Commento all’art. 59 della Costituzione
di Maria Grazia Rodomonte, Professoressa associata di Istituzioni di diritto Pubblico presso l’Università di Roma “Sapienza”
Art. 59 – E` senatore di diritto e a vita, salvo rinunzia, chi è stato Presidente della Repubblica.
Il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario. Il numero complessivo dei senatori in carica nominati dal Presidente della Repubblica non può in alcun caso essere superiore a cinque.
Abstract – Nel commento all’art. 59 della Costituzione si provvede, in primo luogo, a ricostruire la genesi costituzionale della previsione della duplice categoria di senatori vitalizi, quella degli ex Presidenti della Repubblica, senatori di diritto e a vita, e quella dei senatori di nomina Presidenziale. In particolare, se ne evidenzia la ratio come anche l’ambigua formulazione in relazione al numero effettivo dei senatori di nomina presidenziale. La prassi repubblicana, orientata ad attribuire la scelta dei 5 senatori all’Ufficio del Presidente e non al singolo Presidente come tale, pur prevalente non si è infatti mai tramutata in consuetudine interpretativa. Al fine di sciogliere definitivamente la questione è infine intervenuta la riforma costituzionale n. 1 del 2020 che, nel contesto della riduzione del numero dei parlamentari, all’originaria previsione dell’art. 59 Cost. ha affiancato quella in base alla quale “il numero complessivo dei senatori in carica nominati dal presidente della Repubblica non può in alcun caso essere superiore a cinque”. La presenza degli stessi senatori a vita non ha mancato nel tempo di essere messa in discussione anche in ragione del fatto che, in fasi di instabilità governativa e di rapporti incerti tra maggioranze e minoranze, è emerso un ruolo politico determinante e inatteso dei senatori vitalizi. Oltre ad aver suscitato polemiche, l’emergere di tale ruolo ha indotto a letture riduttive delle prerogative degli stessi e innescato, a partire soprattutto dalla XV legislatura, tentativi riformatori mai giunti a compimento in quanto parte dei vari tentativi, incompiuti, di modifica della seconda parte della Costituzione.
Parole chiave: Senatori a vita; senatori di diritto e a vita; Assemblea Costituente; riforme costituzionali.
Sommario: 1. Introduzione; 2. I senatori di diritto e a vita: dall’Assemblea Costituente alla riforma costituzionale n. 1 del 2020; 3. I senatori a vita di diritto; 4. I senatori a vita di nomina presidenziale; 5. Lo status dei senatori a vita e la questione del loro ruolo politico; 6. Il numero dei senatori a vita di nomina presidenziale.; 7. I precedenti tentativi di riforma dell’art. 59 Cost.; 8. Conclusioni.
- Introduzione
Secondo quanto previsto dall’art. 59 della Costituzione, nella sua originaria formulazione, “È senatore di diritto a vita, salvo rinunzia, chi è stato Presidente della Repubblica. Il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita i cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”. A seguito di modifica intervenuta con legge costituzionale n. 1 del 2020 (“modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”) a tale originaria formulazione si accompagna oggi la previsione in base alla quale “Il numero complessivo dei senatori in carica nominati dal Presidente della Repubblica non può in alcun modo essere superiore a cinque”. Grazie alla richiamata revisione costituzionale si è così definitivamente chiusa l’annosa e a lungo irrisolta questione relativa al possibile numero complessivo di senatori a vita di nomina presidenziale. La formulazione originaria, dovuta al Comitato di coordinamento dell’Assemblea costituente, secondo la quale “il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti…”, è risultata in effetti ambigua e suscettibile di diverse opzioni interpretative[1]. È noto come in realtà sia a lungo prevalsa, sia in dottrina che nella prassi, l’interpretazione restrittiva che, riferendo la facoltà all’ufficio del Presidente e non al singolo Presidente in carica, aveva condotto a ritenere comunque non superabile il numero complessivo di cinque senatori a vita di nomina presidenziale all’interno del Senato. Tuttavia, l’interpretazione estensiva, tale da rendere possibile per ciascun Presidente la nomina di cinque senatori a vita, rimaneva pur sempre un’opzione astrattamente possibile, messa infine in atto con le Presidenze Pertini e Cossiga e all’epoca con l’avallo della Giunta delle elezioni e delle immunità del Senato. È indubbio che si sia trattato di una breve parentesi applicativa che non ha successivamente trovato ulteriore riscontro. Tuttavia il permanere dell’irrisolta ambiguità, derivante dalla richiamata formulazione, è alla base della scelta, nel 2020, di modificare l’art. 59 Cost., cristallizzando in tal modo l’interpretazione restrittiva ed escludendo in radice la possibilità di riferire la nomina dei senatori a ciascun Presidente. Una soluzione che, in quel contesto, è apparsa inoltre coerente anche con l’intento di evitare un eccessivo squilibrio a vantaggio della componente non elettiva al Senato, a fronte della contestuale riduzione di quella elettiva, intervenuta grazie a quella stessa riforma costituzionale che ha condotto alla riduzione dei membri della Camera alta da 315 a 200.
2. I senatori di diritto e a vita: dall’Assemblea Costituente alla riforma costituzionale n. 1 del 2020
Come si evince dal testo poc’anzi richiamato, l’art. 59 Cost. fa quindi riferimento a due distinte categorie di Senatori a vita: 1) coloro che lo sono di diritto, in quanto ex Presidenti della Repubblica e 2) coloro che lo divengono a seguito di nomina presidenziale e in presenza di alcuni sostanziali requisiti, ovvero: a) l’aver illustrato la Patria; b) averlo fatto per altissimi meriti, c) averlo fatto in alcuni specifici campi, cioè: il campo sociale, scientifico, artistico e letterario.
Se la prima categoria di Senatori a vita, quelli di diritto, non ha destato particolari problemi nei dibattiti in seno all’Assemblea costituente, (pur dovendosi segnalare proposte più ampie della soluzione finale, circoscritta ai soli ex Presidenti della Repubblica) ben diversa la vicenda che al termine di complesse discussioni è infine approdata all’introduzione della categoria dei senatori a vita nominati dal Presidente della Repubblica. In una prima fase, la previsione di introdurre diverse categorie di senatori è strettamente collegata all’intento, in seguito superato, di fare della seconda Camera la sede di una rappresentanza pluralista e diversificata rispetto alla sola rappresentanza politica presente nella Camera dei deputati. Nella seduta del 3 settembre 1946, nella seconda Sottocommissione, Mortati non manca in effetti di evidenziare come tra i vari fini che possono raggiungersi con un sistema bicamerale vi sia proprio quello di integrare la rappresentanza politica con altre forme di rappresentanza, quella territoriale e delle categorie, ma anche come l’istituzione di una seconda Camera possa rispondere all’esigenza di “selezionare particolari capacità e competenze”. Tale finalità si può ottenere delimitando la scelta degli eleggibili “per assicurare la presenza nell’assemblea legislativa di certe competenze individuali che il sistema dei regimi rappresentativi di per sé stesso non assicura”. Uno scopo che, secondo Mortati, appare particolarmente rilevante, realizzabile “prescrivendo che gli eleggibili siano scelti nell’ambito di determinati gruppi, che si suppone abbiano una certa competenza”. Importante “perché uno dei fattori che ha contribuito a determinare la cosiddetta crisi della democrazia è precisamente il difetto di competenza, tanto più sensibile nello Stato moderno che ha visto estendersi la sua sfera di attività in settori sempre nuovi e sempre più tecnici. Questo fine politico particolarmente importante può essere soddisfatto con la costituzione di una seconda Camera in cui si faccia una selezione degli eleggibili”. Secondo Mortati, infine, vi sono forme di composizione della seconda Camera che tendono a conciliare i vantaggi di vari sistemi e che, insieme agli elementi elettivi, comprendono anche elementi scelti in altro modo: “così, ci sono costituzioni che adottano un contemperamento del sistema elettivo con quello della nomina da parte del Capo dello Stato, ammettendo che un certo numero di membri del Senato sia nominato dal Capo dello Stato; ciò che può avere una ragione di essere, in quanto ci sono delle capacità che è opportuno assicurare alla seconda Camera, mentre non è opportuno siano scelte attraverso le elezioni: magistrati, membri dell’esercito o dell’amministrazione, ecc.”. Nella successiva seduta del 4 settembre è il repubblicano Conti che, nel contesto della previsione di un Senato con composizione e funzioni diversificate rispetto alla Camera, non esclude la presenza in seno al Senato anche di un ristrettissimo numero di senatori a vita, eletto direttamente dal Senato o dal Presidente della Repubblica “in modo da permettere di assicurare al Senato il concorso di personalità eminenti, che per ragioni diverse non sarebbero utilizzate col sistema elettivo”. Nella seduta del 6 settembre del 1946 è Ambrosini che torna sul tema, collocando l’esigenza di avere un Senato che esprima anche “le forze culturali del paese” nel contesto più ampio che vuole fare di quella Camera, diversamente dalla Camera dei deputati formata sulla base delle ideologie politiche e dei partiti, la sede di una forma mista di rappresentanza che tenga conto delle attività produttive, delle esigenze della cultura e di quelle territoriali, non escludendo inoltre che un ristretto numero di senatori sia nominato dal Capo dello Stato.
Nei dibattiti successivi che intervengono nella seconda Sottocommissione sono tuttavia destinate a contrapporsi le posizioni di quanti ritengono indispensabile che vi sia nel Senato un certo numero di “persone di indiscusso, altissimo valore, risultante da titoli accertabili” (L. Einaudi nella seduta del 7 settembre 1946); di “uomini di eminente ingegno ma alieni dalle lotte politiche” (G. Ambrosini, 7 settembre 1946), al fine, dunque di “assicurare delle capacità” che dovrebbero essere presenti nella seconda Camera (C. Mortati, 3 settembre 1946) e di quanti, al contrario, in particolare esponenti della sinistra, ritengono che la seconda Camera non possa che essere costituita su base elettiva. Tra questi ultimi lo stesso Presidente Terracini che nella seduta del 25 settembre del 1946 aveva sostenuto come fosse da respingere ogni designazione dall’alto poiché si sarebbe trattato di designazioni del tutto “decorative”. Al termine di quei dibattiti viene così infine abbandonata, come ricorda Ruini nel corso della relazione alla Presidenza dell’Assemblea Costituente il 6 febbraio del 1947, ogni soluzione che preveda la nomina, anche parziale, di Senatori da parte del Capo dello Stato.
È durante i lavori in Assemblea costituente a riemergere però la volontà di permettere al Presidente della Repubblica di nominare alcuni senatori a vita. Questa, in particolare, la proposta dell’onorevole Alberti il quale, nel corso della seduta del 24 settembre 1947, oltre a proporre che del Senato facciano parte non solo gli ex Presidenti della Repubblica ma anche gli ex Presidenti del Consiglio e delle Assemblee legislative, procede ad illustrare un emendamento con il quale si prevede che “cinque senatori sono nominati a vita dal Capo dello Stato fra coloro che, con meriti insigni, nel campo sociale, scientifico, artistico, letterario, hanno illustrata la Patria”. La ratio della scelta, secondo Alberti, risiederebbe nella volontà di assicurare “ai sommi, ai geni tutelari della Patria, una tribuna che essi non hanno”, evidenziando inoltre che, dato il loro numero esiguo, “essi non potranno mai spostare il centro di gravità di una situazione politica al Senato”. Al termine di due successive votazioni la proposta viene infine approvata mentre vengono respinte quelle di Nitti e di Clerici volte a permettere al Senato l’ingresso del primo Presidente della Cassazione, del Presidente del Consiglio di Stato e di quello della Corte dei Conti nonché quella di Nitti e di Alberti secondo cui “sono pure senatori di diritto a vita gli ex Presidenti del Consiglio e gli ex Presidenti delle Assemblee legislative della Repubblica, salvo rinuncia”. Nella seduta del 27 settembre Ruini, nell’illustrare il parere della Commissione sugli emendamenti presentati, aveva in effetti evidenziato come si fossero manifestate diverse opinioni in seno al Comitato, prevalendo però l’idea che “la qualità di senatore di diritto ed a vita sia da riserbarsi ai soli ex Presidenti della Repubblica, che per il posto da essi occupato non possono discendere, alla fine del loro mandato, nell’agone elettorale”, mentre non era sembrato ammissibile “l’entrata in Senato, per diritto, di nessun altro elemento né come carica dello Stato, né come designazione d’un Consiglio superiore”. Quindi, nella seduta dell’8 ottobre 1947, senza che il testo sia votato esplicitamente, l’Assemblea Costituente approva la proposta che gli ex Presidenti della Repubblica siano senatori di diritto, mentre il giorno successivo viene approvata la formula (riferita agli ex Presidenti della Repubblica) “salvo rinuncia”. In quella stessa seduta l’Assemblea Costituente approva il testo, frutto dell’emendamento dell’onorevole Alberti, in base al quale “cinque Senatori sono nominati a vita dal Capo dello Stato fra coloro che, con meriti insigni, nel campo sociale, scientifico, artistico, letterario hanno illustrata la Patria”; testo che però, a seguito dell’intervento del Comitato di redazione verrà trasformato nella formulazione definitiva (Il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita i cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario) foriera di quelle incertezze interpretative che si sono poc’anzi richiamate.
Alcune osservazioni possono essere quindi fatte in relazione alla scelta di introdurre, con l’articolo 59 della Costituzione, i senatori a vita. In particolare per quelli di nomina presidenziale la scelta finale, infatti, come si è osservato, ha un impatto del tutto diverso rispetto a quello che sarebbe potuto derivare dalla prevalenza di una seconda Camera quale sede di una rappresentanza diversa rispetto a quella politica. Superata infatti l’idea di integrare la rappresentanza; avendo optato per un bicameralismo paritario quanto a funzioni; residuando, inoltre, solo minime differenziazioni tra le due Camere, è evidente che l’immissione all’interno di un Senato, espressione della sola rappresentanza politica, sia degli ex Presidenti della Repubblica che dei cinque senatori a vita, sia tale da non rivestire particolare rilievo “né sotto il profilo istituzionale né sotto quello politico”[2]. Ciò che rimane è quindi il debole filo che lega questa previsione alla tradizione statutaria e monarchica e forse, più ancora, l’esigenza di assicurare una qualche presenza, con carattere prevalentemente simbolico, di “competenze e capacità” all’interno delle Camere; analogamente, come di recente è stato affermato, l’esigenza di assicurare il riconoscimento della “rilevanza politico costituzionale della cultura (già manifestata a livello di principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale dall’art. 9 Cost.) e della cultura nelle sue diverse declinazioni: come ricerca scientifica, come attitudine a incidere sulla realtà naturale, come manifestazione squisitamente artistica”[3]. È evidente, in ogni caso, che le deroghe alla natura direttamente rappresentativa del Senato siano ammesse, sia per quel che attiene i senatori di diritto e a vita, sia per quanto riguarda i senatori di nomina presidenziale, solo in limitatissime ipotesi e per un numero di soggetti particolarmente circoscritto. È in questa prospettiva che deve essere interpretata quindi anche l’affermazione, da parte dello stesso Alberti, secondo cui i senatori di nomina presidenziale non avrebbero potuto, in alcun modo, “spostare il centro di gravità di una situazione politica”; un’affermazione che sarebbe stata in realtà successivamente smentita dalla prassi, in particolare in contesti connotati da instabilità governativa e incertezza dei rapporti tra maggioranza e minoranza.
- I senatori a vita di diritto
Secondo quanto previsto al c. 1 dell’art. 59 Cost., il Presidente della Repubblica, all’atto della cessazione del proprio mandato, acquista ope Costitutionis e ratione muneris, al momento dell’elezione del suo successore e dopo il giuramento di quest’ultimo dinanzi al Parlamento in seduta comune, la carica di senatore a vita. L’introduzione della figura del senatore di diritto e a vita fu frutto della decisione assunta in Assemblea Costituente nel corso delle sedute dell’8 e 9 ottobre del 1947, in particolare a seguito delle proposte di Nitti e di Alberti. Già nella seduta del 25 settembre il Presidente Meuccio Ruini, illustrando il parere della Commissione sugli emendamenti presentati, affermava che “nel Comitato si sono manifestate diverse opinioni. Per quanto riguarda le norme permanenti è prevalsa l’idea che la qualità di senatore di diritto ed a vita sia da riserbarsi ai soli ex Presidenti della Repubblica, che per il posto da essi occupato non possono discendere, alla fine del loro mandato, nell’agone elettorale”.
Nel caso in cui il Presidente uscente si sia dimesso prima del termine del settennato, il mandato di senatore vitalizio decorrerà a partire dalla presentazione delle dimissioni stesse e dall’inizio della supplenza del Presidente del Senato. Inoltre, l’eventuale condanna da parte della Corte costituzionale integrata per uno dei delitti previsti dall’art. 90 Cost., quando comporti la perdita della carica di Presidente della Repubblica, non preclude in teoria l’assunzione del seggio senatoriale, se non nei soli casi di perdita dei diritti civili e politici (art. 29 ss., c.p.) e di sanzione costituzionale da cui consegua l’incapacità al mandato parlamentare[4]. Anche la dichiarazione di impedimento permanente, ai sensi dell’art. 86 Cost., c. 2, immette l’ex Presidente della Repubblica nell’ufficio di senatore a vita. Per quel che attiene invece la rinuncia all’assunzione della carica vitalizia, questa deve essere espressa e tempestivamente portata a conoscenza della Presidenza del Senato per ovvie esigenze di certezza degli atti giuridici. Oltre alla rinunzia, atto personale esercitabile prima di divenire senatore di diritto, si ritiene sia sempre nella facoltà del Presidente la scelta di dimettersi in ogni momento, al pari di qualunque altro senatore. Le dimissioni andrebbero dunque intese come volontà di abbandonare una carica già assunta, da sottoporre al voto secondo le regole ordinarie[5]. Ad oggi è noto come sia stato il solo Presidente Cossiga a presentare le proprie dimissioni, in una prima occasione nel 2002 con successivo ritiro e poi nel 2007, respinte in questa occasione dal Senato. Diversamente dalle ipotesi richiamate non è possibile per il Capo dello Stato ancora in carica procedere a rinuncia preventiva, trattandosi di diritto politico non ancora originatosi. Per quel che attiene, infine, la possibilità che sia il supplente del Presidente della Repubblica ad assumere il seggio di senatore a vita, la dottrina è pressoché concorde nell’escludere una tale eventualità, poiché è evidente come le funzioni svolte per un periodo temporaneo non comportino che il supplente acquisisca il nomen iuris del Presidente[6].
- I senatori di nomina presidenziale
La figura dei senatori di nomina presidenziale è prevista al c. 2 dell’art. 59 Cost. secondo il quale spetta al Presidente della Repubblica nominare i cinque senatori vitalizi. I requisiti richiesti per la nomina attengono esclusivamente la sussistenza della cittadinanza italiana e l’aver illustrato la Patria per altissimi meriti in “campo sociale, scientifico, artistico e letterario”. A differenza di quanto prevedeva lo Statuto albertino non è richiesta nel testo costituzionale un’età minima per poter essere nominati senatori a vita. La dottrina non ha mancato invero di interrogarsi circa la possibilità di interpretazione analogica del requisito del raggiungimento del quarantesimo anno di età previsto per i senatori elettivi, ma è infine prevalsa l’interpretazione in base alla quale essa sia da escludersi dal momento che l’età minima richiesta è mera condizione di eleggibilità e non riguarda quindi i senatori di nomina presidenziale. La scelta del Presidente della Repubblica non può essere inoltre condizionata da una proposta governativa, in quanto tipico atto formalmente e sostanzialmente presidenziale e così considerato sulla base di una consuetudine ininterrotta e invalsa sin dalle prime applicazioni della norma. La controfirma del Presidente del Consiglio vale quindi solo ad attestare la regolarità formale dell’atto e l’autenticità della sottoscrizione, nonché la presenza nel nominato dei requisiti richiesti, ovvero il possesso della cittadinanza, la sussistenza dei diritti civili e politici e la “non manifesta carenza dei titoli giustificativi (‘altissimi meriti’) sancita dal dettato costituzionale”[7]. Il Presidente del Consiglio non ha quindi alcuna possibilità di incidere sulle scelte del Presidente della Repubblica e si ritiene che, laddove rifiutasse la controfirma dell’atto di nomina, il Capo dello Stato avrebbe pur sempre la possibilità di sollevare un conflitto di attribuzioni tra poteri dello stato, lamentando il cattivo uso delle competenze governative che avrebbero in tal modo ostacolato o comunque frustrato l’esercizio di competenze costituzionalmente attribuite ad altri poteri[8].
L’esercizio del potere di nomina da parte del Presidente della Repubblica è stato quindi ritenuto non un dovere, né una facoltà ma più correttamente una funzione che, come tale, non soggiace a limiti temporali, potendo quindi il Capo dello Stato procedere alla nomina in qualunque momento senza essere tenuto a sostituire tempestivamente e necessariamente eventuali seggi vacanti, salvo valutazioni di correttezza costituzionale che potrebbero sconsigliare prolungate vacanze[9]. Si ritiene inoltre pacifico che il Presidente possa procedere alla nomina anche durante le fasi di crisi governativa, dopo lo scioglimento di una o di entrambe le Camere o prima della riunione di una di esse. Il d.P.R di nomina presidenziale dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale viene comunicato alla Presidenza del Senato a cura della Presidenza del Consiglio dei Ministri. L’art. 1 del Regolamento del Senato prevede che i senatori di nomina presidenziale acquisiscano le prerogative della carica e tutti i diritti inerenti alla loro funzione dalla comunicazione della nomina. Inoltre, ai sensi dell’art. 19 dello stesso Regolamento, i senatori di nomina vitalizia non risultano sottratti, al pari degli altri senatori, alla verifica dei titoli di ammissione da parte della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari. La prassi è stata tuttavia costante nel sottrarre a tale verifica i senatori di diritto, “non senza sollevare qualche dubbio in ordine alla sua piena coerenza con il dettato costituzionale”[10], dovendosi inoltre segnalare che si tratta di prassi alla quale si accompagna il silenzio sul punto del regolamento parlamentare per la verifica dei poteri del Senato, adottato nel 1992. Da tale verifica non risultano invece esclusi i senatori di nomina presidenziale. Secondo quanto stabilisce l’art. 19 del Regolamento per la verifica dei poteri del Senato “Sulla validità dei titoli di ammissione dei senatori nominati a vita dal Presidente della Repubblica, la Giunta esercita un controllo di legittimità, verificando la regolarità formale del decreto presidenziale di nomina e la sussistenza, nel nominato, dei requisiti di legge”. È evidente, quindi, che anche in questo caso la scelta discrezionale del Presidente della Repubblica in relazione agli altissimi meriti nei campi previsti dal dettato costituzionale non può essere sindacata nel merito dalla Giunta “né con riguardo alla sufficienza o inadeguatezza della scelta presidenziale, né con riferimento alla maggior rispondenza di altre persone alla norma costituzionale”[11]. Solo nel caso di difformità totale e palese tra parametro normativo e nomina presidenziale residuerebbe un margine di controllo, potendosi infatti ritenere sussistente in tale ipotesi un caso di eccesso di potere. Per quanto riguarda l’ineleggibilità parlamentare si ritiene che, al pari degli altri senatori, il senatore a vita sia tenuto ad optare tra la carica vitalizia e quella che comporta l’ineleggibilità a senatore. Con riferimento alle ipotesi di incompatibilità bisogna evidentemente distinguere tra le due categorie di senatori vitalizi: i senatori di diritto a vita, infatti, nell’ipotesi in cui assumano una carica incompatibile con il mandato parlamentare, decadono dalla carica senatoriale; i senatori di nomina presidenziale sono invece sospesi dall’esercizio della funzione di senatore, venendo tuttavia riammessi una volta cessata la causa di incompatibilità.
- Lo status dei senatori a vita e la questione del loro ruolo politico.
Con riferimento allo status di tutti i senatori vitalizi una delle questioni che ha maggiormente occupato la dottrina è se costoro possano o meno essere considerati una categoria a sé stante per la quale ritenersi, quindi, operative alcune specifiche limitazioni alle loro prerogative, in particolare riferite al diritto di voto. Ad essere prevalente è tuttavia l’idea che i senatori a vita, una volta entrati in carica, godano degli stessi poteri, diritti e doveri e delle medesime prerogative dei senatori elettivi, differenziandosi da questi solo per il diverso titolo da cui ripetono l’investitura[12]. Tale equiparazione sarebbe peraltro ricavabile anche da un obiter dictum presente nella sentenza della Corte costituzionale n. 176/2005[13] nella quale si rileva che “la tesi della difesa del Senato, secondo la quale l’immunità di cui all’art. 68, primo comma, della Costituzione avrebbe, in riferimento ai senatori a vita, un’ampiezza maggiore di quella attribuita ai parlamentari eletti non trova riscontro in alcuna norma costituzionale, né essa può essere desunta dalla asserita maggior importanza del titolo d’investitura dei senatori a vita rispetto a quello dei senatori eletti, sicché è alla stregua dei criteri appena menzionati che deve essere accertata e valutata l’esistenza degli elementi di fatto alla quale è subordinato il riconoscimento dell’immunità”.
La questione di un ruolo politicamente decisivo dei senatori a vita si è in particolare posta nel corso della XV legislatura, con la modifica nel 2005 della legge elettorale in senso proporzionale e con premio di maggioranza attribuito al Senato su base regionale. L’incertezza dell’esito elettorale che ne è derivato, ovvero quelli che sono stati definiti come “effetti perversi” di una legge elettorale manipolativa[14], rappresentati dal rischio del formarsi di una maggioranza irrisoria al Senato, ha comportato un accresciuto peso politico dei senatori a vita. In particolare, un appoggio determinante al governo Prodi nel 2006 per l’ottenimento della fiducia al Senato è derivato proprio dal voto favorevole alla maggioranza di tre senatori di diritto (Carlo Azeglio Ciampi, Francesco Cossiga e Oscar Luigi Scalfaro) e dei quattro senatori a vita (Giulio Andreotti, Emilio Colombo, Rita Levi Montalcini e Sergio Pininfarina). Questa particolare valorizzazione del peso politico dei senatori a favore della maggioranza di governo non ha mancato di suscitare anche vivaci polemiche[15] e di prospettare l’esigenza di una riforma costituzionale per l’eliminazione della previsione, anomala peraltro anche nel panorama comparatistico, della figura dei senatori vitalizi per la possibile incidenza negativa “sulla già debole rappresentatività delle assemblee parlamentari”[16].
L’argomento addotto a sostegno della tesi menzionata o, di quello della necessaria imparzialità dei senatori a vita con conseguente limitazione del diritto di voto, è stato, in primo luogo, un argomento di tipo “originalista”, con riguardo alla presunta volontà dei costituenti, quale sarebbe ricavabile dai lavori preparatori, espressamente orientata nel senso di escludere che i senatori a vita possano spostare in un senso o in un altro le scelte politiche del Senato. Se pure è innegabile che questo orientamento sia ricavabile dai dibattiti in Assemblea Costituente, l’argomento che su di essi si basa per avallare una riduzione delle prerogative dei senatori a vita appare certamente debole almeno per due ordini di ragioni. In primo luogo perché alcune delle affermazioni dei Costituenti, chiaramente orientate nel senso di escludere un ruolo politicamente attivo e determinante dei senatori a vita, richiede tuttavia di essere contestualizzata nell’ambito dei dibattiti alla Costituente. Al termine di un lungo confronto tra posizioni inizialmente contrapposte si era infine approdati a un bicameralismo simmetrico e ad affermare la prevalenza della designazione elettiva per la definizione della rappresentanza politica; è evidente quindi la volontà di rassicurare la controparte in ordine al fatto che l’immissione in quel contesto di un numero limitato di senatori a vita non avrebbe inciso su un equilibrio così faticosamente raggiunto. In altri termini, quei dibattiti e quelle affermazioni vanno lette alla luce dell’intento di individuare un punto di possibile compromesso tra forze politiche portatrici di posizioni contrastanti. Inoltre, più in generale, al di là di quella che può essere la volontà espressa dal legislatore quale ricavabile dai lavori preparatori, nulla può condurre ad escludere, in assenza di specifiche previsioni, una diversa evoluzione di un dato istituto rispetto a quanto originariamente immaginato. D’altro canto non può negarsi che, nel caso di specie, questa evoluzione vi sia stata e che, pur non potendosi in assoluto escludere anche in altre contingenze politiche, essa sia stata frutto di meccanismi elettorali scarsamente funzionali all’esigenza della stabilità governativa e, conseguentemente, dell’efficienza dell’azione di governo. In contesti di questo tipo, connotati dalla instabilità governativa e dall’incertezza del rapporto tra maggioranza e opposizione si amplia oltremodo il ruolo del Presidente della Repubblica e la possibilità di questi di incidere sulle dinamiche politiche, con un allontanamento evidente del sistema politico-istituzionale dal modello costituzionale[17]. Quindi, se un’anomalia si è prodotta in ordine a una “plusvalenza” del ruolo politico dei senatori, è su meccanismi elettorali “mal congegnati” che sarebbe necessario agire, piuttosto che attraverso la limitazione delle prerogative dei senatori a vita. Va evidenziato, in ogni caso, che, come si è già esaminato, in dottrina è prevalsa l’idea che la differente posizione funzionale dei senatori a vita rispetto a quelli elettivi non sia argomento sufficiente a postularne anche una differenza strutturale. Per costoro non può dunque parlarsi di assenza di rappresentatività, dovuta alla mancanza di ogni forma di collegamento con il popolo detentore della sovranità ex art. 1 Cost. e conseguentemente di responsabilità politica[18]. Il silenzio costituzionale in ordine a qualunque altra forma di differenziazione, se non meramente funzionale, dei senatori a vita rispetto a quelli elettivi appare infatti argomento sufficiente ad escludere una limitazione delle prerogative dei senatori a vita i quali, al pari degli altri, rappresentano la Nazione senza vincolo di mandato imperativo, secondo quanto previsto dall’art. 67 Cost. Si è a tal proposito evidenziato come si possa piuttosto parlare per i senatori a vita di una forma attenuata di responsabilità politica poiché per costoro “non vi è altra dimensione della responsabilità politica se non quella della discussione dei loro comportamenti da parte dell’opinione pubblica e della critica alla quale comportamenti e scelte di voto non possono sottrarsi”[19]; mentre, per quel che riguarda i senatori elettivi è evidente come la responsabilità politica comporti una relazione stretta e diretta con partiti e gruppi elettorali al termine del mandato e la verifica di fronte agli elettori. Questo più stretto legame tuttavia non esclude, da un lato, che anche i senatori elettivi, come è noto, possano interpretare in piena libertà, grazie alla protezione offerta dall’art. 67 Cost., la situazione politica, esprimendo, in conseguenza di tale valutazione, i propri voti senza un “vincolo di maggioranza” costituzionalmente individuabile; dall’altro, i rappresentati hanno pur sempre modo di valutare le diverse prese di posizione politiche tanto dei senatori elettivi quanto di quelli non elettivi, sia pur con strumenti diversi in un caso rispetto all’altro[20].
Sempre con riferimento alla valorizzazione di uno specifico ruolo politico dei senatori a vita vanno inoltre segnalate le critiche che hanno riguardato il fatto che nel “campo sociale” sia stato ricompreso quello più propriamente politico e, soprattutto, la prassi che ne è derivata di utilizzare il riferimento al campo genericamente sociale per giustificare nomine prevalentemente politiche e talvolta discutibili in particolare per l’assenza di alcun significativo rapporto con la dimensione culturale. In queste ipotesi secondo alcuni si prospetterebbe chiaro il rischio che questi parlamentari possano rivelarsi come un’anomala “riserva politica”[21] nelle mani del Presidente della Repubblica.
- Il numero dei senatori a vita di nomina presidenziale
L’ultima questione alla quale merita fare cenno, anche se, come si è detto all’inizio di queste pagine, ormai superata dalla modifica costituzionale intervenuta nel 2020, è quella relativa al potere di nomina dei cinque senatori a vita, se esso sia da riferirsi all’ufficio del Presidente della Repubblica o alla singola persona fisica del Presidente. La tesi di gran lunga prevalsa in dottrina e nella prassi è stata quella restrittiva, secondo la quale non possono essere complessivamente nominati più di cinque senatori a vita, spettando quindi il potere di nomina al Presidente come ufficio-istituzione. Tal interpretazione si basa sia sui lavori preparatori, dai quali si evince tale lettura, sia dalla collocazione dell’articolo in questione nel titolo della Costituzione riferito al Parlamento, con la conseguenza che l’istituto dei senatori a vita sarebbe funzionale all’interesse dell’ordinamento a che siedano nel Senato, oltre che i senatori eletti e gli ex Presidenti della Repubblica, anche coloro che abbiano illustrato la Patria per altissimi meriti. Proprio questa collocazione condurrebbe a propendere per la tesi che si tratti non di una facoltà del Presidente della Repubblica, ma di un potere di nomina. Diversamente argomentando, da parte di quanti hanno invece sostenuto l’interpretazione estensiva, la nomina presidenziale si configurerebbe come facoltà, con la conseguenza che non si potrebbe limitare a cinque il numero massimo dei senatori a vita nominati perché, così facendo, si finirebbe per limitare la facoltà di un singolo Presidente se nel corso del suo mandato non vi sia alcun seggio vacante e quindi nessuna nomina vitalizia. La tesi estensiva, di contro, assicurerebbe parità di trattamento tra i vari Presidenti. L’interpretazione restrittiva, pur se prevalente, non si è consolidata in una consuetudine interpretativa dovendo infatti registrarsi un’inversione dell’interpretazione a lungo invalsa a partire dalla Presidenza Pertini che il 18 luglio 1984 nominò senatori a vita Carlo Bo e Norberto Bobbio anche se già presenti in Senato cinque senatori a vita. Questa diversa lettura del dato costituzionale, possibile proprio per l’ambiguità che lo connota, fu peraltro avallata dal Presidente del Senato e dalla Giunta delle elezioni e delle immunità che si espresse favorevolmente alla convalida della nomina. Un’ulteriore rottura della precedente interpretazione si deve alla successiva Presidenza Cossiga che il 1° giugno del 1991 nominò quattro senatori a vita, ancora una volta con la convalida della Giunta del Senato. A partire però dalla Presidenza Scalfaro si è tornati alla consueta interpretazione del dato costituzionale. Tuttavia proprio la mancata univocità interpretativa dell’art. 59 del testo costituzionale ha condotto alla riforma del 2020, cui si è già fatto cenno. Il taglio del numero dei parlamentari previsto da questa riforma, in assenza di una chiara delimitazione del numero dei senatori a vita, avrebbe infatti diversamente rischiato di sbilanciare oltre il limite di tollerabilità il “peso” dei senatori a vita. Si fa tuttavia notare come appaia in realtà singolare che l’allontanamento temporale dal retaggio monarchico, che riecheggiò alla base della scelta in Assemblea costituente di inserire un limitato numero di senatori a vita, non abbia determinato in questa occasione un indebolimento di tale categoria ma abbia piuttosto condotto a un lieve suo potenziamento, se si considera che l’incidenza complessiva di questi ultimi passa dall’1,5% al 2,5% rispetto al totale dei senatori[22].
- I precedenti tentativi di riforma dell’art. 59 Cost.
La richiamata riforma costituzionale del 2020 non ha quindi realizzato nessuna riforma sostanziale dell’istituto dei senatori vitalizi, essendosi infatti limitata a circoscrivere definitivamente il numero di quelli nominati e a confermare la figura dei senatori di diritto e a vita. Nessuna delle sollecitazioni che, soprattutto a partire dalla bicamerale D’Alema, sono emerse alla riduzione o alla eliminazione della figura dei senatori a vita è stata quindi accolta in occasione di questo intervento di modifica costituzionale. È un dato innegabile, però, che proprio a partire dalla XIII legislatura si siano susseguiti tentativi riformatori anche con riferimento alla previsione dell’art. 59 Cost., nessuno di questi, come è noto, giunto a compimento. Tentativi di riforma che nascono quindi, come si è già osservato, dal fatto che nei contesti instabili presenti nelle ultime legislature è inevitabilmente emerso un ruolo politicamente attivo e talvolta determinante dei senatori a vita in grado di orientare le scelte di un Senato nel quale ad essere prevalente è proprio il principio della rappresentanza democratica. Tutte le proposte nascevano tuttavia nel contesto di una riforma non meramente quantitativa del Senato bensì nell’ambito di una trasformazione della seconda camera in Senato delle autonomie. In effetti la dottrina non ha mancato di osservare come tale trasformazione della seconda Camera, certamente auspicabile, mal si concili con la permanenza della figura dei senatori a vita.
Alla luce di quanto osservato può così ricordarsi come con la Commissione bicamerale D’Alema, nel corso della XIII legislatura, si fosse confermata la sola presenza nel Senato dei senatori di diritto e a vita, eliminando nel testo il riferimento ai senatori di nomina presidenziale. Diversa soluzione quella invece approvata nel corso della XIV legislatura che aveva optato per la soluzione della carica di deputato, anziché di senatore, di diritto e a vita per gli ex Presidenti della Repubblica e per la possibilità per il Presidente della Repubblica di nominare tre deputati a vita “per altissimi meriti”, analogamente a quanto già previsto per i senatori a vita, in “campo sociale, scientifico, artistico e letterario”. Si è osservato come la scelta di far transitare nella Camera dei deputati i senatori vitalizi fosse del tutto coerente con la rinnovata composizione del “Senato federale della Repubblica”, orientato a rappresentare le istituzioni territoriali[23]. Similmente a quanto previsto invece nel progetto di revisione della bicamerale D’Alema, la bozza Violante, approvata dalla Commissione Affari costituzionali nel corso della XV legislatura, aveva previsto di eliminare la carica di senatore di nomina presidenziale mantenendo solo quella di senatore di diritto e a vita degli ex Presidenti della Repubblica. Si tratta, in tutti i casi richiamati, di progetti che, se entrati in vigore avrebbero di molto ridotto le preoccupazioni relative all’incidenza politica dei senatori a vita sugli equilibri politico-parlamentari, oltre a risolvere la questione interpretativa inerente al numero dei senatori di nomina presidenziale. Diversa la scelta operata infine dal progetto di riforma Renzi-Boschi, anche questo destinato a fallire a seguito del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. In particolare si stabiliva che accanto ai novantacinque senatori eletti dai Consigli regionali, entrassero a far parte del Senato gli ex Presidenti della Repubblica come componenti di diritto e a vita e cinque senatori nominabili dal Presidente della Repubblica non più a vita ma per un periodo di sette anni, con la previsione del limite quantitativo di non più di cinque senatori. Questa previsione fu all’epoca oggetto di critiche per la scarsa coerenza con l’istituzione di un Senato rappresentativo delle istanze territoriali nel quale, a fronte della riduzione del numero dei senatori elettivi, l’incidenza dei senatori a vita risultava persino superiore al passato, pur se la questione risultava certo secondaria in ragione del fatto che veniva contestualmente prevista la sottrazione della seconda Camera dal circuito fiduciario.
8. Conclusioni
Dalla ricostruzione offerta appare quindi evidente come l’istituto dei senatori a vita abbia suscitato scarso interesse sin dagli esordi in Assemblea costituente e come solo la possibilità di giocare un ruolo politico inatteso abbia finito con il destare un qualche interesse nell’opinione pubblica e negli attori politici. In effetti nella stessa Assemblea Costituente non appariva del tutto chiara la funzione assegnata ai senatori a vita, al punto che “la sua concreta definizione viene implicitamente rimessa alla successiva evoluzione del ‘diritto vivente’ ”[24]. Solo il successivo emergere di un ruolo politico attivo ha condotto a richiamare l’attenzione su una figura alla quale, almeno fino alla XV legislatura, si era attribuito scarso peso e altresì a presentare proposte di modifica o di eliminazione della figura in particolare dei senatori di nomina presidenziale. Le prospettate revisioni sono risultate tuttavia sempre collegate a modifiche del ruolo della seconda Camera di talché la sola incisione da parte della recente riforma costituzionale n.1 del 2020 della consistenza numerica delle Camere, spiega altresì la ragione per la quale non si sia tornati a parlare di una modifica dell’art. 59 Cost. nel senso poc’anzi prospettato. Può quindi intravvedersi, salvo eventuali future trasformazioni del Senato in Camera territoriale, una stabilizzazione del ruolo dei senatori a vita e un più generale riconoscimento del fatto che la posizione da questi assunta sia in tutto equiparabile a quella dei senatori elettivi. Da segnalarsi, infine, la modifica del regolamento del Senato del 2017 che, con riferimento ai senatori a vita, ha previsto, all’art. 14, c. 1, che “i senatori di diritto e a vita e i Senatori a vita, nella autonomia della loro legittimazione possono non entrare a far parte di alcun Gruppo”. La previsione si giustifica in ragione del fatto che in un Senato democraticamente eletto costoro, in quanto senatori nominati o tali di diritto, possono ben reclamare una posizione autonoma rispetto ai partiti politici. Tuttavia, si è correttamente evidenziato che tale autonomia potrebbe essere egualmente salvaguardata all’interno del Gruppo Misto, oltre al fatto che tale previsione è andata nella direzione di un rafforzamento della posizione dei senatori vitalizi grazie all’attribuzione a questi di un potere non conferito agli altri senatori[25].
Note
[1] Vedi infra § 6.
[2] Così P. FRANCESCHI, in G. BRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 1984, 106.
[3] Così L. D’ANDREA, La recente nomina presidenziale dei senatori a vita: un piccolo segno del riconoscimento della soggettività costituzionale della cultura? in forumcostituzionale.it, 11 settembre 2013, 3.
[4] Cfr. R. MORETTI, in V. CRISAFULLI – L. PALADIN (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, Padova, 1990, 370.
[5] Con riferimento ai profili richiamati vedi M. MAGRINI, in S. BARTOLE – R.BIN, Commentario breve alla Costituzione, Padova, 2008, 568.
[6] Così L. SCAFFARDI, Articolo 59, in F. CLEMENTI – L. CUOCOLO – F. ROSA – G.E. VIGEVANI, La Costituzione italiana. Commento articolo per articolo, vol. II, Bologna, 46.
[7] Cfr. M. MAGRINI, op. cit., 569.
[8] In questo senso tra gli altri A. CHIMENTI, in R. BIFULCO – A. CELOTTO – M. OLIVETTI, Commentario alla Costituzione, Torino, 2006, 1171 che a sua volta richiama V. DI CIOLO, I senatori a vita nella Costituzione italiana in Riv. trim. dir. pubbl., 1968, 585.
[9] Sul punto vedi R. MORETTI, op. cit., 371.
[10] Cfr. CASAMASSIMA, Cosa cambia per i senatori a vita? in E. ROSSI (a cura di), Meno parlamentari più democrazia, Pisa, 2020, 74.
[11] M. MAGRINI, op. cit., 571.
[12] A. CHIMENTI, op. cit., 1171.
[13] Si tratta della decisione della Corte costituzionale relativa al conflitto di attribuzione sorto a seguito della deliberazione del Senato della Repubblica del 31 gennaio 2001 relativa alla insindacabilità, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, delle opinioni espresse dal senatore a vita Giulio Andreotti nei confronti del dott. Mario Almerighi. Secondo la difesa del Senato, invece, come si evince dal punto 3 del ritenuto in fatto della sentenza, “nel valutare la posizione del senatore Andreotti, non si può trascurare il fatto che egli è un senatore a vita; le sue opinioni, quindi, dovrebbero essere valutate non solo con riguardo alla funzione parlamentare, ma anche in relazione alla sua ‘investitura per meriti eccezionali che, in estrema sintesi, radica un rapporto di rappresentanza con la Patria intera, ed anzi di espressione qualificatissima della Patria’. Tale particolare posizione imporrebbe la ricomprensione nella tutela dell’art. 68 Cost. anche delle ‘forme di autotutela volte ad affermare la perdurante legittimità della sua investitura’, con conseguente riconoscimento di una tutela ‘rinforzata’ della posizione del senatore a vita”.
[14] R. BIAGI, Qualche riflessione sui senatori a vita, in forumcostituzionale.it, 2007, 3.
[15] Sul punto vedi in particolare D’ORAZIO, Il numero dei senatori a vita nell’interpretazione del Capo dello Stato, in Quad. cost., 1/1985, 131 ss. Su posizioni opposte cfr. F. MODUGNO, Noterelle (anacronistiche?) sull’interpretazione dell’art. 59, 2° comma, della Costituzione, in Riv. trim. dir. pubbl., 3/1984, 671 ss.
[16] A. MORELLI, Il doppio mandato di Napolitano e la “fallacia ad verecundiam”. Qualche riflessione sulla nomina presidenziale dei senatori a vita, in www.confronticostituzionali.eu, 2013.
[17] Vedi in tal senso F. POLITI, Senatori a vita in Il libro dell’anno del diritto, 2014; G. M. SALERNO, I senatori a vita, la “doppia maggioranza” e il ruolo del Presidente della Repubblica, in federalismi.it, 5/2007
[18] Nel senso dell’assenza di rappresentatività dei senatori a vita vedi invece F. PATERNITI, Riflessioni critiche sui senatori a vita di nomina presidenziale, in forumcostituzionale.it, 2006, in particolare 5 ss.
[19] B. PEZZINI, Il voto dei senatori a vita, la rappresentanza politica e le contraddizioni del governare, in forumcostituzionale.it, 2007, 2.
[20] ID., Ib., 3.
[21] F. PATERNITI, op. cit., 3.
[22] P. COLASANTE, La riduzione del numero dei parlamentari, fra merito e legittimità costituzionale, in federalismi.it, 12/2020, 68.
[23] G. RIVOSECCHI, I senatori di nomina presidenziale nella legge costituzionale approvata dal Parlamento, in federalismi.it, 10/2016, 11.
[24] C. GIANNUZZI, I senatori a vita nella Repubblica (1949-1991), Firenze, 1992.
[25] Sul punto vedi V. CASAMASSIMA, op. cit., 75.
***
Maria Grazia Rodomonte è Professoressa associata di Istituzioni di diritto Pubblico presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Roma “Sapienza”. Tra i temi delle sue ricerche: bicameralismo, parità di genere, giustizia costituzionale, autonomia territoriale. Ha insegnato istituzioni di diritto pubblico, diritto regionale e giustizia costituzionale. È autrice inoltre di numerose pubblicazioni tra le quali si segnalano le seguenti monografie: I regolamenti regionali, Milano, 2006; La rappresentanza femminile nel Lazio. Parità di genere in politica, Roma, 2011; L’eguaglianza senza distinzioni di sesso in Italia. Evoluzioni di un principio a settant’anni dalla nascita della Costituzione, Torino, 2018; Il bicameralismo incompiuto. Democrazia e rappresentanza del pluralismo territoriale in Italia, Padova, 2020.