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L’art. 119 della Costituzione

Commento all’art. 119 della Costituzione

di Guido Rivosecchi, Professore ordinario di Diritto costituzionale presso l’Università degli Studi di Padova

 

Art. 119 – I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci, e concorrono ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea.

I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione [53 c.2] e secondo i princìpi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.

Dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio.

La legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante.

Le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite.

Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni.

I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno un proprio patrimonio, attribuito secondo i princìpi generali determinati dalla legge dello Stato.

Possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare spese di investimento, con la contestuale definizione di piani di ammortamento e a condizione che per il complesso degli enti di ciascuna Regione sia rispettato l’equilibrio di bilancio.

E’ esclusa ogni garanzia dello Stato sui prestiti dagli stessi contratti.

 

Abstract: Il contributo analizza il fondamento dei principi costituzionali sull’autonomia finanziaria e tributaria degli enti territoriali soffermandosi sul difficile processo di attuazione dell’art. 119 Cost. nella fase successiva alla riforma del Titolo V del 2001. Alla stregua degli orientamenti della giurisprudenza costituzionale, vengono presi in esame i perduranti vincoli gravanti sulle autonomie territoriali sia sul “lato” delle spese sia su quello delle entrate, specie per effetto della crisi economico-finanziaria – successivamente acuita dalla pandemia – che ha determinato un robusto accentramento finanziario e fiscale in sostanziale elusione dei precetti costituzionali. Sono infine indicate prospettive di possibile attuazione dell’art. 119 Cost. nel bilanciamento tra istanze unitarie e principio autonomistico al fine di favorire la responsabilità politica dei diversi livelli territoriali di governo nel finanziamento delle funzioni e nell’erogazione delle prestazioni a garanzia dei diritti costituzionali.

Parole chiave: autonomia finanziaria e tributaria degli enti territoriali; giurisprudenza costituzionale; garanzia del finanziamento delle funzioni e delle prestazioni.

 

Sommario: 1. L’autonomia finanziaria e tributaria degli enti sub-statali: dall’originario al vigente art. 119 Cost. 2. Il “congelamento” dell’autonomia finanziaria e la funzione di coordinamento della finanza pubblica sino alla legge n. 42 del 2009 sul federalismo fiscale. 3. L’introduzione dell’equilibrio di bilancio nell’art. 119 Cost. e i suoi riflessi sull’autonomia finanziaria. 4. Il nodo pendente della finanza delle autonomie speciali e l’eventuale finanziamento del regionalismo differenziato. 5. La perdurante inattuazione dei principi costituzionali tra crisi economica e crisi pandemica.

  1. L’autonomia finanziaria e tributaria degli enti sub-statali: dall’originario al vigente art. 119 Cost.

Come recita il suo primo comma, l’art. 119 Cost. esprime il fondamento dell’«autonomia finanziaria di entrata e di spesa» degli enti sub-statali: ciò che costituisce la misura concreta del disegno costituzionale di autonomia e il grado di effettivo pluralismo istituzionale nell’articolazione territoriale dei pubblici poteri[1].

Le norme in commento sorreggono, quindi, l’intero Titolo V Cost. poiché l’entità delle risorse finanziarie disponibili e le modalità mediante le quali esse vengono assicurate agli enti territoriali incide sul grado di autonomia politica “effettiva”, intesa quale capacità di esprimere determinate scelte di indirizzo[2]. In altre parole: senza un’adeguata dotazione finanziaria vi è il concreto rischio di neutralizzare i poteri normativi e amministrativi costituzionalmente affidati agli enti stessi.

La disponibilità di risorse finanziarie condiziona i poteri regionali e locali nella realizzazione delle proprie politiche e, conseguentemente, incide sulla conformazione di determinati diritti poiché non poche prestazioni sono erogate dagli enti sub-statali sulla base del riparto costituzionale delle competenze e delle funzioni. È stato infatti da tempo osservato che l’autonomia finanziaria degli enti territoriali garantita dall’art. 119 Cost. costituisce la «pietra angolare del sistema», quale indefettibile presupposto per il finanziamento delle funzioni volte a garantire le «erogazioni necessarie alla soddisfazione dei bisogni pubblici»[3].

La formulazione vigente dell’articolato è il risultato dell’integrale riscrittura realizzata dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 di riforma dell’intero Titolo V e delle successive modificazioni apportate dalla legge costituzionale n. 1 del 2012 sull’equilibrio di bilancio.

Che l’autonomia finanziaria costituisca la questione nell’attuazione delle prescrizioni costituzionali sulle relazioni tra centro e periferia era già ben presente al Costituente. Infatti, l’originario art. 119 Cost. attribuiva alle Regioni «tributi propri e quote di tributi erariali, in relazione ai bisogni […] per le spese necessarie ad adempiere le loro funzioni normali». Nondimeno, le disposizioni in parola commisuravano tale autonomia alle funzioni «normali», vale a dire a quelle “ordinarie”, che erano determinate dalla legge dello Stato[4]. Tutto ciò finiva per innescare nella legislazione attuativa statale un circolo vizioso che faceva di quella regionale una finanza di carattere integralmente derivato (basata, cioè, sui trasferimenti erariali), in sostanziale elusione del disposto costituzionale. Inoltre, secondo l’originario art. 119 Cost., alle leggi della Repubblica era affidata la funzione di «coordinare l’autonomia finanziaria regionale con la finanza dello Stato, delle Province e dei Comuni»: il legislatore statale era tenuto a fissare i principi rivolti a disciplinare (e delimitare) l’autonomia degli enti locali[5]. A ciò si aggiunga che alla legge statale spettava altresì il compito di assegnare eventuali «contributi speciali» con vincolo di destinazione «per provvedere a scopi determinati, e particolarmente per valorizzare il Mezzogiorno e le Isole», nonché di disciplinare in via esclusiva il demanio e il patrimonio regionale.

In tale quadro di riferimento, l’effettivo sviluppo della finanza territoriale è stato storicamente delimitato da una legislazione statale che ha segnato la netta prevalenza del modello di finanza derivata. Essa affonda le radici nella riforma tributaria dell’inizio degli anni Settanta (legge n. 825 del 1971), caratterizzata da un’accentuata centralizzazione delle imposte e del prelievo. Il sostegno finanziario alle Regioni e agli enti locali era conseguentemente affidato a un duplice sistema di trasferimenti statali, mentre le entrate proprie venivano confinate a una dimensione irrilevante[6]. Tutto ciò ha costantemente condizionato in senso restrittivo la potestà legislativa e amministrativa delle Regioni e le loro scelte di indirizzo. L’esigua consistenza dell’autofinanziamento regionale e la netta prevalenza di trasferimenti erariali hanno reso gli enti sub-statali, pur autonomi nell’impiego dei fondi, dipendenti dal centro, con l’effetto di produrre la dissociazione tra potere impositivo e potere di spesa e appannare la responsabilità politica e finanziaria dei diversi livelli territoriali di governo[7].

Diversa la prospettiva adottata dalla riforma costituzionale del 2001 (successivamente integrata dalle modifiche del 2012) dichiaratamente rivolta a:

  1. a) affermare l’autonomia di entrata e di spesa per tutti gli enti sub-statali nel rispetto dell’equilibrio di bilancio e dei vincoli derivanti dal diritto dell’Unione europea (art. 119, primo comma, Cost.);
  2. b) assicurare l’autosufficienza finanziaria dei diversi livelli territoriali di governo per lo svolgimento delle funzioni pubbliche ad essi affidate (principio di necessaria connessione tra funzioni e risorse) mediante tre strumenti: tributi propri; «compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio»; risorse derivanti dal fondo perequativo, istituito dalla legge dello Stato, «senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante» (art. 119, commi secondo, terzo e quarto, Cost.);
  3. c) prevedere «risorse aggiuntive» e «interventi speciali» in favore degli enti «per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni» (art. 119, quinto comma, Cost.);
  4. d) assicurare agli enti territoriali un proprio patrimonio e consentire ad essi il ricorso all’indebitamento soltanto per le spese di investimento, «con la contestuale definizione di piani di ammortamento e a condizione che per il complesso degli enti di ciascuna Regione sia rispettato l’equilibrio di bilancio» (art. 119, sesto comma, Cost.).

I principi costituzionali richiamati prescrivono il superamento del carattere derivato della finanza territoriale e la piena affermazione dell’autonomia finanziaria di entrata e di spesa funzionale a sorreggere le autonomie in coerenza con l’art. 5 Cost. Contrariamente alle norme costituzionali originarie, la stessa funzione di coordinamento finanziario, attribuita alla potestà legislativa concorrente, non dovrebbe più consentire al legislatore statale di determinare gli elementi costituitivi, le forme e i limiti della finanza decentrata, bensì soltanto il quadro dei principi fondamentali dell’intera finanza pubblica nel rispetto delle garanzie costituzionali poste a tutela del decentramento istituzionale e delle corrispondenti forme e modalità di autonomia finanziaria di entrata e di spesa[8]. Al contempo, alla piena valorizzazione dell’autonomia finanziaria corrisponde l’affermazione di inderogabili istanze unitarie soprattutto attraverso la valorizzazione degli obblighi costituzionali di perequazione, quale caratteristica strutturale dei sistemi di autonomia finanziaria, rivolti ad attenuare le asperità fiscali e i divari territoriali e a garantire l’eguaglianza dei diritti costituzionali.

Nel complesso, l’art. 119 Cost. fornisce coerente seguito sul versante dell’autonomia finanziaria a quella visione dinamica del sistema di distribuzione delle funzioni prevista dal Titolo V Cost., imperniata sui principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, e costantemente bilanciata dai valori dell’unità giuridica ed economica e dalla garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP).

All’indomani revisione dell’art. 119 del 2001, autorevole dottrina osservava che «pochi si sono resi conto dell’ampiezza di questa riforma e del forte impatto che è destinata ad avere sulla struttura e sulla gestione dei pubblici poteri, centrali e periferici, e sulla stessa vita economica e sociale»[9].

In effetti, sul lato delle spese la scelta di affidare il coordinamento della finanza pubblica alla competenza legislativa concorrente – successivamente “corretta” dalla giurisprudenza costituzionale che ha finito per assimilarla agli ambiti di competenza legislativa statale – lasciava prefigurare spazi consistenti per la legge regionale, al di fuori della legislazione statale di principio, soprattutto in ordine al coordinamento dell’esercizio della potestà finanziaria e impositiva degli enti locali[10].

Sul lato delle entrate, si poteva affermare attraverso una convincente interpretazione sistematica delle norme costituzionali che «il nuovo Titolo V conosce […] due sistemi tributari primari [quello statale e quello regionale] e un sistema tributario “secondario”, quello locale, che si inserisce a sua volta all’interno di quello regionale»[11].

  1. Il “congelamento” dell’autonomia finanziaria e la funzione di coordinamento della finanza pubblica sino alla legge n. 42 del 2009 sul federalismo fiscale

A fronte di tali legittime aspettative, il quadro costituzionale del 2001 è stato interpretato in tutt’altra direzione nel ventennio seguente. In estrema sintesi, la realizzazione del pluralismo istituzionale paritario imperniato sui principi di sussidiarietà e di leale collaborazione non è stata adeguatamente accompagnata dal legislatore e ha progressivamente lasciato il posto ad un incisivo accentramento non soltanto delle competenze ma anche della finanza e dei tributi soprattutto a seguito della crisi economico-finanziaria del 2011, successivamente acuito dall’esigenza di contrastare la pandemia.

Andando per ordine, occorre anzitutto rilevare che all’autonomia finanziaria e tributaria predicata per tutti i livelli di governo dall’art. 119, primo comma, Cost., corrisponde una differenziata potestà normativa: potestà legislativa esclusiva dello Stato in ordine al «sistema tributario e contabile dello Stato» e alla «perequazione delle risorse finanziarie» (art. 117, secondo comma, lett. e), Cost.); potestà concorrente sul «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario» (art. 117, terzo comma, Cost.)[12]; potestà regolamentare degli enti locali, sia pure con tutti i limiti indicati dalla giurisprudenza costituzionale, che ha costantemente negato che la disciplina del sistema tributario degli enti locali spetti alla potestà legislativa residuale delle Regioni[13].

Le norme costituzionali presuppongono quindi l’esercizio della funzione di coordinamento del sistema finanziario e tributario giusto il disposto degli artt. 117, terzo comma, e 119, secondo comma, Cost., trovando detta funzione ulteriore conferma nelle istanze unitarie ripetutamente valorizzate dalla Corte, nonché, nella fase più recente, nei rinnovati parametri costituzionali (art. 81, 97, 117 e 119 Cost.), come modificati dalla legge costituzionale n. 1 del 2012 sull’equilibrio di bilancio.

Di fronte a questa scissione tra potestà impositiva propria di ciascun livello di governo e differenziata potestà legislativa, svolgendo una delicata funzione di supplenza[14], la Corte costituzionale, ha individuato nella legge statale di coordinamento la precondizione per poter procedere all’attuazione del disegno autonomistico[15], sottolineando la necessità di estendere i principi di coordinamento all’intero sistema delle autonomie territoriali al fine di conseguire l’equilibrio unitario della finanza pubblica e preservare la coerenza del sistema tributario[16].

            A partire dalle sentt. n. 296, n. 297 e n. 311 del 2003 e n. 37 del 2004, la Corte ha infatti affermato che l’attuazione dell’art. 119 Cost. – e, più in generale, del Titolo V Cost.[17] – richiede la necessaria premessa dell’intervento di coordinamento del legislatore statale, il quale deve non soltanto fissare i principi cui il legislatore regionale è tenuto ad attenersi, ma anche determinare le grandi linee dell’intero sistema tributario, definendo, nel contempo, gli spazi e i limiti entro i quali può esplicarsi la potestà impositiva di Stato, Regioni ed enti locali; sicché «non è ammissibile, in materia tributaria, una piena esplicitazione di potestà regionali autonome in carenza della fondamentale legislazione di coordinamento dettata dal Parlamento nazionale»[18].

In questa prospettiva, la giurisprudenza costituzionale si è costantemente mossa lungo la direttrice di armonizzare la potestà impositiva degli enti sub-statali con le esigenze di coordinamento, soprattutto nell’inerzia del legislatore rispetto alla determinazione dei principi fondamentali della finanza pubblica e del sistema tributario. La Corte ha infatti costantemente affermato che, contrariamente alle altre materie di potestà concorrente[19], detti principi non sono desumibili dalla legislazione esistente, perché «incorporati in un sistema di tributi governato dallo Stato»[20].

Sul lato delle entrate, il Giudice delle leggi ha quindi escluso l’immediata attivazione della potestà impositiva di Regioni ed enti locali. Muovendo dal presupposto che l’art. 117, secondo comma, lett. e), Cost. assuma come oggetto della competenza legislativa esclusiva statale tutta la materia del «sistema tributario dello Stato», la Corte ha infatti riconosciuto alle Regioni una potestà impositiva soltanto in via residuale e di risulta, vale a dire limitatamente all’istituzione di tributi regionali propri in senso stretto[21]. Basti pensare a quella giurisprudenza che non consente il dispiegarsi della potestà legislativa regionale concorrente in materia tributaria e di coordinamento finanziario senza una legge che indichi i principi fondamentali della materia[22], in deroga rispetto ad un consolidato orientamento della Corte[23]; o a quella giurisprudenza che ha respinto le interpretazioni “regionaliste” orientate a riconoscere una potestà legislativa regionale residuale sul sistema tributario degli enti territoriali[24].

È soltanto con la sent. n. 102 del 2008 che la Corte ha segnato limiti all’espansione della funzione di coordinamento, consentendo al legislatore statale e a quello regionale di intervenire negli ambiti di rispettiva competenza e riconoscendo che le Regioni possono istituire tributi propri «anche in mancanza di un’apposita legge statale di coordinamento, a condizione, però, che essi, oltre ad essere in armonia con la Costituzione, rispettino ugualmente i princípi dell’ordinamento tributario»[25].

Analogamente, sul lato delle spese, assumendo la determinazione dei principi fondamentali di coordinamento quale condizione preliminare all’attuazione dell’art. 119 Cost.[26], la giurisprudenza costituzionale ha imposto incisive limitazioni di spesa agli enti autonomi[27].

In definitiva, nell’inerzia del legislatore nella determinazione dei principi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, la giurisprudenza costituzionale ha preservato quelle imprescindibili istanze di unità e garantito quella fondamentale funzione di coordinamento, limitando però l’autonomia finanziaria e tributaria degli enti territoriali sia sul lato dei poteri tributari sia su quello dei poteri di spesa[28].

Dichiaratamente rivolta all’attuazione dell’art. 119 Cost., la legge n. 42 del 2009 poneva fine all’inerzia del legislatore – responsabile della «fase di “quiescenza” dell’autonomia finanziaria»[29] – e assicurava l’introduzione di istituti per l’attuazione dei principi costituzionali. Basti pensare al principio di territorialità per le modalità di attribuzione agli enti sub-statali del gettito dei tributi e delle compartecipazioni; alla fiscalizzazione dei trasferimenti erariali, alla transizione dal criterio della spesa storica a quello dei costi standard nella determinazione delle risorse finanziarie necessarie allo svolgimento delle funzioni, capace di introdurre criteri omogenei di misurazione del costo delle funzioni e ridurre le inefficienze allocative; all’introduzione di forme “premiali” di fiscalità di vantaggio per gli enti c.d. “virtuosi”.

Ad ogni modo, la legge n. 42 del 2009 e i relativi decreti legislativi attuativi hanno trovato difficile attuazione anche in ragione della sopravvenuta crisi economico-finanziaria del 2011-2012 e della successiva crisi pandemica che hanno indotto Governo e Parlamento a realizzare un incisivo accentramento nel governo dei conti pubblici.

In questo contesto, è divenuta sempre più incisiva la funzione di coordinamento della finanza pubblica che consente allo Stato di garantire l’apporto delle autonomie territoriali al conseguimento degli obiettivi di governo dei conti pubblici[30]. Nelle relazioni tra i diversi livelli territoriali di governo essa ha seguito molteplici direttrici, incidendo sugli ambiti organizzativi e funzionali delle autonomie territoriali, tanto più nella c.d. legislazione della crisi economico-finanziaria degli ultimi dieci anni – ora acuita dall’emergenza sanitaria – in cui le misure di coordinamento sono da tempo diventate per gli enti sub-statali obblighi di contenimento della spesa[31].

  1. L’introduzione dell’equilibrio di bilancio nell’art. 119 Cost. e i suoi riflessi sull’autonomia finanziaria

Le tendenze richiamate si sono consolidate a seguito della legge costituzionale n. 1 del 2012 che, tra l’altro, ha modificato le norme costituzionali in commento favorendo la posizione di preminenza dello Stato nei confronti delle autonomie quanto all’indirizzo finanziario mediante i seguenti elementi: a) la revisione dell’art. 119, primo comma, Cost. e il comma premesso all’art. 97 Cost. che richiamano gli enti territoriali e il complesso delle pubbliche amministrazioni (dunque, anche quelle regionali) ad assicurare l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico[32]; b) la materia «armonizzazione dei bilanci pubblici» transita dalla potestà legislativa concorrente a quella esclusiva statale; c) viene posta una riserva di competenza, speciale ed esclusiva, in favore della legge statale “rinforzata” (approvata, cioè, a maggioranza assoluta delle Camere) in ordine alla determinazione delle norme fondamentali e dei criteri volti ad assicurare il precetto dell’equilibrio e la sostenibilità delle finanze pubbliche (legge n. 243 del 2012).

Come accade in ogni sistema policentrico, in cui è lo Stato a controllare la “leva” dell’indebitamento, la costituzionalizzazione di tali principi si è rivelata ragionevolmente più rigorosa nei confronti delle Regioni e degli enti locali. Da un lato il decisore politico locale è responsabilizzato dall’introduzione del precetto dell’equilibrio, che costituisce strumento di valorizzazione della responsabilità politica e della responsabilità di mandato nella gestione delle risorse[33]. Dall’altro lato, però, l’interpretazione particolarmente restrittiva delle spese di investimento consentite agli enti locali (artt. 9 e 10 della legge n. 243 del 2012) e le regole contabili sul “calcolo” dell’equilibrio (voci di entrata e di spesa di cui occorre tenere conto ai fini del rispetto o meno del precetto) non hanno consentito margini di maggiore elasticità alle politiche di bilancio degli enti sub-statali, nonostante taluni significativi orientamenti della giurisprudenza costituzionale rivolti a preservare «spazi finanziari» per le autonomie territoriali idonei a garantire la programmazione delle risorse secondo principi di proporzionalità e adeguatezza rispetto alle funzioni ad essi affidate[34].

Il rinnovato quadro costituzionale ha così concorso a favorire una legislazione finanziaria statale che in talune fasi ha avvalorato veri e propri “tagli lineari” che perseguono finalità opposte al miglioramento delle priorità allocative (c.d. spending review), finendo per imporre riduzioni della spesa per i servizi.

In particolare, di fronte al deflagrare della crisi economico-finanziaria del 2011-2014, la giurisprudenza costituzionale ha tendenzialmente avallato la compressione dell’autonomia finanziaria, con l’effetto, ad esempio, di:

  1. a) limitare la spesa corrente degli enti sub-statali, con particolare riferimento alla spesa per il personale[35];
  2. b) ridimensionare il “peso” degli enti locali sulla finanza pubblica, anche con riguardo alla gestione associata di funzioni degli enti locali e alle “unioni di comuni”[36];
  3. c) assicurare il rispetto della veridicità e dell’attendibilità delle leggi regionali di bilancio, nonché del processo di armonizzazione dei bilanci degli enti territoriali ritenuto strettamente funzionale al coordinamento finanziario[37].

In estrema sintesi, la riforma del 2012 ha favorito un processo di responsabilizzazione del decisore regionale per l’andamento dei conti pubblici, ma, al contempo, ha reso maggiormente incisivi vincoli e limiti opponibili all’intera finanza pubblica in connessione alle istanze unitarie, con l’effetto di conformare l’autonomia[38].

Il rinnovato art. 119 Cost. ha conseguentemente costituito uno dei parametri costituzionali fondamentali ai fini del rafforzamento del sistema dei controlli sulla finanza territoriale affidati alla Corte dei conti quale organo terzo ed imparziale di garanzia dell’equilibrio economico-finanziario del settore pubblico e della corretta gestione delle risorse collettive[39]; controlli resi progressivamente opponibili anche alle autonomie speciali[40].

  1. Il nodo pendente della finanza delle autonomie speciali e l’eventuale finanziamento del regionalismo differenziato

Rispetto ai principi dell’art. 119 Cost., proprio la finanza delle autonomie speciali meriterebbe ulteriore approfondimento. Se il modello costituzionale di autonomia finanziaria delineato dalle norme in commento per le Regioni a statuto ordinario è “aperto” alle scelte del legislatore e inattuato nei suoi elementi prescrittivi, la prospettiva cambia per il modello di finanza delle autonomie speciali che si connota per una maggiore “rigidità”, in quanto le entrate sono quantificate in percentuale predeterminata, e così vengono assicurate, in linea generale, risorse maggiormente “certe” rispetto a quelle nella disponibilità delle Regioni ordinarie. In un contesto in cui gli statuti speciali non stabiliscono alcuna connessione tra risorse e funzioni, lo sviluppo delle relazioni finanziarie tra Stato e autonomie speciali ha seguito un percorso sostanzialmente inverso a quello prefigurato dall’art. 119 Cost. per le Regioni di diritto comune e sempre più di carattere “negoziale” mediante la valorizzazione degli accordi bilaterali.

Di fronte alla crisi, dapprima economica e poi pandemica, lo Stato ha “forzato” le relazioni finanziarie cercando di fissare in via diretta vincoli rispetto e alle modalità di impiego delle risorse, discostandosi dal principio dell’accordo, con il sostanziale avallo della giurisprudenza costituzionale.

Una recente e significativa frontiera del coordinamento finanziario si esprime nelle norme statali di c.d. auto-coordinamento, mediante le quali viene demandata ad un’intesa in Conferenza Stato-Regioni tra tutte Regioni (ordinarie e speciali) la definizione dei rispettivi oneri per il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, ferma restando la necessità di adottare, agli stessi fini, accordi bilaterali con ciascuna autonomia speciale (non legati ai risparmi richiesti sulla spesa sanitaria, che le autonomie speciali finanziano autonomamente). Tale orientamento potrebbe essere adottato anche nell’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) per l’impiego delle risorse a livello regionale. In caso di mancata stipula di tali accordi e di mancata partecipazione delle Regioni speciali all’intesa in Conferenza sul riparto delle risorse, gli oneri conseguenti ricadono automaticamente soltanto sulle Regioni di diritto comune al fine di preservare i saldi complessivi della manovra finanziaria. In tal modo, le relazioni finanziarie tra Stato e autonomie speciali rischiano, almeno in talune circostanze, di produrre effetti sul principio di connessione tra funzioni e risorse di tutti gli enti sub-statali, in forza di norme di coordinamento che incidono, sia pure con un diverso grado di intensità, tanto sulle Regioni di diritto comune quanto sulle autonomie speciali.

In questo contesto, in un sistema a finanza ancora largamente derivata, comune a tutti gli enti sub-statali, di fronte alla crisi economica e a quella pandemica, pur nelle indubbie forzature del legislatore statale, ci si dovrebbe chiedere come la distribuzione delle risorse, disposta dalla legislazione finanziaria statale, possa essere adeguatamente rivolta a garantire che i diritti dei singoli cittadini non siano eccessivamente differenziati in base all’appartenenza territoriale sino a pregiudicare il finanziamento dei livelli essenziali.

In questa prospettiva, paiono particolarmente incisivi gli orientamenti della giurisprudenza costituzionale degli ultimi anni che valorizza i doveri di solidarietà per affermare la responsabilità che incombe su tutti i cittadini, a prescindere dall’appartenenza territoriale, di fornire il proprio contributo al risanamento e alla coesione sociale e territoriale. Tale orientamento manifesta l’esigenza – che dovrebbe essere garantita anzitutto in sede politica – di preservare l’equa ripartizione delle misure di contenimento della spesa e di impego delle risorse tra tutte le Regioni, ordinarie e speciali, così da salvaguardare, nel rispetto dell’ordine costituzionale delle competenze, almeno un certo livello di omogeneità dei diritti[41].

Le considerazioni sin qui svolte possono essere trasposte anche sul piano del finanziamento del regionalismo differenziato qualora si decidesse di procedere all’attuazione dell’art. 116, terzo comma, Cost.

I principi posti dall’art. 119 Cost. dovrebbero infatti valere come “vincolo di sistema” anche nell’attuazione dell’art. 116, terzo comma, Cost. sotto un duplice profilo: a) la Regione che chiede di acquisire ulteriori competenze dovrebbe presentare caratteristiche finanziarie idonee a sostenere le ulteriori funzioni (debito pubblico sostenibile; capacità fiscale adeguata; finanza locale equilibrata; assenza di piani di rientro dal disavanzo sanitario); b) dovrebbe essere rispettato il principio di corrispondenza tra funzioni e risorse tanto nei confronti delle Regioni che sono beneficiarie della differenziazione, quanto nei confronti dello Stato su cui non possono essere “scaricati” costi aggiuntivi per le funzioni che devono essere garantite nelle altre Regioni, evitando, cioè, di invertire la sequenza costituzionalmente presupposta tra l’identificazione delle funzioni e il relativo finanziamento.

Ciò posto, la scelta degli strumenti di finanziamento delle ulteriori competenze dovrebbe essere necessariamente adeguata ai precetti dell’art. 119 Cost. e quindi basata su strumenti di finanza autonoma: compartecipazioni al gettito di tributi erariali e/o riserve di aliquota[42].

  1. La perdurante inattuazione dei principi costituzionali tra crisi economica e crisi pandemica

A vent’anni dalla riforma del Titolo V l’assetto delle relazioni finanziarie tra centro e periferia dipende ancora in larga misura dalle scelte del legislatore statale ed è ben lungi dal garantire “certezza” delle risorse ai diversi livelli territoriali di governo per il finanziamento delle funzioni e delle prestazioni nel rispetto dell’ordine costituzionale delle competenze e del principio di leale collaborazione.

In questo contesto, occorrerebbe procedere all’attuazione dei precetti dell’art. 119 Cost., trattandosi, tra l’altro, di disciplina costituzionale largamente condivisa – mai messa in discussione dai numerosi progetti di riforma susseguitisi dal 2001 ad oggi – e pacificamente assunta come indefettibile presupposto ai fini dell’attuazione del Titolo V.

Non poche delle prescrizioni contenute nell’art. 119 Cost. non hanno ancora trovato attuazione con l’effetto di non consentire il pieno funzionamento del sistema prefigurato dalla legge costituzionale n. 3 del 2001. Ciò dovrebbe suggerire a Governo e Parlamento una scelta chiara o nel senso della piena attuazione delle prescrizioni costituzionali – opzione qui sostenuta – o, all’opposto, se la prassi legislativa spesso contrastante con alcuni dei precetti dell’art. 119 Cost. fosse invece ritenuta un “sintomo” della inadeguatezza delle norme costituzionali, nel senso del ridimensionamento dell’autonomia finanziaria degli enti sub-statali. Al di là delle concrete scelte di politica costituzionale, ciò che è necessario evitare è il perdurante disallineamento tra i principi costituzionali e talune tendenze della legislazione finanziaria, anche al fine di salvaguardare la prescrittività dell’art. 119 Cost.[43].

Distinguendo “lato” delle spese e “lato” delle entrate degli enti sub-statali, quanto al primo occorre anzitutto ricordare che, specie dagli anni della c.d. legislazione della crisi (2011-2014), il coordinamento della finanza pubblica e l’armonizzazione dei bilanci hanno impresso una forza accentratrice al riparto di competenze consentendo l’interferenza statale con qualsiasi titolo di competenza regionale. Il coordinamento finanziario può ormai esplicarsi mediante la predisposizione di vere e proprie limitazioni frapposte allo svolgimento dell’autonomia, allorché si tratti di determinare il bilancio degli enti territoriali: nel suo complesso, nel rapporto tra entrate e spese, nelle singole voci che lo compongono e nelle riduzioni di spesa annualmente commisurate rispetto all’esercizio finanziario precedente, imposte da norme statali sempre più puntuali e dettagliate. Sicché, pur affermando che gli effetti “emergenziali” delle crisi non possono determinare l’alterazione dell’ordine costituzionale delle competenze[44], anche la giurisprudenza costituzionale ha favorito la progressiva espansione del coordinamento finanziario, imponendo forti limitazioni di spesa degli enti sub-statali[45].

In questo contesto, a meno di non vanificare le prescrizioni costituzionali sull’autonomia finanziaria, occorrerebbe anzitutto saggiare gli orientamenti della legislazione finanziaria statale con riguardo alla loro compatibilità con l’art. 119 Cost.

Una prima linea di intervento sul lato della spesa potrebbe essere quindi quella di innalzare il livello di generalità dei principi del coordinamento finanziario, recuperando gli originari orientamenti della giurisprudenza costituzionale[46] e affidando così alla legislazione statale il compiuto di fissare limiti riferibili a macro-grandezze di finanza pubblica capaci, cioè, di assicurare la partecipazione delle autonomie al conseguimento degli obiettivi senza però imporre dettagliati vincoli alle singole voci di bilancio degli enti. Tale orientamento potrebbe rivelarsi utile anche nella prospettiva di un maggior coinvolgimento delle Regioni nella fase di attuazione del PNRR.

Una seconda direttrice dovrebbe riguardare la verifica della sussistenza di fondi statali con vincolo di destinazione in materie di potestà legislativa regionale al fine di comprendere sino a che punto risorse trasferite a destinazione vincolata (ad esempio per politiche sociali o sanitarie) possano ritenersi compatibili con i principi costituzionali sull’autonomia finanziaria. Negli ultimi anni la giurisprudenza costituzionale appare meno rigorosa rispetto agli orientamenti assunti all’indomani dell’entrata in vigore del Titolo V (e quindi maggiormente incline a riconoscere deroghe al divieto di istituire fondi vincolati), ma il principio dell’incompatibilità dell’autonomia finanziaria con i fondi statali vincolati andrebbe comunque valutato alla stregua di un’analisi della vigente legislazione finanziaria statale, anche alla luce delle possibili interferenze con le risorse messe a disposizione in determinati ambiti materiali dal PNRR, come dimostra la tendenza in atto nella recente decretazione d’urgenza quanto all’organizzazione della c.d. Cabina di regia e ai procedimenti di impiego delle risorse di derivazione europea che vedono un coinvolgimento non sempre adeguato degli enti sub-statali e del sistema delle Conferenze[47].

Una terza direttrice lungo la quale monitorare la legislazione finanziaria statale concerne gli “spazi” che residuano agli enti sub-statali sul lato della spesa. Anche in questo caso occorrerebbe adeguare la legislazione finanziaria statale alle consolidate acquisizioni della giurisprudenza costituzionale secondo la quale: l’eventuale riduzione delle risorse destinate alle autonomie deve essere temporanea e parametrata alle funzioni; lo Stato deve garantire il concorso al finanziamento dei livelli essenziali nelle fasi avverse del ciclo economico[48]; il contributo degli enti territoriali agli obiettivi di finanza pubblica deve essere assicurato nel rispetto dei principi di coordinamento e della legge rinforzata di attuazione dell’art. 81 Cost., senza che lo Stato possa imporre ulteriori oneri alle autonomie[49].

Guardando al “lato” delle entrate, quanto al versante regionale il diritto vigente (legge n. 42 del 2009 e decreti legislativi attuativi) prevede che le funzioni connesse ai LEP dovrebbero essere finanziate mediante addizionale IRPEF, compartecipazioni all’IVA, tributi propri derivati e quote del fondo perequativo, mentre le funzioni c.d. “libere” dovrebbero essere finanziate da tributi regionali propri in senso stretto e derivati, da addizionali a tributi erariali e dal fondo perequativo, assicurando la contestuale soppressione dei trasferimenti statali.

Tale sistema di finanziamento non ha trovato applicazione per la scelta politica di mantenere una gestione largamente accentrata delle risorse, come comprovato dai numerosi rinvii contenuti nelle leggi di bilancio degli ultimi anni e in decreti-legge che hanno posposto complessivamente di dieci anni l’applicazione della disciplina vigente sull’autonomia tributaria delle Regioni (sino al 2023 ex art. 31-sexies del decreto-legge n. 137 del 2020; termine originariamente previsto per il 2013)[50].

Pertanto le entrate tributarie delle Regioni a statuto ordinario sono attualmente quelle già vigenti anteriormente alla legge n. 42 del 2009 sul federalismo fiscale. Le possibilità di manovra da parte regionale sulla leva fiscale sono limitate alla determinazione delle aliquote entro una forbice fissata dalla legge dello Stato e – in alcuni casi – alla facoltà di differenziare i soggetti passivi (per scaglioni di reddito per l’addizionale IRPEF, per categorie economiche per l’IRAP).

Anche sul lato delle entrate occorrerebbe anzitutto adeguare la legislazione statale alle prescrizioni contenute nell’art. 119 Cost. eliminando quelle norme che prevedono meri trasferimenti e assicurando contestualmente incrementi alle risorse proprie degli enti sub-statali per assicurare il rispetto del principio di corrispondenza tra funzioni e risorse.

In secondo luogo, il vigente quadro normativo indica un significativo sottodimensionamento dei tributi propri regionali dal punto di vista non soltanto quantitativo, ma anche qualitativo, incidendo, questi ultimi, sin dai primi tentativi del legislatore regionale, in maniera pressoché irrisoria sull’autonomia dell’ente territoriale[51].

In definitiva, non sono state ancora garantite le condizioni idonee ad assicurare l’effettiva autonomia tributaria regionale e locale, che possono essere individuate nelle seguenti: a) esistenza di ambiti della potestà impositiva adeguati alle esigenze di differenziazione costituzionalmente previste; b) limitazione delle interferenze statali sui tributi regionali.

L’esigenza improcrastinabile è però quella di assicurare l’operatività del fondo perequativo previsto dall’art. 119, terzo comma, Cost., a cui è principalmente affidato l’effettivo adempimento dei doveri costituzionali di solidarietà nella Repubblica delle autonomie. Ad oggi la perequazione è affidata al fondo con carattere generale disciplinato dall’art. 7 del decreto legislativo n. 56 del 2000, nonché a fondi perequativi settoriali come quello concernente la sanità (art. 12 del decreto legislativo n. 502 del 1992), oltre che, per gli enti locali, il Fondo di solidarietà comunale (art. 23 del decreto legislativo n. 68 del 2011). Diverso il caso dei fondi destinati al finanziamento di specifiche funzioni in determinati ambiti materiali (come il trasporto pubblico locale) che costituiscono, in realtà, trasferimenti vincolati.

Il citato d.lgs. n. 56 del 2000 disciplina il riparto del fondo perequativo nazionale in funzione dei trasferimenti alla singola Regione in relazione alla capacità fiscale, alla dimensione geografica della popolazione residente e al fabbisogno per la spesa sanitaria, nonché alla compartecipazione all’IVA, trasferita a ciascuna Regione a seguito delle operazioni di perequazione, e quindi in aumento o in diminuzione rispetto al conteggio iniziale, senza che sia consentito alcun margine di manovrabilità. Al riguardo, apparirebbero maggiormente conformi alle prescrizioni dell’art. 119 Cost. i criteri dettati dall’art. 9 della legge n. 42 del 2009 per la determinazione delle risorse derivanti dal fondo perequativo. Esso deve infatti assicurare il finanziamento della differenza tra il fabbisogno finanziario necessario alla copertura delle spese connesse a materie di competenza legislativa concorrente e regionale, nonché delle spese relative all’esercizio di funzioni amministrative regionali e il «gettito regionale dei tributi ad esse dedicati». È significativo che tra le spese in questione siano incluse quelle rivolte a finanziare i LEP perché da ciò si desume l’intento del legislatore di assicurare le finalità solidaristiche del fondo stesso. A tali fini sarebbe opportuno da un lato estendere, con un’apposita modifica della legge n. 42 del 2009, il meccanismo di perequazione c.d. integrale previsto per le funzioni connesse ai LEP a tutte le funzioni amministrative il cui esercizio e finanziamento non dipende da scelte di autonomia regionale, bensì dalla legislazione statale e, dall’altro lato, completare la transizione al sistema di costi standard per assicurare il principio di connessione tra funzioni e risorse e adempiere i doveri di solidarietà.

Alla luce delle tendenze che si sono manifestate nell’ultimo decennio, ulteriormente acuite dalla pandemia, l’impressione finale e che, nella perdurante inattuazione dell’art. 119 Cost., soltanto il legislatore potrebbe trasferire agli enti sub-statali le risorse necessarie al finanziamento delle funzioni e all’erogazione delle prestazioni.

La soluzione andrebbe quindi ricercata nella valorizzazione delle politiche di concertazione tra Stato e Regioni, e, conseguentemente, delle procedure e delle sedi collaborative che devono garantire un confronto leale sulla definizione delle scelte circa l’entità delle risorse e il loro impiego. All’opposto, le vicende del regionalismo italiano degli ultimi dieci anni mostrano come le intese in Conferenza Stato-Regioni siano ormai prevalentemente limitate ad assicurare il riparto degli oneri che derivano dalla riduzione dei finanziamenti regionali, già previamente e unilateralmente disposti dallo Stato nell’an e nel quantum o alla distribuzione delle risorse per il finanziamento delle funzioni secondo criteri predeterminati dallo Stato, ora anche in relazione all’impiego delle risorse derivanti dall’attuazione del PNRR. Ciò mostra uno scarto evidente tra la valorizzazione degli istituti di leale cooperazione, che dovrebbero sorreggere il confronto politico tra Stato e Regioni ai fini della determinazione delle risorse da distribuire tra centro e periferia in relazione alle funzioni da svolgere, e la pratica effettiva di governo della finanza pubblica con la quale lo Stato impone agli enti territoriali incisivi obiettivi di coordinamento finanziario, con effetti conformativi sull’autonomia.

Ad oggi si deve pertanto osservare la mancata realizzazione del principio collaborativo tra Stato e Regioni nella distribuzione delle risorse, ormai confinata alla fase successiva alla determinazione del quantum delle disponibilità finanziarie, e il rischio di pregiudicare la corrispondenza tra funzioni e risorse necessarie a garantire le prestazioni essenziali.

Alla luce delle tendenze sopra prese in esame, l’impressione finale è che ciò che resta del regionalismo cooperativo sia una contrattazione sulle risorse finanziarie, rivolta a garantire, talora senza successo, i livelli essenziali. Dal canto suo, lo Stato non sempre esercita i poteri sostitutivi quando la garanzia dei diritti scende al di sotto di tale soglia, né le Regioni richiedono tale intervento a garanzia dei livelli essenziali, nonostante i recenti orientamenti della giurisprudenza costituzionale rivolti a garantire il funzionamento dei meccanismi sostitutivi e dei piani di rientro[52].

In via conclusiva, si può osservare che l’aggravarsi della crisi economico-finanziaria ha colto di sorpresa un regionalismo ancora immaturo, interferendo con il già difficile processo di attuazione dell’art. 119 Cost. e del Titolo V, e determinando, all’opposto, un robusto accentramento finanziario e fiscale. In un sistema a finanza ancora largamente derivata o limitatamente compartecipata, spesso combinata a vincoli di destinazione, sono anzitutto le scelte allocative del legislatore statale a condizionare il ventaglio di prestazioni che possono essere fornite dalle Regioni. I vincoli al governo delle finanze pubbliche – ora anche di rango costituzionale – consentono, infatti, allo Stato di richiamare le autonomie territoriali ad assicurare l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico, obbligando le Regioni, in alcuni periodi, a ridurre i servizi. L’incidenza del dato finanziario, dunque, ha amplificato i problemi di governo del sistema plurilivello, determinando spesso il disallineamento tra funzioni e risorse preordinate a garantire i livelli essenziali (o per difetto o – in casi più limitati – per eccesso).

In tale contesto, sarebbero indubbiamente necessarie politiche economiche idonee a promuovere sviluppo e investimenti per soddisfare i bisogni degli enti e colmare i divari territoriali. In questa prospettiva si collocano gli indispensabili programmi di sostegno europei previsti su più linee di intervento: il Next Generation Europe (NGEU) e la sua componente principale costituita dal Recovery Fund, capaci di creare debito europeo di dimensioni inedite senza previa garanzia degli Stati, in larga parte destinati a erogazioni a fondo perduto per finanziare il PNRR.

Tanto più in periodo di crisi, ad un tempo pandemica ed economica, non sembra dunque più sufficiente affermare che lo Stato è garante dell’eguaglianza e le Regioni promotrici della differenziazione, nel ragionevole bilanciamento tra unità e autonomia. Sarebbe piuttosto necessario far valere il principio generale dello Stato costituzionale relativo al nesso tra potere e responsabilità, declinandolo nel rapporto tra i diversi livelli territoriali di governo per assicurare un quadro delle competenze e delle disponibilità finanziarie che consenta ai cittadini di comprendere a chi siano imputabili le scelte politiche e le relative responsabilità.

Note

[1] Al riguardo, significativamente, M. Cecchetti, Art. 119, in La Costituzione italiana. Commento articolo per articolo. Vol. II. Parte II – Ordinamento della Repubblica (Artt. 55-139) e Disposizioni transitorie e finali, a cura di F. Clementi – L. Cuocolo – F. Rosa – G.E. Vigevani, Bologna, il Mulino, 2018, 373.

[2] In questo senso, ad esempio, M.S. Giannini, voce Autonomia (teoria generale e diritto pubblico), in Enc. dir., IV, Milano, Giuffrè, 1959, 362 ss., spec. 365.

[3] Così, C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, vol. II, Padova, Cedam, 1976, 906.

[4] Al riguardo, ad esempio, S. Mangiameli, La nuova parabola del regionalismo italiano tra crisi istituzionale e necessità di riforme, in Id., Le Regioni italiane tra crisi globale e neocentralismo, Milano, Giuffrè, 2013, 94.

[5] Cfr. U. Allegretti, Art. 119, in Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, Art. 114-120, Le Regioni, le Province e i Comuni, tomo I, Bologna-Roma, Zanichelli-Il Foro Italiano, 1985, 352; M. Bertolissi, Artt. 119-120, in V. Crisafulli – L. Paladin, Commentario breve alla Costituzione, Padova, Cedam, 1990, 725.

[6] In questo senso, cfr. L. Paladin, Fondamenti costituzionali della finanza regionale, in Dir. soc., 1973, 852.

[7] Sul punto, v. già M. Bertolissi, L’autonomia finanziaria regionale. Lineamenti costituzionali, Padova, Cedam, 1983, 349 s.; A. D’Atena, Le regioni, tra crisi e riforma, in Quale, dei tanti federalismi?, Atti del Convegno Internazionale organizzato dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università “La Sapienza”, Roma, 31 gennaio – 1 febbraio 1997, a cura di A. Pace, Padova, Cedam, 1997, 16, per il quale tale scissione da un lato limita la possibilità di autonoma determinazione delle politiche regionali e, dall’altro lato, determina deficit di responsabilità politica; nonché G. Fransoni – G. della Cananea, Art. 119, in Commentario alla Costituzione, a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, vol. III, Torino, Utet, 2006, 2362.

[8] Al riguardo, cfr. A. Brancasi, L’autonomia finanziaria degli enti territoriali: note esegetiche sul nuovo art. 119 Cost., in Le Regioni, 2003, 63 ss.

[9] F. Gallo, Il nuovo articolo 119 della Costituzione e la sua attuazione, in Astrid, L’attuazione del federalismo fiscale. Una proposta, a cura di F. Bassanini e G. Macciotta, Bologna, il Mulino, 2003, 155 (cors. ns.).

[10] In questo senso, ad esempio, F. Gallo, Il nuovo articolo 119 della Costituzione e la sua attuazione, cit., 166; L. Antonini, La vicenda e la prospettiva dell’autonomia finanziaria regionale: dal vecchio al nuovo art. 119 Cost., in Le Regioni, 2003, 30 s.

[11] F. Gallo, Il nuovo articolo 119 della Costituzione e la sua attuazione, cit., 159 (cors. ns.). In senso non dissimile circa il riconoscimento di una pluralità di sistemi tributari, cfr. A. Brancasi, L’autonomia finanziaria degli enti territoriali, cit., 47 ss.

[12] Per effetto dell’art. 3 della legge costituzionale n. 1 del 2012 la materia «armonizzazione dei bilanci pubblici» è infatti transitata dalla competenza ripartita a quella esclusiva statale.

[13] Cfr., ad esempio, sentt. n. 296 del 2003, punto n. 2 del “Considerato in diritto”; n. 37 del 2004, punto n. 6 del “Considerato in diritto”.

[14] «Non richiesta e non gradita», come ebbe a definirla l’allora Presidente della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky nella Conferenza stampa annuale per il 2003.

[15] Cfr., in particolare, sent. n. 37 del 2004.

[16] Cfr., ex plurimis, sentt. n. 267 del 2006; n. 179 del 2007; n. 60 del 2013; n. 221 del 2013, n. 23 e n. 88 del 2014; n. 19 e 141 del 2015.

[17] In base allo stesso nesso tra attuazione dell’art. 119 Cost. e attuazione dell’intero Titolo V Cost., delineato dalla Corte costituzionale, la quale, ad esempio nella sent. n. 370 del 2003, punto n. 7 del “Considerato in diritto” ha affermato che «appare evidente che la attuazione dell’art. 119 Cost. sia urgente al fine di concretizzare davvero quanto previsto nel nuovo Titolo V della Costituzione, poiché altrimenti si verrebbe a contraddire il diverso riparto di competenze configurato dalle nuove disposizioni; inoltre, la permanenza o addirittura la istituzione di forme di finanziamento delle Regioni e degli enti locali contraddittorie con l’art. 119 della Costituzione espone a rischi di cattiva funzionalità o addirittura di blocco di interi ambiti settoriali».

[18] Sent. n. 37 del 2004, punto n. 5 del “Considerato in diritto”.

[19] A partire dalla sent. n. 282 del 2002, spec. punto n. 4 del “Considerato in diritto”.

[20] Sent. n. 37 del 2004, punto n. 5 del “Considerato in diritto”.

[21] Al riguardo, cfr. F. Gallo, I principi del federalismo fiscale, in Diritto e pratica tributaria, n. 1/2012, 13; Id., I principi fondamentali di coordinamento del sistema tributario nel federalismo fiscale, in Federalismo fiscale: evoluzione e prospettive, Atti del convegno tenuto a Bari il 6 luglio 2012, a cura di A. Uricchio, Bari, Cacucci Editore, 2013, 33.

[22] Cfr. sent. n. 37 del 2004, spec. punto n. 5 del “Considerato in diritto”.

[23] Cfr., per tutte, sent. n. 282 del 2002.

[24] Cfr. sentt. n. 296, n. 297 e n. 311 del 2003. In dottrina, cfr. A. Brancasi, Per “congelare” la potestà impositiva delle Regioni la Corte costituzionale mette in pericolo la loro autonomia finanziaria, in Giur. cost., 2003, 2562 ss., spec. 2564.

[25] Sent. n. 102 del 2008, punto n. 5.1 del “Considerato in diritto”.

[26] Tra le tante, cfr. sentt. n. 267 del 2006; n. 179 del 2007; n. 60 del 2013.

[27] Ex plurimis, sent. n. 289 del 2008. Sul punto, si vedano le osservazioni critiche di A. Brancasi, Continua l’inarrestabile cammino verso una concezione statalista del coordinamento finanziario, in Le Regioni, 2008, 1235 ss.

[28] Cfr., ad esempio, sentt. n. 296 del 2003; n. 37 del 2004; n. 162 del 2007; n. 289 del 2008.

[29] Secondo la definizione di M. Cecchetti, Art. 119, cit., 375.

[30] Per un approfondimento, cfr. G. Rivosecchi, Il coordinamento della finanza pubblica: dall’attuazione del Titolo V alla deroga al riparto costituzionale delle competenze?, in Il regionalismo italiano tra giurisprudenza costituzionale e involuzioni legislative dopo la revisione del Titolo V, a cura di S. Mangiameli, Milano, Giuffrè, 2014, 147 ss.

[31] Sul punto, cfr. M. Belletti, Corte costituzionale e spesa pubblica. Le dinamiche del coordinamento finanziario ai tempi dell’equilibrio di bilancio, Torino, Giappichelli, 2016, spec. 97 ss.; M. Carli, Diritto regionale. Le autonomie regionali, speciali e ordinarie, Torino, Giappichelli, 2018, 134.

[32] In questo senso, ad esempio, le sentt. C. cost. n. 60 del 2013, n. 39, n. 40, n. 88 e n. 188 del 2014.

[33] Cfr. sentt. C. cost. n. 18 del 2019, spec. punto n. 5.3 del “Considerato in diritto”.

[34] Da sent. n. 184 del 2016 a sent. 101 del 2018.

[35] Cfr. sentt. n. 310 del 2010; n. 68, n. 69, n. 122 e n. 155 del 2011; n. 139 e n. 262 del 2012.

[36] Cfr. sentt. n. 22 e n. 44 del 2014.

[37] Cfr., tra le tante, sentt. n. 390 del 2004; n. 417 del 2005; n. 156 e n. 326 del 2010; n. 51 e n. 138 del 2013.

[38] Al riguardo, cfr. A. Brancasi, Il coordinamento finanziario in attesa della legge sul concorso delle autonomie «alla sostenibilità del debito complessivo delle pubbliche amministrazioni», in Le Regioni, 2012, 1143; M. Cecchetti, Legge costituzionale n. 1 del 2012 e Titolo V della Parte II della Costituzione: profili di contro-riforma dell’autonomia regionale e locale, in Federalismi.it, n. 24/2012, 4 ss.

[39] In questo senso, sentt. C. cost. n. 267 del 2006; n. 60 del 2013; n. 39 e n. 40 del 2014; analogamente, v. anche sentt. n. 179 del 2007; n. 37 del 2011; n. 198 del 2012.

[40] Cfr., in particolare, sentt. n. 88 e n. 188 del 2014.

[41] Cfr., ad esempio, sentt. n. 141 del 2015; n. 154 del 2017 e n. 103 del 2018.

[42] Per un approfondimento di questa prospettiva, cfr. A. Giovanardi, D. Stevanato, Autonomia, differenziazione, responsabilità. Numeri, principi e prospettive del regionalismo rafforzato, Venezia, Marsilio, 2020, 147 ss., spec. 152; nonché G. Rivosecchi, Il regionalismo differenziato, un istituto della Repubblica delle autonomie: perché e come realizzarlo entro i limiti di sistema (19 ottobre 2021), in Diritti regionali – Rivista di diritto delle autonomie territoriali, n. 3/2021, 822 ss.

[43] Sull’esigenza di procedere all’attuazione dell’art. 119 Cost. cfr., di recente, M. Belletti, La razionalizzazione del sistema finanziario multilivello funzionale alla tutela dei diritti sociali. Ragionando sull’attuazione del “federalismo fiscale”, in Federalismi.it, n. 4/2022, 120 ss.

[44] Sentt. n. 148 e n. 151 del 2012 e n. 99 del 2014.

[45] Tra le tante, cfr. sentt. n. 169 e n. 179 del 2007; n. 289 del 2008; n. 69 del 2011; n. 139 del 2012; n. 88 del 2014; n. 143 del 2016.

[46] Cfr., ad esempio, sent. n. 36 del 2004 che fornisce un’ampia motivazione, con diffusi argomenti, per giustificare la facoltà del legislatore statale di limitare il disavanzo e, contestualmente, la spesa corrente complessiva delle Regioni (limitazioni, cioè, non particolarmente incisive).

[47] Cfr., in particolare, il decreto-legge n. 77 del 2021 (Governance del Piano nazionale di ripresa e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure), convertito, con modificazioni, dalla legge n. 108 del 2021.

[48] Sent. n. 235 del 29017.

[49] Cfr. sentt. n. 235 e n. 237 del 2017.

[50] Tali rinvii hanno avuto ad oggetto la disciplina vigente relativa al sistema delle risorse regionali delineato dal decreto legislativo n. 68 del 2011: a) rideterminazione dell’addizionale regionale IRPEF in misura tale da assicurare un gettito corrispondente sia al gettito attuale sia ai trasferimenti statali da sopprimere in base al medesimo decreto legislativo; b) nuova struttura della compartecipazione regionale all’IVA; c) fiscalizzazione di tutti i trasferimenti statali di parte corrente e, ove non finanziati tramite il ricorso all’indebitamento, in conto capitale, alle Regioni a statuto ordinario; d) disciplina del fondo perequativo regionale.

[51] Per un approfondimento, cfr. G. Rivosecchi, Profili di diritto tributario nel contenzioso Stato-regioni (luglio 2016), www.issirfa.cnr.it, Studi e interventi.

[52] Cfr. sent. n. 168 del 2021, spec. punti n. 10.3.1 e n. 10.3.2 del “Considerato in diritto”.

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Guido Rivosecchi è Professore ordinario di Diritto costituzionale all’Università degli Studi di Padova, dove insegna anche Giustizia costituzionale, dopo aver insegnato nelle Università Lumsa di Palermo, Napoli “Parthenope” e del Salento. È stato assistente di studio alla Corte costituzionale. È autore di monografie, saggi e articoli su temi vari del diritto pubblico e costituzionale, quali Parlamento e fonti del diritto, giustizia costituzionale, autonomie territoriali, finanza e contabilità pubblica.

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