Il diritto nell’emergenza, il diritto della resilienza

Sommario: 1. Uno strappo nella storia; 2. La normativa emergenziale e la definitività del provvisorio. Le linee guida del PNRR; 3. Alba e tramonto del principio di oralità; 4. Pregi e limiti della trattazione scritta; 5. Vizi e virtù dell’udienza da remoto; 6. Il processo tributario: figlio di un dio minore? 7. Conclusioni

  1. UNO STRAPPO NELLA STORIA

La pandemia sanitaria ha inferto uno strappo nella Storia dell’Umanità, che sarà ricordato nei secoli, sicché è normale dedurre che “niente sarà come prima”.

Il pianeta giudiziario non poteva, e non potrà, essere immune da questa considerazione.

Del resto, se ogni segmento del vivere civile ha dovuto abbandonare quella che la psicologia definisce “la zona di confort” e coesistere con il cosiddetto Stato d’eccezione, è naturale che anche la Giustizia non potesse ritenersi sospesa in una bolla.

La società italiana, come tutte quelle improvvisamente e drammaticamente invase e violate dal virus, ha dovuto fare i conti, oltre che con le misure emergenziali sanitarie, e, dunque, con il valore “fondamentale” del diritto alla salute tutelato dall’art. 32 Cost., anche con il bilanciamento di altri principi di rango costituzionale, come il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., consacrato come “inviolabile”.

Subito dopo l’adozione dei primi Decreti-Legge (il n. 9, del 2 marzo 2020; il n. 11, dell’8 marzo 2020; il n. 18, del 17 marzo 2020; il n. 28 del 30 aprile 2020, e così via), giustificati dai parametri della necessità e dell’urgenza di cui all’art. 77 Cost., illustri costituzionalisti, giuristi ed operatori del diritto si sono posti l’interrogativo se la Giustizia possa essere messa “in quarantena”, trovando, in prevalenza, risposta affermativa nella considerazione che, allorché la priorità di una comunità è salvare migliaia di vite umane, come nella prima fase dell’epidemia, gli altri valori devono necessariamente arretrare, perché il bene alla vita non è un valore tiranno, ma, come osserva Marco Bignami (Questione Giustizia n. 2/2020), “la pre-condizione dell’esercizio di ogni altra libertà”.

Quando si è presa coscienza che con il virus si sarebbe dovuto convivere per lungo tempo, è naturalmente riemersa una posizione più “laica” ed esigente sulla necessità di conciliare i diversi valori in campo e di promuovere una disciplina della giustizia “nell’emergenza”, piuttosto che “dell’emergenza”, e qualificata dottrina (cfr. Massimo Luciani, in Questione Giustizia n. 2/2020) ha ricordato come spetti solo al legislatore bilanciare il diritto incomprimibile alla salute con altri diritti costituzionali, al primo non sotto- ordinati gerarchicamente.

Allorchè, all’interno del D.L. n. 18, del 17 marzo 2020 (c.d. Cura Italia), i commi da 1 a 7 dell’art. 83 hanno previsto la possibilità di svolgere attività di udienza nel rispetto delle misure di contrasto alla crisi sanitaria in atto, i Capi degli Uffici Giudiziari – solo parzialmente sorretti dalla fornitura generalizzata delle piattaforme Microsoft Teams e Skype for Business, da parte del Ministero della Giustizia; dalle Linee Guida diramate dal Consiglio Superiore della Magistratura; dai Protocolli stipulati con il Consiglio Nazionale Forense; dall’ampia collaborazione degli Ordini – hanno dovuto fronteggiare una valanga di problemi inediti, con esigenze di rapidità che hanno messo a dura prova la macchina giudiziaria, abituata a ritmi più blandi ed affetta da vizi endemici (ritardi nel processo di digitalizzazione; abuso del c.d. “spreco di udienza”; scarsità delle dotazioni di organico, etc.), costantemente evocati dagli Organi di rappresentanza della Magistratura e dell’Avvocatura.

Alla cessazione dell’efficacia giuridica degli istituti processuali speciali di cui al Cura Italia, è sopraggiunta la normativa dell’art. 221 della legge 17 luglio 2020, n. 77, che, in estrema sintesi, in relazione ai procedimenti civili, ha previsto:

  1. L’obbligatorietà del deposito degli atti introduttivi con modalità telematiche negli uffici che hanno la disponibilità del servizio”;

  1. La facoltà del giudice di stabilire che l’udienza, quando non sia prevista la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti, sia sostituita dall’udienza cartolare (“deposito telematico di note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni”);

  1. La possibilità che l’udienza civile, su istanza di una parte o per iniziative del giudice con il consenso di tutte le parti, sia tenuta, anche solo parzialmente, mediante collegamenti audiovisivi a distanza;

  2. La facoltà di sostituire il giuramento del c.t.u. in apposita udienza, con una dichiarazione sottoscritta con firma digitale da depositare nel fascicolo telematico.

L’organizzazione degli Uffici Giudiziari si è dovuta cimentare nell’impresa, per certi versi titanica, di coniugare i nuovi istituti con la provvista delle garanzie tradizionali ed imprimere alla diffusione delle tecnologie la forza d’urto richiesta.

Anche l’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, con la Relazione n. 85, del 2 novembre 2020, e, poi, con la Relazione n. 74, del 28 luglio 2021, si è speso nello stimare le ricadute dell’emergenza da Covid 19 sul giudizio di legittimità.

Superati gli iniziali, comprensibili disagi, e la disomogeneità delle iniziative territoriali, lamentate dal CNF nella nota del 29 aprile 2020, la risposta, complessivamente, è stata soddisfacente.

Senso di responsabilità, rinnovato sentimento civico, dialogo fra i vari attori delle dinamiche processuali, hanno consentito di uscire dal tunnel prima e meglio del prevedibile.

In molti Uffici Giudiziari, sono state realizzate buone pratiche ed il decongestionamento delle udienze è stato utilizzato per implementare siti e Portali, aggiornare statistiche e criteri di assegnazione degli arretrati, avviare metodi di calendarizzazione degli orari delle udienze, reclamati dagli operatori del diritto anche in tempi ordinari, al fine di ovviare alle lunghe e penose attese e restituire dignità alla celebrazione dei processi.

Con il D.L. n. 137 del 2020, all’art. 23, come detto, sono state introdotte disposizioni volte a regolare lo svolgimento dei procedimenti, sia penali che civili, la cui efficacia è stata protratta al 31 dicembre 2021 dall’art. 7 del D.L. n. 105/2021.

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2. LA NORMATIVA EMERGENZIALE E LA DEFINITIVITA’ DEL PROVVISORIO

Come prevedibile, alcune questioni sono rimaste irrisolte e vari timori si sono rivelati fondati.

Il più comune era ed è quello che ci rimanda a Prezzolini: “In Italia, nulla è più definitivo del provvisorio”.

Ergo, molti addetti ai lavori hanno paventato il rischio della normalizzazione dell’emergenza, declinante in ordinarietà di strumenti potenzialmente lesivi di alcuni principi-cardine dello Stato di diritto.

L’aspirazione al giusto processo, insomma, non è andata in lockdown, perché, a soffrire di una macchina giudiziaria che si inceppi, sono soprattutto gli onesti ed i titolari di diritti di credito, in quanto, per dirla con Lord Bowen, “piove sul giusto e piove sull’ingiusto: ma sul giusto di più, perché l’ingiusto gli ruba l’ombrello”.

Dal mondo forense, in particolare, si agitava il pericolo che il processo via web ed il primato della trattazione scritta (quella che alcuni hanno definito la tecnocratizzazione del processo) facessero evaporare la pubblicità del processo e, con essa, l’ossequio dell’art. 101 Cost., che, avvertendo che “la giustizia è amministrata in nome del popolo”, vuole che i giudici rendano conto del loro operato, soprattutto mediante la partecipazione del pubblico alle udienze di discussione, che “crea quel filo rosso, simbiotico ed indissolubile, che lega la Giustizia al Popolo” (Nicola Zaffina, in Il Riformista).

In questi accenti, riecheggia l’appello del Mirabeu che, nel 1775, invocava: “datemi il giudice che volete, anche mio nemico, purchè non possa procedere ad alcun atto fuori che dinanzi al pubblico”.

Vari Autori (Ulisse Correa, Il diritto di difesa e di accesso alla giustizia civile ai tempi (e oltre) l’emergenza sanitaria, in Judicium, Pacini Giur.) richiamavano l’art. 6 della CEDU, che espressamente menziona tra i requisiti di un equo processo, anche per le cause relative a diritti civili ed obbligazioni, il diritto della persona “a che la sua causa sia esaminata in una udienza pubblica”.

Illuminati pensatori, come Norberto Bobbio, avevano messo in guardia già dal processo telematico, come possibile strategia per rendere marginale il ruolo dell’avvocato.

In realtà, le preoccupazioni che, dalla disciplina emergenziale, partorisca una deriva liquidatoria della funzione dell’avvocato non sembrano peregrine, così come l’auspicio più avvertito è che l’intenso ed alto dibattito nato durante il periodo più grave della pandemia non sia in prosieguo inquinato da sterili contrapposizioni ideologiche (la forzata divisione nelle squadre degli innovatori e dei conservatori), rendite di posizione od aprioristici e deleteri rifiuti della tecnologia, del progresso e dei superiori interessi del giusto processo.

L’insegnamento più pregnante che ci ha offerto l’eccezionale e drammatica evenienza pandemica è che il Paese, incluso il Sistema giudiziario, ha saputo reggere con fermezza, coraggio e creatività, ad un’emergenza sanitaria senza precedenti, non lasciandosene sopraffare ed anzi sviluppando anticorpi utili per ogni avversità imprevedibile.

Il disegno di legge delega di riforma della giustizia civile, licenziato dal Senato il 21 settembre 2021, le linee guida del PNRR nella parte riservata alla Giustizia, sembrano ispirate alla volontà di trattenere gli strumenti che hanno meglio retto allo stress della pandemia e che rispondono all’obiettivo portante del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza presentato all’Europa, id est la riduzione del 40% dei tempi del giudizio: traguardo molto ambizioso, ma da inseguire con tenacia.

Infatti, per gli investitori esteri, carico fiscale e lentezza della giustizia civile sono i principali agenti di non attrattività del Paese: per il 30% degli intervistati nell’ambito di ricerche specialistiche, la maggiore urgenza è quella della riforma del sistema giudiziario.

Al riguardo, detta priorità è inserita dal PNRR tra le cosiddette riforme orizzontali, o di contesto, volte ad interessare trasversalmente tutti i settori di intervento del Piano, con la finalità della riduzione della durata dei giudizi per il tramite di alcuni passaggi fondamentali, di carattere strutturale:

  • Portare a regime l’Ufficio del processo, introdotto in via sperimentale dal D.L. n. 90 del 2014;

  • Integrare il personale delle cancellerie e potenziare gli organici;

  • Accelerare i processi di informatizzazione nella gestione delle attività processuali;

  • Intervenire sull’ammodernamento delle strutture edilizie

Per realizzare tali obiettivi, il Piano tende a favorire:

  • Strumenti alternativi al processo, le cosiddette ADR (Alternative dispute resolution), estendendo il perimetro di applicazione della negoziazione assistita e della mediazione, anche mediante la leva fiscale dei crediti d’imposta;

  • La soppressione delle udienze c.d. “inutili” (tra queste, autorevoli studiosi, come Giuseppe Ruffini, citano quelle di c.d smistamento o quelle destinate alla precisazione delle conclusioni laddove non vi sia stata attività istruttoria) e la riduzione dei giudizi in composizione collegiale;

  • La maggiore completezza degli atti introduttivi (citazione e comparsa), con la previsione, sin dal principio, dell’indicazione dei mezzi di prova;

  • La fissazione del paletto temporale per le domande riconvenzionali e le chiamate di terzo, che devono essere formulate anteriormente alla prima udienza di comparizione, sia per l’attore che per il convenuto;

  • Lo snellimento del sistema delle impugnazioni, con il potenziamento del filtro di ammissibilità in ciascuna Sezione di Cassazione (con eliminazione della Sezione-filtro);

  • La semplificazione delle modalità e dei tempi del processo esecutivo, con particolare attenzione all’esecuzione immobiliare ed all’espropriazione presso terzi, con l’addio alla formula esecutiva (sostituita dalla mera attestazione di conformità della copia del titolo), la previsione di una generale riduzione dei termini per il deposito della certificazione ipo-catastale ed il potenziamento della delega anche a settori finora rimasti appannaggio del giudice dell’esecuzione; nonché la previsione dell’autorizzazione della vendita privata da parte del debitore (vente private), purchè quest’ultimo disponga già di un’offerta di acquisto irrevocabile, per un prezzo non inferiore a quello base indicato dal CTU;

  • La riforma della giustizia tributaria, che è un altro snodo fondamentale per rendere più moderno il Paese e contrastare il perverso fenomeno del 47% delle decisioni di appello annullate in Cassazione;

  • Le Modifiche al Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, con il rafforzamento dei meccanismi di allerta, la specializzazione degli uffici giudiziari, la creazione di un’apposita piattaforma online per la digitalizzazione delle procedure concorsuali.

Si tratta, in tutta evidenza, di misure ampiamente condivisibili ed a lungo caldeggiate dal mondo della Magistratura e dell’Avvocatura, ma che rischiano di risolversi una mera petizione di principio, se non adeguatamente innervate dalle dotazioni di concrete risorse finanziarie ed umane degli Uffici Giudiziari, dai processi di formazione e riqualificazione degli operatori del diritto, dalla semplificazione delle normative e delle procedure, dalla qualità degli innesti delle figure deputate al Sistema Giustizia.

In particolare, l’ineludibile processo di potenziamento degli organici degli uffici Giudiziari, per il quale si è avviato il reclutamento attuativo degli obiettivi del PNRR, ha bisogno, non soltanto, di eccezionali flussi finanziari, ma anche di idonea selezione qualitativa, tenuto conto dell’esigenza di offrire risposte immediate ed efficaci alla finalità di alzare i ritmi di smaltimento dell’enorme contenzioso arretrato.

In generale, l’emergenza ha rinvigorito due istituti: a) il deposito delle note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni, ai sensi del comma 4 dell’art. 221 del D.L. 19 maggio 2020, convertito in l. 17 luglio 2020, n. 77; b) l’udienza a distanza.

Si sono formati schieramenti di fautori dell’una o dell’altra soluzione, nonché di entusiasti o di critici di entrambi gli strumenti.

Per introdurre il dibattito che si è aperto sul tema, non si può prescindere dai profili per così dire antropologici della dialettica processuale.

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3. ALBA E TRAMONTO DEL PRINCIPIO DI ORALITA’

Agli inizi del Novecento, la scienza civilistica italiana, giuridica e processuale, impingendo alla tradizione romanistica, ha trovato in Giuseppe Chiovenda l’alfiere dell’ideale dell’oralità del processo civile, come mezzo per realizzare un confronto immediato tra le diverse tesi sostenute dalle parti, agevolare una più attiva partecipazione dell’organo giudicante all’istruzione ed alla trattazione della causa e comporre un trittico virtuoso con i principi dell’immediatezza e della concentrazione (il primo si decanta nell’immediatezza della raccolta della prova libera; il secondo richiede che l’arco temporale in cui vengono svolte le diverse attività processuali necessarie per rendere la causa matura per la decisione sia il più breve possibile).

Va ricordato (con Claudio Cecchella, Trattazione scritta, a distanza, digitalizzazione degli atti: cosa resterà nel processo civile dell’emergenza epidemiologica, in Questione Giustizia) che le tesi del Chiovenda trovavano contrasto nelle posizioni del Mortara, che, in un discorso fatto al Senato nel 1923, affermava “il giudice dove sorge una questione di diritto da svolgere, ha bisogno di riflettere, studiare: la meditazione sopra le memorie scritte degli avvocati e l’agio che così è concesso al giudice di coltivare il suo ingegno, ma anche di dare una sentenza cognita causa, ponderata, ben motivata”.

Il testimone di Chiovenda è stato raccolto dall’insigne giurista fiorentino Piero Calamandrei, che ha riaffermato, nelle sue Lezioni messicane, la cultura dell’oralità come viatico per elaborare una concezione del rapporto, tra giudice ed avvocati, fondato sulla reciproca fiducia e sulla meta comune del raggiungimento della “ragionevole durata del processo” (cfr. Gianni Ghinelli, I principi di oralità, concentrazione ed immediatezza e la formazione del giurista in Italia e in Germania).

Sullo stesso crinale, Salvatore Satta (Commentario al codice civile, 1966) esaltava l’udienza di discussione come quella in cui si esprime “il rapporto tra parte e giudice nella sua manifestazione fisica e spirituale più elementare, che è quella dell’ascoltare e del farsi ascoltare”.

Calamandrei era affascinato da quello che definiva “il gioco del processo” e, nella sua visione agonistica del contenzioso, predicava l’equilibrio tra lo stigma della celerità e quello della ponderatezza.

Per lunghe stagioni, si è imposta la concezione di Bruno Cavallone, secondo cui l’elioterapia processuale reclama l’aria e la luce dell’udienza.

Il Calamandrei, però, già avvertiva i sintomi del tramonto dell’oralità nell’eccessivo carico di lavoro incombente sull’apparato giudiziario, nell’assenza di una formazione comune tra magistrati e legali e nella sempre crescente complessità delle cause, che dettava via via la centralità della consulenza tecnica d’ufficio (Processo e democrazia, Padova, 1954).

Quegli straordinari interpreti del diritto non sapevano che, su questo scenario, era destinato ad irrompere il processo telematico, che alcuni studiosi hanno visto come la pietra tombale sul principio di oralità, altri come una terza via, capace di coniugare la completezza della scrittura all’immediatezza dell’oralità (cfr. Gianni Ghinelli, op. cit.).

E’ pian piano sfumato l’antagonismo “ideologico” tra processo orale e scritto, per fare posto alla considerazione che nessun processo è solo cartolare o solo orale.

Infatti, anche in quello orale, la scrittura prepara la trattazione della causa ed è funzionale al processo verbale, quale forma di certezza e garanzia della successiva ricognizione delle precedenti fasi del processo.

Nell’art. 180 del codice di procedura civile post-modifiche della legge n. 80/2005, si afferma che “la trattazione della causa è orale”, ma il relativo principio, secondo qualificata dottrina (Graziosi, Appunti sulla nuova fase preparatoria) è risultato svuotato di ogni contenuto, ha assunto un rilievo declamatorio ed è rimasto “a presidiare, un po’ malinconicamente, il chiovendiano vessillo dell’oralità”.

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4. PREGI E LIMITI DELLA TRATTAZIONE SCRITTA

Il succedersi delle memorie scritte ha preso il sopravvento e la prassi ha aperto vari squarci alla lettera dell’art. 180 c.p.c., in una con l’imporsi di correnti di pensiero (confortate dalle posizioni della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione), secondo le quali la pubblicità non è un valore assoluto e la trattazione scritta non è affatto un vulnus all’art. 6 CEDU, ma, anzi, valorizza l’approfondimento dei temi sul tappeto, permette al giudice, oberato da sovraccarichi di lavoro, di giungere in udienza più preparato, consente di rendere più uniformi i metodi di ragionamento dei vari protagonisti della scena giudiziaria.

Sui risvolti della trattazione scritta, un contributo importante hanno reso Caroleo e Ionta (“L’udienza civile ai tempi del coronavirus. Comparizione figurata e trattazione scritta, in Giustizia Insieme, del 12 marzo 2020).

Su questo aspetto, però, mi siano permesse alcune digressioni.

Una prende origine dall’amara e sorprendente fotografia che ci restituiscono alcune ricerche e statistiche (fonti Openpolis e Censis): i giovani italiani sono collocati all’ultimo posto della graduatoria europea nella comprensione di un testo scritto.

Ciò significa che le giovani generazioni, forse anche nel mondo forense, potrebbero incontrare maggiori difficoltà nella schermaglia scritta e nell’elaborazione cartolare dei motivi di ricorso o di opposizione.

Pensiamo, anche, a quanto avviene nel giudizio dinanzi alla Corte di Cassazione (che riguarda altre generazioni di legali), che, con la riforma del 2016, si è votato alla ordinarietà del rito camerale, relegando ad evenienza residuale l’udienza pubblica, sì da condurre autorevole dottrina (Punzi, La nuova stagione della Corte di Cassazione; Sassani, Giudizio sommario di cassazione ed illusione nomofilattica) a stigmatizzare questo nuovo corso come lesivo del diritto di difesa.

Invero, la riforma del giudizio di legittimità, contenuta nel D.L. 31 agosto 2016, n. 168, convertito dalla legge 25 ottobre 2016, n. 197, ha fatto da “apri-pista” alla progressiva valorizzazione della trattazione scritta, laddove ha eletto il rito camerale a regola e la pubblica udienza ad eccezione, giustificata solo quando la sezione filtro non riesca a definire il giudizio in camera di consiglio o la questione di diritto rivesta una “particolare rilevanza”.

L’intervento del Legislatore faceva seguito – e sostanzialmente recepiva – le riflessioni di autorevole dottrina (cfr. Giovanni Verde, riportato in La riforma del giudizio di cassazione, di Didone- Di Marzio, ed Giuffrè), secondo cui, essendosi ormai istituzionalizzata la modalità della precamera di consiglio, “i difensori ben sanno che la causa è stata già decisa prima dell’udienza (e basta frequentare le aule della Corte per constatare che oramai gli avvocati hanno perso, almeno nel processo civile, l’abitudine di discutere, avendone constatata l’inutilità).

In effetti, le critiche che, oggi, vengono rivolte da strati della dottrina all’udienza cartolare, hanno trovato qualificati epigoni in quanti hanno contestato la riforma del 2016: si pensi all’Associazione Italiana tra gli Studiosi del Processo Civile, presieduta dal Prof. Federico Carpi, che, in un documento del 3 ottobre 2016, scorgeva una grave ferita al diritto all’udienza pubblica nella novella dell’art. 380-bis, comma 1, e dell’art. 380-ter c.p.c., ovvero nell’esclusione della trattazione in pubblica udienza e della possibilità che le parti siano sentite in camera di consiglio.

Quanto al valore del precedente, esaltato dagli artt. 363 e 360-bis c.p.c. (secondo quest’ultimo, è esclusa la ricorribilità per cassazione di decisioni che abbiano risolto questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte), alcuni Studiosi della materia (cfr. Giorgio Costantino, I procedimenti di legittimità nella prospettiva del superamento dell’emergenza sanitaria, in Questione Giustizia) lamentano le difficoltà della circolazione delle informazioni dirette alla conoscenza dei precedenti giurisprudenziali, segnalando le buone pratiche di alcuni uffici giudiziari nel mettere a disposizione degli utenti la sorte dei provvedimenti adottati.

L’inventario delle numerosissime pronunce di legittimità che statuiscono l’inammissibilità dei ricorsi per mancato rispetto del principio dell’autosufficienza o che sanzionano l’erronea individuazione del motivo di ricorso all’interno della casistica di cui all’art. 360 c.p.c., soprattutto dopo le modifiche al n. 5 sul difetto di motivazione, depongono non tanto, o perlomeno non solo, per l’impreparazione dei ricorrenti, quanto per l’assenza di un linguaggio comune, di una formazione condivisa, che permetta l’incrocio più efficace tra le argomentazioni sostanziali degli avvocati e la tecnica che la prassi della Suprema Corte si è data per giudicare la struttura e la tenuta dell’atto di impugnazione.

Non sembra secondario aggiungere che l’enfasi assegnata alla trattazione scritta ha il problema di conciliarsi con i limiti redazionali di sinteticità apposti agli atti difensivi, anche tramite il Protocollo d’Intesa con il CNF, che comporta che non soltanto il diritto alla parola, ma, per certi versi, anche quello allo scritto, rischi di essere dimidiato.

Anche autorevoli esponenti della Magistratura di Cassazione hanno espresso qualche perplessità sull’emarginazione della discussione orale nel giudizio di legittimità, tenuto conto, fra l’altro, che il Procuratore Generale, amicus curiae, mentre ha la sola facoltà di presentare memorie nella trattazione scritta, nell’udienza pubblica prende la parola, a seguito della riforma del 2016, dopo il Relatore ma prima delle parti, così fornendo spunti utili alla successiva esposizione delle ragioni delle parti stesse, in quanto queste conoscerebbero la posizione del Pubblico Ministero.

Secondo alcuni osservatori, la modalità delle note scritte, inoltre, potrebbe compromettere il successo delle proposte conciliative che, pure, corrispondono efficacemente all’anelito di una giustizia più rapida e che il disegno di legge delega di riforma del codice intende irrobustire con la modifica all’art. 185 bis c.p.c., consentendo al giudice di formulare la proposta conciliativa sino a quando trattiene la causa in decisione: l’assenza dell’interazione fisica tra le parti ed i difensori può penalizzare soluzioni che, nella quotidianità del Foro, sopraggiungono anche grazie ad un semplice scambio di opinioni in udienza.

E’ il caso di ricordare che l’art. 20 del D.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, ha introdotto un credito d’imposta in favore dei contribuenti che si avvalgono di soggetti abilitati a svolgere procedimenti di mediazione per la conciliazione di controversie civili e commerciali, e che l’art. 21-bis del D.L. n. 83/2015, convertito dalla legge 6 agosto 2015, n. 132, ha introdotto, in via sperimentale, un credito d’imposta al fine di incentivare i procedimenti di negoziazione assistita e gli arbitrati.

Tale misura, resa permanente dall’art. 1, comma 618, della Legge di Stabilità 2016, è ulteriormente alimentata nel progetto di riforma del codice civile.

Un’altra riflessione sulla diffusione delle note scritte, ed in genere sui riflessi del processo telematico, attiene alla loro incidenza sul ruolo degli avvocati meno “strutturati”.

In primo luogo, è indubbio che, specie in alcune aree del Paese, la percezione e la reputazione dell’avvocato siano state storicamente associate alla figura del professionista che va a “combattere” in udienza (e qui ritorna la visione agonistica del Calamandrei), per far valere le ragioni del proprio cliente.

In parallelo, la cultura del valore dello scritto in chiave processuale, nella vulgata comune, è stata spesso svalutata, sicuramente a torto.

E’ comunque un dato di fatto, che impone, al di sopra di ogni suggestione retriva, un’operazione di sensibilizzazione pubblica, di efficace comunicazione, sulla rivoluzione digitale e sul recupero di valenza e qualificazione della scrittura: anche nella professione legale, un conto è il valore reale, ed altro è il valore percepito di una prestazione.

Occorre, dunque, un accurato ed organico lavoro di divulgazione e formazione, che sia funzionale anche alla necessaria riconversione e specializzazione verso i segmenti di attività più coerenti alla nuova domanda di servizi legali ed alle linee strategiche del PNRR.

I dati più recenti sulla popolazione forense meritano riflessioni: negli ultimi anni, le cancellazioni dalla Cassa raggiungono una quota che oscilla tra il 75 e l’84% delle nuove iscrizioni, ossia, per ogni quattro nuovi iscritti, tre si cancellano.

Il fenomeno travolge più sensibilmente la popolazione femminile che, invece, nell’ultimo periodo, aveva positivamente raggiunto la parità numerica con quella maschile.

Circa 100 mila avvocati hanno un reddito inferiore ai 20 mila euro annui.

Specie nel settore civile, le rilevazioni parlano di un decremento del 50% del contenzioso, dal 2009 ad oggi.

Per l’effetto degli accessi ai concorsi pubblici, si stima che migliaia di avvocati si saranno cancellati entro la fine dell’anno.

Si spera che molti entrino, almeno, tra gli addetti all’Ufficio del Processo, che riceverà nuova linfa dal PNRR, e che quindi continuino a portare, da altra frontiera, un prezioso contributo al progresso dell’apparato giudiziario, anche se è lecito interrogarsi se e come una parte dell’avvocatura, che, per varie ragioni, non abbia trovato gratificazione o successo nell’attività legale, possa manifestarsi subito utile nella dimensione pubblica e coprire, nell’immediatezza, i crescenti fabbisogni della macchina giudiziaria.

Per tornare alle specificità della trattazione scritta, vero è che il suo utilizzo è subordinato ad alcuni presupposti: l’art. 83, comma 7, lett. h), regolando lo svolgimento delle udienze civili che richiedono soltanto la presenza dei difensori delle parti, autorizza lo scambio ed il deposito telematico di note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni e la successiva adozione fuori udienza del provvedimento del giudice.

Nella prassi, il precetto è stato sovente derubricato, consentendosi la produzione di vere e proprie memorie difensive, che giustificherebbero una reazione processuale dell’avversario, ovvero un diritto di replica invece pregiudicato dall’assenza della discussione orale.

Per evitare siffatte ferite alla parità delle armi, alcuni Tribunali hanno previsto, nella fase più acuta dell’emergenza sanitaria, note scritte congiunte nei procedimenti riservati alle esecuzioni.

Fondate riserve sulla trattazione cartolare, anche da fonti della Magistratura, vengono sollevate in ordine alle procedure esecutive: specie nei territori in cui la parcellizzazione delle proprietà e la vetustà degli aggiornamenti catastali rendono difficoltosa la ricostruzione della provenienza ventennale, le udienze a trattazione scritta sono meno idonee a superare gli incagli ricognitivi, la cui rimozione, viceversa, può essere facilitata dal confronto in presenza.

I favorevoli alla messa a regime della trattazione scritta suggeriscono che si debba fare salva l’istanza contraria di una delle parti e, comunque, i più convengono che la trattazione cartolare dovrebbe essere preclusa non soltanto nel caso in cui all’udienza debbano partecipare soggetti diversi dai difensori delle parti, ma anche in molte altre circostanze, previste ordinariamente per la discussione della causa, a pena di nullità, ex art. 128, comma 1, c.p.c.

In definitiva, non si può ignorare che, talvolta, la trattazione orale è un lusso, rispetto all’economicità del processo, o una finzione, perché il giudice invita a rimettersi agli atti o celebra un simulacro di discussione orale.

Si può anche rilevare che la propensione per la trattazione scritta cambia a seconda della prospettiva da cui si guarda l’istituto: ossia, è maggiore tra coloro che la scrutinano nella dimensione del giudizio di appello, ove il valore aggiunto della discussione pubblica è già ridimensionato nella prassi, essendosi il giudice abituato a decidere sulla base degli scritti difensivi ed a valutare come ancillare la discussione orale.

Viceversa, le udienze nelle quali vengono raccolte le prove liberamente apprezzabili dal giudice, che sollecitano la relazione diretta del giudice con la prova, poco si conciliano con la trattazione scritta, a differenza delle udienze in cui sono raccolte prove che condizionano ope legis (cfr. Cecchella, op. cit.).

In estrema sintesi, non si potrà comunque trascurare che la giusta rincorsa all’efficientismo ed al pragmatismo non dovrà mai degradare in menomazione della completezza e genuinità del contraddittorio e dei fondamenti dell’equo processo.

5. VIZI E VIRTU’ DELL’UDIENZA DA REMOTO

Ammesso che tale censimento susciti un effettivo interesse, è difficile stabilire se i sostenitori dell’udienza a distanza siano più numerosi rispetto a quelli della trattazione scritta.

L’Unione Nazionale delle Camere Civili, ad esempio, nella fase della prima emergenza, ossia nell’aprile 2020, ha dichiarato che “l’udienza civile è un momento di discussione e confronto, smaterializzarla è un rischio serio e grave per i diritti dei cittadini, aggiungendo che la trattazione scritta “nella fase 2 si può incrementare… consentendo di ridurre l’afflusso in tribunale in misura tale da renderlo gestibile”.

Di converso, i difensori dell’udienza da remoto (fra gli altri, Fabio Valerini, In difesa dell’udienza da remoto, in Judicium) sottolineano come le udienze che meritano di essere trattate con il confronto diretto e contemporaneo con il giudice e l’avversario, laddove non possano essere celebrate nelle forme tradizionali a causa dell’emergenza o della lontananza, trovino un migliore surrogato nella video-conferenza, in quanto idonea a garantire, in sostanza, le stesse prerogative dell’udienza fisica.

Richiamano, al riguardo, il rilievo dato a tale sistema dal Regolamento CE n. 1206/2001, oppure dal Ministero della Giustizia quando ha presentato l’Ufficio per il processo e gli sportelli di prossimità.

E’ evidente che la predilezione per l’udienza a distanza sia correlata anche a ragioni di comodità e di riduzione dei costi di spostamento.

Molti Autori colgono nella video-conferenza anche un mezzo per attribuirle il ruolo di documentare, e perfino verbalizzare, l’udienza, come, ad esempio, è avvenuto in Inghilterra, al fine di consentire una visione anche successiva, duplicando in tal maniera il controllo democratico.

La video-registrazione, secondo alcuni studiosi (Ruffini, Emergenza epidemiologica, in Questione Giustizia; Correa, op. cit.; Comoglio, Processo civile e telematico), sarebbe in grado di assicurare i massimi vantaggi anche nelle udienze istruttorie, consentendo al giudice di verificare il contegno delle parti e dei testimoni e di riascoltare, dalla viva voce degli stessi, le rispettive dichiarazioni.

Sul punto, va registrata però la ferma contrarietà della Magistratura e dell’Avvocatura che, infatti, nel Protocollo intercorso tra CSM e CNF, hanno convenuto sul divieto di registrazione dell’udienza.

I dissidenti dell’udienza da remoto agitano i rischi che l’udienza stessa non si svolga effettivamente sotto il pieno e diretto controllo del giudice e non si possa accertare l’assenza di collegamenti con altri soggetti non legittimati o che il testimone legga la dichiarazione da rendere.

In altre parole, l’udienza “virtuale” non garantirebbe l’effettiva partecipazione personale e consapevole, non permettendo una visuale unitaria e contestuale dei partecipanti, né l’immediatezza della cognizione, a presidio di una migliore comprensione della vicenda.

Indubbiamente, molte udienze a distanza sono state turbate da disservizi tecnici, tanto comprensibili quanto fortemente incisivi sulla dinamica processuale dell’ascolto e del farsi ascoltare.

Incognite condivisibili, ma si pensi all’esperienza di altri Paesi, come la Francia, che, nel periodo emergenziale, hanno utilizzato ampiamente le udienze a distanza, perfino per via telefonica.

Sicuramente, anche le udienze da remoto non restituiscono quel clima, quel confronto fisico, quell’insieme di sguardi, sensazioni epidermiche, linguaggi del corpo, di cui si nutre, spesso, il gioco del processo e che solo l’udienza in presenza è capace di creare.

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6. IL PROCESSO TRIBUTARIO: FIGLIO DI UN DIO MINORE?

Il PNRR include tra i suoi primari obiettivi quello della riforma della giustizia tributaria, che, per i suoi enormi impatti sull’economia, sulla equità redistributiva e sulla tenuta dei conti pubblici, merita attenzioni finora colpevolmente e costantemente rinviate.

Anche durante la fase emergenziale, il contenzioso fiscale è stato “strattonato” dalle libere iniziative delle singole Commissioni Tributarie: con l’avallo del contestato art. 27 del D.L. n. 137/2020, secondo il quale, sino alla data del 31 gennaio 2021, i Presidenti delle Commissioni Tributarie Provinciali e Regionali potevano autorizzare, ciascuno secondo la propria competenza, lo svolgimento delle udienze pubbliche e camerali e delle camere di consiglio con collegamento da remoto, le Commissioni sono andate in ordine sparso, talune privilegiando le udienze a distanza, talaltre la decisione “allo stato degli atti”, qualcuna ancora ugualmente imponendo, anche in fase emergenziale, l’udienza in presenza.

Prendendo atto che, per altro genere di udienze, dopo la fase più acuta della pandemia, si è gradualmente riusciti a garantire la discussione in presenza, molti osservatori hanno registrato l’anomalia delle modalità del processo tributario “emergenziale”, condotte come se, paradossalmente, gli ambienti fiscali fossero più contagiosi di altri.

Come, e forse più, che per il giudizio civile, si è alzata “una levata di scudi nelle associazioni dei difensori tributari, perché l’art. 27 del DL 137/2020, stante la lacuna normativa in tema di udienza da remoto, ha coartatamente imposto l’udienza a trattazione scritta quale modalità di svolgimento delle udienze nel processo tributario, eliminando qualsiasi barlume di oralità da questo processo. Per tacere della gravissima compromissione del principio di pubblicità dell’udienza” (Orazio Esposito, Legislazione emergenziale e processo tributario, su www.dirittoitaliano.com).

Oltre ad attenta dottrina (Paola Coppola, in Il Sole 24 Ore del 3 novembre 2020), ed al Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria (delibera n. 1230, del 10 novembre 2020), a perorare la celebrazione delle udienze in presenza, laddove consentito dalle condizioni sanitarie locali, è venuto in soccorso il Consiglio di Stato, con l’Ordinanza n. 2539, pubblicata il 21 aprile 2020, che ha statuito che “il contraddittorio cartolare coatto – cioè non frutto di una libera opzione difensiva, bensì imposto anche contro la volontà delle parti che invece preferiscono differire la causa a data successiva al termine della fase emergenziale, pur di potersi confrontare direttamente con il proprio giudice- non appare una soluzione ermeneutica compatibile con i canoni dell’interpretazione conforme a Costituzione, che il giudice comune ha sempre l’onere di esperire con riguardo alla disposizione di cui deve fare applicazione”.

Invero, il disomogeneo trattamento delle udienze tributarie nell’emergenza epidemiologica è un ulteriore spaccato della “subalternità”, più che della specialità, di questa giurisdizione, in ordine alla quale, sin dagli albori della riforma di cui al D.P.R. 636/1973, si sono appuntati rilievi fortemente critici, con particolare riguardo all’esclusione dell’art. 128 del codice di procedura civile (“l’udienza in cui si discute la causa è pubblica a pena di nullità”).

Sino a che è intervenuta la sentenza della Corte Costituzionale, n. 50/1989, che ha ritenuto che la regola generale della pubblicità dei dibattimenti giudiziari non potesse subire eccezioni per i procedimenti tributari, tenuto conto che “l’imposizione tributaria è soggetta al canone della trasparenza, i cui effetti riguardano anche la generalità dei cittadini, nonché ai principi di universalità ed eguaglianza, onde la posizione del contribuente non è esclusivamente personale e non è tutelabile con il segreto”, per poi concludere che “la generale conoscenza delle controversie tributarie può giovare alla concreta attuazione del sistema tributario e concorrere a ridurre il numero degli inadempimenti e degli evasori in genere” ( cfr. commento di Orazio Esposito, op. cit.).

Contro le insidie di una giustizia segreta depone, come visto, l’art. 6 CEDU, che stabilisce che ogni persona abbia diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un Tribunale indipendente ed imparziale, e la cui trasferibilità nel contenzioso tributario è stato il frutto di un sofferto approdo (cfr. commento di Maurizio Villani, La crisi del processo tributario durante la pandemia Covid- 19, in www.diritto.it).

Il processo tributario, come è noto, attinge alle disposizioni del codice di procedura civile e conta un arretrato di circa 55 mila cause in Cassazione, di un valore stimato pari all’uno per cento del PIL nazionale: è spontaneo chiedersi come controversie che trattano temi così complessi e tecnici (per di più alterati dal divieto delle prove testimoniali), ove i confini tra le questioni di merito e di legittimità sono particolarmente sfumati e la posta in gioco è spesso di svariati milioni di euro, possano sottrarsi al confronto dell’udienza pubblica e, nello stesso tempo, essere compendiati nelle 30 pagine raccomandate dal Protocollo.

In una materia particolarmente “scivolosa”, come quella tributaria, il confronto fisico in udienza costituisce un veicolo fondamentale per la migliore ed immediata comprensione delle questioni dedotte in giudizio.

Ma al di là dei colpi inferti alla pubblicità della discussione durante la pandemia, le criticità del processo tributario hanno radici purtroppo più remote ed inestricabili, tali da indurre vari autori alle riflessioni più amare e pessimistiche (tra gli altri, Marino Longoni, in Italia Oggi dell’8 settembre 2021).

Il progetto di riforma calendarizzato nel PNRR dovrà sciogliere nodi che, nel tempo, hanno pesato sulla credibilità del sistema e sul rapporto di fiducia tra Stato e contribuenti.

L’indipendenza e l’imparzialità dei giudici che, date giustamente per esistenti, devono però anche apparire tali, come per la moglie di Cesare, a ciò non giovando, in tutta evidenza, la dipendenza dal MEF, la frequente ubicazione delle Commissioni nelle stesse sedi degli Uffici Finanziari, i potenziali conflitti di interesse.

Osservano Villani e Morciano (Il diritto tributario e la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo: la Cedu viene in aiuto del contribuente) che “selezione, formazione, assegnazione, vigilanza, determinazione dello stato giuridico economico, valutazione della produttività, progressione in carriera e giudizio disciplinare del personale amministrativo preposto alla giustizia tributaria dipendono dalla stessa Amministrazione che emana gli atti amministrativi soggetti al controllo giurisdizionale” e che la gestione e programmazione della spesa delle Commissioni è affidata ad organismi del MEF.

Un metodo che non rende giustizia, oltre che ai contribuenti, agli stessi giudicanti, che non meritano di essere riguardati come una sorta di appendice dell’Agenzia delle Entrate.

Per non dire della risibilità, rectius, offensività, dei compensi ai componenti delle Commissioni, che, pure, devono studiare e scrutinare argomenti di eccezionale complessità tecnica e giuridica, che trascinano riflessi economici e reputazionali tali da incidere sulla vita di persone ed aziende.

La persistente assenza di una decisione sulla composizione degli organi Giudicanti (solo togati a tempo pieno, previo concorso pubblico; solo togati a tempo parziale; sistema misto, come l’attuale; formazione ex novo di una classe di giudici professionali, etc.?).

E, soprattutto, l’anacronistico divieto delle prove testimoniali, che, in una con il raro ricorso alle CTU, impedisce il pieno esercizio dell’attività istruttoria che, pure, sarebbe vieppiù necessaria in un settore in cui il thema decidendum investe profili, come la qualità o meno di amministratore di fatto, l’inesistenza oggettiva o soggettiva di operazioni, la congruità o meno di prezzi o percentuali di ricarico, la fittizietà o meno delle residenze all’estero, le fonti delle disponibilità finanziarie dei contribuenti nell’ambito delle indagini bancarie, la natura, commerciale o non commerciale, di un ente, e così via, per i quali l’escussione di testi offrirebbe un contributo essenziale ed insostituibile alla ricerca della verità sostanziale e garantirebbe un embrione di parità processuale al cospetto di tesi unilaterali – quelle dei verificatori – che, senza gli argini di un doveroso contraddittorio, rischiano di esondare direttamente in verdetto.

Malgrado gli strali di autorevole dottrina (tra i tanti, De Mita, Gobbi) e nonostante la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con la sentenza del 23 novembre 2006, abbia stabilito che il divieto della testimonianza risulta incompatibile con i principi del giusto processo, nel contenzioso tributario permane il residuato di cui all’art. 7 del D.lgs. n. 546/92, tanto più ingiustificato se si considera che, viceversa, è ius receptum l’utilizzabilità, quali indizi, di dichiarazioni di terzi raccolte dai verificatori e dall’Amministrazione Finanziaria (Cass. V, n. 9080/2017).

  1. CONCLUSIONI

In linea generale, il PNRR preserva entrambi gli istituti sperimentati durante l’emergenza sanitaria, mirando a raccoglierne l’eredità più virtuosa e stabilizzandone la piena cittadinanza nel processo civile.

Dovendosi realisticamente dare contenuto e slancio al Piano del Governo per una ripresa strutturata del Sistema Paese e, quindi, mettendosi in sintonia con una rivoluzione culturale che non può esonerare il mondo della Giustizia, occorre impegnarsi attivamente e laicamente, ciascuno nel suo ruolo, affinchè le inderogabili innovazioni non siano irriducibili ai valori del giusto processo e del rispetto delle prerogative difensive.

Occorre cioè assecondare il vento del cambiamento indotto già dal processo telematico, poi dall’esperienza emergenziale ed ora alimentato dal PNRR, e puntare ad un processo più snello, flessibile, che riconquisti la fiducia dei cittadini e degli investitori.

Non si possono ignorare, però, le ferite da ricucire: la sfera lavorativa ha perso centralità nella vita delle persone; il 57% degli avvocati ha avuto accesso al reddito di ultima istanza; la vita da remoto ha prodotto una marcata difficoltà di creare empatia.

Il Censis osserva che si è determinata l’erosione di un pilastro dell’architrave sociale: il mondo delle libere professioni.

Invece, il progresso della Giustizia ha bisogno non soltanto di mezzi e risorse materiali; ma di competenze, non solo informatiche.

Di formazione continua; di recuperare l’importanza del confronto e del mutuo accrescimento nello scambio di esperienze e di opinioni fra giudici, personale degli Uffici Giudiziari e legali.

Di vita d’udienza vissuta, soprattutto per i praticanti, che ne hanno perso la frequentazione.

Di slanci di passione e di fiducia nel futuro.

La resilienza, intesa, secondo la sua etimologia latina (resilire, rimbalzare, assorbire l’energia di un urto), esprime la capacità di una comunità di affrontare e superare un evento traumatico, saperlo prevenire e trasformare un’esperienza avversa in opportunità di crescita e rafforzamento.

E dunque, ci aspetta un cammino faticoso, ma estremamente formativo.

Ora, come non mai, occorre ricordare il monito di Einstein: “nessun problema può essere adeguatamente risolto dalla stessa cultura che l’ha prodotto”.

Ben vengano, dunque, misure innovative e coraggiose, che segnino una rottura con le esperienze più negative del Sistema Giustizia.

Nel contempo, però, anche senza condividere il pessimismo di alcuni Autori (cfr. Giuliano Scarselli, in Judicium, 2020) sulla smaterializzazione della Giustizia, si dovrà evitare, come lumeggia attenta dottrina (Ulisse Correa, in Judicium), che si arrivi ad una giustizia predittiva, in grado di risolvere le controversie sulla scorta dei precedenti consultabili telematicamente, ovvero ad uno scenario in cui la funzione degli avvocati, e finanche degli stessi giudici, sarebbe destinata a scomparire.

Franco Mancini, Avvocato in Campobasso