L’art. 111 della Costituzione, commi 6, 7, 8

Roma 31-01-2017. Inaugurazione dell?anno giudiziario 2017 del Consiglio di Stato. Nella foto Giovanni Canzio Primo Presidente della Corte Suprema di Cassazione (ROMA - 2017-01-31, Blow Up) p.s. la foto e' utilizzabile nel rispetto del contesto in cui e' stata scattata, e senza intento diffamatorio del decoro delle persone rappresentate

Commento all’art. 111 della Costituzione, commi 6, 7 e 8

di Giovanni Canzio, Primo Presidente emerito della Corte di cassazione e professore presso l’Università Cattolica di Milano 

Art. 111, co. 6 – 7 – 8 – Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati. Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge. Si può derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra. Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione.

Abstract: La legge e la motivazione sono fonte di legittimazione democratica della giurisdizione e dei giudici. Il processo persegue una finalità cognitiva e il giudice ha l’obbligo di giustificare la decisione, sì che questa, all’esito di un ragionamento probatorio svolto nel rispetto delle regole legali e logiche e secondo il criterio del “minimo costituzionale”, non risulti rimessa al mero arbitrio. Il linguaggio del provvedimento, per essere comprensibile dalle parti e dalla comunità di riferimento, deve ispirarsi ai caratteri della sintesi, chiarezza e precisione degli argomenti. Spetta alla Cassazione, nello scrutinio della “violazione di legge”, controllare la legalità e la razionalità dell’operazione decisoria, e, nell’esercizio della funzione nomofilattica, assicurare la tendenziale uniformità e prevedibilità delle decisioni. A fronte della pluralità e della potenziale disarmonia delle nomofilachie della Cassazione, del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, resta aperto l’interrogativo circa l’adeguatezza dell’attuale assetto normativo sul riparto di giurisdizione o, viceversa, l’opportunità di una riforma, pure a Costituzione invariata, in termini di integrazione delle sezioni unite civili con un numero limitato di giudici speciali, se e quando debbano essere trattate «questioni di alto e comune rilievo nomofilattico».

Sommario: I. L’obbligo della motivazione (art. 111, sesto comma). 1. Lo statuto epistemologico della decisione. 2. Motivazione e prova scientifica. 3. Il linguaggio giudiziario. 4. Il criterio del “minimo costituzionale”. II. La nomofilachia e il riparto della giurisdizione (art. 111, settimo e ottavo comma). 1. La violazione di legge e la nomofilachia della Cassazione. 2. La nomofilachia delle tre Corti e il riparto di giurisdizione. 3. Una proposta di riforma.

  1. L’obbligo della motivazione (art. 111, sesto comma)

  1. Lo statuto epistemologico della decisione. In ossequio al modello occidentale del razionalismo critico, la legge (art. 101, comma 2) e la motivazione (art. 111, comma 6) costituiscono il duplice anchorage costituzionale della razionalità del giudicare e le solide fondamenta della legittimazione democratica dei giudici.

Le coordinate del processo moderno, che ne rimarcano lo statuto epistemologico, sono le prove, i fatti, la verità e la giustificazione razionale della decisione. Il processo assolve una funzione cognitiva e di accertamento della verità in ordine ai fatti dedotti in giudizio e il giudice ha il dovere di spiegare le ragioni della decisione attraverso la motivazione del provvedimento. Questa è destinata nel contesto endoprocessuale alle parti e ai difensori e in quello extraprocessuale alla collettività e alla comunità dei giuristi, in una forma di «agire comunicativo» tendenzialmente orientato all’intesa secondo l’etica del discorso argomentativo, cioè in forza di argomenti validi ed efficaci 1.

Per il giureconsulto di Antico Regime la spiegazione delle ragioni della decisione – la motivazione – costituiva un attentato alla certezza del diritto, che era assicurata dall’esegesi arcana e divinatoria del magistrato, il quale, nell’esercizio di una funzione sacrale, era infuso della scientia juris per una sorta di investitura divina. Il giudice non sentenziava “secundum alligata et probata”, bensì “secundum conscientiam”. Nel foro interno, oscuro e inaccessibile, restava annidato il “segreto delle ragioni” sottratte a ogni forma di controllo sia di legalità che di razionalità. N. Fraggianni, noto giurista napoletano del ‘700, si esprimeva in questi termini (Promptuarium excerptorum): “Se si aprisse la strada a’ litiganti di non acchetarsi colle parole del decreto, ma di voler penetrare nel segreto delle ragioni per le quali il giudice si è mosso alla decisione, pochi decreti sussisterebbero; et il mondo forense s’ingarbuglierebbe in maniera da non finirla mai …. Saviamente da’ nostri Legislatori si è stabilito che nella sentenza non si esprimano le ragioni et i Nostri chiamano fatuo quel giudice che nel suo decreto volesse allegarle particolarmente nel fatto; perché se codeste fossero per avventura false, il decreto sarebbe nullo e non passerebbe mai in giudicato”.

La figura di quel giudice, caratterizzata dall’assoluto arbitrio delle scelte, è efficacemente disegnata da F. Rabelais 2 nella persona dell’anziano giudice Bridoye (Brigliadoca), che decide le cause tirando a sorte coi dadi (alea judiciorum) e pervenendo, peraltro, a risultati più stabili e accreditati di quelli dei suoi colleghi.

Questo scenario ci dà la misura dell’impatto rivoluzionario che nella storia della mentalità e delle istituzioni giudiziarie ebbe – e delle accese resistenze che suscitò fra gli stessi giudici – la svolta preilluministica segnata dalla celebre prammatica del Ministro B. Tanucci del 23 settembre 1774. Questa prescriveva ai giudici del Regno di Napoli di spiegare “la ragione di decidere, o siano i motivi su i quali la decisione è appoggiata”, mentre si costituiva nello stesso anno presso quella Università l’Istituto della motivazione delle sentenze, affidato a un altro illustre giurista napoletano, G. Filangieri.

Se questo è il quadro, intriso di opacità e irresponsabilità, del giudizio e della sentenza nell’Antico Regime, i moderni codici del rito disegnano, viceversa, una diffusa rete di regole epistemiche e logiche, al fine di tracciare i “percorsi di verità” che debbono guidare il ragionamento probatorio e le conseguenti valutazioni del giudice nei diversi snodi decisori del procedimento.

L’ordinamento pretende dal giudice non una qualsiasi motivazione sul fatto, ma che egli segua l’itinerario scandito da apposite regole, al fine di definire in termini positivi la relazione fra probabilità e prova. Il giudice perviene alle conclusioni a partire dall’elemento di prova fino al risultato probatorio, avvalendosi del metodo avversativo della confutazione, sulla base di verosimili spiegazioni dell’evento e di adeguati criteri di inferenza probabilistica, di tipo prevalentemente induttivo, dettati da consolidate massime di esperienza (il repertorio di conoscenze empiriche dell’uomo medio che il senso comune utilizza come strumento conoscitivo, laddove non si risolvano in mere congetture o siano contrastanti con metodi e saperi scientifici non controversi), le leggi statistiche, i rilievi epistemologici, le leggi scientifiche di più o meno alto grado di attendibilità empirica.

A coronamento di questo itinerario della ragione si pone, infine, il controllo impugnatorio, sia di merito – l’appello – che di legittimità – il ricorso per cassazione – nelle forme e nei limiti propri di ciascuno di essi, in ordine alla logicità del ragionamento del giudice quanto all’accertamento del fatto e alla correttezza delle inferenze tratte dagli elementi di prova.

Emerge così con chiarezza la funzione cognitiva e lo scopo di verità che il processo moderno persegue, alla stregua non solo della legalità formale del rito ma anche di regole della logica.

La decisione giudiziale, connotata com’è dal ragionamento probatorio, non risulta pertanto rimessa al mero arbitrio. Il giudice è senz’altro libero nella formazione del suo convincimento. Ma ciò significa libertà da ogni condizionamento, pressione o dipendenza, interni o esterni, non certamente arbitrio del decidere.

2. Motivazione e prova scientifica. Nel vedere due filosofi che si affrontano in una disputatio, G.W. von Leibniz invita entrambi a sumere calamos et abacos, le tavolette di calcolo, e attraverso la formalizzazione del linguaggio e dei concetti, a convertirsi in calculatores per risolvere correttamente la controversia. Al “Calculemus” di Leibniz (1684) rispose negli anni ’30 del secolo scorso B.N. Cardoso, giudice della Corte Suprema USA, sostenendo viceversa che “ancora non è stata scritta la tavola dei logaritmi per la formula di giustizia”.

Da almeno due decenni si assiste tuttavia alla decisa irruzione nel processo della prova tecnologica e scientifica, e, ancora più di recente, al progressivo ingresso di varie e inedite forme di intelligenza artificiale, seppure secondo lo standard “debole” dettato dalle fonti sovranazionali e internazionali perché il modello sia coerente con le garanzie dei diritti fondamentali della persona. È indiscutibile che, ai fini dell’accertamento del fatto, la prova scientifica, digitale o informatica sia destinata a svolgere, sempre più, un ruolo di straordinario rilievo nel ragionamento giudiziale, rivelandosi potenzialmente idonea ad accorciare i tempi e gli spazi dei “percorsi di verità” e a ridurre l’area dell’incertezza e del dubbio. Come pure sono evidenti i risultati pratici, in termini di risparmio di tempi e costi, di semplificazione delle procedure e di tendenziale calcolabilità e uniformità delle decisioni, conseguiti dall’impiego del modello matematico-statistico nell’esercizio di quella che viene definita “giustizia predittiva”.

Il giudice, in veste di gatekeeper del procedimento acquisitivo e valutativo della prova, è chiamato a svolgere una difficile e autonoma opera di decostruzione delle assunzioni sottostanti alle proposizioni scientifiche, secondo le peculiari esigenze di giustizia e nell’interesse pratico di risolvere la controversia. Non in veste, quindi, di recettore passivo o di mero consumatore delle tecniche e delle leggi scientifiche, formulate all’esterno ed entrate nel processo tramite l’opera degli esperti o dei consulenti.

Nei casi in cui la teoria o il metodo scientifico non siano consolidati o non godano di indiscussa accettazione della comunità scientifica, sono noti i criteri enunciati nel 1993 dalla Corte Suprema degli USA nella sentenza Daubert v. Merrel Dow Pharmaceuticals, in base ai quali il giudice deve vagliare l’effettiva affidabilità di una teoria o un metodo e di una expert testimony, ai fini della loro ammissibilità come prova scientifica nel processo: la verificabilità mediante esperimenti; la falsificabilità mediante test di smentita con esito negativo; il controllo della comunità di riferimento attraverso la peer review; la conoscenza della percentuale di errore dei risultati; infine, il criterio subordinato e ausiliario della generale accettazione da parte della comunità degli esperti. La Corte di cassazione3, nel condividere i tradizionali criteri enunciati dalla Corte Suprema statunitense, ne ha arricchito la portata, con riguardo alla fase della valutazione della prova scientifica da parte del giudice, aggiungendo l’indipendenza e l’affidabilità dell’esperto, l’ampiezza e il rigore del dibattito critico che ha accompagnato la ricerca, le finalità e gli studi che la sorreggono, l’attitudine esplicativa dell’elaborazione teorica.

Si è forse agli inizi di uno sconvolgente mutamento dello scenario classico della giurisdizione, in un inquieto rimescolamento delle coordinate tipiche dei due paradigmi, “indiziario” e “galileiano” 4, che non si atteggiano più come concettualmente distinti e autonomi? A fronte della complessità tecnica, della fallibilità e della fatica delle tradizionali operazioni giudiziali ricostruttive e valutative del fatto, la postmodernità sta mettendo in crisi l’efficacia e le garanzie del modello del razionalismo critico?

Certo è che risulta accresciuta la pretesa che il giudice, nella pratica giudiziaria, sia un buon ragionatore e un decisore di qualità, richiedendosi un più elevato grado di expertise nell’utilizzo delle tecniche inferenziali del ragionamento e nella verifica degli schemi statistico-probabilistici, acquisiti con l’ausilio della tecnologia digitale, di software informatici e algoritmi predittivi o con l’apporto della robotica e della logica dell’intelligenza artificiale. Trial by probabilities reasoning under uncertainty, quindi. Ma, come avverte G. Shafer, “probability is not about number, is about reasoning5.

3. Il linguaggio giudiziario. La nuova cultura del giusto processo esige un serio cambio di passo nella razionalizzazione del linguaggio dei provvedimenti giudiziari. La trasparenza e la comprensibilità della comunicazione hanno assunto la veste di indicatori di efficacia e qualità di un sistema di giustizia, nel segno dell’uguaglianza di accesso e di trattamento dei cittadini (art. 3 Cost.).

Il linguaggio del giudice è una sorta di metalinguaggio, perché chiamato a decodificare i “significanti” della realtà (le persone, gli oggetti, i documenti, le circostanze), attribuendo a ciascuno di essi il relativo “significato”, a decifrare la complessità e l’opacità di vicende avvenute nel passato (lost facts), a fare da ponte fra i fatti e la qualificazione di rilevanza degli stessi secondo la legge: «Rem tene, verba sequentur» (Catone).

La potenza evocativa e conoscitiva della parola nel dire il diritto esige dunque il buon uso della parola stessa secondo una peculiare formazione del giudice nelle tecniche della scrittura argomentativa (legal writing) e alla stregua di un modello virtuoso di esposizione delle ragioni della decisione, che s’ispiri ai caratteri della sintesi, chiarezza e precisione nello sviluppo degli argomenti.

L’impulso a valorizzare la chiarezza espressiva come elemento funzionale alla qualità della giurisdizione proviene da ineludibili, ripetute e finora inascoltate sollecitazioni anche di origine sovranazionale. Orientano in tal senso plurime e inequivoche linee guida e raccomandazioni di soft law, per le quali la motivazione dei provvedimenti va redatta in un «linguaggio accessibile, semplice e chiaro». Fra le tante: la Magna Carta dei giudici europei del 17/11/2010, par. 16, la Raccomandazione 12/2010 del 17/11/2010 Com. Min. CE, par. 63, le deliberazioni del CSM 5/7/2017, 20/6/2018 e 11/7/2018, i decreti del primo presidente della Cassazione n. 84/2016 e n. 136/2016 e del presidente del Consiglio di Stato del 22/12/2016, i Protocolli d’intesa fra la Corte di cassazione e il CNF o fra il CSM e il CNF ecc.

Con riguardo alle prescrizioni di derivazione legislativa o di elaborazione giurisprudenziale, va richiamato il puntuale dettato dell’art. 3, comma 2, del codice del processo amministrativo («Il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica»), che le sezioni unite civili della Cassazione (n. 642/15 e n. 964/17) hanno definito espressione di un «un principio generale del diritto processuale». Come pure merita di essere menzionata l’affermazione delle sezioni unite penali della stessa Corte (n. 40516/16, P.M. in proc. Del Vecchio), per cui «… 9. L’acritica trasposizione nella sentenza del tenore delle prove, senza l’appropriata spiegazione in ordine ai fatti che si ritengono accertati, costituisce una patologica rottura della sequenza dei momenti dell’operazione decisoria, che rischia di vulnerarne la tenuta logica. Per contro, la chiara visione della sequenza indicata consente di ricondurre l’atto al virtuoso paradigma della chiarezza e concisione. Si segnano e si discutono, ove occorra anche diffusamente, solo i fatti rilevanti e le questioni problematiche, liberando la motivazione dalla congerie di dettagli insignificanti che spesso vi compaiono senza alcuna necessità. ».

Mette conto, inoltre, di rimarcare che lo stile che traspare dalle sentenze della Corte di Giustizia dell’UE e, soprattutto, da quelle della Corte EDU ripudia il sillogismo e l’astrattezza, che sembrano invece impliciti nella struttura della sentenza francese “a phrase unique”. I provvedimenti giudiziari delle due Corti europee non prendono affatto in considerazione l’esistenza di un diritto controverso nell’ermeneutica dei giuristi, non prospettano la soluzione di un problema astratto o di mera interpretazione del diritto, bensì si presentano come applicazione della norma con riferimento allo specifico caso. I destinatari della comunicazione non sono solo le parti, ma la vasta cerchia dei giuristi europei, perché le norme applicabili si situano comunque in un sistema multilivello e richiedono di essere corredate da criteri di applicazione che vanno enunciati in riferimento al caso concreto.

Al riguardo è da richiamare l’attenzione sulla notevole linearità sintattica delle sentenze europee, che ne rende peculiare lo stile e attrattiva la finalità perseguita, anche per un giudice di civil law. Lo schema prevede una parte ‘in Fatto’ ove si inquadra la controversia, in relazione sia al fatto della vita che l’ha originata sia alla sua disciplina da parte del diritto interno, per procedere, nella successiva parte ‘in Diritto’, alla indicazione della regola di diritto sovranazionale applicabile, corredata dai richiami alla precedente interpretazione giurisprudenziale. Si espongono poi le opposte tesi delle parti e le eventuali osservazioni dei Governi, per giungere infine alla enunciazione della conclusione cui è pervenuta la Corte. Attenendosi strettamente allo specifico caso da decidere, il giudice europeo non nasconde di enunciare una regola valida anche per i casi futuri (tra l’altro con efficacia erga omnes nel caso delle sentenze della Corte di Giustizia della UE).

L’ansia dello «scrivere bene» è risolta da I. Calvino 6 lungo alcune direttrici, di cui almeno tre possono costituire utili fonti d’ispirazione perché l’agire comunicativo del giudice si atteggi secondo una composizione armonica e ordinata: – la leggerezza («pensosa»), nel senso della sottrazione di peso alla struttura informativa del racconto, che la rendano comprensibile grazie a un tessuto verbale leggero nella forma e nello stile, nitido, non ridondante, formalistico solo nei limiti dello specialismo necessario (l’antilingua): – la rapidità, nel senso della agilità, messa a fuoco e velocità del ragionamento, frutto di concentrazione costruttiva, sobrietà, economicità ed essenzialità degli argomenti; – l’esattezza, in funzione di un disegno dell’opera ben definito, nitido e incisivo, preciso e calcolato nei limiti e nelle misure, realizzato sulla base di un ordine o mappa geometrica degli argomenti (per capi, punti, paragrafi e sottoparagrafi numerati, frasi brevi e coordinate nel rispetto delle regole della grammatica e della sintassi).

Laddove il giudice si atteggi, al contrario, ad analizzare e prendere posizione su una questione di diritto che sia controversa nell’ambito del ristretto ceto dei giuristi o degli accademici, si assiste a motivazioni dense di citazioni e riferimenti a indirizzi giurisprudenziali o a correnti di pensiero dottrinale. La struttura e il linguaggio complessivo del provvedimento giudiziario non traguardano l’obiettivo della concisione e della linearità sintattica, assumendo le forme ellittiche delle sentenze-trattato, ove si smarrisce il senso e la dimensione reale del fatto dell’esistenza da regolare. Disfunzionale rispetto alle obiettive finalità della motivazione, il discorso argomentativo alla base del decisum diventa tortuoso fino al punto, talora, di risultare incomprensibile persino ai giuristi di professione.

G. Galilei sosteneva che «parlare oscuramente lo sa fare ognuno, ma chiaro pochissimi» e oltre un secolo fa V. Scialoja ricordava che «il diritto è arte di tracciare limiti». Parafrasando P. Calamandrei potrebbe dirsi: «Utile è quell’avvocato [quel magistrato] che parla lo stretto necessario e che scrive chiaro e preciso La brevità delle difese scritte e orali [della motivazione] è forse il mezzo più sicuro per vincere le cause [per rendere comprensibile la giustificazione della decisione]».

Scrivere bene e breve, dunque!

4. Il “minimo costituzionale” della motivazione. Quanto ai riflessi sul terreno delle impugnazioni, solo una motivazione in fatto, rigorosamente costruita con riguardo alla tenuta sia informativa che logica della decisione, può costituire l’effettivo paradigma devolutivo sul quale posizionare con solidità tanto la facoltà di impugnazione delle parti quanto i poteri di cognizione di quel giudice. Anche per questo aspetto sembra lecito pretendere che i protagonisti del processo (che è luogo della ragione) espongano con un linguaggio chiaro e preciso gli specifici argomenti – «le ragioni di fatto e di diritto» – a sostegno, prima, della soluzione decisoria e, poi, del gravame critico avverso la stessa.

Il problema riguarda sia lo stile della motivazione che il requisito minimo che essa deve possedere perché il relativo dovere costituzionale sia compiutamente assolto. In altri termini, l’obbligo che vincola il giudice a giustificare l’operazione decisoria implica che egli esprima giudizi che siano frutto dell’utilizzo di criteri razionali e di argomenti giuridici, collegati al caso concreto, analizzato e ricostruito secondo parametri di legalità e logicità.

Con riguardo al giudizio penale, il codice di rito, recependo a grandi linee il sistema accusatorio, disegna un vero e proprio modello di motivazione in fatto della sentenza. Il giudice organizza lo schema del ragionamento probatorio nell’intreccio fra fatto, diritto, prove e inferenze probabilistiche, dando conto anche delle prove contrarie, e costruisce una rete di connessioni fra la materialità dei fatti e le valutazioni giudiziali, onde pervenire alla conclusione di conferma o falsificazione dell’enunciato di accusa secondo il criterio dell’ “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Il nucleo informativo essenziale è indicato da un reticolo di norme del codice di rito (artt. 187, 192, comma 1, 546, comma 1 lett. e, 606 lett. e), che fanno da guida al giudice nell’itinerario giustificativo della decisione 7.

A sua volta, l’art. 606 lett. e, al precipuo fine di precludere lo sconfinamento nel giudizio di fatto del sindacato di legittimità della Cassazione sulla motivazione, definisce il perimetro del relativo vizio nei ristretti confini della illogicità manifesta o della contraddittorietà, cui è assimilata la mancanza o la mera apparenza della motivazione.

Con riferimento al giudizio civile, la motivazione, sulla base dei canoni dettati dal novellato art. 132 n. 4 c.p.c. per la sentenza civile, deve rispettare il cosiddetto “minimo costituzionale”. Essa, dopo la riforma della legge n. 69 del 2009, deve racchiudere «la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione». Sicché, secondo l’elaborazione giurisprudenziale di legittimità, non può ritenersi osservato il suddetto criterio nelle ipotesi in cui la motivazione si mostri intrinsecamente così insufficiente e contraddittoria da risultare meramente apparente. In assenza di validi argomenti per sostenere la decisione, essa si rivela come uno strumento dialettico inutilmente retorico, che legittima la parte interessata a reagire deducendo mediante il ricorso per cassazione l’omessa considerazione di un fatto discusso e concretamente rilevante e decisivo per il giudizio, idoneo quindi a mettere in crisi la ricostruzione operata dal giudice di merito (art. 360 n. 5 c.p.c., come novellato dal d.l. n. 83 del 2012).

Un esempio della pregnanza del peso del “precedente” ai fini della motivazione è offerto dall’articolo 360-bis n. 1 c.p.c., pure introdotto dalla l. n. 69 del 2009, che riguarda l’inammissibilità del ricorso per cassazione, quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte di legittimità e i motivi non offrono elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa. Riferirsi al precedente, semmai espresso in una massima di fattispecie, non significa per il giudice di merito seguire pedissequamente il principio che la massima esprime in astratto, ma confrontarsi con il medesimo esplorandone le eventuali differenze interpretative e applicative rispetto allo specifico caso in esame, così da allontanare il rischio di una non consentita (frutto di una indebita inversione concettuale) operazione di adattamento del fatto al principio da enunciare. Anche la cultura del precedente deve fare riferimento a uno schema di motivazione succinto e riferito puntualmente al caso concreto.

  1. La nomofilachia e il riparto della giurisdizione (art. 111, settimo e ottavo comma)

  1. La violazione di legge e la nomofilachia della Cassazione. Il principio costituzionale del primato della legge (artt. 25, comma 2, e 101, comma 2) impone innanzitutto al legislatore di esercitare l’ars legiferandi con sapienza, formulando norme chiare, precise, comprensibili, conoscibili ed empiricamente osservabili. D’altra parte, al giudice di legittimità, nello scrutinio del ricorso in cassazione per “violazione di legge”, spetta la definizione dei corretti criteri ermeneutici e il controllo di razionalità dell’opera di selezione della regola effettuata dal giudice di merito, al fine di evitare la deriva della giurisdizione verso l’incertezza del diritto, nella proiezione costituzionale dei principi di legalità e di uguaglianza.

Il reciproco e virtuoso esercizio dell’ars legiferandi e dell’ars interpretandi trova così un solido punto di equilibrio nel ruolo e nella funzione nomofilattica della Corte di cassazione, al cui magistero è affidato il compito di depotenziare il corto circuito fra la legalità formale della legge e la legalità effettuale del diritto vivente. Alla Cassazione, supremo organo regolatore della giurisdizione, resta invero affidato dall’art. 65, comma 1, dell’ordinamento giudiziario di cui al r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, il compito di assicurare «l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge» e «l’unità del diritto oggettivo nazionale», con una dizione che tradisce i postulati razionalistico-formali di quel legislatore. E, in stretta contiguità storico-sistematica con il riconoscimento della funzione coerenziatrice della Corte «del precedente», l’art. 68 dell’ordinamento giudiziario istituisce presso la Corte di cassazione l’Ufficio del Massimario, al quale è tradizionalmente affidato il compito di curare la documentazione e la diffusione della giurisprudenza di legittimità, mediante la massimazione dei principi di diritto estratti dai “precedenti” selezionati.

La nomofilachia, come «procedura» di formazione del precedente, diventa così un istituto della postmodernità, che mira a definire i criteri ermeneutici volti ad evitare la deriva della giurisdizione verso l’instabilità del diritto: dunque, un presidio essenziale della certezza e della calcolabilità giuridica, collocate nel prisma della tendenziale uniformità e prevedibilità delle decisioni e dell’eguaglianza di trattamento dei cittadini.

Questa concezione procedurale si ispira alla teoria discorsiva elaborata da J. Habermas 8, secondo la quale, come ogni attore pubblico, anche il giudice esercita con la decisione un «agire comunicativo diretto all’intesa»: la sentenza non parla soltanto alle parti, ma anche agli altri giudici, alla dottrina e alla pubblica opinione. Per il filosofo il tramonto della certezza giuridica in senso materiale suggerisce di ridefinirla in senso procedurale, basandola, nell’orizzonte della Diskursethik, sulla forza degli argomenti e non sugli argomenti della forza. Di talché, l’esito della pratica comunicativa preme per un’opera di ricomposizione e condivisione delle ragioni e di conformazione al precedente nei casi simili e analoghi (stare decisis), in assenza, ovviamente, di argomenti differenti, nuovi e più validi.

Restano in proposito centrali il ruolo e la funzione della motivazione delle sentenze del giudice di legittimità, e cioè il modo di esprimersi della Cassazione attraverso i provvedimenti, che va improntato, nel linguaggio e nello stile, a più stringenti requisiti di sintesi, chiarezza ed essenzialità dell’apparato argomentativo. Pur avvertendosi che la sintesi non è una qualità esterna che si aggiunge alla struttura della motivazione per ricondurla a una forma più snella ed efficace, bensì una proprietà immanente e costitutiva della stessa, la cultura del precedente, propria della funzione nomofilattica, dovrebbe fare riferimento a uno schema di motivazione succinto e riferito al caso concreto. Non può tacersi, tuttavia, che il divario quantitativo del flusso dei ricorsi trattati dalla Corte di cassazione rispetto alle Corti Supreme di ogni altro Paese ha assunto proporzioni tali da rendere incomparabile l’esperienza italiana con quella degli altri organi di vertice europei. La Cassazione non riesce a garantire efficacemente la coerenza e l’autorevolezza della funzione nomofilattica, a costruire “isole di ordine” 9(M. Taruffo) sufficientemente solide e idonee a dissipare il disordine del mondo reale dell’esperienza giuridica e ad assicurare alla complessità del sistema una pur limitata e provvisoria stabilità e uniformità di soluzioni decisorie. Il rischio concreto è quello di un progressivo slittamento della Corte «del precedente» verso il più modesto ruolo di una Corte «di terza istanza», che non appare affatto funzionale all’interesse della collettività nell’ottica del principio di uguaglianza.

  1. La nomofilachia delle tre Corti e il riparto di giurisdizione. L’Assemblea costituente, come è noto, non intese recepire il modello proposto da P. Calamandrei sull’unità della giurisdizione, preferendo ad esso un modello differenziato. Da un lato, il sindacato unitario di legittimità sulle questioni inerenti alla giurisdizione, con riguardo alle decisioni di ogni giudice, ordinario o speciale, è accentrato nelle sezioni unite civili della Corte di cassazione, alla quale è inoltre attribuita la funzione generale di nomofilachia sulla giurisdizione ordinaria. Dall’altro, le pronunce del Consiglio di Stato e della Corte dei conti sono ricorribili per cassazione ex art. 362 c.p.c. solo per motivi inerenti alla giurisdizione, sicché per le restanti questioni di merito e processuali resta affidata anche a tali organi speciali di antica tradizione una funzione nomofilattica settoriale nell’esercizio del rispettivo sindacato di legittimità.

La conservazione dell’ibrido assetto costituzionale del riparto di giurisdizione deve tuttavia fare i conti con i profondi mutamenti sopravvenuti nel tempo in forza dell’alterazione e della moltiplicazione delle fonti dell’ordinamento, della asistematicità e ambiguità del linguaggio del legislatore, che rinvia talora a principi e valori come guida dellinterprete, alla conseguente fluidità, parzialmente creativa, dell’opera di mediazione svolta dal diritto giurisprudenziale. Basti pensare inoltre agli interventi legislativi succedutisi nel tempo, in ordine, ad esempio, ai confini della giurisdizione sui diritti soggettivi – mediante la progressiva estensione del catalogo dei casi di giurisdizione esclusiva riservati al giudice amministrativo o contabile – e sugli interessi legittimi – con l’allargamento della tutela e della risarcibilità del danno da lesione degli stessi -. Con il lineare corollario del dispiegarsi dinanzi ai massimi organi della giurisdizione ordinaria o speciale di nomofilachie plurali, dinamiche e talora disallineate nell’esercizio del sindacato di legittimità intorno ad analoghe questioni di diritto o anche di tipo processuale – come per la configurazione dei c.d. limiti esterni della giurisdizione nei casi tuttora controversi di eccesso di potere giurisdizionale o di diniego di giustizia -. Dal rilievo dei contrasti di giurisprudenza che non trovano, allo stato, un ambito spazio-temporale di composizione fra le diverse giurisdizioni, come avviene viceversa in Francia con la previsione del Tribunale dei conflitti, consegue, all’evidenza, il disorientamento degli interpreti.

A fronte della convivenza di differenti plessi giurisdizionali, con significative aree di sovrapposizione, il cui riparto è affidato dall’art. 111 Cost. alle sezioni unite civili della Cassazione, appare scontato rilevare la mancanza delle condizioni storico-politiche per una radicale, seppure razionale, revisione costituzionale ispirata alla «unità della giurisdizione» o alla previsione di una generale ricorribilità per cassazione per violazione di legge anche delle sentenze del giudice amministrativo, così da consentire un ruolo nomofilattico unitario. Di talché, considerato che la funzione nomofilattica viene concretamente esercitata, nei rispettivi ambiti di competenza, anche dagli organi di vertice delle giurisdizioni speciali, occorre muoversi secondo moduli di collaborazione istituzionale e di coordinamento, al fine di ridurre il rischio della frammentazione o differenziazione dei principi di diritto elaborati da ciascuna giurisdizione nell’opera di interpretazione di norme, che, anche se in settori diversi, investono questioni comunque ricadenti nella medesima o analoga area tematica.

  1. Una proposta di riforma. A tal fine, a Costituzione invariata e nell’ottica del dialogo fra le Corti, si è ipotizzata con il Memorandum delle tre giurisdizioni 10, sottoscritto il 15 maggio 2017 dai vertici della Corte di cassazione, del Consiglio di Stato e della Corte dei conti – punto 4 -, una composizione allargata delle sezioni unite civili della Corte di cassazione. Queste, integrate con l’inserimento di un limitato numero di magistrati provenienti dalle due giurisdizioni speciali di rilievo costituzionale, sarebbero chiamate a giudicare sulle questioni di diritto, comuni e controverse, di maggiore portata sistematica, siccome attinenti alla tutela di diritti fondamentali, per le quali appare prioritaria l’esigenza di uniformità nomofilattica e di unità del diritto vivente, come efficace antidoto alla frammentazione e alla incalcolabilità del diritto. Fermo restando il ruolo centrale attribuito alle sezioni unite civili, si mira a implementare l’autorevolezza coerenziatrice del “precedente” da esse costruito, laddove la questione di diritto investa la tutela di diritti soggettivi fondamentali e il rilievo della soluzione sia trasversale alle diverse giurisdizioni. Lo scopo perseguito è quello di arricchirne la forza nomofilattica, in virtù del contributo delle esperienze professionali e delle competenze specialistiche, dei metodi e dei ragionamenti di componenti provenienti dalle suddette giurisdizioni speciali. Il modulo procedurale suggerito è quello dell’integrazione dell’ordinaria composizione delle sezioni unite civili – mediante forme di «parziale mobilità» infragiurisdizionale – con una quota limitata di giudici speciali, se e quando debbano essere trattate e decise «questioni di alto e comune rilievo nomofilattico», anche se intrecciate o correlate a questioni attinenti alla giurisdizione.

Si avverte comunque la necessità di avviare con urgenza il relativo processo riformatore, senza gelosie e interdizioni di tipo corporativo o autoreferenziale, nella comune consapevolezza che ogni sforzo di elaborazione collettiva debba essere compiuto, al fine di assicurare la tutela effettiva dei diritti fondamentali e, per altro verso, di rafforzare, mediante l’unità funzionale e di servizio delle giurisdizioni, la fiducia dei cittadini nello Stato di diritto.

1 J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, Bologna, 1986; ID., Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Milano, 1996.

2 F. Rabelais, Gargantua e Pantagruele, vol. II, cap. XXXIX-XLIII, Einaudi, 2007.

3 Cass. pen., Sez. 4, 17 settembre 2010, n. 43786, Cozzini.

4 C. Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario, in A. Gargani (a cura di), Crisi della ragione, Einaudi, 1979.

5 G. Shafer, A Mathematical Theory of Evidence, Princeton University Press, 1976. Per la moderna interpretazione soggettiva della probabilità, cons. B. De Finetti, L’invenzione della verità (1934), Cortina ed., 2006.

6 I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Einaudi, 1993.

7 Per una dettagliata mappa del ragionamento probatorio, v. Cass. pen., Sez. U, 19 gennaio 2000 n. 1, Tuzzolino.

8 Op. loc. cit.

9 M. Taruffo, Aspetti del precedente giudiziale, Criminalia, 2014, p. 37 ss.

10 Il Memorandum ha costituito oggetto di numerose e differenti letture, in termini sia favorevoli che contrari. Per alcuni commenti che ne hanno rimarcato lo spirito riformatore, cons. G. Amoroso, Le sezioni unite civili della Corte di cassazione a composizione allargata: considerazioni a margine del Memorandum sulle tre giurisdizioni, Foro It., 2018, V, p. 90 ss.; A. Pajno, Un Memorandum virtuoso, ivi, p. 122 ss.; S. Cassese – L. Torchia, La Costituzione dei diritti e la Costituzione delle prerogative, ivi, 104; G. Canzio, Le buone ragioni di un Memorandum, in La nomofilachia delle tre Corti, a cura di italiadecide, Il Mulino, 2019, p. 27 ss.; R. Rordorf, Le giurisdizioni superiori, ivi; G. Severini, Il dialogo tra le giurisdizioni superiori ordinaria e amministrativa in Italia, ivi.

***

Giovanni Canzio è Primo Presidente emerito della Corte di cassazione, già Presidente delle Corti di appello dell’Aquila e di Milano, Direttore del Massimario, docente di Ordinamento Giudiziario Università Cattolica di Milano. 
Fra le sue pubblicazioni più recenti:
– G. Canzio e F. Fiecconi, Giustizia. Per una riforma che guarda all’Europa, ed. Vita e Pensiero, 2021;
– G. Canzio, Dire il diritto nel XXI secolo, ed. Giuffrè FL, 2022.