
La riforma della separazione delle carriere dei magistrati mina l’imparzialità e l’efficacia della giustizia italiana. Non è una questione di status professionale. Al centro, il pericolo di compromettere la garanzia costituzionale di una giustizia equa e al servizio dei cittadini, rendendo la democrazia più vulnerabile. La protesta dei magistrati italiani suona come difesa dei principi fondamentali dello Stato di diritto.
La riforma della separazione delle carriere dei magistrati è un intervento che incide direttamente sul cuore dell’amministrazione della giustizia in Italia. Non è una semplice questione di status professionale o una riorganizzazione burocratica.
Questa riforma mina profondamente il principio fondamentale dell’unitarietà della giurisdizione e la garanzia di imparzialità per ogni cittadino. Essa non rappresenta un miglioramento marginale della funzione, né si limita a ridefinire le modalità di gestione amministrativa del personale. Il suo impatto va ben oltre, toccando la stessa essenza del ruolo della giustizia nel nostro Paese.
Da ultimo il 10 giugno scorso a Roma, Milano, Bari, la protesta delle toghe è servita a lanciare un ulteriore allarme per la tutela di un principio cardine della nostra democrazia: la capacità di amministrare la giustizia in modo imparziale e nell’esclusivo interesse della collettività. È una questione centrale nella fisionomia dello Stato di diritto.
Nel sistema attuale, la possibilità per un magistrato di passare dalla funzione giudicante a quella requirente e viceversa (seppur con limitazioni e filtri) e in generale la comune preparazione tecnica hanno contribuito storicamente a favorire una mentalità più equilibrata e a migliorare la qualità professionale. Ha consentito al pubblico ministero di non perdere mai di vista la prospettiva del giudizio finale, ponderando l’accusa con la consapevolezza del rapporto di strumentalità tra indagini e risultato decisionale.
Allo stesso tempo, un giudice che ha avuto esperienza della complessità delle indagini è risultato più attrezzato per valutare la fondatezza delle accuse e delle prove. Il valore culturale sotteso a questo interscambio è stato ed è tuttora la condivisione di prospettive, finalità e obiettivi: il perseguimento delle funzioni proprie nell’ottica del ruolo assegnato dalla Costituzione alla magistratura e all’applicazione delle leggi. Questa sorta di “osmosi” professionale agisce inoltre come deterrente naturale contro la cristallizzazione di logiche di parte e la deriva della giustizia polarizzata.
Se questo equilibrio viene spezzato, il rischio è di creare magistrati più deboli e, di conseguenza, cittadini più indifesi. Il pubblico ministero potrebbe trasformarsi in un mero “accusatore”, la cui unica missione diviene quella di sostenere l’accusa a ogni costo. Ciò contrasta con la figura costituzionale del Pm, che nel nostro ordinamento è anche un garante di legalità, obbligato a svolgere indagini sia a carico che a favore dell’indagato. Se il Pm diviene una figura monolitica e funzionale solo all’accusa, come in certi sistemi accusatori puri, si perde quella visione ampia e garantista che il nostro sistema gli impone con ricadute drammatiche sullo stesso ruolo del giudice e sul suo lavoro: il giudice è meno libero e imparziale, senza un Pm altrettanto indipendente e soggetto, come ogni magistrato, solo alla legge.
Cesare Beccaria, nel Dei delitti e delle pene, già nel XVIII secolo, indicava le basi per un processo giusto e imparziale, in cui la funzione del giudice fosse distinta ma non necessariamente separata da una prospettiva di giustizia complessiva, sottratta ad una logica meramente accusatoria. La sua enfasi sulla proporzionalità della pena e sulla garanzia dei diritti dell’accusato presuppone un sistema in cui chi indaga e chi giudica sia animato da una comune tensione verso la verità e la giustizia, non da una logica di “parte”.
Analogamente, il giudice, pur rimanendo terzo e imparziale, potrebbe ritrovarsi di fronte a un’accusa meno ponderata, più aggressiva, senza quella profonda conoscenza delle dinamiche investigative che oggi è garantita anche dalla comune formazione e dalla possibilità di esperienze professionali incrociate. Come ha sottolineato il presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky, l’indipendenza della magistratura è un requisito imprescindibile per la democrazia, e ogni riforma che ne alteri l’equilibrio interno rischia di comprometterla. Sottolinearne il rischio, serve non per tutelare i magistrati, ma per difendere la libertà di ogni cittadino dalla arbitrarietà.
Un pubblico ministero allontanato dalla giurisdizione perde quella visione ampia che la nostra giustizia richiede. Un cittadino, sia esso indagato, imputato o persona offesa, si troverebbe di fronte a un sistema giudiziario meno flessibile, meno equilibrato e più incline a una giustizia polarizzata, dove la rigidità dei ruoli tende a definire solo il “vincitore” e il “perdente” non a garantire una decisione equilibrata.
Montesquieu, teorizzando la separazione dei poteri, intendeva un sistema di pesi e contrappesi come baluardo della libertà rispetto alle altre funzioni statali a cominciare dal potere politico. Nello specifico, la “separazione”, su cui tanto insisteva, non implica l’isolamento o la creazione di corpi contrapposti all’interno del potere giudiziario stesso. Richiede piuttosto un sistema di pesi e contrappesi che garantisca l’equilibrio interno e l’autonomia da influenze esterne.
Non si tratta quindi di salvaguardare privilegi o di opporsi per principio a un cambiamento. Invece occorre preservare un baluardo essenziale della nostra democrazia. La separazione delle carriere, così come proposta dal governo Meloni-Nordio, rischia di rendere la giustizia meno flessibile, meno equilibrata e, in ultima analisi, meno equa per tutti. Tale riforma mina l’indipendenza e l’efficacia della magistratura, senza apportare reali benefici al funzionamento della giustizia, aprendo la strada a indebite ingerenze politiche o a una giustizia meno garantista.
La vera posta in gioco, dunque, è la lesione della garanzia di imparzialità non solo del singolo giudice, ma dell’intero sistema. La protesta di chi vive la giustizia ogni giorno è un monito serio. È un richiamo alla salvaguardia della funzione giudiziaria, che deve rimanere, oggi più che mai, imparziale, indipendente e al servizio esclusivo dell’interesse pubblico. Ignorare questo allarme sarebbe un prezzo troppo alto da pagare per la nostra democrazia.