culturale sotteso a tale disposizione” o se “sarebbe invece preferibile, assecondando l’euforia liberista di questi anni, estirpare anche questa norma dal dettato costituzionale (così come si è già fatto con tutte quelle disposizioni che nel vecchio Titolo V contemplavano l’interesse nazionale e la «valorizzazione del Mezzogiorno»), soddisfacendo così quelle componenti politiche e culturali che, sempre più spesso in questi tempi, additano nell’art. 98, co.1, una devastante fonte di «tensione tra democrazia e pubblica amministrazione», l’ulteriore conferma della soffocante arretratezza giuridica e culturale di «una delle Costituzioni più democraticistiche e meno liberali del mondo occidentale, ovvero quella italiana del 1948»”.

La nostra risposta al quesito posto, volutamente retorico e provocatorio, è che il precetto costituzionale espresso dall’art. 98, co. 1 rappresenta ancora oggi un perno etico fondamentale dell’azione amministrativa, anzi dell’agere quotidiano dei dipendenti pubblici, ispirato all’attuazione concreta di molti principi costituzionali[69]. Le tentazioni di cedere al collateralismo e alla gratificata sudditanza alla politica, a interessi personali (incarichi esterni, legami con imprese private, favori a terzi in cambio di futuri incarichi propri o per parenti etc.) non coerenti con la funzione pubblica svolta sono innegabilmente frequenti e pongono profondi dilemmi etici (da taluni agevolmente e disinvoltamente risolti) tra bene proprio e bene della collettività.

I modelli comportamentali esterni desunti dalla politica, dai media, da colleghi, da amici, da parenti e spesso da esperienze personali pregresse portano talvolta il pubblico dipendente (ma lo stesso è riscontrabile in altri contesti) a una più agevole virata verso scelte volte a privilegiare interessi propri e a disattendere il bene comune, ma la competenza tecnica (primo presupposto per farsi valere e apprezzare senza tributi alla politica) e l’etica appresa in contesti familiari e scolastici possono guidare e indirizzare le scelte verso l’indipendenza e la terzietà, ispirate al canone del “servizio esclusivo della Nazione”, precetto ineliminabile, in quanto non è solo “norma” e “comando”, ma esprime anche “virtù” e “valore[70], e come tale, meriterebbe di essere affisso in ogni ufficio pubblico, accanto alla foto Presidenziale, quale monito, faro e guida per ogni pubblico dipendente.

 

NOTE 

[1] Come ben coglie A. CERRI, Fedeltà (dovere di), in Enc.giur., Roma, 1990, 4, l’attività esercitata dal pubblico impiegato deve ritenersi un “nobile servizio reso al sistema democratico, non anche manifestazione di meschino servilismo”. Pare evidente come il concetto di servire non debba essere inteso, per un pubblico dipendente, come esser servo di.

[2] L’interessante cronistoria del testo partorito dal costituente è rinvenibile in https://www.nascitacostituzione.it/03p2/03t3/s2/098/index.htm?art098-999.htm&2. Le discussioni intervenute sulla elaborazione del testo sono ben riassunte da A. SAITTA, Art. 98 Cost., in R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI (a cura di), Commentario alla Costituzione, Torino, 2006, II, 1911.

3] Lo scarso interesse del costituente nel normare l’attività della p.a., la c.d. “Costituzione amministrativa”, è rimarcato da S. CASSESE, Le basi del diritto amministrativo, Milano, 2000, 437.

4] In terminis l’accurato studio di C. DE FIORES, “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della nazione”? Considerazioni sulla dimensione costituzionale del pubblico impiego tra privatizzazione del rapporto di lavoro e revisione del Titolo V, in Dir.pubbl., 2006, f.1, 155.

[5] La genericità del precetto è stata colta anche da G. BERTI, Interpretazione costituzionale, Padova, 1987, 499 e da G. ARENA, L’amministrazione dalla parte dei cittadini (17 novembre 2005), in «www.urp.it», 2, ben richiamati da C. DE FIORES nel saggio citato nella precedente nota.

6] Su tale ratio, v. F. GOGGIAMANI, La doverosità della pubblica amministrazione, Torino, 2005, 82 ss. Tra i vari contributi sull’art.98 cost., oltre ai saggi contenuti nelle successive note, v. C. PINELLI, La Pubblica Amministrazione. Commento all’art. 98 Cost., in G. BRANCA, A. PIZZORUSSO (a cura di), Commentario della Costituzione. La Pubblica amministrazione, Bologna, 1991, 424; A. CARIOLA, La nozione costituzionale di pubblico impiego, Milano, 1991, 254 ss.; A. SAITTA, Art. 98 Cost., in R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI (a cura di), Commentario alla Costituzione, cit., 1917; C. DE FIORES, ”I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della nazione”? cit., 149 ss.; D. IMMORDINO, Brevi spunti sullo “statuto costituzionale” del pubblico impiego, in Norma, Quot.inf.giur., http://extranet.dbi.it/Archivio_allegati/Allegati/25359.pdf. e in Riv.amm.Rep.It., 2011, 277; M. CECERE, Commento all’art. 98 Cost., in G. AMOROSO, V. DI CERBO, A. MARESCA, Diritto del lavoro. La Costituzione, il Codice civile e le leggi speciali, Milano, 2017, 492 ss.

[7] Sul rapporto tra art. 98 Cost. e appartenenza a logge Massoniche, v. A. SAITTA, Art. 98 Cost., in R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI (a cura di), Commentario alla Costituzione, cit., 1915. Il tema si è posto con particolare delicatezza per i Magistrati.

[8] Nella realtà fattuale, l’appartenenza a forme associative, anche se tese (in conformità all’art. 18, co.1, Cost.) a fini penalmente leciti, condiziona l’agere dei dipendenti pubblici: si pensi ai favoritismi derivanti da appartenenze sindacali, a correnti e cordate interne, ad associazioni lobbistiche esterne, a frequentazioni (a vario titolo) di partiti, etc.

[9] Sul legame tra artt. 54 e 98 Cost., v. S. BATTINI, Il personale, in S. CASSESE (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Milano, 2003, 396, ma la tesi era stata già propugnata da  A. CERRI, voce Fedeltà (dovere di), in Enc.giur.Treccani, XIV, Roma 1988, 4; A.CERRI, Fedeltà (dovere di) – postilla di aggiornamento, agg. XVI, Roma 2008; G.M. LOMBARDI, Contributo allo studio dei doveri costituzionali, Milano, 1965, 176 ss. Anche C. PINELLI, La Pubblica Amministrazione, cit., 419, evidenzia come dal combinato disposto fra le due norme “se ne deve ricavare che il servizio esclusivo della Nazione costituisce vincolo più intenso della fedeltà alla Repubblica e dell’osservanza della Costituzione e delle leggi”.

[10] Parla felicemente di fedeltà qualificata anche C. DE FIORES, “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della nazione”? cit., 160.

[11] Un dipendente di datore privato può, al termine dell’orario di lavoro, salvo diverse previsioni contrattuali, legittimamente svolgere una ulteriore attività lavorativa privata o libero-professionale, purchè non in concorrenza con quella datoriale, lesiva del canone di fedeltà codificato nell’art.2105 c.c. Sul tema è sufficiente il richiamo a G. CIAN, A. TRABUCCHI (a cura di), Commentario breve al codice civile, Padova, 2007, sub art. 2105, con vasti richiami giurisprudenziali e dottrinali e a V. TENORE (a cura di), Il Manuale del pubblico impiego privatizzato, Roma, 2020, 593.

[12] G. PASTORI, La burocrazia, Padova, 1967, 216. Critico su tale tesi appare C. DE FIORES, ”I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della nazione”? cit., 160, che, nel vedere come destinatari dell’art. 4 i dipendenti privati, rivendica le peculiarità del lavoratore pubblico rispetto a quello privato, peculiarità rimarcate anche da V. TENORE, Studio sul procedimento disciplinare nel pubblico impiego, Milano, 2021, 50 ss., e V. TENORE (a cura di), Il Manuale del pubblico impiego privatizzato, cit., 37 ss.; con numerose esemplificazioni sulle ontologiche diversità del lavoro pubblico, ancorchè privatizzato.

13] Come ricorda D. IMMORDINO, Brevi spunti sullo “statuto costituzionale” del pubblico impiego, cit., 1, “Secondo una tradizionale definizione, infatti, l’attività amministrativa costituisce una delle principali funzioni di governo diretta alla cura di un’ampia gamma di diritti, istanze, esigenze riferibili all’intera collettività territoriale, considerata nella sua dimensione generale ed individuale”.

14] La tesi è condivisa, tra gli altri, da G. AZZARITI, Modelli di amministrazione e trasformazioni dello Stato, in Politica del diritto, 1996, fasc.4, 529 ss. e in G. AZZARITI, Forme e soggetti della democrazia pluralista, 2000, 94 ss.; G. ABBAMONTE, Profili costituzionali sul ruolo dell’amministrazione, in G. MARONGIU, G.C. DE MARTIN (a cura di), Democrazia e amministrazione (in ricordo di Vittorio Bachelet), Milano, 1992, 36; G. MARONGIU, Vicende e problemi della contrattazione collettiva, in AA.VV., Pubblico impiego e contrattazione collettiva, 1980, 150 ss.; C. DE FIORES, ”I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della nazione”? cit., 155 ss.

[15] A. SAITTA, Art. 98 Cost., in R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI (a cura di), Commentario alla Costituzione, cit., 1913.

[16] D. IMMORDINO, Brevi spunti sullo “statuto costituzionale” del pubblico impiego, cit., 2.

[17] C. cost., 15 ottobre 1990 n.453, in Giur. cost., 1990, 2706. Potremmo dunque affermare che, nel perseguire gli interessi obiettivi della Nazione da parte della doverosa azione amministrativa, fatta di scelte tra valori e interessi, l’imparzialità è il canone a cui ispirarsi. Specularmente, l’amministrazione è imparziale perchè ad agire sono dipendenti al servizio esclusivo della Nazione. Sulla imparzialità della p.a. v. F. SATTA, Imparzialità della pubblica amministrazione, in Enc. giur., XV, Roma, 1989.

[18] Sul delicato tema v. A. PIZZORUSSO, Appunti per lo studio della libertà di opinione dei funzionari: ambito soggettivo del problema, in Riv. trim. dir. pubbl., 1971, 1607 ss. Per le ricadute lavoristiche di esternazioni telematiche offensive o denigratorie cfr. V. TENORE, La libertà di pensiero tra riconoscimento costituzionale e limiti impliciti ed espliciti: i limiti normativi e giurisprudenziali per giornalisti, dipendenti pubblici e privati nei social media, in lavorodirittieuropa.it, 2019 e in Riv.C.conti, n.3, 2019.

[19] Sulla ampia portata soggettiva dell’art. 98, co.1, Cost., v. C. PINELLI, Art. 98, 1° comma, in G. BRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione, Torino, 1984, 419 ss.; G. D’ALESSIO (a cura di), Alle origini della costituzione italiana, Bologna, 1979, 791 ss.

[20] Sulle tappe fondamentali della privatizzazione è sufficiente il rinvio a V. TENORE (a cura di), Il Manuale del pubblico impiego privatizzato, cit., 44 ss., con vasti richiami normativi, dottrinali e giurisprudenziali.  

[21] Così C. cost., 25 luglio 1996 n.313, in Foro it., 1997, I, 34, con nota di FALCONE, che chiarisce che “il valore dell’imparzialità, infatti, non deve essere garantito necessariamente nelle forme dello statuto pubblicistico del dipendente, ben potendo trovare attuazione in un equilibrato dosaggio di fonti regolatrici che colgano l’aspetto dinamico – funzionale dell’attuale collocazione della dirigenza, assicurando anche i valori dell’efficienza e del buon andamento della p.a.” e che altri regimi, quale quello privatistico, nel rapporto di lavoro con la p.a. potrebbero meglio “garantire, senza pregiudizio dell’imparzialità, anche il valore dell’efficienza contenuto nel precetto costituzionale, grazie a strumenti gestionali che consentono, meglio che in passato, di assicurare il contenuto della prestazione in termini di produttività, ovvero una sua ben più flessibile utilizzazione”.

[22] C. DE FIORES, “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della nazione”? cit., 167.

[23] Secondo Cass., sez. un., 31 gennaio 2017 n.2479, “la figura del funzionario onorario, che ha carattere residuale rispetto a quella del pubblico dipendente senza che pertanto possa ipotizzarsi un “tertium genus” neppure sotto il profilo della parasubordinazione, si configura ogni qualvolta esista un rapporto di servizio con attribuzione di funzioni pubbliche ma manchino gli elementi caratterizzanti dell’impiego pubblico, quali la scelta del dipendente di carattere prettamente tecnico – amministrativo effettuata mediante procedure concorsuali (che si contrappone, nel caso del funzionario onorario, ad una scelta politico – discrezionale), l’inserimento strutturale del dipendente nell’apparato organizzativo della P.A. (rispetto all’inserimento meramente funzionale del funzionario onorario), lo svolgimento del rapporto secondo un apposito statuto per il pubblico impiego (che si contrappone ad una disciplina del rapporto di funzionario onorario derivante pressoché esclusivamente dall’atto di conferimento dell’incarico e dalla natura dello stesso), il carattere retributivo, perché inserito in un rapporto sinallagmatico, del compenso percepito dal pubblico dipendente (rispetto al carattere indennitario e di ristoro delle spese rivestito dal compenso percepito dal funzionario onorario), la durata tendenzialmente indeterminata del rapporto di pubblico impiego (a fronte della normale temporaneità dell’incarico onorario)”.

[24] La risalente tesi è stata espressa, con sfumature similari, da G. BALLADORE PALLIERI, La nuova costituzione italiana, Milano, 1948 e da M. CANTUCCI, La pubblica amministrazione, in P. CALAMANDREI, A. LEVI (a cura di), Commentario sistematico alla costituzione, Firenze, 1950, 161 ss.

[25] Le ragioni vanno forse cercate in una voluta presa di distanza da parte del costituente, anche sul piano terminologico, dall’enfasi fascista sul concetto di Nazione, intesa come nazionalismo ostentato attraverso la tutela dell’unità della stirpe italica, le imprese coloniali e la tutela dei sacri confini della Patria.

[26] Le nostre conclusioni sono in sintonia con C. DE FIORES, “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della nazione”? cit., 170, che richiama sul punto G. ABBAMONTE, Profili costituzionali sul ruolo dell’amministrazione, in G. MARONGIU – G.C. DE MARTIN, Milano, 1992, 36.

[27] Gli ambiti dei diritti sociali espressamente tutelati dalle norme costituzionali sono quelli relativi al lavoro (artt. 4, 35 e ss.), alla salute (art. 32), all’assistenza (art. 38), all’istruzione (artt. 33 e 34) e alla tutela della famiglia (artt. 29 e ss.). Sui diritti sociali, tra i tanti, v. A. BALDASSARRE, Diritti sociali, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1989; F. POLITI, Diritti sociali e dignità umana nella Costituzione repubblicana, Torino, 2011; D. BIFULCO, Diritti sociali, Torino, 2013; E. CAVASINO, G. SCALA, G. VERDE (a cura di), I diritti sociali dal riconoscimento alla garanzia. Il ruolo della giurisprudenza, Napoli, 2013.

[28] C. DE FIORES, “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della nazione”? cit., 175. Sulla doverosità del servizio alla Nazione v. F. GOGGIAMANI, La doverosità della pubblica amministrazione, Torino, 2005, 82 ss., secondo la quale la Costituzione repubblicana “configura una amministrazione al servizio esclusivo della nazione: l’espressione è rivolta ai dipendenti della p.a. (art. 98 Cost.), ma è indubbiamente traslabile all’apparato amministrativo nel suo complesso. Il carattere servente delineato dalla Costituzione per l’amministrazione, agli antipodi rispetto a quello autoritativo, esprime la preminenza e giuridicità della doverosità di realizzare il fine pubblico”.

[29] Intervento di Costantino Mortati (seduta del 14 gennaio 1947), in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea costituente, vol. II, Roma, 1970, 1864.

[30] Scriveva nei primi anni Settanta Massimo Severo Giannini che l’art. 98 Cost. tendeva a “impedire la turbativa delle determinanti politiche nel delicato settore dell’amministrazione del personale”: così M.S. GIANNINI, Parlamento e amministrazione, in S. CASSESE (a cura di), L’amministrazione pubblica in Italia, Bologna, 1974, 232. Ma già in precedenza C. ESPOSITO, Riforma dell’amministrazione e diritti costituzionali dei cittadini, in ID., La Costituzione italiana, Padova, 1954, 246, scriveva “l’impiegato, se pure è servo e presta servizio, e presta per compenso o per mercede la sua attività, è servo dell’ufficio e non dei superiori”.

[31] V. CRISAFULLI, D. NOCILLA, Nazione, in Enc. dir., vol. XXVII, Milano, 1977, 811, per i quali, l’art. 98 “valendosi di una espressione alquanto drastica quale servizio implica […] che ad essi [ai pubblici impiegati] è vietato farsi liberi interpeti della pubblica opinione ovvero ispirarsi nello svolgimento dei loro compiti all’uno o all’altro degli orientamenti politici che si enucleano nella collettività popolare, come è il caso invece dei membri del Parlamento ed impedisce perciò di riconoscere loro un qualsiasi carattere rappresentativo”; P. BARILE, Il dovere di imparzialità della pubblica amministrazione, in ID., Scritti di diritto costituzionale, Padova, 1967, 203, per il quale la pubblica amministrazione «dev’essere e agire scevra da influenze politiche», evitando situazioni «di disparità di trattamento causate da differenze di opinioni politiche»; U. ALLEGRETTI, L’imparzialità amministrativa, Padova, 1965, 51 ss.; A. PATRONI GRIFFI, Dimensione costituzionale e modelli legislativi della dirigenza pubblica, Napoli, 2002, 127, per il quale «i pubblici funzionari, in questo significato, non potrebbero essere al servizio di parti politiche, né tanto meno di partiti, essi dovrebbero svolgere la loro attività come servitori della collettività»; S. BATTINI, Il personale, in S. CASSESE (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Milano, 2003, 396, per il quale nell’art. 98, co. 1, sarebbero «rintracciabili ulteriori profili di continuità con il passato dal momento che il collegamento dell’impiegato allo Stato-ordinamento serve a sottrarlo ai condizionamenti della politica ed è, quindi, strumentale al principio di imparzialità, riaffermato dall’art. 97 Cost.»; L. SGARBI, La rapida evoluzione dell’impiego presso le amministrazioni pubbliche, in Dem. dir., 2004, 3, 85, per il quale «l’essere ad esclusivo servizio della nazione aumenta la funzione sociale rendendo più leggera la dipendenza dagli organi politici».

[32] C. cost., 15 ottobre 1990 n.453, in Foro it., 1991, I, 395 (che ha fatto applicazione di tale ripartizione per la formazione delle commissioni di concorso); id., 23 marzo 2007 n.103, in Foro it., 2007, 6, I, 1631, con nota di DALFINO e in Giur. cost., 2007, 2, 984, con nota di SCOCA (che fatto applicazione di tale ripartizione per lo spoils system dei dirigenti generali).

[33] Sul rapporto politica-amministrazione, tra i tanti, cfr. V. TENORE (a cura di), Il Manuale del pubblico impiego privatizzato, Roma, 2020, 708 ss.; S. MONZANI,  Il principio di separazione tra funzione di indirizzo politico e funzione di gestione quale valore di rango costituzionale funzionale alla realizzazione dei principi di buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa, in Foro Amm., 2014, 119; A. BOSCATI, Dirigenza pubblica: poteri e responsabilità tra organizzazione del lavoro e svolgimento dell’attività amministrativa, in Lav. nelle p.a., 1,  2009, 16 ss.

[34] Cons. St., sez. V, 15 novembre 2001, n. 5833.

[35] Cons. St., sez. V, 23 marzo 2000, n. 1617; id., sez.V, 21 novembre 2003, n. 7632.

[36] Per una ampia analisi di tale previsione, definita la “esimente politica”, e sui suoi limiti, v. V. TENORE (a cura di), La nuova Corte dei conti: responsabilità, pensioni, controlli, Milano, 2018, IV ed., 214 ss.

[37] Per una compita analisi dell’attuale assetto del pubblico impiego e del rapporto politica/dirigenza, v. V. TENORE (a cura di), Il Manuale del pubblico impiego privatizzato, cit., 708 ss.

[38] C. D’ORTA, La seconda fase di riforma della dirigenza pubblica: verso la fine del guado, cercando di evitare gli scogli, in Lav. pubbl. amm., 1998, 347.

[39] A. BOSCATI, Dirigenza pubblica: poteri e responsabilità tra organizzazione del lavoro e svolgimento dell’attività amministrativa, in Lav. nelle p.a., 1,  2009, 16 ss.

[40] Forse l’unico distinguo rispetto alla sudditanza fascista dell’amministrazione al partito unico è dato dalla attuale mutevolezza degli assetti politici, che preclude una “stabile” subordinazione ideologica dell’apparato burocratico, che, soprattutto nei suoi dirigenti apicali, deve dunque palesare doti camaleontiche di adattamento empatico alle alternanze dei vertici politici.

[41] Risulta normativamente smentito l’insegnamento della Corte costituzionale nelle sentenze 103 e 104 del 2017 di seguito analizzate, che, sulla scorta degli artt. 97 e 98 Cost., ritiene che la precarizzazione dell’incarico dirigenziale è in contrasto con il valore costituzionale dell’imparzialità, che impone di garantire l’autonomia del dirigente dall’influenza dell’organo politico, e del buon andamento, che richiede che venga garantita continuità all’azione amministrativa e una valutazione dei risultati per il conseguimento dei quali è necessario che venga messo a disposizione un tempo adeguato.

Sul rapporto tra contratto di lavoro dirigenziale e incarico, è sufficiente rinviare a V. TENORE (a cura di), Il Manuale del pubblico impiego privatizzato, cit., 740; E.A. APICELLA, Lineamenti del pubblico impiego privatizzato, Milano, 2012.

[42] ’art. 110 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 richiede una “previa selezione pubblica volta ad accertare, in capo ai soggetti interessati, il possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell’incarico”.

 [43] C. cost., 20 maggio 2008 n. 161, in Giur. cost., 2008, 5, 3967, con nota di SPUNTARELLI, ribadisce che anche il rapporto di lavoro dei dirigenti non appartenenti ai ruoli e nominati dall’esterno deve essere connotato da specifiche garanzie, che assicurino la tendenziale continuità dell’azione amministrativa e una chiara distinzione funzionale tra indirizzo e gestione: infatti, “la natura esterna dell’incarico non costituisce un elemento in grado di diversificare in senso fiduciario il rapporto di lavoro dirigenziale, che deve rimanere caratterizzato, sul piano funzionale, da una netta e chiara separazione tra attività di indirizzo politico-amministrativo e funzioni gestorie”.

 [44] Emblematico, tra i tanti, il caso vagliato da C. conti, sez. Lombardia, 22 giugno 2017 n. 91, in Giust.amm., 2017, fasc.6, relativo a dirigente apicale di Arpa Lombardia.

[45] L’art. 19, co. 6, testualmente prevede che “La durata di tali incarichi, comunque, non può eccedere, per gli incarichi di funzione dirigenziale di cui ai commi 3 e 4, il termine di tre anni, e, per gli altri incarichi di funzione dirigenziale, il termine di cinque anni”.

[46] C. cost., 28 ottobre 2010 n. 304, in Giur.cost., 2010, 5, 3943, secondo cui non è fondata, in riferimento agli artt. 97 e 98 Cost., la q.l.c. dell’art. 1, comma 24 bis, d.l. 18 maggio 2006 n. 181, conv., con modificazioni, in l. 17 luglio 2006 n. 233, il quale – stabilendo che all’atto del giuramento del Ministro, tutte le assegnazioni di personale, ivi compresi gli incarichi anche di livello dirigenziale e le consulenze e i contratti, anche a termine, conferiti nell’ambito degli uffici di diretta collaborazione, decadono automaticamente ove non confermati entro trenta giorni dal giuramento del nuovo Ministro – lederebbe i principi di continuità e di buon andamento dell’azione amministrativa. La disposizione si giustifica, infatti, in ragione del rapporto strettamente fiduciario che deve sussistere tra l’organo di governo e tutto il personale di cui esso si avvale per svolgere l’attività di indirizzo politico-amministrativo, sicché è legittima la previsione, al momento del cambio nella direzione del Ministero, dell’azzeramento degli incarichi esistenti, che possono essere confermati qualora il Ministro stesso ritenga che il personale in servizio possa godere della sua fiducia, senza che possa limitarsi l’operatività della norma al solo capo di gabinetto, atteso che l’attuale configurazione degli uffici di diretta collaborazione impedisce di scindere l’attività di chi svolge funzioni “apicali” da quella del restante personale, poiché l’unitarietà di tali uffici, pur nella diversità dei compiti espletati dagli addetti, giustifica un trattamento normativo omogeneo in relazione alle modalità di cessazione degli incarichi conferiti.

In dottrina, sulle posizioni della Consulta in tema di spoils system, VALLEBONA, Spoils system: solo per il vertice, in Mass. giur. lav., 2007, 325; DALFINO, Dirigenza regionale e locale di vertice: il metodo delle relazioni tra politica e amministrazione e il giusto procedimento, in Foro it., 2007, I, 1630; SCIORTINO, Spoils system «una tantum»: i rapporti tra politica ed amministrazione secondo la Consulta, in Lav. giur., 2007, 769; PINELLI, L’avallo del sistema delle spoglie, ovvero la vanificazione dell’art. 97 cost., in Giur. cost., 2006, 2327; GRAGNOLI, Lo spoils system e l’imparzialità del dipendente degli enti locali, in Lav. pubbl. amm., 2007, 40 ss.; GARDINI, Lo spoils system al primo vaglio di costituzionalità: le nomine fiduciarie delle regioni sono legittime, ma la querelle resta aperta, ivi, 663; SALOMONE, Spoils system regionale e riparto di competenza: via libera dalla Consulta, ivi, 698.

 [47] C. cost., 23 marzo 2007 n. 103, edita con nota di P. SCIORTINO, Spoils system “una tantum”: i rapporti tra politica e amministrazione secondo la Consulta, su Lav. nella Giur., 2007, 8, 769. La Corte costituzionale, individuando come referente del proprio ragionamento gli artt. 97 e 98 Cost., si è pronunciata sull’art. 3, co. 1, lett. i), della legge 145/2002, che ha modificato l’art. 19, co. 8, del decreto legislativo n. 165 del 2001, prevedendo che gli incarichi dirigenziali apicali cessano decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al Governo e sull’art. 3, co. 7, della legge n. 145 del 2002, il quale prevedeva che gli incarichi dirigenziali di direttore generale cessassero il sessantesimo giorno dall’entrata in vigore della legge. La revoca delle funzioni legittimamente conferite ai dirigenti, “può essere conseguenza soltanto di una accertata responsabilità dirigenziale in presenza di determinati presupposti e all’esito di un procedimento di garanzia puntualmente disciplinato (sentenza n. 193 del 2002)”.

Con la coeva sentenza 23 marzo 2007 n. 104, la Corte costituzionale ha poi vagliato medesima questione con riferimento agli enti ad autonomia costituzionalmente garantita e, in particolare, delle Regioni. Questa sentenza ha confermato quanto enunciato nella pronuncia n.103/2007 con riferimento alla cessazione automatica dei direttori generali delle Asl delle Regioni Lazio e Sicilia all’inizio delle legislature regionali.

Con sentenza 7 aprile 2011 n. 124, in Riv. C. conti, 2012, 1-2, 360, la Corte costituzionale ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 19, comma 8, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nel testo vigente prima dell’entrata in vigore dell’art. 40 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, nella parte in cui dispone che gli incarichi di funzione dirigenziale generale di cui al comma 5-bis, limitatamente al personale non appartenente ai ruoli di cui all’art. 23 del d.lgs. n. 165 del 2001, cessano decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al Governo“.

Con sentenza 25 luglio 2011 n. 246, in Foro it., 2011, 11, I, 2890, la Corte costituzionale ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’articolo 19, comma 8, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, come modificato dall’art. 2, comma 159, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2006, n. 286, nel testo vigente prima dell’entrata in vigore dell’art. 40 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, nella parte in cui dispone che gli incarichi di funzione dirigenziale conferiti ai sensi del comma 6 del medesimo art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, cessano decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al Governo“.  Sul tema L. FIORILLO, Incarichi di funzione dirigenziale e spoils system: la Corte costituzionale definisce il quadro di operatività dell’istituto, in Giur. cost., 2010, 2693; G. D’AURIA, Ancora su nomine fiduciarie dei dirigenti pubblici e garanzie contro lo spoils system, in Foro it., 2010, I, 2278.

[48] Osserva assai efficacemente C. DE FIORES, ”I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della nazione”? cit., 170, come “il rapporto fiduciario con il potere politico contamina, alla base, il fondamento di legittimazione del dirigente, la cui titolarità dell’ufficio dipende non solo dal merito, ma, anche e soprattutto, dal gradimento politico”. Concetto ribadito da G. AZZARITI, Modelli di amministrazione e trasformazioni dello Stato, cit., 91, secondo cui “viola le regole e i valori sanciti dal nostro ordinamento costituzionale, dal momento che non può di certo essere definita imparziale e al servizio della nazione l’amministrazione collegata istituzionalmente agli interessi di partiti, tramite meccanismi – come quelli cui si è accennato – che ne sanciscono la parzialità”.

 [49] C. cost., 8 gennaio 2019 n. 23, in Giur.cost., 2019, 1, 267, con nota di GORLANI, che pur ritenendo che “Lo statuto burocratico e funzionale che lo caratterizza resta segnato da aspetti tra loro in apparenza dissonanti. Da un lato funzionario statale assunto per concorso, ma dall’altro preposto allo svolgimento effettivo delle sue funzioni attraverso una nomina relativamente discrezionale del sindaco; non revocabile ad nutum durante il mandato (salvo che per violazione dei doveri d’ufficio), ma destinato a cessare automaticamente dalle proprie funzioni al mutare del sindaco (salvo conferma), eppure anche in tal caso garantito nella stabilità del suo status giuridico ed economico e del suo rapporto d’ufficio, permanendo iscritto all’albo dopo la mancata conferma e restando perciò a disposizione per successivi incarichi”, e pur consapevole che “l’apicalità e immediatezza di rapporto col vertice del Comune non richiedono necessariamente una sua personale adesione agli obbiettivi politico-amministrativi del sindaco. La scelta del segretario, infatti, pur fiduciaria e condotta intuitu personae, presuppone l’esame dei curricula di coloro che hanno manifestato interesse alla nomina e richiede quindi non solo la valutazione del possesso dei requisiti generalmente prescritti, ma anche la considerazione, eventualmente comparativa, delle pregresse esperienze tecniche, giuridiche e gestionali degli aspiranti”, giunge alla conclusione che “’assistenza del segretario alle riunioni degli organi collegiali del Comune, con funzioni consultive, referenti e di supporto, non ha il mero scopo di consentire la verbalizzazione, ma anche quello di permettergli di intervenire, sia nel procedimento di formazione degli atti, sia, se richiesto, nella fase più propriamente decisoria, in relazione a tutti gli aspetti giuridici legati al più efficace raggiungimento del fine pubblico….Si tratta di competenze che presuppongono anche un ruolo attivo e propositivo del segretario comunale. Esse infatti gli consentono di coadiuvare e supportare sindaco e giunta nella fase preliminare della definizione dell’indirizzo politico-amministrativo e non possono quindi non influenzarla…Si è insomma in presenza di compiti la cui potenziale estensione non rende irragionevole la scelta legislativa, che permette al sindaco neoeletto di non servirsi necessariamente del segretario in carica…..In definitiva, la soluzione censurata dall’ordinanza di rimessione si presenta come riflesso di un non irragionevole punto di equilibrio tra le ragioni dell’autonomia degli enti locali, da una parte, e le esigenze di un controllo indipendente sulla loro attività, dall’altro. Da questo punto di vista, tenendo conto delle ricordate peculiarità delle funzioni del segretario comunale, la previsione della sua decadenza alla cessazione del mandato del sindaco non raggiunge la soglia oltre la quale vi sarebbe violazione dell’art. 97 Cost., non traducendosi nell’automatica compromissione né dell’imparzialità dell’azione amministrativa, né della sua continuità”.

 [50] Sulle forme flessibili nel lavoro pubblico, V. TENORE (a cura di), Il Manuale del pubblico impiego privatizzato, cit., 629 ss.; M. DELFINO, V. LUCIANI, Rapporti flessibili di lavoro pubblico e contrattazione collettiva, in Lav. pubbl. amm., 1999, 171 ss.

[51] Le considerazioni sulla raccordabilità tra indipendenza della dirigenza e fisiologica collateralità con la politica sono di D. IMMORDINO, Brevi spunti sullo “statuto costituzionale” del pubblico impiego, cit., 9.

 [52] C. DE FIORES, “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della nazione”? cit., 170, che richiama G. AZZARITI, Modelli di amministrazione e trasformazioni dello Stato, cit., 91. De Fiores ben rimarca come “il pubblico impiegato si è così trovato in questi anni progressivamente relegato in una condizione di debolezza che lo ha reso sempre meno adatto ad assicurare l’imparziale ponderazione degli interessi di tutti, ad ispirare la propria azione al rispetto del principio di eguaglianza (visto che la stessa «parzialità non è altro che un modo di essere della disuguaglianza” (S. CASSESE, Imparzialità amministrativa e sindacato giurisdizionale, in Riv. it. scienze giur., 1968, p. 80). Il punto è stato recentemente evidenziato anche da F. SORRENTINO, Brevi riflessioni su sovranità popolare e pubblica amministrazione, 2003, in www.associazionedeicostituzionalisti.it,  3.

 [53] Ex pluribus, tra le più recenti, Cass., sez. lav., 1 dicembre 2020 n.27420; id., sez.un., 11 novembre 2020 n.25369; id., sez. lav., 25 giugno 2020 n.12626, secondo cui l’obbligo di esclusività, desumibile dall’ art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, ha particolare rilievo nel rapporto di impiego pubblico perché trova il suo fondamento costituzionale nell’art. 98 Cost., con il quale il legislatore costituente, nel prevedere che “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione“, ha voluto rafforzare il principio di imparzialità di cui all’art. 97 Cost., sottraendo il dipendente pubblico dai condizionamenti che potrebbero derivare dall’esercizio di altre attività.; in terminis, valorizzando l’art.98 cost., C.conti, sez. Lombardia, 3 febbraio 2020 n.11, in Il lav. nelle p.a., 2020, f.1, 111 ss., con nota di L. CARBONE; id., sez. Lombardia 7 maggio 2019 n. 94; id., sez. Lombardia, 28 febbraio 2017 n.14; id., sez. Lombardia, 25 novembre 2014 n. 216; Cons. St., sez.II, 17 dicembre 2021 n.8409; id., sez. II, 25 maggio 2021 n.4091; id., sez. IV, 26 febbraio 2021 n.1685.

 [54] Sul regime delle incompatibilità v. L. BUSICO, Dipendenti pubblici. Incompatibilità e attività extraistituzionali, Milano, 2021; M. ROSSI, Le norme generali in materia di incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi, in C. CONTESSA, A. UBALDI, Manuale dell’anticorruzione e della trasparenza, Piacenza, 2021, 255 ss.; V. TENORE (a cura di), Il Manuale del pubblico impiego privatizzato, cit., 591 ss.; V. TENORE, Le incompatibilità per i pubblici dipendenti, le consulenze e gli incarichi dirigenziali esterni, Milano, 2014, 121 ss.; R. DE LUCA TAMAIO, O. MAZZOTTA, Commentario breve alle leggi sul lavoro, commento all’art. 53 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, 1773 ss., Padova, 2013; M. D’APONTE, Commento all’art. 53 d.lgs. n. 165 del 2001, in Amoroso, Di Cerbo, Fiorillo, Maresca, Il diritto del lavoro, III, Il lavoro pubblico, Milano, 2011, 873 ss.; M. D’APONTE, Lo svolgimento di incarichi esterni dopo la riforma Brunetta, in Il lav. nelle P.A., 6, 2011, 965 ss.; M. ROSSI, Le norme generali in materia di incompatibilità, cumulo di impieghi ed incarichi, in M.B ARILA’, M. LOVO (a cura di), Il nuovo testo unico sul pubblico impiego, Milano, 2010, 423 ss.; E. A. APICELLA, nota redazionale in Osservatorio di giurisprudenza sul lavoro pubblico, in Giust.civ., 2010, n.10, 2378 ss.; V. TENORE, M. ROSSI, M. TILIA, Le incompatibilità nel pubblico impiego, gli incarichi, le consulenze e l’anagrafe delle prestazioni, Roma, 2008; V. TENORE, Le attività extraistituzionali e le incompatibilità per il pubblico dipendente, in Lav nelle p.a., 2007, 1097 ss.; L.PAOLUCCI, Incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi, in F. CARINCI, L. ZOPPOLI (a cura di), Diritto del lavoro, Torino, 2004, 796 ss.

 [55] Tale tripartizione è stata elaborata da V. TENORE (a cura di), Il Manuale del pubblico impiego privatizzato, cit., 591 ss.; V. TENORE (a cura di), Le incompatibilità per i pubblici dipendenti, le consulenze e gli incarichi dirigenziali esterni, Milano, 2014, 121 ss., V. TENORE, Lee attività extraistituzionali e le incompatibilità per il pubblico dipendente, in Lav nelle p.a., cit., 1097 ss. e ripresa dalla giurisprudenza e, in dottrina, da L. BUSICO, Dipendenti pubblici. Incompatibilità e attività extraistituzionali, Milano, 2021.

 [56] Il regime largheggiante riconosciuto per il personale in part-time (istituto nascente per esigenze di risparmio di costi per la p.a. e per favorire l’emersione di doppi lavori occultati e ritenuto costituzionalmente legittimo da C. cost, 18 maggio 1999 n.171 e id. 11 giugno 2001 n. 189), espletante attività anche libero-professionali esterne, esprime una rinnovata visione del dovere di esclusività del servizio alla Nazione, esclusività non più quantitativa-oraria, ma qualitativa-finalistica: anche per il personale in part-time il “servizio esclusivo per la Nazione” e il conflitto di interesse, reale o potenziale, nell’espletamento del secondo lavoro impediscono la trasformazione del rapporto a tempo parziale ex art.1, co.58, l. n.662 del 1996, che non è un diritto del lavoratore, ma è condizionato a una valutazione motivata della p.a.-datore. Sul part-time, v. TENORE (a cura di), Il Manuale del pubblico impiego privatizzato, cit., 644 ss.

[57]  In base a detto art. 508, co. 15: “al personale docente è consentito, previa autorizzazione del direttore didattico o del preside, l’esercizio di libere professioni che non siano di pregiudizio all’assolvimento di tutte le attività inerenti alla funzione docente e siano compatibili con l’orario di insegnamento e di servizio“. La ratio della norma, costituzionalmente legittima, è quella di favorire un arricchimento delle capacità didattiche praticando attività professionale (C.cost., 23 dicembre 1986 n.284, in Foro it., 1988, I3563). Tuttavia la Cassazione (sez. lav., 17 ottobre 2018 n. 26016) ha chiarito che “Per effetto della mancata disapplicazione del co. 58 bis dell’art. 1, del d.lgs. n.662/1997 (introdotto con la I. n.140/1997) da parte dell’art. 1, co.1 della I. n.339/2003, all’amministrazione scolastica compete la valutazione in concreto della legittimità dell’assunzione del patrocinio legale, da parte dell’insegnante che ivi presti servizio, nonché l’individuazione delle attività che, in ragione dell’interferenza con i compiti istituzionali, non sono consentite ai dipendenti, con particolare riferimento all’assunzione di difese in controversie di cui la stessa amministrazione scolastica è parte“. La autorizzazione del dirigente scolastico, pertanto, ben può statuire un divieto all’assunzione di difese in controversie di cui la stessa amministrazione scolastica è parte.

Sul tema cfr. anche C. conti, sez. Campania, ord. 6 aprile 2017 n. 56 e Circolare del M.I.U.R. – Dipartimento per il Sistema Educativo di istruzione e Formazione – Direzione Generale per il Personale Scolastico – Ufficio 2° prot. n. AOODGPER. 18074 del 3.11.2014.

 [58] Sui parametri da seguire per autorizzare o negare incarichi occasionali esterni e sul regime sanzionatorio in caso di omessa richiesta, v. TENORE (a cura di), Il Manuale del pubblico impiego privatizzato, cit., 605 ss.

 [59] Il riferimento è a regolamenti, o addirittura Circolari, del CSM che limitano, o pretendono di sottoporre ad autorizzazione, attività anche didattiche svolte da magistrati, liberamente espletabili (salvo conflitti di interesse) ex art.53, co.6, d.lgs. n.165.

[60] Si pensi ad attività didattiche (o a pubblicazioni) reiterate e ben remunerate a favore di azienda farmaceutica da parte di  un primario ospedaliero che faccia parte di una commissione di gara per la fornitura di farmaci o protesi alla propria struttura. Il medico o si asterrà dal far parte della commissione di gara, o non parteciperà alle attività didattiche. Il punto meriterebbe un dettaglio regolamentare nei codici di comportamento delle Aziende ospedaliere.

[61] Trattasi di norma penale in bianco quella dell’art. 323 c.p., ben completabile ad opera di fonti secondarie, quale l’art. 7 del d.P.R. n. 62 del 2013 (già art. 6 del d.m. 31 marzo 1994), come statuito dalla giurisprudenza (Cass., sez. VI, 24 aprile 2008 n.27936; id., sez.ferial., 17 novembre 2020 n. 32174; id. sez. VI, 8 settembre 2021, n. 33240; id., sez.VI, 9 dicembre 2020 n.442; Trib. Roma, sez.III pen., 22 ottobre 2021 n. 12169), essendo preservato il canone della tipicità e della tassatività propri del precetto penale quando il livello minimo di etero-integrazione della fonte secondaria si risolva solo in una specificazione tecnica di un precetto comportamentale, già compiutamente definito nella norma primaria. La Cassazione ha però nel contempo chiarito che la violazione del dovere di astensione non comporta di per sé la responsabilità dell’agente se dal fatto non deriva alcun ingiusto vantaggio patrimoniale o un ingiusto danno (Cosi, Cass. pen., sez VI, 3 maggio 2021 n.16782, in Guida al dir., 2021, fasc.23, 84, con nota di G. AMATO, C’è reato se la disistima riguarda fatti estranei a compiti istituzionali; id., sez. VI, n. 12075 del 6 febbraio 2020; id., sez. VI, n. 14457 del 15 marzo 2016; id., sez.VI, n.47978 del 27 ottobre 2009). Le cause di astensione aventi rilevanza ex art.323 c.p., inoltre, sono tassative, come chiarito dalla citata Cass. pen., sez.VI, 3 maggio 2021 n.16782, avendo la giurisprudenza del Consiglio di Stato spiegato come, anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 6-bis della legge n. 241 del 1990, che impone l’astensione in caso di conflitto d’interessi anche potenziale, le cause di incompatibilità dei componenti delle commissioni di concorso indicate dall’art. 51 (astensione per i magistrati) rivestano carattere tassativo e sfuggano all’applicazione analogica poiché va tutelata l’esigenza di certezza dell’azione amministrativa (Cons. Stato, sez. III, 29 aprile 2019 n.2775; id., sez.VI, 10 luglio 2017 n. 3373 ; id., sez. III, 28 aprile 2016 n. 1628; id., sez. VI, 30 luglio 2013 n. 4015, tutte in www.giustizia-aministrativa.it). 

[62] Su tale norma v. L. BUSICO, Dipendenti pubblici. Incompatibilità e attività extraistituzionali, cit., 95 ss., con vasti richiami giurisprudenziali e dottrinali; L. BUSICO, Il conferimento di incarichi esterni a soggetti in quiescenza, in www.lexitalia, f.11, 2014. Sulla portata applicativa della norma v. i pareri resi dall’ANAC in data 4 febbraio 2015 AG2, 18 febbraio 2015 AG/8 e 21 ottobre 2015 n.AG74/2015/AC, in www.anticorruzione.it; v. anche Ministero per la Semplificazione e per la Pubblica Amministrazione, circolare 4 dicembre 2014 n. 6. In dottrina si vedano anche D. ANDRACCHIO, Il divieto di pantouflage: una misura di prevenzione della corruzione nella p.a., in www.giustamm.it, n.9, 2016; G. GARGIULO, Il divieto di pantouflage quale presidio dell’imparzialità della pubblica amministrazione, in Lav.nella p.a., 2019, fasc.1; G. TELESIO, Il divieto di pantouflage-revolving doors, in  C. CONTESSA, A. UBALDI, Manuale dell’anticorruzione e della trasparenza, Piacenza, 2021, 403 ss.

[63]C. cost., 27 luglio 1995 n. 406, in Giur. cost., 2005, 2808. La disposizione intende arginare il fenomeno di dimissioni accompagnate da incarichi a ex dipendenti, sì da garantire la piena ed effettiva trasparenza e la imparzialità dell’azione amministrativa.

 [64] Si veda C. conti, sez. contr. Emilia Romagna, 10 novembre 2011, n. 105, in Riv. C. conti, 2011, 5-6, 131; Cass., sez. lav., 28 luglio 2008, n. 20523, in Giust. civ. Mass., 2008, 7-8, 1215.

 [65] Cfr.: C. Conti, sez. centr. contr., 30 settembre 2014 n. 23; C. Conti, sez. contr. Puglia, 6 novembre 2014 n. 193; C. Conti, sez. centr. contr., 12 novembre 2014 n. 26, tutte in www.corteconti.it.

[66] Sul regime del d.lgs. n.39 del 2013 cfr. M. FAVIERE, L’inconferibilità e l’incompatibilità di incarichi, in C. CONTESSA, A.UBALDI, Manuale dell’anticorruzione e della trasparenza, Piacenza, 2021, 201 ss.; F.MERLONI, La nuova disciplina degli incarichi pubblici, in Giorn.dir.amm., fasc.8-9, 2013. Cfr. anche le Linee guida dell’Anac 3 agosto 2016 n. 833 su inconferibilità e incandidabilità e le numerose delibere e provvedimenti dell’Autorità editi sul relativo sito.

[67] Il riferimento è al più volte citato contributo di C. DE FIORES, “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della nazione”? Considerazioni sulla dimensione costituzionale del pubblico impiego tra privatizzazione del rapporto di lavoro e revisione del Titolo V, in Dir.pubbl., 2006, f.1, 184.

[68] Il modello americano funziona però meglio, in quanto la scelta fiduciaria delle più alte cariche, anche giudiziarie, si ispira a meritocrazia: la scelta di un personaggio mediocre, infatti, delegittimerebbe anche chi lo ha prescelto. Il sistema fiduciario americano, inoltre, correla il mancato raggiungimento di risultati alla scomparsa dal firmamento amministrativo e libero-professionale dei soggetti prescelti rivelatisi inidonei. Questo in Italia raramente accade, forse per una storica e tradizionale minor tensione etica della politica e della dirigenza.

[69] Ben rimarca D. IMMORDINO, Brevi spunti sullo “statuto costituzionale” del pubblico impiego, cit., 3, come il vincolo di servizio leghi tra loro l’impiegato e quei valori costituzionali di cui la nazione è espressione, sicché il principio di esclusività si risolve in un’adesione cosciente e attiva da parte dell’impiegato pubblico ai principi costituzionali e alla pluralità di istanze ideologiche sulle quali si fonda la Nazione repubblicana.

[70] Secondo la felice classificazione di C. SCHMITT, La tirannia dei valori, in Rass.dir.pubbl, 1962, 20, “Le virtù vengono praticate; le norme vengono applicate; i comandi vengono eseguiti; i valori vengono posti e imposti”.

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Vito Tenore è Presidente di Sezione della Corte dei Conti in servizio presso la sezione giurisdizionale Lombardia e professore di diritto del lavoro pubblico presso la Scuola Nazionale dell’Amministrazione (ex SSPA), docente titolare presso la Scuola di Perfezionamento delle Forze di Polizia, docente presso la Scuola Ufficiali dei Carabinieri, docente aggiunto presso la Scuola di Polizia Economico Finanziaria di Ostia e altri prestigiosi Istituti formativi. È stato in passato Funzionario della Banca d’Italia, Magistrato ordinario, Magistrato militare e Avvocato dello Stato. Cavaliere di Gran Croce al Merito della Repubblica Italiana. Ha conseguito l’ordinariato universitario presso la Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze. Direttore di diverse collane giuridiche, componente di numerosi comitati scientifici ed ex Consigliere giuridico del Ministro dell’Istruzione. Componente dell’organo disciplinare dell’ANAC. Componente di numerose commissioni di studio per riforme ordinamentali. Autore di 45 monografie e di oltre 150 articoli di diritto civile, amministrativo, del lavoro,  ordinamento professionale, ordinamento giudiziario, contabilità di Stato, diritto scolastico, diritto militare. Tra i suoi più recenti volumi monografici: “Studio sull’ispezione amministrativa ed il suo procedimento”, Milano, Giuffrè, 2021; “Studio sul procedimento disciplinare nel pubblico impiego privatizzato”, Milano, Giuffrè, 2020; “I Palazzi del Potere”, Anicia, Roma, 2019; “La nuova Corte dei Conti: responsabilità, pensioni, controlli”, Milano, Giuffrè, 2018; “Il Magistrato e le sue quattro responsabilità”, Milano, Giuffre, 2016.