Commento all’art. 131 della Costituzione
di Cristina Bertolino, Professoressa associata di Istituzioni di diritto pubblico presso l’Università degli Studi di Torino
Art. 131 – Sono costituite le seguenti Regioni: Piemonte; Valle d’Aosta; Lombardia; Trentino-Alto Adige; Veneto; Friuli-Venezia Giulia; Liguria; Emilia-Romagna; Toscana; Umbria; Marche; Lazio; Abruzzi; Molise; Campania; Puglia; Basilicata; Calabria; Sicilia; Sardegna.
Abstract: Nel commento si affronta il tema della delimitazione territoriale e dell’istituzione delle Regioni, nonché dei criteri che l’Assemblea costituente ha utilizzato per determinare l’ambito territoriale delle circoscrizioni regionali. Si analizza poi l’adeguatezza e la tenuta di questi criteri a fronte dell’evoluzione politica, sociale, culturale, economica e istituzionale dell’ordinamento costituzionale italiano e le più recenti proposte di riforma della originaria delimitazione dei territori regionali.
Parole chiave: Regioni, Assemblea costituente, circoscrizioni territoriali, confini, Regioni storiche, Regioni statistiche
Sommario: 1. L’articolazione territoriale delle Regioni in Assemblea costituente. – 2. La revisione della disposizione: l’istituzione della Regione Molise. – 3. Il portato normativo dell’art. 131 e la sua sistematicità rispetto alle altre disposizioni costituzionali. – 4. Adeguatezza della delimitazione territoriale delle Regioni e proposte di revisione.
1. L’articolazione territoriale delle Regioni in Assemblea costituente
L’art. 131 – modificato dalla L. cost. 27 dicembre 1963, n. 3 – detta l’elenco delle Regioni italiane ed è strettamente collegato – in quanto ne è il presupposto[1] – al successivo art. 132, che disciplina il procedimento di variazione territoriale delle Regioni, e alla XI disposizione transitoria della Costituzione, la quale prevede la disciplina, appunto transitoria, dei procedimenti di variazione territoriale.
Trattasi di disposizione costituzionale con «natura normativa, organizzativa e procedimentale»[2], in quanto, in primo luogo, fissa il numero di Regioni «costituite», stabilendone la denominazione e concorrendo implicitamente, come meglio si dirà infra, ad individuarne i confini territoriali. In secondo luogo, essa provvede a specificare la ripartizione regionale della Repubblica di cui all’art. 114 della Costituzione. Costituisce così il fondamento delle altre disposizioni organizzative e attributive dei poteri e delle funzioni di cui al Titolo V della Costituzione. Contribuisce infine all’adozione di un preciso modello di suddivisione regionale dello Stato.
La disposizione fa seguito a un ampio e vivace dibattito in Assemblea costituente, dovuto alla difficoltà di creare ex novo l’ente regionale e stabilirne i confini territoriali, stante il carattere fortemente accentrato dell’assetto costituzionale nell’epoca prerepubblicana e l’estraneità di ogni organizzazione regionale nel passato Regno d’Italia. Nello Statuto albertino non è infatti possibile rintracciare precedenti normativi delle attuali Regioni: nel periodo dell’Unità furono infatti definitivamente abbandonate le proposte di regionalizzazione dell’allora Ministro dell’Interno, Luigi Carlo Farini, e del suo successore, Marco Minghetti. A tutto il territorio italiano fu dunque estesa l’unificazione amministrativa del Regno di Sardegna, la quale era – come noto – in netta antitesi a qualsiasi modello di decentramento territoriale.
Costantino Mortati sottolineò correttamente come la questione di fondo – di fronte alla quale l’Assemblea costituente risultò «del tutto impreparata» – fosse non solo quella di determinare il «numero delle Regioni da istituire in correlazione all’ambito da assegnare a ciascuna», ma soprattutto «di riuscire a realizzare nell’interno di ciascuna le condizioni di uno sviluppo equilibrato (…) per un’armonica equilibrazione degli interessi, dei presupposti dell’autosufficienza (…) senza contraddire ai principi fondamentali consacrati nell’art. 5»[3].
All’interno dell’Assemblea costituente le discussioni presero avvio nella Seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione, incaricata di definire l’ordinamento della Repubblica. Ad aprire il dibattito fu l’on. Gaspare Ambrosini che, nella relazione introduttiva sulle autonomie locali[4], evidenziando in premessa gli inconvenienti dell’accentramento e i benefici dell’autonomia politica, affermò – con preciso riferimento alle Regioni – che «in Italia esistono regioni geograficamente o tradizionalmente determinate; ma bisogna tener presente la necessità che l’ente regione si istituisca in modo da essere vitale e quindi potrebbe sorgere la necessità di non seguire meccanicamente il criterio storico, ma di addivenire a fusioni o cambiamenti consigliati dalla valutazione di particolari interessi». Sin da principio era dunque evidente come per ‘orientare’ l’istituzione delle Regioni vi fossero almeno due possibili scelte: il riferimento a criteri di carattere storico, geografico e/o identitario[5], oppure a criteri funzionali ed economico-finanziari.
Ambrosini pose inoltre subito in evidenza una questione altrettanto centrale: quale sarebbe stato «il potere competente per operare un eventuale cambiamento politico-territoriale della regione», e finì per ravvisare lui stesso nello Stato tale potere, «sentita la regione o a richiesta della regione».
Seguì quindi un’ampia e partecipata discussione, volta ad affrontare le opzioni di fondo circa la struttura organizzativa della futura Repubblica italiana, con un serrato confronto proiettato a verificare l’opportunità o meno di un’organizzazione di tipo regionale[6], se non, addirittura, federale[7].
Al termine del dibattito la scelta regionalista fu quasi unanime, nella diffusa consapevolezza che il pluralismo istituzionale fosse il modello organizzativo meglio idoneo ad assicurare il buon governo e la partecipazione democratica, capace anche di costituire un contrappeso al potere centrale e di garantire in tal modo le istituende libertà e la democrazia[8]. Diverse e contrarie risultarono invece le opinioni sull’assunzione dei criteri necessari per l’identificazione e la delimitazione dei territori regionali da istituire.
Si contrapposero infatti tesi profondamente differenti: una prima, favorevole all’adozione del criterio storico, geografico e/o antropico, sostenuta da coloro che invocavano anche la partecipazione della volontà popolare; una seconda, favorevole invece alla istituzione di enti funzionalmente capaci di propria autonomia economica, naturalmente sulla base di preventive ed approfondite ricerche e indagini per riuscire ad individuare l’estensione territoriale ottimale (e dunque i confini territoriali regionali), idonei a garantire l’autosufficienza economica delle Regioni; una terza, infine, che, quale principale strumento di creazione e identificazione di nuovi territori regionali, sollecitava tout court una piena partecipazione della volontà popolare.
Le soluzioni avanzate si contrapponevano peraltro nelle premesse teoriche, poiché da un lato si proponeva un metodo di individuazione unilaterale, per così dire dall’alto, dei territori regionali, ritenendo che le popolazioni interessate risultassero inidonee a fare emergere le caratteristiche storico-geografiche e/o l’autosufficienza economica e sociale delle Regioni[9]; dall’altro, all’opposto, si auspicava che un’individuazione dal basso, tramite consultazione referendaria, potesse assurgere a criterio preminente per identificare l’ambito territoriale della Regione[10], andando a modificare democraticamente una ripartizione in parte definita già tradizionalmente.
Nell’Assemblea costituente erano altresì presenti divisioni rispetto all’opportunità che fosse la Costituzione stessa a delimitare i confini territoriali delle Regioni, poiché vi erano assertori che ritenevano che il problema dei confini non dovesse essere affrontato nel testo costituzionale, ma in atti addizionali di pari rango o in leggi ordinarie successive, a dispetto del fatto che l’istituzione di un ente territoriale non può non comportare contestualmente l’individuazione del relativo territorio[11].
Il dibattito fu peraltro principalmente rivolto verso quello che, senza dubbio alcuno, era l’obiettivo primario dei Costituenti: fu cioè, nella sostanza, strumentale rispetto all’istituzione stessa delle Regioni, sulla quale si era ormai raggiunto il consenso. La Seconda Sottocommissione, nella seduta del 1° agosto 1946, riconobbe infatti la necessità che la nuova Costituzione desse alla struttura dello Stato «un assetto aderente alle reali condizioni della nazione, le cui varietà regionali esigevano di essere adeguatamente considerate nell’interesse stesso dell’unità nazionale e della realizzazione di un regime di decentramento e di effettiva democrazia». Provando a facilitare il confronto e la discussione sull’identificazione istituzionale delle Regioni, rispetto a cui pareva non riuscirsi a trovare un consenso unanime, su proposta dell’on. A. Piccioni, essa decise infatti di demandare ad una propria sezione – il Comitato per le autonomie locali, presieduto dall’on. Ambrosini[12] – la formulazione di un progetto di ordinamento regionale che includesse le situazioni particolari di Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta e Trentino-Alto Adige.
All’interno del Comitato, il confronto e il dibattito continuarono ad essere serrati. Al termine dei lavori, nella seduta del 13 novembre 1946, nell’illustrare l’art. 22 del Progetto redatto, l’on. Ambrosini evidenziò come, sul punto del contrastatissimo problema del numero delle Regioni, vi fossero diverse proposte dei Commissari, cui si aggiungevano segnalazioni e richieste specifiche di enti e di personalità qualificate, che reclamavano la costituzione di nuove Regioni, oltre a quelle storiche. Il Comitato, «in mancanza degli elementi necessari per una ponderata decisione in merito», preferì pertanto attenersi al «criterio della tradizionale ripartizione geografica dell’Italia». Non precludeva tuttavia alle popolazioni interessate, per ragioni di giustizia, la possibilità di esigere, con delibera dei rispettivi Consigli comunali, il distacco da una Regione e l’aggregazione ad altra, o la costituzione stessa di una nuova Regione.
Nel mese seguente la discussione sull’art. 22 del Progetto del Comitato dei 10 proseguì in seno alla Seconda Sottocommissione. Come già preannunciavano le premesse dell’on. Ambrosini e come è stato correttamente osservato[13], il dibattito si differenziò da quello del primo periodo per la volontà – poi costante sino alla conclusione dei lavori in Assemblea costituente – di individuare una mediazione tra le diverse posizioni, nel rischio calcolato di mettere da parte le ragioni ultime di ciascun suo membro.
Si iniziò dunque a distinguere tra Regioni identificate secondo il criterio della tradizionale ripartizione geografica dell’Italia e quelle rispetto alle quali si suggeriva la possibilità di introduzione in Costituzione di una disposizione sui procedimenti di variazione territoriale e di creazione di nuove Regioni, nella previsione, anche, di un continuo coinvolgimento delle popolazioni interessate.
Rinviando al più puntuale commento dell’art. 132 per il dibattito relativo al procedimento di variazione territoriale, è tuttavia opportuno evidenziare come si abbandonò così definitivamente ogni tesi volta ad individuare criteri di carattere funzionale per l’individuazione delle Regioni, per giungere, in definitiva, ad applicare il criterio storico di ripartizione territoriale, senza fornirne, però, il necessario supporto scientifico.
È inoltre evidente come lo scopo preminente del demandare ad un’apposita disposizione il procedimento per future modificazioni dell’assetto territoriale delle Regioni fosse – nel perdurare di richieste di creazione di nuove Regioni, prima fra tutte il Molise[14] – di garantirne la possibile istituzione in un momento successivo.
Nella seduta pomeridiana del 18 dicembre 1946 il testo definitivo dell’art. 22 del Progetto – primo antecedente normativo della disposizione che si commenta – fu dunque il seguente: «Le Regioni sono: Piemonte, Lombardia, Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli, Liguria, Emilia-Appenninica, Emilia e Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Abruzzi, Molise, Campania, Puglia, Salento, Lucania, Calabria, Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta».
Le discussioni ripresero, da parte della Commissione per la Costituzione, nella seduta plenaria pomeridiana del 1° febbraio 1947, chiamata invero a valutare l’emendamento dell’on. Ruggero Grieco, il quale proponeva l’approvazione di un articolo così formulato: «Le Regioni sono costituite secondo la tradizionale ripartizione geografica dell’Italia. È fatta eccezione per la Valle d’Aosta, che costituisce una Regione distinta». All’evidenza, l’emendamento avrebbe determinato un passo indietro rispetto a quanto sino ad allora concordato. Fu così che, in quella medesima seduta, venne approvato all’unanimità l’ordine del giorno degli on. A. Moro, E. Molè, N. Iotti e F. Targetti, con il quale la «Commissione dei 75», esaminato il problema della istituzione delle nuove Regioni approvato dalla seconda Sottocommissione, e considerato che erano in corso accertamenti presso gli organi locali delle popolazioni interessate, decise prudentemente e opportunamente di sospendere ogni decisione in merito. Si riservava infatti di riprendere l’esame del problema non appena fosse stata in possesso degli ulteriori necessari elementi di giudizio e si affidava in tal modo ogni scelta definitiva al plenum dell’Assemblea costituente[15].
Quest’ultima prese in esame il testo dell’articolo 131 (allora art. 123) nella seduta del 29 ottobre 1947. La disposizione, nel frattempo ulteriormente modificata dal Comitato di Redazione[16], era del seguente tenore: «Oltre alle Regioni indicate dall’articolo 108, che hanno forme speciali di autonomia, sono costituite, con le funzioni ed i poteri stabiliti dalla Costituzione, le Regioni seguenti: Piemonte; Lombardia; Veneto; Liguria; Emilia e Romagna; Toscana; Umbria; Marche; Lazio; Abruzzi e Molise; Campania; Puglia; Basilicata; Calabria». Presero quindi rinnovato vigore le discussioni circa l’opportunità di fuoriuscire dal ‘solco’ delle Regioni tradizionali.
Fu peraltro subito chiara la necessità di giungere in tempi ragionevoli all’approvazione del testo definitivo della Costituzione e di evitare sia rivalità regionali o campanilistiche sia di giungere, in mancanza di dati e informazioni esaurienti, a giudizi sommari e frettolosi rispetto all’individuazione delle Regioni. Grazie all’ordine del giorno dell’on. Ferdinando Targetti[17], il quale proponeva che l’Assemblea costituente sancisse in Costituzione le «Regioni storico-tradizionali di cui alle pubblicazioni ufficiali statistiche», facendo salva l’introduzione di un’apposita procedura per l’istituzione di nuove Regioni (art. 132 e XI disposizione transitoria), si giunse infine, in un evidente compromesso tra diverse istanze, ad approvare la ripartizione regionale sulla base dei Compartimenti statistici elaborati da Pietro Maestri nel 1863[18]. Si seguì quindi un criterio oggettivo, benché non scientifico[19], di identificazione delle Regioni ‘storiche’: vennero così istituite le Regioni «Piemonte; Valle d’Aosta; Lombardia; Trentino-Alto Adige; Veneto; Friuli-Venezia Giulia; Liguria; Emilia-Romagna; Toscana; Umbria; Marche; Lazio; Abruzzi e Molise; Campania; Puglia; Basilicata; Calabria; Sicilia; Sardegna»[20].
- La revisione della disposizione: l’istituzione della Regione Molise
L’Assemblea costituente approvò il testo dell’art. 131 consapevole dunque, sin da principio, che si trattasse di una disposizione ‘provvisoria’. Durante i lavori preparatori vi erano state infatti molte richieste di costituzione di nuovi territori regionali, non previsti in base all’applicazione del mero criterio storico-statistico. Era dunque evidente che sin dall’entrata in vigore della Carta costituzionale vi sarebbero state richieste di modifica dell’avvenuta elencazione. Soprattutto, era accentuata la consapevolezza della possibilità, rimasta in sospeso, di costituire il Molise come Regione a sé stante rispetto agli Abruzzi, costituzione fortemente contrastata invece in Assemblea costituente a causa della scarsa ampiezza territoriale e densità demografica del territorio molisano.
Erano del resto tali ragioni, già in Assemblea costituente, a fare prevedere nella XI disposizione transitoria che, nei cinque anni successivi all’entrata in vigore della Carta, si potesse derogare con una legge costituzionale, fermo restando l’obbligo di consultazione delle popolazioni interessate, alla più aggravata procedura per le modifiche territoriali di cui al successivo art. 132[21].
Trascorso inutilmente il periodo, quattro anni dopo la scadenza e fissata inizialmente in via transitoria, la deroga fu prorogata, con la L. cost. n. 1 del 1958[22], sino al 31 dicembre 1963: si consentì così al Molise, che non raggiungeva il numero minimo di un milione di abitanti previsto dall’art. 132 Cost., di distaccarsi dagli Abruzzi e potersi in tal modo, grazie alla successiva L. cost. n. 3 del 1963, aggiungere alle altre Regioni.
La denominazione «Abruzzi», prevista nel testo della legge costituzionale del 1963, fu poi modificata in «Abruzzo» nell’art. 1 dello Statuto regionale abruzzese[23].
- Il portato normativo dell’art. 131 e la sua sistematicità rispetto alle altre disposizioni costituzionali
Nel contenuto normativo, l’articolo 131 definisce dunque il numero della Regioni costituite, ne stabilisce la denominazione e concorre, infine, ad individuarne i confini territoriali.
In Assemblea costituente, quando si trattò di redigere la disposizione in esame, si erano infatti respinte le tesi di quanti ritenevano che la questione dei confini regionali non dovesse trovare immediato riscontro nella Carta costituzionale, ma che si dovesse provvedere con successivi atti di pari rango (o anche ordinario) oppure con specifiche indicazioni statutarie. Si volle insomma dotare, sin da principio, le Regioni di un preciso e concreto ambito territoriale, decidendo di sopprimere dal testo proposto dalla Seconda sottocommissione il dettato: «I confini ed i capoluoghi delle regioni sono stabiliti con legge della Repubblica». Mancava così qualsiasi cenno alle pubblicazioni statistiche, presente invece nei lavori preparatori; si volle in definitiva identificare il territorio regionale con il solo criterio della corrispondenza statistica in atto.
Le Regioni ‘costituzionali’ sembrerebbero dunque coincidere con quelle ‘statistiche’, il cui territorio è dato dai confini delle circoscrizioni provinciali come individuate e, per conseguenza, le disposizioni inerenti al territorio regionale di atti legislativi statali o di statuti regionali[24] non potrebbero avere che una mera funzione dichiarativa e ricognitiva[25].
In due ipotesi, tuttavia, alla coincidenza di denominazione tra Regione ‘costituzionale’ e ‘statistica’ non corrisponde pari coincidenza territoriale: al Piemonte statistico, comprendente la Valle d’Aosta, era stata infatti sottratta la circoscrizione autonoma della Valle d’Aosta, istituita Regione autonoma e territorialmente delimitata prima dell’entrata in vigore della Costituzione[26]; quanto al Veneto, la regione ‘statistica’ comprendeva anche la Provincia di Udine, la quale non venne invece annoverata come parte del territorio veneto nel DPR n. 30 del 1948, che, nel ripartire i territori regionali in collegi uninominali ai fini elettorali, non previde infatti la Provincia di Udine.
Sono inoltre constatabili divergenze quanto alle denominazioni ‘costituzionali’ rispetto a quelle ‘statistiche’, seppure entrambe designino il medesimo territorio geografico: per il Trentino-Alto Adige (Venezia Tridentina), l’Emilia e Romagna (Emilia), la Basilicata (Lucania), la Puglia (Puglie) e la Calabria (Calabrie).
Non vi è poi corrispondenza per il Friuli-Venezia Giulia, la cui denominazione nella ripartizione statistica era «Venezia Giulia e Zara» (non era dunque presente la locuzione «Friuli»), il cui territorio era allora costituito, come noto, da un’area esterna ai confini statali[27].
La delimitazione del territorio delle Regioni, desumibile indirettamente dall’art. 131 Cost. e dal rinvio alla compartimentazione statistica e alle circoscrizioni provinciali ivi contenute, non ha dunque – per tutte le Regioni – natura strettamente costitutiva del territorio regionale, dovendosi per il vero ricorrere appunto anche alle modifiche alle Regioni ‘statistiche’ apportate in sede di Assemblea costituente e in atti legislativi, sia anteriori che successivi all’entrata in vigore della Costituzione.
Per quanto concerne l’eventuale modifica territoriale delle Regioni, come già evidenziato supra, l’art. 132 della Costituzione – al cui commento si rinvia – dispone il procedimento delle possibili variazioni territoriali e dell’eventuale modifica dell’elenco delle Regioni previsto nell’art. 131, determinandosi in tal modo un rapporto «sinallagmatico»[28] tra le due disposizioni. Il procedimento di cui all’art. 132 Cost., intervenendo direttamente sull’elenco delle Regioni contenuto nell’art. 131, assegnerebbe a quest’ultimo – come è stato fatto correttamente notare – «una conseguente forza passiva potenziata»[29], in quanto sottratto all’ordinaria applicazione dell’iter di revisione costituzionale.
È però evidente come l’ambito territoriale delle Regioni e, più in generale, degli enti territoriali, è tema estremamente complesso da affrontare, specie nell’epoca attuale, nella quale, da un lato, le realtà statuali permangono giuridicamente immutate nei loro presupposti, e la Costituzione[30] e la Corte costituzionale[31] continuano ad affermare perentoriamente il rispetto della volontà delle comunità interessate in ogni variazione territoriale; dall’altro, ci troviamo di fronte ad una società ‘complessa’ e «liquida»[32], nella quale i confini territoriali e giuridici paiono scomparire[33] o risultare suscettibili di più semplice travalicabilità. Anche aspetti identitari e culturali[34] e, non di rado, logiche di appartenenza[35], di non semplice composizione, sono in gioco nella determinazione dei confini territoriali, sino al punto da rendere difficile ogni rideterminazione – come si vedrà infra – dei territori, anche regionali[36].
Nondimeno, una eventuale modifica territoriale delle Regioni non potrà che collocarsi armonicamente all’interno del complessivo sistema costituzionale e non potrà quindi prescindere dal rispetto dei fondamentali principi costituzionali, in primis quello democratico e di promozione e tutela delle autonomie locali, di cui all’art. 5 della Costituzione[37]. In seguito alla riforma costituzionale del 2001 e in conseguenza del modello di regionalismo assunto dal e nel novellato art. 114 della Costituzione, sono infatti le Regioni, e soprattutto i cittadini residenti nel territorio, a dover ‘restituire’ la configurazione degli interessi del territorio: non si può quindi prescindere da una partecipazione delle popolazioni interessate e da un adeguato livello di consenso locale. È inoltre opportuno precisare come anche la Carta europea dell’autonomia locale sottolinei nell’art. 5, a garanzia della democrazia locale, ma anche della Repubblica complessivamente intesa, la necessità, qualora si intenda modificare i confini territoriali, di consultare preliminarmente «the local communities concerned», non, quindi, le sole istituzioni[38].
La dottrina non ha d’altra parte mancato di evidenziare come il procedimento di cui all’art. 132 sia stato in effetti previsto proprio per scongiurare – così come avvenne in sede di Assemblea costituente – la possibilità di una rideterminazione autoritaria da parte dello Stato della configurazione territoriale delle Regioni, che prescinda dal consenso delle popolazioni interessate. Nel caso in cui, tuttavia, dovesse ipotizzarsi un ripensamento complessivo delle Regioni, che vada oltre il mero riordino territoriale, questo, che configurerebbe una vera e propria revisione della forma di Stato, potrebbe presumibilmente avvenire tramite il procedimento di revisione ex art. 138 della Costituzione, non già per mezzo di quello ex art. 132[39].
Ove si guardi alla sistematicità complessiva dell’ordinamento regionale, il tema della rideterminazione territoriale, considerata la presenza di una identità regionale rafforzata, non potrebbe inoltre prescindere, come invece accadde in Assemblea costituente, da un approccio funzionalista, in quanto il territorio è preliminare alla distribuzione delle competenze e risulta condizione necessaria per esercitarvi l’autonomia stessa[40]. L’approccio funzionale, certamente complesso dal punto di vista politico, implica la necessità di valutare la corrispondenza tra le funzioni riconosciute in capo all’ente e quelle effettivamente esercitate ed esercitabili efficacemente, onde consentire che all’individuazione di una unità territoriale concorrano – come già auspicava Costantino Mortati in Assemblea costituente – «indispensabili elementi di giudizio», tra i quali una popolazione accomunata dagli interessi economici, sociali e culturali. Una diversa e nuova rideterminazione territoriale non potrebbe quindi ignorare la trasformazione socio-economica che ha interessato tutti i territori e dovrebbe anzitutto prendere in attenta considerazione i diversi (dis)livelli di benessere delle popolazioni interessate, senza mai sottovalutare le profonde diversità territoriali presenti dall’Unificazione (specie tra Nord e Sud del Paese), diversità che hanno determinato la collocazione delle Regioni (ordinarie), sin dalla istituzione, in un «cono d’ombra»[41].
- Adeguatezza della delimitazione territoriale delle Regioni e proposte di revisione
Gli ambiti territoriali delle attuali Regioni furono, come noto, individuati da Pietro Maestri con finalità diverse da quelle della delimitazione territoriale di un ente della Repubblica. Aveva infatti previsto la suddivisione del Regno d’Italia in compartimenti, a meri fini statistici, per definire le diverse tipologie di produzione del nuovo territorio unito, che peraltro non comprendeva ancora lo Stato Pontificio. La suddivisione del Maestri venne poi ripresa da Alfeo Pozzi in un manuale scolastico[42], nel quale a questa ripartizione venne aggiunta la regione Lazio, nel frattempo divenuta parte integrante dello Stato italiano. L’equivoco iniziale vissuto in Assemblea costituente fu dunque di ritenere che quella suddivisione, dopo circa ottant’anni, avesse di fatto tramutato in ‘storici’ e, di conseguenza, in funzionali ed efficienti, circoscrizioni assunte invece con finalità meramente statistiche.
A partire dagli anni Sessanta fu tuttavia chiaro che la delimitazione territoriale operata dall’Assemblea costituente non risultava più adeguata alle evidenti e incisive trasformazioni sociali allora in atto, né ai fini della pianificazione territoriale e di quella economica[43]. Anche la Corte costituzionale, nella sentenza n. 142 del 1972, attestò come in alcuni ambiti materiali non vi fosse corrispondenza tra le Regioni, come costituite, e il loro sviluppo socio-economico successivo [44]. Ciò nonostante, il disinteresse politico per l’attuazione della regionalizzazione e, a maggior ragione, per una rimodulazione dei confini territoriali regionali era allora condiviso sia dalla maggioranza politica sia dalla opposizione regionalista [45].
Negli anni Settanta e Ottanta, tuttavia, in concomitanza con l’attuazione dell’ordinamento regionale si iniziò a registrare una migliore attenzione al tema della ridefinizione della ripartizione territoriale delle Regioni[46], con un approccio prevalentemente antropo-geografico ed economico. Ne conseguì, negli anni Novanta, la presentazione di due proposte che, più di altre, hanno inciso molto sul dibattito pubblico nel Paese: la prima, relativa alla ricerca presentata nel 1994 dalla Fondazione Agnelli, nella quale si proponeva un progetto di Stato federale su base meso-regionale, con l’individuazione di dodici macro-regioni[47]. Queste erano state metodologicamente individuate in base a criteri in prevalenza geografici, economici e di capacità fiscale. L’intento era di individuare e definire i territori dotati di un’ampia autonomia finanziaria e della conseguente, e accresciuta, responsabilità nell’utilizzo delle risorse finanziarie, nonché con una dimensione adeguata e idonea a promuovere progetti di sviluppo economico e infrastrutturale. A questa proposta si contrappose una seconda, di carattere più propriamente politico, presentata per la prima volta da Gianfranco Miglio ad Assago, nel 1993, in occasione del Congresso della Lega lombarda[48]. Essa prevedeva l’abolizione delle Province e, in base a criteri di geografia economica, la creazione di tre macro-regioni: Repubblica federale del Nord (Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna); Repubblica federale dell’Etruria (Toscana, Umbria, Marche, Lazio); Repubblica federale del Sud (Abruzzo, Molise, Puglia, Calabria, Campania, Basilicata). Si sarebbero inoltre mantenute le cinque Regioni a statuto speciale.
Sarebbe stato probabilmente opportuno cogliere la successiva occasione della revisione dell’intero Titolo V della Costituzione, nel 1999 e nel 2001, per modificare anche l’articolazione territoriale delle Regioni; in quel frangente, invece, non si ritenne di modificare l’art. 131 della Costituzione, verosimilmente perché consci che ciò sarebbe equivalso a scoperchiare un vaso di Pandora e che sarebbe risultata un’impresa insormontabile in quel momento politico[49].
Durante la XVI Legislatura vennero poi depositati in Parlamento alcuni progetti di legge per una nuova delimitazione delle Regioni[50] – meno significativi delle proposte emerse negli anni Novanta –, i quali, non solo non erano fondati su validi criteri economici o geografici, ma, a dispetto delle mutate esigenze socio-economiche, erano specialmente volti ad aumentare il numero dei territori regionali.
In anni più recenti, a fronte di un maggiore interesse manifestato dalle Regioni per il processo di differenziazione di cui all’art. 116, III co., Cost, è possibile – ed opportuno – evidenziare due proposte significative, tese a introdurre un riordino delle Regioni.
La prima, del 2013, della Società Geografica Italiana[51], che ha presentato una ricerca predisposta per fornire materiali di riflessione, di confronto e di valutazione per l’auspicata riforma, il riordino e la razionalizzazione dell’assetto amministrativo italiano. Significativa ne è, senza dubbio, la metodologia utilizzata: si sono infatti indagatati i fondamenti delle attuali delimitazioni amministrative italiane per confrontarli con il modello andato configurandosi nell’Unione Europea, fondato su una ripartizione territoriale che risponde ad omogeneità funzionale, a coalizioni di attori e a valori urbani[52]. La tesi di fondo della Società Geografica è che occorrano nuove delimitazioni territoriali, legittimate dalla necessaria integrazione tra la dimensione globale dei processi economici e il radicamento territoriale delle identità, delle specificità, dei contesti patrimoniali e culturali, nel tentativo di perseguire l’obiettivo dell’efficienza economica, della coesione sociale e dell’inclusione; per la costruzione, non ultimo, di un’immagine strategica e di sviluppo del territorio.
La seconda proposta, del 2014, per iniziativa del Ministero per gli Affari regionali e le Autonomie, che ha costituito un’apposita Commissione di studio[53], la quale avrebbe dovuto valutare, sotto il profilo «costituzionale, amministrativo, territoriale, sociale, storico, geografico, istituzionale ed economico», l’adeguatezza dell’attuale delimitazione territoriale delle Regioni. Nell’occasione è stato una volta ancora significativo il criterio utilizzato per ipotizzare un eventuale accorpamento regionale: l’art. 131 è stato infatti messo in relazione con le funzioni e gli obiettivi assegnati alle Regioni dal Titolo V della Costituzione e con le principali questioni economiche e finanziarie collegate alle dimensioni territoriali regionali. Nella Commissione, che tuttavia non ha raggiunto una posizione condivisa, si sono evidenziate due distinte proposte: la prima, in luogo di una rideterminazione territoriale, sosteneva l’opportunità di implementare le forme di coordinamento operativo e gestionale tra Regioni[54]; la seconda, all’opposto, ha contemplato unicamente la semplificazione della procedura costituzionale di modifica dei confini territoriali (art .132 Cost.). Nessuna delle proposte ha però trovato un concreto sviluppo negli anni successivi.
La questione del riordino territoriale delle Regioni è dunque, ad oggi, ancora estremamente aperta. A più di settant’anni dalla costituzionalizzazione delle Regioni e a più di cinquanta dalla loro effettiva istituzione, l’identità regionale è certamente ‘percepita’ e presente in ciascun territorio più di quanto non fosse nell’Assemblea costituente. Prima peraltro di avviarsi a una nuova delimitazione delle Regioni, occorrerebbe riflettere su come sia oramai necessario, anzi urgente, riconsiderare l’organizzazione e gli obiettivi regionali in termini di politiche, piani e programmi di sviluppo. La scelta circa la ridefinizione dei confini territoriali non può infatti prescindere da una consapevole considerazione del disegno complessivo del Costituente (dovrebbe anzi essere ad essa contestuale), dal momento che il territorio è strettamente funzionale al ‘tipo’ di Regione che si vuole istituire. Tale valutazione, tuttavia, non può più applicarsi al solo modello di regionalismo che si è voluto imprimere alla Repubblica italiana: occorre infatti aprire e proiettare lo sguardo oltre i confini nazionali e tenere in conto anche le politiche e i vincoli posti dall’Unione Europea e quelli inevitabilmente scaturenti dai processi di globalizzazione[55].
Note
[1] Sul punto L. Ferraro, il quale ripercorre la genesi delle disposizioni nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente e sottolinea il «carattere quasi servente» dell’art. 132 rispetto alla disposizione che si commenta (Artt. 131-132, in A. Celotto, R. Bifulco, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, UTET, Torino, 2006, vol. III, 2531 ss., spec. 2532).
[2] Cfr. M. Pedrazza-Gorlero, Art. 131, in G. Branca, A. Pizzorusso (dir.), Commentario della Costituzione, Zanichelli-Soc. Ed. Foro It., Bologna-Roma, 1990, t. III, 68.
[3] C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, t. II, Cedam, Padova, 1995, 891.
[4] A.C. seduta del 27 luglio 1946.
[5] Sul punto M. Pedrazza-Gorlero non manca di sottolineare come già nella Relazione dell’on. Ambrosini, introduttiva ai lavori della Sottocommissione, vi fossero ambiguità e lacune rispetto ai criteri e agli strumenti prospettati per la ripartizione regionale (Art. 131, cit., 69 ss.).
[6] Il Presidente Umberto Terracini invitò preliminarmente i membri a discutere sull’utilità di istituire le Regioni (A.C. seduta 27 luglio 1946), rispetto alla quale si espressero favorevolmente, tra gli altri, O. Zuccarini (A.C. seduta 27 luglio 1946), E. Lami Starnuti e G. Uberti (A.C. seduta 29 luglio 1946).
[7] Cfr., tra gli altri, gli interventi di E. Lussu (A.C. seduta 27 luglio 1946) e A. Finocchiaro Aprile (A.C. seduta 29 luglio 1946), il quale propendeva per l’istituzione di una Confederazione.
Sulle diverse posizioni riguardanti l’istituzione delle Regioni e sul modello di decentramento dello Stato, cfr., ex multis, G. Ambrosini, L’ordinamento regionale. La riforma regionale nella Costituzione Italiana, Zanichelli Ed., Bologna, 1957; E. Rotelli, L’avvento della Regione in Italia. Dalla caduta del regime fascista alla Costituzione repubblicana (1943-1947), Giuffrè, Milano, 1967; R. Ruffilli, La questione regionale dall’unificazione alla dittatura (1862-1942), Giuffrè, Milano, 1971; E. Rotelli (a cura di), Dal regionalismo alla Regioni, il Mulino, Bologna, 1973.
[8] Sulla portata «rivoluzionaria» dell’istituzione delle Regioni nell’organizzazione dello Stato, cfr., tra i molti, P. Calamandrei, Cenni introduttivi sulla Costituente e sui suoi lavori, in A. Levi e P. Calamandrei (dir.), Commentario sistematico alla Costituzione italiana, G. Barbera Ed., Firenze, 1950, v. I, CXXXV.
[9] Sul punto cfr. C. Mortati (A.C. seduta 14 settembre 1946), il quale sostenne come fosse «estremamente pericoloso (…) in una situazione (…) di campanilismo imperante (…) lasciare la delimitazione dei confini delle regioni alle regioni stesse».
Cfr. altresì A. D’Atena, Il territorio regionale come problema di diritto costituzionale, in issirfa.cnr.it, dicembre 2008, 3, il quale sottolinea come la via battuta dal nostro Paese per l’identificazione delle regioni fu «una scelta giacobina».
[10] Tra i molti, G. Conti (A.C. seduta 29 luglio 1946), il quale, pur riconoscendo che vi fossero «regioni ben delimitate per le quali la discussione è semplice e facile», sostenne che per la delimitazione del territorio regionale fosse necessario ricorrere al «metodo democratico più serio», recependo «l’espressione della volontà dei cittadini».
[11] Sul punto cfr. la ricostruzione del dibattito di M. Pedrazza Gorlero, Le variazioni territoriali delle regioni, cit., 21-22.
[12] Il Comitato per le autonomie locali fu soprannominato «Comitato dei 10» per il numero dei suoi componenti: gli on. onorevoli Ambrosini, Bordon, Castiglia, Codacci Pisanelli, Einaudi, Grieco, Lami Starnuti, Lussu, Uberti, Zuccarini.
[13] Cfr. M. Pedrazza Gorlero, Le variazioni territoriali delle regioni, cit., 24.
[14] Così, a titolo esemplificativo, giunsero richieste per la costituzione delle Regioni Daunia, Cilento, Molise, Sannio, Umbro-Sabina.
[15] Il testo dell’art. 131 (allora art. 123) del Testo definitivo del Progetto di Costituzione elaborato dalla Commissione era il seguente: «Le Regioni sono così costituite: Piemonte; Valle d’Aosta; Lombardia; Trentino-Alto Adige; Veneto; Friuli e Venezia Giulia; Liguria; Emiliana lunense; Emilia e Romagna; Toscana; Umbria; Marche; Lazio; Abruzzi; Molise; Campania; Puglia; Salento; Lucania; Calabria; Sicilia; Sardegna. I confini ed i capoluoghi delle Regioni sono stabiliti con legge della Repubblica».
[16] Sulle modifiche tra la versione dell’articolo approvata dalla Commissione dei 75 – il cui esame l’Assemblea costituente decise, nella seduta antimeridiana del 22 luglio 1947, di rinviare – e quella introdotta nella seduta pomeridiana del 29 ottobre 1947, si legga criticamente, l’intervento di G. Codacci Pisanelli nella seduta pomeridiana del 29 ottobre 1947. Cfr. inoltre E. Rotelli, L’avvento della Regione in Italia, cit., 359-360; L. Ferraro, Artt. 131-132, cit., 2535.
[17] A.C. seduta pomeridiana del 29 ottobre 1947.
[18] Cfr. P. Maestri, Prefazione al volume Statistica del Regno d’Italia: Movimento dello Stato civile nell’anno 1863, a cura del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, Firenze, 1864. Sulla scelta del Costituente di affidarsi all’annuario statistico e sul fatto che la definizione di una partizione regionale adeguata ai tempi post-unitari non potesse corrispondere al disegno di quei “provvisori” compartimenti, si veda la posizione critica di L. Gambi, L’equivoco tra compartimenti statistici e regioni costituzionali, F.lli Lega, Faenza, 1963, ristampato come Id., Compartimenti statistici e regioni costituzionali, in Id., Questioni di geografia, Napoli, ESI, 1964, 155 ss.; E. Rotelli, L’avvento della Regione in Italia, cit., 368 ss.
[19] Sottolinea l’«artificialità» delle Regioni italiane G. Dematteis, Regioni geografiche, articolazione territoriale degli interessi e regioni istituzionali, in Stato e Mercato, 27/1989, 445 ss.; ancora, C. Muscarà, Una regione per il programma, Marsilio Ed., Padova, 1968, ha definito le Regioni «una conchiglia vuota sul piano identitario».
[20] Correttamente M. Pedrazza-Gorlero, Art. 131, cit., 84-85, evidenzia come già durante i lavori dell’Assemblea costituente non vi sia stato un perfetto parallelismo tra Regioni «statistiche» e Regioni «storiche» – in particolare con riferimento al Molise e all’Emilia-Romagna – e come dunque venne in realtà impiegato un «criterio politico», poiché si era utilizzata l’integrazione dei due criteri (storico e statistico) per «fare coincidere la suddivisione “storico-tradizionale” con quella proposta dall’art. 123 per motivi di opportunità politica».
[21] La proposta giunse ad opera dell’on. C. Mortati nella seduta pomeridiana del 4 dicembre 1947.
[22] Per le critiche alla procedura seguita cfr. F. Bassanini, L’attuazione delle Regioni, La Nuova Italia, Firenze, 1970, 83; L. Paladin, Diritto regionale, Cedam, Padova, 1973, 26; R. Tarchi, Disp. I-XVIII. Leggi costituzionali e di revisionale costituzionale (1948-1993), in G. Branca, A. Pizzorusso (dir.), Commentario della Costituzione, cit., 195; A. Iannuzzi, Disp. XI, in A. Celotto, R. Bifulco, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, cit., vol. III, cit., 2784-2785.
[23] Art. 1 L.r. Abruzzo n. 840 del 22 luglio 1971. Sulla legittimità o meno di tale mutamento di denominazione cfr. V. Italia, La denominazione nel diritto pubblico, Giuffré, Milano, 1996, 104 ss.; M. Pedrazza-Gorlero, Art. 131, cit., 91 ss.
[24] Gli Statuti regionali, sia di prima che di seconda ‘generazione’, delineano infatti nelle prime disposizioni il territorio regionale facendo esplicito riferimento alle circoscrizioni provinciali.
Rispetto poi alla coincidenza territoriale tra Regioni ‘costituzionali’ e Regioni ‘statistiche’, fanno eccezione la Sicilia e la Sardegna, per le quali, considerata la loro peculiare configurazione morfologica, il territorio è implicitamente dato dal loro principale corrispondente geografico, le due isole e i loro arcipelaghi.
[25] Cfr. G. D’Orazio, In tema di variazioni del territorio regionale (questioni costituzionali), in AA.VV., Scritti in onore di Costantino Mortati. Aspetti e tendenze del diritto costituzionale, Giuffrè, Milano, 1977, t. II, 692.
Secondo A. D’Atena, Profili costituzionali della migrazione dei Comuni nei territori regionali speciali, in Giur. Cost., 2/2007, 661, valore ricognitivo avrebbero altresì le disposizioni statutarie speciali, posto che nell’elenco di cui all’art. 131 Cost. figurano anche le Regioni ad autonomia speciale.
[26] Art. 1 del Decreto Legislativo Luogotenenziale n. 545 del 7 settembre 1945.
[27] Per la delimitazione definitiva della Regione sarà necessario attendere l’art. 2 della L. cost. n. 1 del 31 gennaio 1963.
[28] Cfr. A. Patroni Griffi, Articoli 131, 132 e 133, in F. Clementi, L. Cuocolo, F. Rosa, G.E. Vigevani (a cura di), La Costituzione italiana. Commento articolo per articolo, il Mulino, Bologna, 2021, 435.
[29] Cfr. L. Ferraro, Artt. 131-132, cit., 2540.
[30] Rispetto all’art. 132 della Costituzione, la L. cost. n. 3/2001 ha confermato, salvo qualche lieve modifica, il contenuto sostanziale del testo costituzionale del 1948.
[31] Cfr., ancora di recente, Corte costituzionale, sentenze n. 246/2010 e n. 278/2011.
[32] Lo scontato riferimento è all’opera del sociologo Z. Bauman, Liquid modernity, Cambridge, 2000.
[33] Cfr., tra i molti, B. Badie, La fin des territoires. Essai sur le désordre international et sur l’utilité sociale du respect, Fayard, Paris, 1995
[34] S. Mabellini, Identità culturale e dimensione territoriale delle Regioni in Europa, Giuffré, Milano, 2008.
[35] Sul punto, per tutti, cfr. L. Paladin, «Cittadinanza regionale» ed elezioni consiliari, in Giur. cost., 1965, 266, il quale sin dagli anni Sessanta aveva messo in guardia rispetto a uno dei possibili rischi del regionalismo italiano: la nascita, cioè, di «cittadinanze regionali», da lui stesso ritenute incompatibili con il complessivo sistema costituzionale.
[36] Opportunamente A. Patroni Griffi, Articoli 131, 132 e 133, cit., 438, sottolinea come la volontà delle popolazioni interessate alla variazione territoriale costituisca il vero «nodo gordiano» del procedimento.
[37] Sul punto cfr. F. Pizzetti, Il sistema costituzionale delle autonomie locali, Giuffrè, Milani, 1979, 290, secondo il quale, nell’art. 5 Cost., alla Repubblica, intesa «non già come l’ente Stato ma come ordinamento complessivo nella sua realtà effettuale», si contrappongono «non tanto gli enti territoriali come espressione delle comunità locali, quanto le comunità locali stesse, quale che sia o possa essere la formula organizzativa nella quale essi si esprimono».
[38] Sulla Carta europea delle autonomie locali e sul suo art. 5, cfr., tra i molti, G. Boggero, Constitutional Principles of Local Self-Government in Europe, Brill, Leiden, 2018, 174 ss.
Sul punto, inoltre, cfr. A. D’Atena, La vicenda del regionalismo italiano ed i problemi della transizione al federalismo, in A. D’Atena (a cura di), Federalismo e regionalismo in Europa, Giuffrè, Milano, 1994, 224 ss., il quale sottolinea come le popolazioni territorialmente situate godano di un diritto alla «autoidentificazione territoriale» nell’ambito dell’ordinamento regionale.
[39] Sul punto cfr. A. Ferrara, Quali Regioni per quale Repubblica? Note minime in ordine alla riaggregazione delle regioni in nuove macroentità territoriali, in Dir. e Soc., 3/1995, 317 e 322 ss.
[40] Sul punto M. Orofino, Il territorio di regioni, province e comuni, in T. Groppi, M. Olivetti (a cura di), La Repubblica delle autonomie. Regioni ed enti locali nel nuovo titolo V, Giappichelli, Torino, 2001, 201.
[41] Sul punto cfr. A. Poggi, I profili costituzionali del riordino territoriale regionale, in federalismi.it, 3/2015, 3, la quale fa a sua volta riferimento a E. Cheli, Le Regioni in un cono d’ombra, in Dalla parte delle Regioni. Bilancio di una legislatura, Fondazione A. Olivetti, Quaderni di Studi regionali 7, Ed. Comunità, Milano, 1975, 123 ss.
[42] A. Pozzi, L’Italia nelle sue presenti condizioni fisiche, politiche, economiche e monumentali, Ed. G. Agnelli, Milano, 1870.
[43] Cfr. E. Rotelli, L’avvento della Regione in Italia, cit., 297; M. Pedrazza Gorlero, Le variazioni territoriali delle Regioni, cit., 108 ss.; M. Tinacci Mosello, Geografia economica, il Mulino, Bologna, 1990, 34; M. Bertolissi, Artt. 131-133, in V. Crisafulli, L. Paladin (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, Cedam, Padova, 1990, 769.
[44] Cfr., in particolare, considerato in diritto n. 8.
[45] Sul punto, tra i molti, cfr. F. Bassanini, L’attuazione delle Regioni, Nuova Italia, Firenze, 1970, 25.
[46] Per una ricostruzione delle differenti proposte di nuova delimitazione delle Regioni, cfr., tra gli altri, G. Di Muccio, La modifica dei confini delle Regioni: l’art. 132 della Costituzione nell’esperienza del legislatore, in federalismi.it, 12/2003; V. Ferri, La delimitazione territoriale dei governi sub-centrali: un’analisi comparata a livello europeo con particolare riferimento alla Francia e all’Italia, in argomenti. Riv. di Economia, Cultura e Ricerca Sociale, 3/2016, 70 ss.
[47] Cfr. M. Pacini (a cura di), Un federalismo dei valori. Percorso e conclusioni di un programma della Fondazione Giovanni Agnelli (1992-1996), Ed. Fondazione Agnelli, Torino, 1996.
[48] Cfr. il c.d. “Decalogo di Assago”, documento politico redatto da Gianfranco Miglio con il contributo della Fondazione Bruno Salvadori per gli studi sul federalismo, presentato al secondo congresso della Lega Nord, il 12 dicembre 1993, ad Assago. Il progetto venne poi ripreso in G. Miglio, L’Asino di Buridano. Gli italiani alle prese con l’ultima occasione di cambiare il loro destino, Neri Pozza, Vicenza, 1999.
[49] Per la verità, nemmeno nel 2006 e nel 2016, in occasione delle proposte di riforma costituzionale del Titolo V, entrambe bocciate in seguito a referendum costituzionale, si seppe cogliere l’occasione per immaginare una nuova delimitazione dei confini delle Regioni.
[50] In particolare, trattasi dei pdl cost. AC n. 176, Pini, e n. 1005, Raisi, entrambi di istituzione della Regione Romagna; n. 2212, Iannarilli, concernente l’istituzione del Principato di Salerno; n. 4386, Cirielli, per l’istituzione della Regione dei due Principati; n. 4850, Molgora, di istituzione della Regione Brescia; n. 5410, Galli, per la creazione della Regione dei Laghi. Ancora, dei pdl cost. AS n. 2782, Poli Bortone, di istituzione della Regione Romagna, della Regione Principato di Salerno e della Regione Salento.
[51] M. Castelnovi, Il riordino territoriale dello Stato. Riflessioni e proposte della geografia italiana, Società Geografica Italiana, Roma, 2013, anche al link http://www.aiig.altervista.org/fonti/ebook/e-book_il_riordino_territoriale_dello_stato_sgi_36_dipartimenti.pdf.
[52] Cfr., più di recente, l’Agenda territoriale 2030 dell’Unione Europea, consultabile al link https://territorialagenda.eu/wp-content/uploads/TA2030_jun2021_en.pdf
[53] Istituita il 29 dicembre 2014 presso il Ministero per gli Affari regionali e le Autonomie, dall’allora Ministra Maria Carmela Lanzetta.
[54] Questa tesi è stata ampiamente sostenuta anche in occasione del Seminario su «Il riordino territoriale» organizzato dalla rivista federalismi.it e svoltosi a Roma il 4 febbraio 2015, i cui atti sono raccolti in federalismi.it, 3/2015. In particolare, cfr., ivi, F. Pizzetti, Centocinquanta anni di dibattito sui confini regionali; A. Poggi, I profili costituzionali del riordino territoriale; A. Sterpa, Quali macroregioni e con quale Costituzione?.
[55] Sul punto, sin da principio si è avuta una dottrina molto avveduta. Cfr., tra gli altri, F. Pizzetti, L’evoluzione del sistema italiano fra “prove tecniche di governance” e nuovi elementi unificanti. Le interconnessioni col sistema europeo, in Le Reg., 4/2002, 653 ss.; B. Caravita, L. Cassetti (a cura di), Il rafforzamento della democrazia regionale e locale nell’Unione europea, Studi CdR, Bruxelles, 2004; A. Ruggeri, Integrazione europea e ruolo delle autonomie territoriali (lineamenti di un “modello” e delle sue possibili realizzazioni, in federalismi.it, 24/2005; B. Caravita, La grande sfida dell’Unione europea tra prospettive di rilancio e ombre di declino, in federalismi.it, 1/2012; Id., Quanta Europa c’è in Europa?, Giappichelli, Torino, 2015; A. Poggi, Dove va il regionalismo in Europa?, in federalismi.it, 16/2018; Id., Le dimensioni spaziali dell’eguaglianza, in AA.VV., Eguaglianza e discriminazioni nell’epoca contemporanea, Annuario AIC 2019, Editoriale Scientifica, Napoli, 2021, 511 ss. Cfr., inoltre, P. Khanna, Connectography. Le mappe del futuro ordine mondiale, Fazi Ed., Roma, 2016.
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Cristina Bertolino è Professoressa associata di Istituzioni di diritto pubblico presso l’Università degli Studi di Torino, dove è docente di Istituzioni di diritto pubblico e di Diritto costituzionale regionale presso i Corsi di Laurea in Giurisprudenza e in Scienze dell’Educazione.
È membro del Comitato scientifico della rivista Piemonte delle Autonomie, della Direzione della rivista Diritti regionali-Rivista di diritto delle autonomie territoriali e della Redazione della rivista federalismi.it. Ha pubblicato monografie e saggi di diritto costituzionale e di diritto regionale, e curato opere collettanee. Tra le sue pubblicazioni: Il principio di leale collaborazione nel policentrismo del sistema costituzionale italiano (Giappichelli, 2007); Una prospettiva di normalizzazione del fenomeno migratorio. L’accoglienza possibile, (Giappichelli, 2020); Regionalismo differenziato e specialità regionale: problemi e prospettive (a cura di C. Bertolino, A. Morelli e G. Sobrino, Torino University Press, 2020).