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Ddl femminicidio: il parere della commissione diritto e procedura penale dell’Anm

© Pietro Re / Fotogramma

A cura della commissione Diritto e procedura penale dell’Associazione nazionale magistrati

Presidente: Chiara Valori.
Coordinatori: Domenico Canosa e Giulio Caprarola.

 

Nell’apprezzabile sforzo di combattere con strumenti sempre più incisivi il fenomeno, in continua crescita, della violenza nei confronti delle donne, il Governo ha approvato lo scorso 7 marzo 2025 lo schema di un nuovo disegno di legge, già trasmesso al Senato della Repubblica, che da un lato introduce una nuova figura di reato (femminicidio – art. 577 bis c.p.) ed una aggravante ad effetto speciale applicabile ad una nutrita serie di reati preesistenti, dall’altro detta nuove regole procedurali, volte a tutelare maggiormente la persona offesa, anche prevedendo specifichi obblighi formativi per gli operatori.

La Commissione di studio in materia di diritto penale e procedura penale in seno all’Associazione Nazionale Magistrati ne ha analizzato i contenuti sotto tre punti di vista: sostanziale, processuale e con riferimento alle ricadute organizzative sugli uffici, evidenziandone i profili di problematicità.

Il parere proposto è stato poi approvato dal Comitato Direttivo Centrale nel corso della seduta del 23 maggio 2025.

Viene introdotta una fattispecie autonoma e speciale di omicidio, denominato femminicidio, incentrata sulle qualità della persona offesa (art. 577-bis, co. 1, c.p.), sanzionando con la pena dell’ergastolo le condotte preordinate a cagionare la morte di una donna, realizzate attraverso atti di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna, nonché la condotta omicidiaria orientata a perseguire la repressione dell’esercizio dei diritti, delle libertà o della personalità della donna; al di fuori delle ipotesi appena descritte, invece, continuerebbe a trovare applicazione l’art. 575 c.p.

La struttura della fattispecie è incentrata sulla qualità della persona offesa, la donna in quanto oggetto di discriminazione perché donna, soggetto passivo di repressione della propria autodeterminazione e delle proprie libertà fondamentali.

Possono rilevarsi criticità in ordine alla tipizzazione della condotta descritta dalla nuova norma incriminatrice e gli effetti in termini di probabile (in)compatibilità con i principi costituzionali di determinatezza ed eguaglianza: con riferimento alla prima modalità della condotta delineata (atti di discriminazione o di odio), nel dossier di studi di accompagnamento al disegno di legge viene richiamata l’analoga fattispecie di cui all’art. 604-bis c.p., rubricato “Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa”, che però prevede un reato di pericolo e di mera condotta che si inserisce in un contesto ben delineato. Con riferimento al reato di nuovo conio, invece, gli atti di discriminazione e di odio della donna in quanto donna divengono indeterminati ed incerti.

Anche il concetto di donna appare indeterminato, alludendo semplicemente al genere femminile, peraltro non tenendo conto di quanto già previsto in materia di rettificazione di attribuzione di sesso dalla legge n. 164/1982 e al nuovo concetto di identità sessuale come delineato anche attraverso le sentenze della Corte Costituzionale.

Con riguardo, poi, alla seconda modalità della condotta delineata (l’omicidio commesso per reprimere l’esercizio dei diritti o delle libertà o, comunque, l’espressione della personalità della donna), con difficoltà si differenzia dalla fattispecie comune di omicidio, introducendo quali elementi costitutivi quelle che sono le ragioni culturali, sociologiche e criminologiche che giustificano l’introduzione di una fattispecie autonoma di reato.

Il nuovo delitto di femminicidio potrebbe altresì porsi in collisione con il principio di eguaglianza sotto il profilo dell’ingiustificata disparità di trattamento sanzionatorio derivante in situazioni simili a causa della contemporanea vigenza degli artt. 575 e 577-bis c.p., non potendosi ammettere una diversa considerazione della gravità del reato per il fatto che colpisce la vita di una donna, anziché quella di un uomo.

Con riferimento al profilo sanzionatorio emergono poi le principali criticità della fattispecie di nuova introduzione: verrebbe infatti introdotto il femminicidio quale titolo autonomo di reato e punito con la pena fissa dell’ergastolo.

Dalla riforma conseguirebbe, inoltre, l’impossibilità di diminuire la pena sotto i ventiquattro anni di reclusione anche qualora ricorra la sussistenza di una circostanza attenuante, in contrasto con la regola generale stabilita dall’art. 65, co. 1, n. 2) c.p.; tenendo conto del disposto dell’art. 23 c.p., viene sostanzialmente introdotta una pena fissa, in contrasto con i principi costituzionali sugli automatismi sanzionatori e l’individualizzazione della pena (cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 222 del 2018).

Il terzo comma dell’art. 577-bis c.p. previsto dal disegno di legge in esame, poi, stabilisce che, in caso di pluralità di circostanze attenuanti, ovvero di prevalenza di queste ultime su eventuali aggravanti, la pena non potrebbe essere comunque inferiore a quindici anni di reclusione, in deroga a quanto previsto in via generale dall’art. 67 co. 1 c.p. per reati di almeno pari gravità.

Il d.d.l. prevede poi l’introduzione di un’aggravante ad effetto speciale per diversi reati “se il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità”; per effetto di ciò, anche i reati di cui agli artt. 572, 583, 583 bis, co. 2, 593 ter e 612 bis c.p. diverranno di competenza collegiale, con conseguente aumento esponenziale del carico collegiale e, conseguentemente, dei tempi di definizione dei processi. Dal lato requirente, la partecipazione alle udienze collegiali non potrà più essere delegata a vice procuratori onorari, con correlativo aggravio anche dei servizi per i sostituti procuratori.

Sotto il profilo processuale, le modifiche apportate all’art. 275 c.p.p. introducono una nuova ipotesi di presunzione assoluta di adeguatezza delle misure cautelare custodiali per i reati di maltrattamenti in famiglia, atti persecutori, lesioni personali aggravate o tentato omicidio, analogamente a quanto già avvenuto in passato per altre fattispecie, con previsioni già falcidiate dalla Corte costituzionale. Si registra poi un brusco cambio di rotta rispetto a pregresse recenti innovazioni legislative, tese, invece, ad assicurare un’applicazione più efficace del principio del “minore sacrificio necessario” ed ulteriore impatto sulla situazione carceraria già caratterizzata da ingravescente sovraffollamento.

Il d.d.l. intervenire poi anche sulla disciplina del patteggiamento, introducendo una forma di interlocuzione non vincolante della “vittima” (e di inammissibilità della richiesta presentata fuori udienza, se non preceduta dalla notifica alla persona offesa), limitatamente ai reati da c.d. codice rosso, analogamente a quanto già previste in talune definizioni alternative o anticipate del processo penale; per la prima volta, tuttavia, l’interlocuzione riguarda l’applicazione di una pena, con conseguente necessità che il giudice ne tenga conto in un ambito tradizionalmente riservato alle valutazioni d’ufficio.

Può dunque essere salutato con favore il tentativo di tutelare maggiormente le “vittime” di reato nel procedimento penale, ancorché solo con riferimento a specifici reati, ma concreto diviene il rischio di interferenza in ambiti riservati all’esclusivo esercizio del potere pubblico.

Il d.d.l. prevede poi l’obbligo per il pubblico ministero di sentire personalmente la persona offesa che ne abbia fatto motivata e tempestiva richiesta. Si tratta di una previsione (pur sprovvista di una qualsivoglia sanzione processuale, ma potenzialmente rilevante sotto il profilo disciplinare) che comporta un aggravio di lavoro insostenibile per le procure della Repubblica ed il rischio di dilatare i tempi di indagine, senza di fatto apportare alcun beneficio reale.

Le previsioni del nuovo decreto, a parità di risorse, sono dunque destinate a rallentare la capacità di definizione dei processi, esponendo anzitempo a pericolo le persone offese che, invece, si vorrebbero tutelare maggiormente, raggiungendo così un evidente effetto paradosso.

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